La distruzione necessaria

lampadina

Alfredo M. Bonanno

Seconda edizione con l’aggiunta di dodici studi preparatori

E assomiglia quella [la fortuna] a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare… Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla.

Niccolò Machiavelli

Nota (anche metodologica) per il lettore
La distruzione necessaria è stata scritta di getto nel febbraio 1968. Mille problemi urgevano dentro di me, avvolti nel bisogno di assolutezza che ingigantiva sempre di più. Proprio questo bisogno dettava i limiti del quadro interpretativo: uscire dalle regole, rompere con la sentenza uniformante che mi ospitava, dire questa rottura, dirla al più presto, a qualsiasi costo.

Ogni esigenza è sempre un atto parziale, riflette e si nutre di quello che c’è in casa. L’armamentario giacobino è evidente in questo libro e il lettore deve tenerne conto. L’ideale anarchico è lontano ma non del tutto assente, emergerà più tardi. Mi muovo in quella direzione ma sono ancora portatore della misura rivoluzionaria appresa sui libri.

Principalmente è l’intellighentia che mi affascina, il suo ruolo guida. Dopo tutto sono un dirigente industriale con pruriti rivoluzionari, per il momento non c’è altro. Talvolta, senza sapere come, questa condizione di fondo si fa meno pesante e invadente (sparirà del tutto solo quattro anni dopo). Qualche altra volta è buio fitto. Mille ragionamenti e altrettante considerazioni critiche vengono inghiottiti dalla notte.

Segnare i punti di minore o maggiore distanza dall’anarchismo, dal mio anarchismo maturo, è opera inutile e fastidiosa. Il lettore può assolvere a questo compito, ma è pregato di non tenere conto dei risultati. Quello che può sembrare un colpo in pieno viso si rivela soltanto faccenda scolastica, scenari illuminati dai riflettori della storia, viaggi interrotti nel territorio delle certezze.

Pubblico la seconda edizione de La distruzione necessaria perché il lavoro presenta ancora un certo interesse, se non altro per ricostruire un itinerario di pensiero e di azione. Se quello che siamo è un universo assoluto, mai definibile con precisione, lo è come esigenza, come compito infinito mai completabile, implicito in ogni cosa che facciamo. Restare silenziosi come pesci in un acquario di fronte alle proprie arretratezze, ai conti da pagare con il passato, è vigliaccheria e stupidaggine. Se voglio diventare quello che sono è perché sono di già quello che diventerò. In caso contrario la partita è persa in partenza. Tutti scoprono più o meno presto nella vita che non c’è un percorso lineare da mantenere, ed è il motivo per cui le ricostruzioni del proprio trascorrere dei giorni è sempre un romanzo di avventure, alieno dal riproporre la realtà così come è stata. Ma poi, come è stata veramente la realtà? I momenti che si oppongono a una perfetta ricostruzione sono tanti, esaminandoli risultano essere essi stessi la ricostruzione, processo insufficiente di conoscenza, inevitabile inquinamento e distorsione di ogni certezza pura e semplice. Il ricordo è sventura se visto come coerenza senza pietà.

Il mio essere quello che sono non è mai esplicitato pienamente. Ogni tentativo è rammemorazione, ripresentificazione di un passato che aspira all’avvenire anticipando (e quindi costruendo) il proprio destino. Liberarsi del convincimento che la diversità (la stessa innocua novità) ci è nemica, sradicarlo dal fondo dell’animo di ognuno di noi dove giace indisturbato come una malattia sconosciuta, è il primo passo di questo processo, la porta di entrata. Ogni sillogismo, ben grattato, porta alla luce questa malattia e la paura che le è congenita.

La conquista del potere, il ruolo dell’intellighentia, il valore dei princìpi, il ritorno alla tradizione, sono ancora punti di riferimento che nel mio libro non vengono affrontati criticamente. Lo stesso impulso immediato e violento inteso come bisogno della violenza liberatoria è visto filtrato dalla logica giustificativa, quella stessa logica che qualche anno dopo definirò dell’ “a poco a poco”, la logica mirabilmente ingegnosa dell’aggiustamento e della riproduzione del dominio. La storia che avevo letto, studiato e meditato, era piena di echi nel buio, echi ricordati con terrore dai redattori, echi delle esplosioni di rabbia della povera gente, ma il tutto lo vedevo come deformato dal prisma della guida e della indicazione teorica.

Le unità ideali del passato, pur continuando a ruotare attorno al concetto di potere, cominciano a costituire un riferimento legato al concetto di “distruzione necessaria”. La vita attesta i suoi diritti imprevidenti e ribalta le pretese dei luoghi miserabili e sordidi dell’ideologia dominante. L’occultato viene alla luce e mostra la misera eredità dei postulati non discussi. La nuova presenza sotterranea lavora attivamente, alla lunga emergerà il nuovo punto di riferimento: la rivoluzione dal basso.

Forse una simile ricostruzione radicale non emerge chiaramente dalla scrittura, ma essa era presente nella connessione operativa tra cultura e sentimento, oltre a essere – entro breve volgere di giorni – nell’aria. L’apertura sotterranea di questa connessione produrrà tensioni dapprima inspiegabili poi sempre più evidenti di per sé, mai bisognose di spiegazioni sofisticate.

Ad assistere questa seconda edizione de La distruzione necessaria ho chiamato alcuni studi preparatori e collaterali in grado di fare vedere gli interessi più o meno dichiarati che completavano il quadro dei riferimenti. Il lettore potrà individuare in essi le origini di alcuni temi portanti del libro, ma anche riflessioni abbandonate che in altra sede troveranno opportuno sviluppo.

A parte qualche piccola modificazione formale questa seconda edizione riproduce esattamente la prima.

