Il diritto all’ozio e la ripresa individuale

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Tu, che fai un lavoro che ti piace, tu, che hai un’occupazione indipendente ed il tallone del padrone non ti toglie il respiro; tu, pure, che ti sottometti, beato o codardo, alla tua qualità di sfruttato; come osi condannare così severamente coloro che son passati al piano di offesa contro il nemico? Una sola cosa ti vogliamo dire: Silenzio! per onestà,

per dignità, per fierezza. Non senti la loro sofferenza? Quindi: taci! Non hai la loro audacia? Quindi, ancora: Taci! Taci, perché tu non sai le torture di un lavoro e di uno sfruttamento che si odia.

 

Da molto tempo si va reclamando il diritto al lavoro, il diritto al pane e, veramente, nel lavoro ci stiamo abbrutendo. Non siamo più che lupi alla ricerca del lavoro, di un lavoro “steady”, fisso, per quanto è possibile; e alla sua ricerca va il nostro affanno. Siamo a caccia continua, ossessionante, del lavoro. Questa preoccupazione, quest’ossessione anzi, ci opprime, non ci abbandona mai. E non è che si ami il lavoro. Tutt’altro; lo odiamo, lo malediciamo; e tuttavia lo subiamo, lo inseguiamo per ogni dove. E mentre lo imprechiamo, lo malediciamo pure perché ci sfugge, perché è incostante, perché ci abbandona dopo breve tempo, sei mesi, un mese, una settimana o solo un giorno. Ed ecco che all’indomani di ogni giorno, di ogni settimana l’inseguimento riprende, con umiliazione alla nostra dignità; affronto continuo alla nostra fame; scudisciata morale al nostro orgoglio d’individui pensanti, alla nostra dignità di ribelli, di anarchici.

Sentiamo l’umiliazione di questa lotta per sfuggire alla fame; sentiamo, soffriamo l’onta di dover mendicare un pezzo di pane, un tozzo di pane che ci è concesso ancora di tanto in tanto come una elemosina e rinnegando o mettendo in… soffitta il nostro anarchismo (troverete solo un posto al cimitero, se non vorrete usare dei mezzi illegali per difendere il vostro diritto alla vita) e soffriamo ancor più perché abbiamo coscienza dell’ingiustizia che si sta consumando verso di noi. Soffriamo ancor più per la sconcia commedia della falsa pietà che si sta giocando a nostro discapito, e ci rodiamo dalla rabbia per la nostra impotenza ed anche per un poco di viltà — che ha molte giustificazioni e molte volte non ne ha alcuna — di fronte a questa iniqua e cinica ipocrisia, che fa passare noi lavoratori come i beneficiati, mentre siamo i benefattori, che ci fa passare come pezzenti ai quali si allevia la fame per misericordia, mentre in realtà siamo noi che diamo da mangime a tutti i parassiti, che procuriamo ogni benessere di cui godono; consumiamo le nostre vite fra gli orrori delle continue privazioni, per permettere a loro ogni espansione, ogni piacere, ogni gioia, l’ozio, mentre noi siamo privati di tutto, ci è tolto il sorriso di ogni cosa, ci si considera null’altro che strumenti per abbellire le loro esistenze.

 

Ci rendiamo conto di tutta l’insensatezza del nostro affanno; sentiamo la tragicità, meglio, il ridicolo della nostra situazione; imprechiamo, malediciamo, ci sappiamo pazzi e ci sentiamo vili, purtuttavia subiamo l’influenza — come ogni mortale — dell’ambiente che ci circonda, che ci avvolge in una rete di frivoli desideri, di meschine ambizioni da poveri cristi che credono di migliorare un poco le loro condizioni materiali, tentando di strappare dai denti dei lupi — che la ricchezza posseggono, che la ricchezza difendono — un pezzo di pane in più, che si consegue al prezzo di sangue e carne lasciati nell’ingranaggio del meccanismo sociale.

E malgrado noi, per necessità o suggestione collettiva, ci lasciamo trascinare dal turbinio della follia collettiva. E rotte le resistenze che mantenevano integra la nostra coscienza — che sa che non riusciremo mai, per questo cammino, a distruggere le catene che ci mantengono schiavi (perché non si distrugge l’autorità collaborando con essa, né si diminuisce il potere oppressivo del capitale aiutando ad accumularlo col nostro lavoro, colla nostra produzione) — incominciamo ad aumentare il passo, e ben presto assumiamo noi pure la corsa. Una corsa senza senso né fine, che ci conduce a soluzioni transitorie e sempre illusorie e vane.

