La Frattura Morale

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Che un’azione sia considerata “giusta” non è elemento sufficiente di giudizio perché venga posta in atto, eseguita. Perché ciò avvenga occorrono altri elementi, alcuni dei quali, come la considerazione morale di fondo, sono del tutto estranei alla obiettiva fondatezza e “giustezza” dell’azione stessa.

Ciò è visibile nelle difficoltà che tutti i compagni riscontrano nel momento in cui si trovano ad intraprendere azioni che a lume della sola luce logica sembrano ineccepibili.

Si tratta, come cercherò di dimostrare qui, di un ostacolo morale che bisogna superare, un ostacolo che porta diritto alla creazione di una vera e propria “frattura” morale, con conseguenze non sempre facili a prevedere.

Sosteniamo da tempo, insieme a molti altri compagni, l’inutilità delle grandi manifestazioni di massa, pacifiche e dimostrative. Al loro posto, ed a fianco di manifestazioni, anch’esse di massa, ma organizzate in modo insurrezionale, propugniamo la possibilità (anzi, la necessità), di piccole azioni distruttive, d’attacco diretto contro le strutture del capitale responsabili dell’attuale situazione di sfruttamento e di genocidio a livello mondiale.

Mettendo da parte ogni discussione di metodo e di valutazioni politica, mi pare utile riflettere un poco sulla diversa disposizione personale nei riguardi di queste azioni.

In fondo, in ognuno di noi, per quanti approfondimenti teorici si siano potuti fare, restano vivi alcuni fantasmi: la proprietà altrui è uno di questi. Altri potrebbero essere la vita degli altri, Dio, la civiltà dei comportamenti, il sesso, la tolleranza per le altrui opinioni, e via discorrendo. Siamo, per limitarci al nostro assunto, tutti d’accordo contro la proprietà, però, nel momento in cui allunghiamo una mano per attaccarla, dentro di noi scatta un segnale d’allarme. Secoli di condizionamento morale agiscono a nostra insaputa e scatenano due reazioni, eguali e contrarie. Da un lato, il brivido del vietato, che porta tanti compagni ai dissennati furtarelli spesso al di là del bisogno immediato e inevitabile; dall’altro, il disagio per un comportamento “immorale”. Mettendo da parte il brivido, che non mi interessa e che lascio volentieri a coloro che di queste cose si dilettano, voglio insistere sul “disagio”.

Il fatto è che siamo stati ridotti tutti allo stato di animali da “branco”. Non è qui il caso di fare citazioni e non accetto alcun progenitore in modo assoluto. La cosa è evidente. La morale che tutti (“tutti”, quindi anche coloro che la negano in modo teorico e poi trovano alibi d’ogni genere per non trasformare in pratica questa negazione) condividiamo è quella “altruista”, perbenista nei comportamenti, tollerante nei rapporti, egualitaria e livellatrice nelle utopie. E i territori di questa morale sono ancora tutti da scoprire. Quanti sono i compagni che superbamente dichiarano di averne visitato alcuni e che poi arretrerebbero inorriditi davanti al seno della propria sorella? Forse molti, certamente non pochi.

E siamo sempre prigionieri di un’idea di schiavitù, quella morale per l’appunto, quando giustifichiamo davanti a noi stessi (e davanti al tribunale della storia) il nostro attacco contro la proprietà privata, affermando che gli espropriatori vanno espropriati. In questo modo, riaffermiamo la validità “eterna” della morale dei nostri precedenti padroni, rimettendo ai posteri il compito di giudicare se si possano o meno considerare espropriatori coloro nelle cui mani abbiamo rimesso quanto da noi personalmente espropriato.

Di giustificazione in giustificazione ricostruiamo la chiesa, quasi senza accorgercene. Ho detto “quasi”, perché in fondo ce ne accorgiamo, ma ne abbiamo paura.