Una precisazione particolare meritano le pagine titolate: Note riguardanti l’introduzione di Vincenzo Di Maria alla prima edizione. Molto resta ancora da dire riguardo la collaborazione tra me e quest’uomo. Per quasi un ventennio abbiamo lavorato insieme nella stanza piena di ineliminabili ragnatele che costituiva l’ufficio della sua stamperia. Era questa un luogo come dovevano essercene nel Settecento, un punto di riferimento per tutti coloro che avevano qualcosa da dire a Catania negli anni Sessanta e Settanta, e che spinti da questo dèmone finivano per incontrare questo strano omone con un occhio storto, irrimediabilmente storto. Dotato di grandi capacità di scrittura, la nostra collaborazione si fissò ben presto nel mio compito di stilare per tanti lavori alcune note indicative da lui utilizzate poi per redigere testi che a volte firmava da solo, e che a volte firmavamo insieme. Non pubblico qui la sua Introduzione a La distruzione necessaria, ma ripristino il testo originario delle mie “Note”.

L’Introduzione del 1989 è stata scritta nel carcere di Bergamo. I saggi su Machiavelli sono le pagine residue di un libro dal titolo Filosofia di Machiavelli, andato perduto alla fine del 1958. Il saggio su Ortega y Gasset, ultimo di una serie di saggi su alcuni pensatori “reazionari” che penso di pubblicare in futuro col titolo di Studi indecenti, viene qui inserito perché strettamente connesso ad alcune idee di fondo de La distruzione necessaria. Lo studio su La teologia dei primi pensatori greci è la continuazione de Il problema della verità alle origini del pensiero filosofico, pubblicato su “Studi e ricerche”, 1965, pp. 33-48, di cui un rifacimento sostanziale è stato inserito nel primo capitolo del mio libro: Dire la verità [2001], pp. 25-41. Il saggio Analisi della normalità, redatto all’inizio del 1980 nel carcere di Parma sulla base di appunti risalenti al 1967, è stato successivamente riscritto e completato nel 1990 nel carcere di Bergamo.

Nota alla prima edizione
Questo libro è stato scritto nell’arco di due settimane. Nell’accingermi al lavoro ho rifiutato in modo assoluto l’ausilio dei miei soliti strumenti di ricerca (libri, riviste, appunti). Tutto quello che questo libro contiene può considerarsi alla stregua di un colloquio tra amici, senza alcun impegno dottrinale o scientifico. Le rare citazioni sono tutte “a braccio” e sono state lasciate cosi come vennero scritte nel momento della prima stesura.

Il lettore è pregato vivamente di tenere presente questa avvertenza.

Introduzione del 1989
Come tutti gli uomini della mia generazione, almeno tutti quelli decisi a intraprendere la non facile strada dello studio serio, sono rimasto affascinato dallo storicismo crociano. Per chi non avesse un’intenzione immediata e urgente verso la filosofia nel suo significato tecnico, lo storicismo finiva per avere la meglio sull’attualismo o, almeno, l’idealismo nella veste crociana prevaleva su quello nella veste gentiliana.

Che la costruzione di quest’ultimo idealismo fosse molto più coerente e per certi aspetti anche spaventosamente coerente, nei riguardi della superficialità costruttiva del precedente storicismo “assoluto”, adesso mi è cosa chiara, ma non altrettanto lo era quando alle ostili e contorte argomentazioni gentiliane preferivo il largo discorrere narrativo crociano. Non sono sicuro dell’effetto che avrebbero avuto letture più organizzate dell’attualismo, mentre so per certo che lo storicismo crociano mi spinse allo studio della storia e di quel grande spartiacque filosofico che fu il Rinascimento con il mio continuo tornare sulle opere di Machiavelli.

La cultura, e quindi anche lo studio della storia, perché è di questo che intendo parlare, è il fondamento per costruire un patrimonio dell’uomo, riguardando gli eterni problemi della vita, della giustizia, della libertà, dell’uguaglianza, della coerenza. Tutti problemi morali, non astrattezze o piacevolezze da ostentare per incutere rispetto o mettere paura. La scienza è certo anch’essa cultura, ma non deve essere troppo specialistica, in caso contrario obbliga i suoi studiosi a dedicarsi troppo a un solo settore e poi a dire stupidaggini senza fine in merito ai problemi fondamentali dell’uomo.

Da queste affermazioni si potrebbero trarre due conclusioni giuste e una errata. La prima conclusione giusta sarebbe che la storia non si racchiude nell’opera degli storici, fatto talmente evidente che non vale la pena discuterlo se non per collocarlo in una prospettiva relazionale dove anche la storiografia subisce una diversa interpretazione. La seconda conclusione giusta sarebbe molto più pericolosa e quindi ci avvicinerebbe allo storicismo più di quanto non corrisponde effettivamente alle mie intenzioni e riguarda la contemporaneità dell’evento considerato storico o, comunque, inserito in un processo storico, e questo merita un notevole approfondimento. E infine la conclusione errata, quella di una possibile utilizzabilità della storia ai fini dell’azione, almeno di una utilità diretta e immediata, elemento anche questo che ci ricondurrebbe nelle braccia dello storicismo.

Che il lavoro degli storici, come tutti i lavori, sia condizionato dai diversi elementi del meccanismo accumulativo, è un fatto evidente di per sé. Fra questi elementi, in primo posto metterei la coscienza immediata del ricercatore, cioè la sua volontà di dare al materiale rintracciato e discusso una impronta quanto più possibile personale, non per il piacere di far cosa originale e inusitata, quanto perché il disgusto stesso dell’incoerenza cronachistica lo spinge alla riflessione e al ragionamento. Ora, questa condizione può essere essa stessa un elemento accumulativo, cioè può essere fornita direttamente dal materiale del senso che si va accumulando, quindi potremmo dire quasi scoperta dallo storico insieme alle altre sue cianfrusaglie documentarie, o può essere invece il frutto di una sua inquietudine, causata appunto dal lavoro operato all’interno del meccanismo accumulativo stesso. A me è sembrata sempre strana la polemica tra positivisti e idealisti sull’argomento della oggettività della ricerca o del personale convincimento precedente alla ricerca stessa. Per quante critiche si possano muovere all’opera storica e filosofica crociana c’è da dire che, a esempio, quando definiva i due volumi di Guido Mazzoni sull’Ottocento, editi nella raccolta vallardiana, come la dimostrazione di quanto sia facile riuscire a passare indenni, per ben mille pagine, attraverso uno dei secoli più incendiari della nostra storia patria senza nemmeno scottarsi un pochino, aveva effettivamente ragione. La storiografia positivista, di cui il senatore del regno autore dei due volumi suddetti fu eccellente rappresentante, non riuscì mai a dimostrare la fondatezza di una tesi oggettivistica della storia.