 

Che dire? Avidità di guadagno? Suggestione dell’ambiente? Insensatezza? Un po’ di tutto questo, anche se sappiamo che col nostro lavoro, sotto le condizioni del sistema capitalista, non risolveremo nessun problema essenziale delle nostre vite, salvo rari casi e condizioni particolari.

Nel presente sistema sociale, ad ogni aumento della nostra attività risulta un aumento di sfruttamento a nostro danno.

Impostore è chi afferma che la ricchezza è frutto del lavoro, del lavoro onesto, individuale.

Passiamo oltre. Perché soffermarci a ribattere i sofismi di certe teorie economiche, che non sono né sincere né oneste, convincono solo i poveri di spirito (che disgraziatamente sono la maggioranza della società) e non hanno altro scopo che coprire turpi interessi colla parvenza della legalità, del diritto? Voi tutti sapete che il lavoro onesto, il lavoro che non sfrutta altri esseri, non ha mai creato il benessere di alcuno nel presente sistema, e tanto meno la ricchezza; e che quest’ultima è frutto dell’usura e dello sfruttamento, che si differenziano dal delitto in forme esteriori. Inoltre non c’interessa un relativo benessere materiale conseguito attraverso un’accelerazione dello sfibramento dei nostri muscoli e del nostro cervello; ma bensì vogliamo il benessere attraverso il possesso completo, assoluto del prodotto del nostro sforzo, il possesso incontrastato di tutto ciò che è creazione individuale.

Stiamo, quindi, logorando le nostre esistenze a tutto beneficio dei nostri sfruttatori, inseguendo un benessere materiale illusorio, continuamente sfuggente, mai realizzabile in una forma concreta, stabile, perché la liberazione dalla schiavitù economica non ci può provenire da un’accelerazione della nostra attività nella produzione capitalista, ma nella creazione cosciente e nel possesso del prodotto.

 

È falsa l’affermarzione: una buona ricompensa, un buon salario per una buona giornata di lavoro. Ammette che dev’esserci chi produce, ed altri che s’impossessano di questo prodotto, e dopo essersi tagliata una buona parte per sé — pur non avendo partecipato a crearlo — distribuiscono, sulla base di criteri e principi assurdi ed interamente arbitrari, ciò che reputano di concedere al produttore reale. Stabilisce la retribuzione parziale; consacra, perciò, lo sfruttamento, il furto, l’ingiustizia.

Ma il produttore non può accettare, come base d’equità e giustizia, la retribuzione parziale. Per conseguenza, ogni nostro concorso alla produzione capitalista è un’accettazione e una sottomissione allo sfruttamento esercitato su di noi. Ogni aumento di produzione ribadisce le nostre catene, aggrava la nostra schiavitù. Più lavoriamo per il padrone, più logoriamo la nostra esistenza avviandoci ad una prossima fine. Più lavoriamo e meno tempo ci rimane da dedicare ad altre attività, meno gusto ci rimane per la vita, per le sue bellezze, per le soddisfazioni che ci può offrire, per i piaceri, per l’amore.

Non si può reclamare da un fisico stanco e logoro che abbia voglia di studio, che abbia gusto per l’arte, la musica, la poesia; né tantomeno che abbia occhi per ammirare le infinite bellezze della natura. Un fisico stanco e logoro, estenuato dal lavoro, consumato dalla fame e dalla malattia, non ha voglia che di dormire e di morire. Ed è turpe ironia, è beffa sanguinosa l’affermare che un uomo, dopo otto o più ore di lavoro manuale, abbia ancora in sé la forza di divertirsi, di gioire in una forma elevata, spirituale. Non ha più che la passività d’abbrutirsi, perché per far ciò non ha che da lasciarsi cadere, trascinare. E, malgrado i suoi impostori cantori, il lavoro nella presente società non è altro che una condanna, un’abiezione. È un logoramento, è sacrificio, è suicidio.