Se togliamo agli altri la proprietà questo fatto ha un significato sociale, cioè costituisce una ribellione e, proprio per questo i detentori della proprietà che così vengono attaccati devono essere rappresentanti della classe che detiene la proprietà e non semplici detentori di qualcosa. Non siamo esteti dell’atto nichilista, per i quali andrebbe bene anche togliere le elemosine dal piatto del povero perché anche quella “è” proprietà. Ma l’atto dell’espropriazione ha un suo significato proprio nella collocazione di classe, non nel comportamento “scorretto” che colui che intendiamo espropriare ha tenuto in passato. In caso contrario, dovremmo escludere dalla legittimità di un esproprio un capitalista che paga i suoi dipendenti secondo le tariffe sindacali e non fa loro mancare quant’altro previsto dalla legge, oltre a non vendere a prezzi esosi e a non prestare ad usura. Perché mai dovremmo occuparci di queste cose?

Lo stesso problema sorge quando parliamo di atti “distruttivi”. Molti compagni non si danno pace. Ma perché questi atti? Cosa si conclude? Che validità hanno? Non arrecano utile a noi e sono solo di danno agli altri.

Attaccando, ad esempio, tanto per amore di discussione, un’impresa che fornisce armi al Sud Africa o finanzia il regime razzista d’Israele o progetta impianti nucleari o fabbrica apparecchiature elettroniche che poi servono per meglio indirizzare le armi tradizionali, e tante altre attività del genere, non si mette l’accento sulle responsabilità specifiche di chi si sta attaccando, quanto sulla sua collocazione di classe. Le responsabilità specifiche sono elemento di giudizio per la scelta strategica e politica, la collocazione di classe è il solo elemento di giudizio per la scelta etica. In questo modo si può fare un poco di chiarezza. Il fondamento morale dell’azione sta tutto nella differenziazione di classe, nella diversa appartenenza a due componenti della società che non possono trovare commistioni od alleanze e la cui esistenza finirà con la distruzione dell’una o dell’altra. Il fondamento politico e strategico invece determina una serie di considerazioni che possono anche essere contraddittorie. Tutte le obiezioni sopra elencate sono ovviamente riconducibili a questo secondo aspetto e non riguardano il fondamento morale.

Però, senza che ce ne accorgiamo, è proprio nel terreno della decisione morale che molti di noi trovano ostacoli. In fondo, la manifestazione di massa, pacifica (o quasi), comunque semplicemente dichiarativa d’intenti “contro”, era un’altra cosa. Anche gli scontri violentissimi con la polizia erano un’altra cosa. C’era una realtà intermedia, tra noi e la cosa “nemica”, una realtà che ci consentiva di salvare il nostro alibi morale. Ci sentivamo sicuri di essere nel “giusto”, anche quando assumevamo — nell’ambito del dissenso democratico — posizioni non condivise dalla gran massa dei manifestanti. Anche quando rompevamo qualche vetrina, le cose restavano sempre in modo tale che potevamo accomodarle.

Affrontando direttamente l’attacco, noi, da soli, o con altri compagni i quali non potranno mai darci alcuna “copertura” psicologica del genere di quella che ricevevamo tanto facilmente all’interno della “massa”, le cose sono diverse. Qui siamo noi, singoli, a decidere il nostro attacco contro l’istituzione. Non abbiamo mediatori, non abbiamo alibi, non abbiamo scuse. O attacchiamo o retrocediamo. O accettiamo fino in fondo la logica di classe dello scontro come contrapposizione irriducibile e senza soluzioni, o andiamo indietro verso i patteggiamenti, i distinguo, gl’imbrogli linguistici e morali.

