ATTACCO (2009)

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Nella giustificazione, quindi nel fare che rinvia all’infinito la presa di coscienza, mancando la qualità del mettersi in gioco fino in fondo, rimaniamo nel buio fitto della mancata percezione, mentre attorno ballano fantasmi spacciati per verità.

È errato pertanto parlare di una intima essenza della consapevolezza, per quanto si scavi nella documentazione, ricca e molteplice, ansiosamente cercata, non troviamo che corrispondenze e protocolli, piani conoscitivi che si rimandano e si giustificano uno con l’altro, mai nulla di realmente diverso, mai un urlo pienamente sano, alto nel cielo brumoso della repressione, un urlo capace di attaccare e colpire e non solo di minacciare vertiginosi contorcimenti organizzativi che, alla luce delle cose fatte, risultano banali rendiconti bottegai. Se la verità sta altrove, nella lotta, qui e subito, che si realizza operando nell’azione, tutto quello che esploriamo documentandoci e riflettendo, è parzialità angosciante, approssimazione controvertibile, discorso aperto a destino di fallimento, accordo siglato con parole che portano marchiato sulla loro pelle il segno di un lungo viaggio perfettamente racchiuso nelle regole della sopravvivenza bene amministrata.

Si può coltivare all’infinito il proprio campicello di patate, come il buon Pangloss. La cura non è mai fine a se stessa, e se lo è conduce da questa parte all’uniformità dei cimiteri, dall’altra all’eterogeneità della follia.
L’azione non è una pensione di anzianità, i vecchi parlano al vento di ricordi e di delusioni che la memoria traveste con le vesti colorate delle conquiste. Lontano da tutto ciò, lontano da cadaveri che sono rimasti dissepolti. Il mondo è desolato, un terreno brullo dove fattucchiere bizzarre fanno muovere apparizioni sul fondo della caverna, al cui cospetto tutti si inchinano e mimano dialoghi rispettosi.
Attaccare significa gettare sulla bilancia il proprio ferro, sia pure modesto, ma consistente, carico del significato che il gesto comprende in se stesso, senza magniloquenti “comunicati” che fanno diventare una lucciola il faro di Rodi.
Attaccare riesce sempre a mettere in moto forze che prima giacevano assopite, riesce a lanciare una sfida contro ombre e semioscurità, figure confuse e sgraziate, prive del contenuto carico di indecifrabile senso che le accompagna nella volontà di dominio.
È come se a un film fosse improvvisamente abbassato il sonoro e tutta la pellicola rallentata. Il brusio di fondo, che avvertiamo ritorto nelle orecchie, è una ridondanza della voce del potere che si riorganizza. E che importa ciò se l’iniziativa resta sempre nelle mie mani?
Tutto ha un costo, strisce di pelle vanno via, asportate dagli impietosi fendenti della repressione. Più il clima generale si fa miserabile e viscido, più aumentano i vermi terrestri che strisciano nella mota sperando in un riconoscimento sia pure minimo da parte del potere, e più il ruolo di chi non si piega, di chi non accetta, di chi reagisce e attacca, diventa visibile, si staglia nel buio della notte e richiama l’attenzione dei cani rabbiosi che hanno ricevuto da poco, insieme all’osso d’ordinanza, l’ordine di azzannare.

Dobbiamo diventare “cattivi”, ordina il tenutario del bordello canino, oggi con chi ha un nome diverso e la pelle di un altro colore, domani con tutti coloro che non si raggomitoleranno ai piedi del santissimo in terra, padrone dell’etere e del bon ton. Andiamo, miei cari compagni, da quando si sono così impunemente tollerate affermazioni del genere? Non sono certo le alleanze che ci mancano, dalla nostra i miserabili di ogni categoria, sindacalizzati e non, salariati e non, tra poco tutti accorpati sotto il comune ombrello dell’esclusione.
Non ci capiscono, non ci ascoltano, vocette impudiche ci soffiano all’orecchio, dicendoci di tenere i piedi per terra, di non sognare fantastiche apocalissi improbabili e fuori del tempo, per carità, lontano da noi questi cacasenno da segreterie comunali. Sappiamo bene che non ci ascoltano e non ci capiscono, e allora?
Sputiamo in faccia al potere la nostra rabbia – e non solo quella – e andiamo avanti, nessuno lavora al posto nostro, nessuno tutela le nostre idee, a nessuno stanno a cuore i nostri sogni, solo a noi, e non vi sembra sufficiente? Avete forse bisogno di un mallevadore che vi alzi il morale, qualche estratto chimico o il succo del nettare degli dèi? Avete bisogno di una piccola spinta per alzare lo sguardo al cielo della rivolta? Se ne avete bisogno siete di già fottuti anche se continuate a stringere in mano il manuale del piccolo guerrigliero.
Non vogliamoci bene.

[Editoriale di “SenzaTitolo”, n. 3, primavera 2009)