Che fare? Concentrare i nostri sforzi per rallentare questa follia collettiva, questa marcia verso lo sfibramento. È necessario mettere in guardia il produttore contro questo travagliato affannarsi, inutile quanto idiota. Bisogna combattere il lavoro, ridurlo al minimo, divenire lazzaroni fin che viviamo nel sistema capitalista sotto cui dobbiamo produrre.

Essere lavoratori onesti, oggi, non è alcun onore: è un’umiliazione, una coglioneria, una vergogna ed una viltà. Definirci lavoratori onesti, poi, è prenderci il pelo, è burlarsi di noi, e dopo il danno aggiungervi la beffa.

Oh, superbi e magnifici vagabondi, che sapete vivere al margine delle conformità sociali, io vi saluto! Ed umiliato, ammiro la vostra fierezza, il vostro spirito di non sottomissione e riconosco che avete ben ragione di gridarci che ci si abitua anche nella schiavitù!

 

No! il lavoro non redime: abbrutisce. I bei canti alle masse vigorose, attive, laboriose; i begli inni ai muscoli poderosi, le alate perorazioni al lavoro che nobilita, che eleva, ci libera dalle tentazioni e da tutti i vizi, non sono che pura fantasia di gente che non ha mai preso il martello né lo scalpello, di gente che non ha mai piegato il groppone sull’incudine, né si è mai guadagnata il proprio pane col sudore della fronte.

La poesia al lavoro manuale non è che derisione ed inganno, che non ci dovrebbe far sorridere ma riempirci d’indignazione e di rivolta.

La bellezza del lavoro… il lavoro che eleva, nobilita, redime!…

Sì! Guardateli là, gli operai che escono dalla fabbrica, che sorgono dalle miniere, che abbandonano i porti, i campi, dopo la giornata di lavoro. A malapena i loro passi possono sopportare quei corpi sfiniti. Scrutate i loro visi magri, emaciati, i loro occhi spenti senza fiamma, senza vitalità! Ah! I bei muscoli poderosi… la gioia dei cuori per il lavoro che nobilita… Non vi avvicinate in quel momento coi vostri inni alla nobiltà del loro sforzo, perché non darei un god damn cent per la sicurezza delle vostre vite.

Penetrate in quelle fabbriche ed osservateli nella loro attività. Inchiodati, come parte integrante, alle macchine, sono costretti a ripetere per mille, diecimila volte il medesimo movimento, automaticamente, come la macchina, senza, quasi, che sia richiesto l’intervento del loro cervello. Potrebbero benissimo lasciare il loro cervello a casa, che una volta piazzati al loro posto eseguirebbero ugualmente il lavoro.

Essi non conservano più nulla della propria personalità, della propria individualità. Non sono più esseri sensibili, pensanti, creatori. Non sono altro che cose senza spiritualità, senza moto proprio. Vanno, perché tutti vanno. Si muovono con moto uniforme, uguale, senza indipendenza. Gli è stato assegnato quel movimento e lo debbono eseguire, e gli è richiesto di eseguirlo, oggi, domani, sempre, come le macchine.

Siamo giunti alla distruzione completa della personalità umana nell’ottanta per cento della produzione moderna. Non vi sono più degli artigiani, degli artisti. La produzione capitalista non li richiede, non li necessita. Si sono inventate cose per ogni bisogno e macchine per fare tutto; e siamo giunti al punto di dover creare dei bisogni nuovi per poter fabbricare delle cose nuove. In realtà è ciò che già si fa; ed è per questo che la vita si va sempre più complicando ed il vivere si fa ogni ora più difficile.

È stata soppressa l’estetica delle cose, e non si crea più che in serie, in massa. Si sono educati i culti in una linea generale; sono stati distrutti negli individui ogni originalità artistica, ogni desiderio differente, e si è riusciti — oh, prodigio della propaganda! — a far gustare alla generalità ciò che ai capitalisti conviene fabbricare: la medesima cosa per ogni individualità diversa.

Cosicché non c’è più bisogno di esseri che creino, ma che fabbrichino; non vi sono più artisti, operai intellettuali, ma solo manuali. Non si mette più a prova la vostra intelligenza, ma si guarda invece se avete buoni muscoli, se il vostro fisico è vigoroso; non si guarda tanto a ciò che sapete produrre, ma a quanto sapete produrre. Non siete più voi a far marciare la macchina, è la macchina che fa marciare voi. E per quanto sembri paradossale, e non è che la pura realtà, è pure la macchina che pensa al da farsi e voi non avete altro che da servirla, darle ciò che vi chiede, fare ciò che v’insegna. È lei il cervello e voi il braccio; lei la materia pensante, creatrice, voi la materia bruta, automatizzata; lei l’individualità, voi la… macchina.