Oltre alle classiche critiche sulla presunzione di completezza che di già in parte conosciamo, vorrei ricordare qui il rapporto tutto interno all’accumulazione e quindi al gioco della volontà con l’oggetto di ricerca. La scatola è sempre semivuota o semipiena, a seconda dei punti di vista e del carattere del ricercatore, gli ottimisti la pensano in un modo, i pessimisti al contrario, l’esempio è sempre quello del bicchiere di vino che può essere pieno a metà o vuoto a metà. Qual è il criterio di necessità in base al quale cercare ancora, aggiungere, accumulare, se per principio mettiamo da parte il criterio interpretativo? Io sento spesso bisogno del superfluo, anche nella ricerca, direi specialmente nella ricerca. Mille particolari secondari mi attirano, mi affascinano, per poi sedimentarsi in abitudini mentali che improvvisamente ritrovo nella medesima costruzione oggettivata. Oggetti che si assommano davanti a me, brani di cento vite mai vissute che mi torturano con una consapevolezza che è la loro e che non sarà mai la mia. Pezzi che vogliono disseminare nello spazio, lacerandola o comprimendola, una mia personalità che, comunque, cerco di tenere lontana. Non ho mai dimenticato il mio antico bagno positivista e quindi c’è sempre dentro di me il gusto della citazione, la serie incredibile dei riferimenti che si prolunga e che poi a un certo punto devo interrompere per cominciare a dare corpo a nuovi problemi dove collocare questo concetto, accanto a quell’altro più familiare o vicino a un altro che sta lì quasi a ricordare qualcosa che invece insiste adesso a sfuggire, per riflettere poi su chissà che cosa sarà capace di fare venire in mente al lettore. La scatola si riempie di note, appunti, piccole carte, aiuti problematici della memoria che con il volgere degli anni comincia ad avere i primi problemi di collegamento, per adesso limitatamente ai nomi più recenti, non ancora ai concetti.

Man mano che lo spazio logico della ricerca si riempie mi sento sempre più inquieto e insoddisfatto, le mie decisioni cominciano a premere e sono tutte appartenenti alla scatola stessa, le ho trovate nelle carte accidentali o trasversali? Se questa è una domanda non so come rispondere. Il senso si riorganizza e produce suggestioni che la volontà cerca di gestire, sarebbe forse meglio dire che cerca di controllare. Nascono quasi delle zone protette dove comincio a rifiutarmi di entrare, dove non ammetto discussioni con me stesso, dove le ragioni della selezione iniziale sfioriscono per lasciare il posto a un ordine estrinseco che soppianta la mia iniziale trascuratezza del semplice accumulo. L’intelligenza positiva si colloca giusto qui, in questo punto cruciale, qui si dividono le strade verso l’accettazione di una specie quanto mai ottusa di ordine e di controllo, oppure l’illuminazione sottile e ironica dell’impossibilità dell’ordine e della futilità dell’intera operazione di accumulo. Ed è qui il momento veramente culturale, il crinale che distingue il noioso e ingenuo raccoglitore di specialità dall’erudito colto e sapientemente disposto ad ammettere la propria ignoranza giocando inganni e trappole alla propria e alla altrui presunzione.

Il mio giro storiografico positivista ricomincia dall’inizio, ancora una volta alla ricerca di uno scopo, uno scopo che non può esserci se non dimostrando l’inutilità della mia ricerca, in quanto si tratta di quello scopo che di già avevo trovato fin dall’inizio della ricerca stessa, la mia utopia, il mio sogno infantile di una “storia della storiografia”, che non ho mai finito di scrivere, che mai finirò di scrivere, che mai nessuno scriverà, proprio perché non c’è bisogno alcuno di scriverla. L’acume dell’illuminismo non ha saputo vedere fino in fondo quale figlio degenere stava cavando tra le sue nascenti tassonomie e le pagine irrazionalmente rassicuranti dell’Enciclopedia. L’equivoco utilitarista non è stato ancora risolto, ciò rimette sempre in corsa la volontà, quindi il processo di controllo e il meccanismo di accumulazione. Si scopre anche in questo modo il confine preciso della volontà, la sua relativa possibilità di modificare il meccanismo stesso, i suoi limiti. L’ingenuità e l’ignoranza spesso ingigantiscono questa possibilità e proiettano risultati illusori facendoli passare per fatti concreti. Come sbarazzarsi delle cose inutili? Perché sbarazzarsene?

A un certo punto mi sono dovuto decidere ad abbandonare l’ordine di queste certezze, l’apparente limpidezza di contenuti che improvvisamente mi scivolavano tra le mani attraverso le mille smagliature di una lettura che restava pur sempre pressante e caotica, inconsciamente enciclopedica, razionalmente incapace di trovare una strada diversa, produttrice in fondo di inquietudini e incertezze. E questi oggetti culturali restavano là, davanti a me, spogli, senza misteri, provvisti di una spaventosa concretezza, affilati, capaci di parlarmi un linguaggio inesorabile. Ho lavorato per mesi alla zelantea di Acireale, l’unica biblioteca che dalle mie parti possiede la raccolta curata dal Migne dei Padri della Chiesa e mi sono divertito a redigere un Corpus personale delle imperfezioni, riscontrandole poi nelle edizioni più recenti, quando queste ultime esistevano e con alcune cosiddette considerazioni erudite, poi mi sono accorto che tanto valeva lavorare in un istituto di anatomia patologica. Eppure quelle righe mi affascinavano e continuano ad affascinarmi nel ricordo. Di tutto quel materiale la parte relativa alle dissonanze e agli errori veri e propri è passata solo in minima parte nelle mie ricerche sull’origine della giustificazione della ricchezza nel cristianesimo antico.