Se allunghiamo la mano, intacchiamo la proprietà altrui — od altro, ma sempre di appartenenza del nemico di classe — dobbiamo assumerci tutte le responsabilità, senza potere trovare scuse in presunte condizioni della situazione collettiva nel suo insieme. Non possiamo, cioè, rinviare il giudizio morale, relativo alla necessità di attaccare e colpire il nemico, a quello che ne pensano gli altri i quali, tutti insieme, concorrono a determinare la “situazione collettiva”. Mi spiego meglio su questo punto. Non è che sono contrario al lavoro di massa, controinformativo e preparatorio, a quelle lotte intermedie che devono pur sempre esserci in condizioni di sfruttamento e di miseria. Sono contrario ad un’impostazione simbolica (esclusivamente simbolica) di queste lotte. Quindi, esse devono essere dirette ad ottenere risultati, sia pure parziali, ma concreti, immediati e visibili, però con la premessa di un impiego del metodo insurrezionale, cioè un metodo basato sul rifiuto della delega, sull’autonomia dell’intervento, sulla conflittualità permanente e sulle strutture autogestite di base. Quello che non condivido è l’insistenza, di alcuni, sulla necessità di fermarsi qui, quando non affermano di fermarsi prima, ad una semplice lotta di controinformazione e di denuncia, per altro orchestrata e ritmata sulle scadenze fornite dalla repressione. È possibile, anzi è necessario, fare qualcosa d’altro, e questo qualcosa, al momento attuale, in una fase di violenta e veloce ristrutturazione, mi sembra si possa individuare nell’attacco diretto, polverizzato, verso i piccoli obiettivi del nemico di classe, obiettivi che sono ben visibili nel territorio (e quando non sono visibili, il lavoro di controinformazione preventiva può renderli visibili con un minimo di sforzo).

Io non penso che ci possano essere compagni anarchici contrari a queste pratiche, almeno in linea di principio. Vi possono essere quelli (e vi sono) che si dicono contrari in base ad una considerazione generale della situazione sociale e politica, perché non vedono in esse uno sbocco costruttivo di massa, e questo posso capirlo. Ma non ci possono essere condanne a priori. Il fatto è che il numero di coloro che prendono le distanze da queste pratiche è di gran lunga minore di coloro che, pur accettandole, non le mettono in atto. Come si spiega tutto ciò? Penso che possa spiegarsi proprio con questa “frattura morale” che l’oltrepassamento della soglia dell’altrui “diritto” comporta in molti compagni, come me e come tanti altri, educati fin da piccoli a ringraziare e a chiedere scusa ad ogni pie’ sospinto.

Spesso parliamo di liberazione degli istinti e — in verità, senza avere le idee chiare — parliamo anche di “vivere la propria vita” (argomento complesso che merita un approfondimento a parte). Parliamo anche di rifiuto degli ideali illusori trasmessici dalla borghesia nel suo momento vittorioso, almeno rifiuto nei termini contraffatti in cui quegli ideali ci sono stati imposti attraverso la morale corrente. Parliamo infine della soddisfazione reale dei nostri bisogni, che non sono soltanto i bisogni cosiddetti primari della semplice sopravvivenza fisica. Ebbene, penso che per tutto questo bel programma, le parole non bastino. Quando restavamo fermi sulle rive della vecchia concezione di classe, basata sul desiderio di “riappropriazione” di quanto ingiustamente ci era stato tolto (il prodotto del nostro lavoro), eravamo in grado di “parlare” bene (anche se poi razzolavamo male), di bisogni, di uguaglianza, di comunismo e finanche di anarchia. Oggi, che questa fase di semplice riappropriazione ci è stata lestamente modificata sotto gli occhi dallo stesso capitale, non possiamo fare ricorso alle medesime parole, ai medesimi concetti. Il tempo delle parole sta lentamente per finire. E ci accorgiamo ogni giorno di più di risultare tragicamente arretrati, di essere racchiusi in un ghetto di discorsi all’interno del quale ci soffermiamo a battibeccare su argomenti ormai privi di reale interesse rivoluzionario. E ciò mentre la gente viaggia velocemente verso altri significati ed altre prospettive, sornionamente sospinta dalle improbabili ma efficaci sollecitazioni del potere.

Il grande lavoro di liberare l’uomo nuovo dall’etica, questo peso enorme che venne a suo tempo costruito nei laboratori del capitale e contrabbandato fra le file degli sfruttati, questo lavoro non è praticamente nemmeno cominciato.

[Alfredo M. Bonanno, La frattura morale, da “Provocazione”, numero 12, marzo 1988.]