Guai se una sola individualità umana s’introducesse fra il funzionamento dell’officina Ford, ad esempio: essa sgretolerebbe tutto l’ingranaggio della produzione!

 

Gli operai non sono che ergastolani. O, se più vi consola, dei militari e le officine delle caserme. Tutti marciano al medesimo passo; tutti fanno — malgrado la varietà degli oggetti — i medesimi movimenti.

Non si trova più alcuna soddisfazione nei lavori che si eseguono, non ci si appassiona più ad essi, perché li sentiamo interamente estranei. Sono sei, sono otto, sono dieci ore di lavoro, e non sono che sofferenza, non sono che tormento!

Non amiamo, no, il lavoro; lo odiamo! Non è la nostra liberazione: non è altro che la nostra condanna! Non ci eleva né ci redime dai vizi, ma ci abbatte fisicamente e ci annienta spiritualmente, al punto da renderci incapaci di sottrarci ad essi. Bisognerà eseguirli questi lavori, lo so, ma sarà sempre di malavoglia, se si vorrà mantenere anche domani il presente sistema di produzione, per economia di sforzi. Sarà sempre soffrendo, anche quando saranno ridotte a meno ore al giorno.

Io non so come la pensino gli animali della soma che gli caricano sul groppone; ma quello che ben so, osservo ed io stesso sento, è che l’uomo non esegue con gioia, con vera soddisfazione che i lavori intellettuali, artistici.

Se almeno non vedesse sprecato, non vedesse inutile il suo sacrificio, l’uomo si farebbe ancora coraggio, ed il suo penare gli parrebbe meno amaro, meno doloroso. Ma quando osserva che tutto il suo sforzo è mal speso, che non è che il faticare di Sisifo, con innumerevoli disastri e sacrifici ad ogni ricaduta, allora il coraggio fugge dal suo cuore, ed in ogni essere cosciente, in ogni essere sensibile ed umano, l’odio si accende contro questo barbaro e criminale stato di cose, e l’avversione e la rivolta contro il lavoro è inevitabile.

E si comprende allora che vi siano dei non conformisti che non vogliano piegarsi a questa schiavitù ripugnante. Si comprende che vi siano dei vagabondi indomabili, che preferiscono l’incertezza dei loro domani — il più delle volte senza nemmeno il misero tozzo di pane accordato al lavoratore costante — pur di non sottomettersi a questo sistema umiliante. Si comprende la bohemia incorreggibile, senza genio, se volete, ma che non fa parte del carro umiliante dei paria. E si comprendono pure i gran pigri, gli oziosi idealisti, che passano la vita in completa fratellanza con la natura, gioendo nel contemplare le meravigliose aurore, i melanconici tramonti, riempiendo i loro spiriti delle melodie che solo una vita semplice e libera può procurare, ignorando molte volte anche i richiami imperiosi della fame, pur di non cadere nella schiavitù nella quale noi siamo sprofondati. Seduti sul bordo della via, osservano con infinita tristezza, con profonda pietà, la negra fiumana di lavoratori che ogni giorno si avviano docili e disfatti verso le galere che li inghiottono, già sfiniti, e li rigettano alla sera fatti cadavere.

E fuggono, questi oziosi idealisti, col cuore oppresso da tanta stoltezza, da tanta miseria, da tanta follia! Fuggono verso la vita libera, indocile, non conformista, dicendosi in cuor loro che, piuttosto che sottomettersi ogni giorno a questa vita miserabile, vile e priva di elevatezza e spiritualità, è preferibile la morte.

Odiare il lavoro in regime capitalista non significa essere nemico di ogni attività; come essere per la ripresa individuale non significa essere nemico del lavoratore-produttore, ma nemico del capitalista-sfruttatore.