Ma di queste mie antiche e crudeli astrazioni, di queste scorticature, non restano che tracce sparute, niente che possa indicare veramente la geometria lucida e folle che mi spingeva in quelle ricerche, le notti ansiose, la demenza rituale di certe citazioni, la terrificante ripetitività di alcuni oggetti culturali, il processo di estraniazione che diventava qualcosa di tangibile e di tormentosamente accattivante. Fin quando veniva fuori una realtà mia, assolutamente mia, spersonalizzata in un modo del tutto mio, una realtà allontanata da tutte le altre realtà che in un modo o nell’altro si collegavano insieme per metterla in una certa luce, poi in un’altra ancora, ecc., all’infinito, con l’interferenza del meccanismo accumulativo, che diventava un ideale quasi tangibile, una vera bellezza, anziché qualcosa davanti a cui tremare di raccapriccio. E ciò fin quando lo scoraggiamento iniziale si trasformava in un entusiasmo ingiustificato, senza quella grandiosità che la prospettiva storica e l’interpretazione forniscono qualche volta in eccesso.

Vorrei qui collegare la mentalità positivista, quindi per forza di cose accumulativa, con il concetto di eccesso e non con il concetto di completezza, cui solitamente viene collegata. Il lavoro della logica dell’ “a poco a poco” ha finito per snaturare la stessa funzione raccoglitiva e catalogativa, e ciò man mano che si andavano diffondendo i bisogni scientifici di una società che intendeva illudersi sempre di più sul proprio destino. La mia idea è stata sempre eccessiva nell’accostarmi al metodo e al sistema della raccolta, eccessiva come il mio carattere che mi ha fatto scegliere, in tutte le cose della vita, sempre la strada più difficile, spesso una strada senza percorso prestabilito, senza programma, un’avventura entusiasmante anche nelle letture di tutti i giorni, nella costruzione degli strumenti teorici e tecnici, nel possesso del mezzo da impiegare in vista di una attuale o futura trasformazione. Da qui ricerche parallele ad altre attività pratiche, studi e corsi istituzionali, proprio perché non intendevo mai rifiutare a priori una strada sulla base di un’idea di risparmio delle mie energie. Ricerche, per mantenerci a questo problema, contrastanti e differenti, collegamenti che dapprima sembravano logici, come i miei studi sulla nascita e lo sviluppo del comico, per poi sperdersi in tracciati diversi, dalle commedie borghesi del secolo scorso all’intima comicità di alcune tragedie del Settecento, al trattato bergsoniano sul riso che mi ha portato ad approfondire meglio questa posizione filosofica, ai miei tempi messa all’indice dai marxisti.

Qualcuno potrebbe affermare, forse a ragione, che non mi sono mai liberato dalla mitologia positivista, e invece io credo di essermene liberato non fuggendo dallo strumento, ma addentrandomi sempre di più al suo interno, scoprendo che la rigidità iniziale dell’ipotesi si trasformava poi, man mano che si andava avanti e ci si confrontava con l’esiguità dei mezzi di fronte all’infinità del campo da esplorare, in una vaghezza decisamente affascinante, capace di soppiantare l’iniziale interesse preciso, e dettagliato con un percorso tortuoso e perfino infido, misteriosamente capace di fornire concatenazioni e sbocchi mai pensati. Agli inizi la stessa imperizia giovanile e il sacrosanto rispetto per la cultura mi facevano mettere da parte proprio quegli elementi rintracciati che andavano a contraddire la sostanzialità della ricerca, quell’interesse di partenza che in buona fede pensavo andasse fondato e più che mai difeso. Così le mie peregrinazioni fantastiche e sterminate venivano intrappolate in un contesto scolastico troppo rigido per produrre tutti gli effetti di cui sarebbero state capaci, anzi i loro stimoli si vedevano obbligati a prendere, dentro di me, vie traverse, quasi sotterranee, per trovare sbocchi che altrimenti sarebbero stati preclusi per sempre.

L’apparente incapacità di piegare lo strumento all’uso imposto dalle regole dell’utilità e dell’efficienza mi permetteva di vivere l’immane accozzaglia dei dati come il laboratorio assolutamente mio, dove la confusione si trasformava in un ordine diverso, seppure precario al massimo, promotore di altri approfondimenti non meno avventati e avventurosi. Più volte, in seguito, quando bene o male mi sono dovuto confrontare con altre realtà, quando mi sono reso conto che si poteva mettere mano alla costruzione di un programma organico di ribellione piuttosto che continuare in quella ricerca appassionata e solitaria, mi sono chiesto se una convenzione preliminare, che non può non essere a fondamento ideologico più o meno accentuato, poteva convivere con quella gioia della ricerca dilagante e spensierata, capace di grandi progetti tutti provvisti di scarso fondamento. Insomma, mi sono chiesto cosa fare dell’eccesso verso cui ero portato, di quell’enorme potenzialità culturale che continuava a offrirsi come un processo dinamicamente aperto.