 

 

*

 

 

Questi vagabondi idealisti che tanto mi riempiono di ammirazione, hanno un’attività, vivono una vita interiore spirituale ricchissima in esperimenti osservazioni gioie. Sono nemici del lavoro perché trovano sprecati in gran parte i loro sforzi in quella direzione; non possono, in seguito, sottomettersi alla disciplina che richiede quella specie d’attività, o non possono tollerare che si faccia di essi una macchina senza cervello; che si uccida in loro quella personalità, che è ciò che più hanno cara.

È fra questi vagabondi spirituali; è fra questi refrattari dell’addomesticamento alla disciplina capitalista che bisogna cercare gli espropriatori, i partigiani della ripresa individuale. È studiando bene i motivi psicologici, etici e sociali che determinano la loro attitudine, che sapremo meglio comprendere, giustificare, apprezzare i loro atti, ed anche difenderli dai biliosi attacchi di molti di coloro che, pur avendo le medesime idee su molti altri problemi, s’affannano a gettare fango su codesti impazienti che, come ho detto, non sanno pazientare fino al giorno della redenzione collettiva.

Il diritto alla ripresa individuale non si può negare basandosi sopra un certo diritto collettivo all’espropriazione. Se fossimo socialisti o comunisti-bolscevichi potremmo allora negare all’individuo il diritto di appropriarsi — coi mezzi che meglio crede opportuni — di quella parte di ricchezza che come produttore gli apparterrebbe. Perché i bolscevichi e i socialisti negano la proprietà individuale ed ammettono una sola forma di proprietà: la collettiva o la proprietà della nazione. Ma questo non è il caso degli anarchici, sia individualisti che comunisti, i quali, teoricamente e praticamente, ammettono tanto la proprietà collettiva che l’individuale. E se si ammette il diritto al possesso individuale, logicamente non si potrebbe negare all’individuo il diritto di servirsi di quei mezzi ch’egli più crede opportuni per rientrare in possesso di ciò che gli appartiene.

Ogni creditore (la classe produttrice al cospetto della capitalista) prende alla gola il suo debitore nell’ora e nella forma che più gli conviene, e si fa restituire il suo prodotto — carpitogli coll’inganno o la violenza — nel più breve tempo possibile. L’individuo è il solo arbitro e giudice in questo atto di restituzione.

Si è ammessa l’opportunità e la necessità di un atto collettivo, di una rivoluzione sociale per espropriare la borghesia; e l’individuo, anche individualista, si è associato volentieri a questa idea, perché era credenza generale che uno sforzo collettivo ci avrebbe liberati più facilmente dalla schiavitù economica e politica. Ma da parecchi anni questa fiducia è venuta a mancare in molti anarchici.

Si è dovuto ammettere, alfine, che una vera liberazione, una liberazione profonda, anarchica, che demolisca veramente nella coscienza delle masse il feticcio autorità e ci permetta di instaurare uno stato di cose che non violi la liberta del singolo, necessita di una lunga preparazione culturale, per conseguenza molti anni ancora da dover soffrire sotto lo sfruttamento capitalista. Da ciò è derivato che molti ribelli nostri, che in un primo tempo avevano abbracciato con entusiasmo l’idea di una rivoluzione espropriatrice, si sono detti — senza dissociarsi per questo dal necessario lavoro di preparazione rivoluzionaria — che tale attesa significava il sacrificio di tutta la loro vita, consumata sotto condizioni odiose e bestiali, senza alcuna gioia né godimento, e che la soddisfazione morale di una lotta compiuta in favore della liberazione umana non era lenimento sufficiente alle loro pene.

Perché è oggi che dobbiamo vivere, non domani. È oggi che abbiamo diritto alla nostra parte di piaceri; e ciò che oggi perdiamo, il domani non ce lo può restituire: è definitivamente perduto. È perciò oggi che vogliamo godere la nostra parte di beni, che vogliamo essere felici.

 

Ma la felicità non si ottiene in schiavitù. La felicità è un dono all’individuo libero, all’individuo padrone di se stesso, del suo destino, non bestia da soma, non bestia che soffre, che produce ed è privata di tutto.

La felicità si ottiene nell’ozio. Si ottiene pure nello sforzo, ma nello sforzo volontario, nello sforzo utile, nello sforzo che procura maggior benessere, che accresce la varietà delle mie acquisizioni, nello sforzo che mi eleva, che mi redime per davvero.