Vorrei sottolineare che ho vissuto, esclusivamente per mia incapacità, queste esperienze che si potrebbero ricondurre a una matrice positivista tutt’altro che come fatto statico o come realtà logica da organizzare in canoni tassonomici. Non ne sono stato capace e ne sono contento, adesso, mentre allora, nei miei anni più verdi, me ne crucciavo non poco. Anche quando ho lavorato a mettere a punto i processi di memorizzazione, non mi sono mai fermato al semplice meccanismo dei rimandi e dei riferimenti, ma ho costruito due elaborazioni molto flessibili proprio perché fondate su concetti e non su oggetti. Questo strumento mi permise successivamente di trasformare quel precedente girovagare in costruzioni storiografiche provvisorie che continuamente riportavo dentro i precisi limiti di una conoscenza specifica per poi trasformarli o abbandonarli e passare alla costruzione di altre specificità provvisorie. Anche oggi, involontariamente, quando affronto un argomento preciso per una rivista o per un giornale, argomento che spesso viene imposto dall’esterno, da una contingenza culturale e sociale nel senso più ampio del termine che non posso sempre piegare alle mie necessità, mi accorgo di riportare il discorso costantemente all’interno di una trattazione più ampia che sto elaborando e di cui è raro che non appaia traccia anche in quella specificazione diretta a un preciso compito analitico o informativo.

Veniamo adesso al secondo punto di cui facevo cenno prima, la seconda conclusione, quella legata alla possibile contemporaneità della storia, tesi fondamentale dello storicismo, se non altro di casa nostra. Secondo questa tesi, formulata in modo contraddittorio, ogni storia è storia contemporanea in quanto, coinvolgendoci, ci fa vivere gli accadimenti passati e quindi non porta noi nel passato ma il passato in noi cancellandolo in quanto passato e facendolo diventare presente. Ciò potrebbe essere una interessante apertura se fissasse realmente uno sviluppo relazionale riguardo il problema del tempo, ma non fa niente di tutto ciò. L’idealismo immanentista pretende anzi aprirsi verso il futuro, quindi propone il progresso come movimento che riassume il passato e lo sviluppa: insomma, una banalità. Ma non solo una banalità, anche una insormontabile difficoltà logica. Infatti, secondo l’idealismo, e quindi secondo una parte consistente dello storicismo, o tutto si riduce al pensiero, compreso lo sviluppo della storia, e quindi si aprono le porte del misticismo, oppure si deve fare ritorno a una certa forma di empirismo. Il guaio è che lo storicismo, anche oggi, minaccia di non capire la fondatezza di questa necessaria alternativa, quindi insiste nel costruire false linee progressive che non conducono in nessun posto, in quanto non riescono a uscire dalle difficoltà tecniche relative ai diversi gradi della dialettica dello spirito, oggettivo o soggettivo che sia.

Una riflessione sulla questione “Giovanni Gentile”. Questo filosofo torna oggi di grande utilità e significato non certo per le sue posizioni politiche ma proprio perché con queste posizioni reazionarie, conseguenti in modo radicale alle proprie posizioni filosofiche, segnò, e continua a segnare, il fallimento della filosofia immanentista di qualsiasi genere, dall’hegelismo classico al marxismo ortodosso. Trattandosi del pensiero di un filosofo serio, quello gentiliano porta alle estreme conseguenze logiche tutto ciò che, in materia di idealismo, resta vago e incerto. Partendo dalla rimessa in questione cartesiana del mondo esterno, fino allo storicismo e al materialismo dialettico, le tesi gentiliane riducono all’osso tutti gli equivoci e vanno diritte a dimostrare come tutto si risolve nel soggetto, immancabilmente, senza più una possibilità di distinzione degli oggetti e delle cosiddette attività dello spirito, senza processo e senza progresso: un’indifferenziata resa dell’idealismo. Tutti i tentativi di impostare un’apertura dialettica sono fallimentari, per cui mi sembra giusto affermare che proprio nell’anno [1989] che sto scrivendo queste pagine in carcere, mentre ogni giorno sui giornali arrivano le notizie del crollo del mondo comunista, fino a ieri considerato monolitica prova della fondatezza delle tesi marxiste, ricevono ancora una volta conferma le intuizioni negative gentiliane che riassumevano tristemente tutta la lunga e tormentata esperienza dell’idealismo immanentista nell’atto e basta.

Non si tratta qui di parlare della rivalutazione gentiliana che non mi riguarda, nessuno ha mai messo in discussione le sue doti di filosofo, uno dei pochi grandi filosofi europei del secolo in cui viviamo, come nessuno ha mai messo in dubbio le sue responsabilità fasciste e l’azione reazionaria e repressiva all’interno dello Stato nel periodo del suo massimo dominio intellettuale, non è questo il problema. Al contrario, egli seppe indicare, involontariamente, dove poteva condurre il fallimento dello storicismo e dell’idealismo in generale, e lo seppe fare con grande chiarezza e consequenzialità. Non era questo il suo scopo ma (cosa importa?) il risultato cui giunse fu la negazione assoluta di ogni possibilità operativa, al di là di un ipotetico “atto puro”, la contraddittorietà del progresso, la possibilità di un ritorno alla barbarie. Tutte cose che invece nella rielaborazione crociana trovano una strana acconciatura liberale, estremamente instabile. Non per nulla, appena ci si aprì un poco alla cultura europea e internazionale, delle teorie crociane non si fece quasi più cenno.

Ma lo storicismo non è soltanto hegeliano, trova le sue fondamenta nel secolo dei lumi, quindi è figlio e forse, nello stesso tempo, genitore della rivoluzione, quella grande, appunto, prodotto e causa del riassetto del pensiero ordinativo, in un clima influenzato dai dubbi e dalle perplessità in cui era andato a finire il razionalismo cartesiano proprio nel momento in cui apriva la nuova Europa al pensiero scientifico della misura e non più della vecchia essenza. Qui trova giustificazione morale l’accumulazione, la guerra e lo sfruttamento, per arrivare, colmo di raffinatezza, agli strumenti che la medesima filosofia ha fornito ai tentativi della destra vecchia e nuova di giustificare il genocidio e la superiorità di una razza sulle altre.