Non v’è perciò felicità possibile per il lavoratore che per tutta la sua vita sta occupato a risolvere il terribile problema della fame. Non v’è felicità possibile per il paria che non ha altra preoccupazione ed altro tempo che d’occuparsi del lavoro.

Vita ben triste la sua, sconsolante e che abbisogna di un gran coraggio — o codardia — per poterla trascinare, per poterla sopportare senza ribellarsi.

Di questa consolazione, del desiderio di vivere, di questa disperazione intima e profonda di fronte alla prospettiva di tutta una vita consumata per puro beneficio di gente indegna e malvagia, con la speranza perduta in una salvezza collettiva nella breve traiettoria della propria esistenza: ecco di cosa è formata la rivolta individuale; ecco di che fuoco sono alimentati gli atti di ripresa individuale immediata.

Perché la vita del lavoratore incosciente è triste; ma, ahimé! la vita dell’anarchico è veramente tragica. Se voi non sentite tutta la sofferenza, tutta la disperazione della vostra tragica situazione, permettetemi di dirvi che avete pelle di coniglio, e che il basto non vi sta poi così male. E se il basto non vi pesa; se per la vostra situazione particolare non sentite la pressione diretta del padrone; se malgrado tutte le vostre superficiali lamentele, non potete vivere senza il lavoro perchè non sapete come occupare le vostre ore di ozio, ed in mancanza di un lavoro manuale vi annoiate terribilmente; se sapete resistere alla disciplina quotidiana dell’officina, sopportare i continui rabbuffi dei capi imbecilli o malvagi, crepare di lavoro prima, e di fame poi, senza sentirvi la voglia di abbracciare anche il più odioso dei criminali e chiamarlo fratello e sentirvi invadere di tenerezza per il tagliagola, non siete in grado di comprendere la sofferenza spirituale ed i motivi sociali che determinano gli atti di ripresa individuale di coloro di cui parlo, ed ancor meno siete in diritto di condannarli.

Poiché, oltre a constatare l’odiosità di un lavoro bestiale, inutile e non poche volte criminale per il bene suo e quello dell’umanità; oltre a vedersi forzato a partecipare egli stesso al mantenimento della propria schiavitù e a quella dei suoi compagni di lavoro e del popolo in generale; egli deve eseguire questo lavoro in una forma ed in condizioni così orribili, insopportabili e piene di pericoli per la sua stessa vita ad ogni instante della lunga giornata, che il suo lavoro (e molti dei lavori che devono eseguire certe categorie di operai), oltre ad essere una terribile schiavitù, assomiglia a un vero suicidio. Giù in fondo alle miniere, accanto a macchine mostruose, nelle infernali fonderie, in mezzo a prodotti malsani, la morte è sempre in agguato. Corpi intisichiti, polmoni avvelenati, membra lacerate, corpi contorti, occhi privati della luce eterna, crani schiacciati, ecco ciò che gli onesti lavoratori, a migliaia, guadagnano col sudato pane. E nessuna pietà per loro, nessuna morale, nessuna religione commuove il profittatore per questi suoi milioni di delitti quotidiani per un poco di guadagno di più, per un poco più di danaro che riempia le sue casse.

Bisogna perciò risparmiarli colla nostra pietà, vuotare il nostro deposito lacrimogeno per la mala fortuna che può cadere sulla testa di qualcuno dei loro una volta ogni secolo da parte della necessità forzata di uno dei nostri?

È vero che noi dobbiamo mostrarci umani, sensibili, generosi quando si tratta di risparmiare la borsa o la pellaccia dei nostri nemici, e bestie quando i nostri nemici ci fanno crepare.

Noi, individualmente, non abbiamo il diritto di prendere la spada della giustizia nelle nostre mani senza il consenso o il concorso collettivo. Non violate la verginità della morale comune coi vostri peccati non ancora santificati. Abbiate un po’ di pazienza, fratelli, che il regno del signore verrà per tutti! Se avete fame, grugnite, ma quieti: non siamo ancora pronti; se vi si bastona, ruggite ma non muovetevi: abbiamo ancora del piombo ai nostri piedi; se vi si massacra, dopo avervi derubati, altolà! Torcete pure il collo al ladro, vi proclameremo perfino eroi; ma se volete riprendergli il vostro danaro senza il nostro consenso, anche se a vostro unico rischio, non lo fate, perché allora non sareste che dei villani banditi. È la morale, la morale nostra. Merda! allora…

E mi sia permesso porre una domanda, la seguente: Quando il capitale mi deruba e mi fa morire di fame, chi è il derubato e chi è che muore di fame: io o la collettività? Io? E allora, perché solo la collettività avrebbe il diritto di attaccare e difendersi?