L’estrema evidenza delle limitazioni e delle contraddizioni pratiche ha fatto oggi aumentare le cautele degli storicisti mentre ha rinverdito teorie di ieri che erano state passate sotto silenzio o tacciate semplicemente di essere reazionarie. Che l’hegelismo affondi le sue radici nel misticismo protestante tedesco e anche in alcune più lontane formulazioni escatologiche, legate ad attese messianiche, è un fatto certo, ma non possiamo dimenticare che tra le due cose, tra l’antica mentalità che suggeriva di interpretare l’azione della provvidenza nel mondo e il marxismo più perfezionato, non ci sta soltanto la riflessione hegeliana ma anche e principalmente l’illuminismo e la rivoluzione francese. Non solo. La tesi classica agostiniana, che spesso conclude per una vera e propria predestinazione di fronte al crollo di un mondo ipotizzato imminente, ma anche quella eretica gioachimita, messa all’indice e perseguitata con tutte le forze dalla Chiesa, parlano di una trascendenza realizzatrice, qui, nel mondo, quindi nella storia. Ma non si tratta della storia come l’intendiamo noi oggi e meno che mai della storia come l’intende lo storicismo. Ciò per mettere a posto le tentazioni che stanno venendo fuori in questi ultimi anni, dirette a fare di tutte le erbe un fascio. Il crinale illuminista resta fondamentale per quanto concerne l’idea di progresso e lo storicismo non ha più senso senza quest’ultima idea.

Il concetto di mutamento viene coinvolto dallo storicismo all’interno di un meccanismo di sviluppo della ragione che procede in linea orizzontale, attraverso processi più o meno complessi, verso un suo destino di realizzazione. Criticare questo meccanismo e i suoi sistemi di aggiustamento, come la sua conclusione, non vuol dire non possedere un’idea di mutamento e ridursi alla tesi dell’immutabilità dell’uomo, o meglio della natura umana. La realtà per altro non può essere storia, in quanto questa è legata al tempo, quindi è una specificazione di quella, un artificio per consentire determinate attività, ma non è quella, la quale se ricondotta nel tempo, e quindi nella nostra stessa idea di spazio, finisce per distruggersi nelle strane antinomie tra passato che non c’è più, futuro che non è ancora e presente che svanisce in continuazione.

Secondo me la critica negativa dello storicismo non deve comunque partire dal problema della scomparsa della realtà nella storia, ma al contrario dal modello stesso storicista e dai problemi che esso solleva, in caso contrario si rischia di storicizzare la critica stessa facendola diventare una presa di distanza nichilista, affermazione che non è affatto giusta. Il problema consiste nella razionalizzazione che si pretende venga racchiusa all’interno del processo storico, una sorta di combattivo e testardo realizzarsi della ragione, al di là di ogni riscontro pratico, superando quelle continue lezioni che la realtà fornisce senza esclusioni a chi voglia riflettere sugli avvenimenti. La crescita della razionalità è garanzia contro il ritorno della barbarie? Oppure questi due valori sono anch’essi storicizzati in una dimensione ugualmente storicizzata, per cui diventano relativi? Ma il problema vero non è tanto se sia da preferirsi la ragione alla non-ragione, quanto se la ragione garantisca uno sviluppo verso la qualità del bene, oppure non si racchiuda nell’àmbito dei contenuti sempre più a sé stanti, sempre più autonomi e accumulati. Perché se il progetto teorico storicista è non solo infondato ma perfino ridicolo, la cosa può anche essere trascurabile, quale sarà mai il progetto teorico fondato in assoluto? Non esiste la possibilità di perseguire una teoria che ci garantisca la verità, noi dobbiamo lottare per strapparla con i denti e con tutte le nostre forze, la verità, e quindi dobbiamo metterci in gioco, coinvolgendoci revocando in dubbio qualsiasi teoria che intenda invece garantirci un cammino tranquillo verso la verità e verso il bene senza il nostro intervento, senza il nostro personale e unico rischio. È molto pericolosa una teoria come questa, e i fatti ne danno continua conferma.

Quindi, che la tesi del progresso storicista sia infondata è ormai più o meno accettato da quasi tutti coloro che hanno a cuore l’azione e non solo la vuota contemplazione delle raffinatezze metafisiche. Ma la malattia è lenta a guarire e molti medici continuano a suggerire vecchi salassi e formule sacrificali di dubbio effetto. Una delle cose che mi ha colpito di più è stata l’idea di recuperare la storicità del processo proprio attraverso il suo contenuto, il suo senso. Infatti, si può affermare che la storia non abbia senso? Perché se si potesse rispondere positivamente a questa domanda, mancando la storia di senso non si potrebbe parlare più di processo vero e proprio e il meccanismo di storicizzazione si dissolverebbe. Ma perché mai il senso dovrebbe salvare la storia? Badate bene, salvarla nelle intenzioni degli storicisti sia pure più o meno riformati. Che ogni flusso abbia anche un senso, oltre che una tensione, è fatto certo, oppure, per vedere le cose sotto un altro indirizzo, ogni fatto ha un senso, cioè un significato, anche i fatti della non-ragione, quei fatti illogici su cui tanto si fermava l’analisi di Vilfredo Pareto. Vorrebbe forse dire che questi fatti illogici non appartengono alla storia? Secondo lo storicismo non ci appartengono, difatti bisogna ricordare le affermazioni crociane riguardanti il fascismo dove si leggeva una valutazione di tutto il periodo della dittatura e della fioritura fasciste in Europa come un periodo antistorico.

In effetti la storia contiene un senso proprio perché viene considerata sempre dal lato dell’accumulazione e mantiene questo senso nell’àmbito del campo, cioè dello spazio sociale, nelle vicende della ricognizione, fino al limite del territorio della cosa. Questo senso viene interpretato per essere ricostituito in una unità che è qualificazione di quel senso e quindi diversa considerazione della storia all’interno del coinvolgimento di chi la vive. La riduzione a un modello lineare, sia pure attraverso eventuali correzioni dialettiche, non nega affatto i contenuti, anzi può racchiuderli proprio essenzializzati nell’accumulazione. Ma il problema è diverso, non è tanto una mancanza di senso che il dominio della ragione impedisce, quanto il verificare se non si tratta di una riduzione a spese della qualità. Nello storicismo la costruzione di una linearità fittizia propone una qualità sostitutiva che non solo non spiega la realtà, cosa poco importante, ma fornisce strumenti tutt’altro che liberatori e tutt’altro che adatti alla trasformazione.

Anche non volendo accettare la tesi di una neutralità del valore, secondo la tipologia di Max Weber, rifiuto che posso condividere per quanto la cosa in passato mi abbia fatto riflettere a lungo se non altro per le grandi capacità di convincimento del suo propugnatore, c’è da domandarsi, cosa che faccio anche oggi: perché mai la linea di sviluppo dovrebbe produrre un incremento di valore? Anche calando questo valore nella sua giusta storicità, perché mai dovrebbe crescere col tempo? E poi, altre due domande, la prima riguardo il modo in cui una eterogeneità di fatti possa essere riassunta in una omogeneità di sviluppo, la seconda riguardo l’aumento di razionalità. In effetti nessuno di questi tre punti può ricevere una risposta se non ponendo come dato il processo progressivo stesso, cioè ponendo a priori quello che si vuole dimostrare dopo. Sul piano puramente logico, la pretesa di chi ammette possibile, anzi necessaria, una crescita di razionalità e di valore nel processo storico, riconducibile a una sua supposta omogeneità, non ha minore validità di chi crede il contrario, sul piano delle ipotesi filosofiche si tratta di faccende che hanno pari peso, le chiacchiere pesano poco. Ma le conseguenze delle chiacchiere pesano un poco di più e questo vale ancora nei due casi, nelle due direzioni interpretative.

L’ipotesi del tramonto, poniamo nell’ampia visione di Osvald Spengler, non può avere migliore considerazione ponendosi come mito che si contrappone a un altro mito. Il sospetto verso lo storicismo, per esempio come era stato avanzato dagli strali di Arthur Schopenhauer, riguardava l’impossibilità di ridurre a espressione scientifica l’accidentalità degli accadimenti, riprendendo un antico discorso aristotelico, posizione conseguente in quanto la storia veniva considerata illusoria e unica realtà tangibile appariva soltanto la volontà. La grande mediazione di Jacob Burckhardt aveva inserito la variabile artistica come elemento interno alla storia, smontando completamente il processo hegeliano. Ma i tentativi finivano qui se non si vuole ricordare il lavoro di Friedrich Wilhelm Nietzsche che resta comunque defilato per quanto concerne il problema in senso tecnico. Il tramonto invece segue una metafora biologica, metafora che da ipotesi diventa certezza proprio nell’elaborazione spengleriana, con in più il blocco di una eventuale scappatoia dialettica capace di fare aprire la strada a nuove determinazioni dopo quella in fase calante e quindi destinata a morire.

È proprio dopo l’esperienza filosoficamente negativa di questo tipo di storicismo, biologicamente condizionato, che si può considerare come una nuova forma di storicismo, sia pure rovesciato, anche lo sforzo di Heidegger di criticare il progresso. Se la storia svanisce in un tempo che è l’essere inteso come eternità, il progresso avviene lo stesso ma è sviluppo verso l’assoluta mancanza di ragione, verso la riduzione di verità, non più la filosofia che si realizza nel mondo ma, al contrario, la scomparsa della filosofia che si realizza in un medesimo progresso storico, semplicemente rovesciato. Anche questa teoria è quindi illusoria o mitica e giustamente è stato notato che risente di tutti i limiti dello storicismo, sia pure rovesciato.

In fondo, osservando bene, è sempre l’idea di Dio che viene rielaborata all’interno dello storicismo, pur non dimenticando mai che questo si presenta come filosofia laica, se non addirittura materialista come nel caso del marxismo. Ricordiamo che cacciare Dio dalla storia non vuol dire per forza cacciarlo dalla realtà, difatti non tutti gli storicismi sono atei, alcuni si limitano a una dichiarata non influenza divina negli eventi storici. In sostanza, questa presenza c’è ed è tenuta abbastanza da parte, con sofismi vari, fino al momento in cui lo storicismo si sente forte, mentre ritorna in pieno quando cominciano le debolezze. Uno storicismo dilagante pretendeva imporre o un ateismo teorico piovuto dall’alto, sradicando convincimenti e bisogni religiosi che non si possono annientare con le baionette, oppure pretendeva fissare una differenza tra la storia e la grazia, pensando teologicamente possibile una limitazione di questa alla sola redenzione. Ma con l’avvento di profonde trasformazioni sociali, con il crollo di antiche certezze e la penalizzazione pratica di modelli teorici, le cose cambiano.

Nell’ora dell’apocalisse Dio torna a rimettere ordine e a tranquillizzare gli animi e svela così la funzione consolatoria di quel progetto apparentemente lontano da ogni religiosità. Lo storicismo indebolito si rifà forte riafferrandosi all’idea di Dio. La linearità si ricompone come continuità del messaggio, la testimonianza di una certezza presupposta alla base della storia, e quindi della natura. Dal viaggio verso il disastro, di cui all’ipotesi nichilista dello storicismo rovesciato, si arriva dal viaggio verso la salvezza. Che questa salvezza sia immanente al processo o sia rilanciata avanti all’infinito nella mitologia del perdono diretto a colmare il sostanziale vuoto dell’uomo, la cosa non cambia molto. La ragione ha cambiato volto ma si presenta sempre dominatrice, la consapevolezza del fallimento, oggi ormai di moda, ottiene lo stesso risultato della certezza della vittoria. Ciò dovrebbe darci due argomenti di interessante riflessione: sulla natura del fallimento che tale non è, almeno se inteso come crisi, e sulla natura della vittoria, che tale non è se intesa come acquisizione accumulativa.