 

*

 

 

Io so che l’azione dell’espropriatore si può prestare a molte false interpretazioni, a molti equivoci. Ma la colpa di tutto ciò, la responsabilità per la falsificazione dei motivi etici sociali e psicologici che determinarono e determinano — nella loro maggioranza — gli atti individuali di espropriazione, cade principalmente sulla — in gran parte — malafede dei suoi critici. Ma non voglio sostenere che tutti i suoi critici sono in malafede; perché so benissimo che vi è una buona parte di compagni che credono sinceramente che questi atti siano nocivi ai fini immediati della nostra propaganda.

È stato detto da certi critici che l’apologia dell’atto individuale genera in certi anarchici l’utilitarismo meschino, una mentalità ristretta in contraddizione coi principi dell’anarchia. Supposizione azzardata, quanto dire che ogni anarchico che abbia contatti con elementi non anarchici finisce per pensare in modo antianarchico.

Ma vi è una cosa, però, che non voglio tralasciare di dire, ed è la seguente: essendo l’espropriazione un mezzo per sottrarsi alla schiavitù individualmente, i rischi devono essere sopportati pure individualmente, ed i compagni che praticano l’espropriazione per sé perdono ogni diritto — se pur esiste per le altre attività anarchiche; ed io non lo credo — di reclamare la solidarietà del movimento quando cadono in disgrazia.

La mia intenzione in questo studio non è quella di fare l’apologia di questo o quel fatto, ma bensì quello di andare alle radici del problema, di difendere il principio e il diritto all’espropriazione, il mal uso che certi espropriatori poi fanno del frutto delle loro imprese non distrugge il diritto stesso.

Ed esaminiamo una più grave accusa, la condanna massima in base ai principi anarchici.

Gli espropriatori sono stati chiamati parassiti. Parassiti lo sono, perché non producono nulla; ma parassiti involontari, forzati, perché nell’attuale società non vi possono essere che parassiti o schiavi. Non vi è dubbio che siano parassiti; ma quello che non si potrà dire è che sono schiavi. Gli schiavi, invece, nella loro maggioranza, sono pure parassiti e parassiti ben più dispendiosi di quelli. Ed il parassitismo della maggioranza di produttori è molto più immorale, codardo e umiliante di quello degli espropriatori.

Potreste forse negare che i due terzi della popolazione delle nostre metropoli siano parassiti?

È inoppugnabile che, se per produttori si calcolano solo coloro che si occupano in una produzione veramente utile, l’umanità nella sua maggioranza si deve considerare parassita. Lavoriate o non lavoriate, se non fate parte della categoria dei contadini o di poche altre categorie veramente utili, non potete essere che dei parassiti anche se vi credete dei lavoratori onesti.

Fra il parassita-lavoratore che si sottomette alla schiavitù economica capitalista e l’espropriatore che si ribella, preferisco quest’ultimo. Questo è un ribelle in azione, l’altro è un ribelle che abbaia ma non… morde, o morderà solo il giorno della santissima redenzione.

 

Non-produttori, è vero, ma non complici. Non-produttori sì, ladri se volete, se la nostra vigliaccheria ha bisogno di consolarsi in un’altra bassezza, ma non schiavi; ma fin da oggi mostrando i denti al nemico, faccia a faccia; ma fin da oggi temuti e non calpestati; ma fin da oggi in stato di guerra contro la società borghese.

Tutto nel mondo attuale capitalista è indegnità e delitto; tutto ci dà vergogna e non ci procura che nausea e rivolta.

Produciamo, soffriamo e moriamo come cani.

Lasciate almeno all’individuo la libertà di vivere degnamente o di morire da essere umano, se voi volete agonizzare nella schiavitù.

Il destino dell’uomo, si è detto, è quello che egli stesso si sa forgiare; ed oggi non vi è che un’alternativa: o in rivolta o in schiavitù!

 

Machete  N°6 settembre 2010