L’urgenza della realtà, il ripresentarsi in tutta evidenza di certi movimenti, di flussi specifici che a volte assumono caratteristiche di particolare violenza, risultando carichi di un senso più ampio di quello che la stessa accumulazione può produrre, un senso talmente pregno da sfuggire agli stessi accorgimenti recuperativi della riorganizzazione modificativa, questa urgenza caratterizza lunghi tratti di ciò che dal punto di vista del campo chiamiamo storia o, se si preferisce, della totalità del reale che riusciamo a conoscere attraverso il nostro coinvolgimento. L’accelerazione e il rallentamento sono fenomeni molto diversi dell’intensificazione e dell’affievolimento. I primi sono legati al campo e al di là di questo affievoliscono fino a diventare poco importanti, i secondi sono elementi del movimento, cioè della realtà. Ciò non vuol dire che accelerazioni che noi imprimiamo al campo, quindi allo spazio sociale, non possano trasferirsi in perturbazioni di movimenti a livello totale, anzi questo trasferimento è certo, tutto sta a capire dentro quali limiti diventa significativo.

Giocando sul coinvolgimento anche noi siamo fonte di processi accelerativi e diventiamo oggetto di processi altrui che possono contribuire ad accelerare la nostra attività interna ai flussi. Oggi la realtà presenta molte accelerazioni di questo tipo, alcune trascurabili, dipendenti dalle mode, altre più importanti perché in grado di sconvolgere assetti in ordine di tempo e di spazio che prima consideravamo fissi e codificati una volta per tutte. Movimenti molto convulsi all’interno dello spazio sociale comportano una diversa valutazione del coinvolgimento. Dall’individuo ci si aspetta di più e questo ha preoccupazioni che in situazioni diverse non avrebbe. Finito, o quasi, il sogno delle grandi costruzioni dello storicismo, diritte o rovesciate, restano in circolazione, con nuove o vecchie etichette, i residui dell’empirismo e del pragmatismo, variamente connessi tra loro.

L’individuo diventa centro di tutte le cose e le riflessioni si puntano esclusivamente sulle prospettive di migliorare la sua condizione. Anche la morale si riconduce nei termini della felicità e quest’ultima si adatta bene o male alla difesa dei propri diritti contro l’asservimento. Come programma non c’è che dire. Solo che non appena si cerca di realizzarlo ci si accorge che è riduttivo, e non ci può essere moralità vera nella riduzione, nel rinchiudersi in se stesso, nella privazione e nel sacrificio. La virtù deve essere necessariamente sovrabbondante, altrimenti è calcolo e misura, condanna di sé e principalmente degli altri al proprio àmbito difensivista. Noi possiamo essere rigidi solo a condizione di esserlo per prima cosa con noi stessi, solo dopo averci coinvolto totalmente possiamo parlare di coinvolgimento. Quindi, tutte le discussioni sulla storia che cercano di dimostrarne l’utilità, la sua possibile utilizzazione in quanto strumento per agire, devono prima dimostrare il coinvolgimento di chi pretenderebbe usare lo strumento stesso. Nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può imporre qualcosa agli altri, nemmeno l’insegnamento che proviene dalla storia.

Nella storia ci siamo noi, gli individui, relazioni fra altre relazioni, flussi, campi, lo spazio sociale, la totalità delle relazioni, la realtà. Tutto questo si capovolge esattamente nel suo contrario, nel senso che nella realtà ci sta la storia. Il più piccolo sta nel più grande, ma anche il più grande sta nel più piccolo, nell’infinitesimo. La dimensione, cioè il tempo e lo spazio reificati, sono soltanto punti di vista. Ma la realtà non può essere solo l’elemento puntuale, neanche l’individuo, la realtà è sempre totale, ogni specificazione non appena conquistata sparisce se non viene considerata come relazione, cioè come movimento continuo. Lo stesso per l’individuo se lo si vuole racchiudere all’interno della storia in un processo oggettivamente diretto da qualche parte, ma lo stesso anche per la storia se la si vuole racchiudere all’interno del singolo individuo, autoaffermazione di una volontà che sappiamo quanto sia immediata, cioè parziale e incapace di comprendere la molteplicità del reale.

Intendendo la storia come strumento non si possono mantenere in piedi né lo storicismo e nemmeno il positivismo, ambedue queste prospettive teoriche devono essere criticate negativamente. Non si può usare uno strumento di cui non siamo padroni del funzionamento, uno strumento che cammina da solo come le scope di Goethe e che produce effetti in un modo oggettivamente separato da noi. Per quanto assurda sia questa ipotesi, cioè per quanto sia poco reale, essa deve essere rigettata per le sue conseguenze negative più ancora che per la sua poca o molta verosimiglianza. Allo stesso modo non si può usare uno strumento valido solo per un individuo e non per tutti gli individui, uno strumento che sia individuato perfettamente esso stesso e che sia avulso da ciò che tutti gli individui sentono, capiscono, avvertono, subiscono e fanno. Da questi due poli non si scappa. Se ne conclude che non possiamo mai essere certi di una vera e propria possibilità di utilizzare la storia.

Nel senso dell’utilizzo, anche a prescindere da quanto detto fin qui, ci sono delle preoccupazioni riguardanti l’elaborazione di certi contesti specifici, per esempio i cosiddetti documenti, che ci si immagina in grado di sciogliere proponendo metodologie accuratissime e autolimitazioni specialmente dirette a contrastare l’idealismo storicista e le sue alate costruzioni. Qui siamo ormai lontani dalle tesi dello spirito che si realizza nella storia, i problemi sono altri. E non si può nemmeno ammettere che si tratta dello stesso genere di problemi del positivismo, le differenze forse sono sottili, ma ci sono. La filosofia analitica ha avuto preoccupazioni storiche e, a mio avviso, non le ha risolte in modo soddisfacente. Il documento infatti non assume maggiore fondatezza solo perché lo si definisce esattamente all’interno di un linguaggio. In questo modo la filosofia non diventa un elemento della semantica. Un documento non resta soltanto una serie di proposizioni, può esprimere altre cose, anche quella contemporaneità crociana che ricordavamo prima, naturalmente vista sotto un altro aspetto. Organizzando nel modo corretto le proposizioni, a esempio trasformando gli operatori logici in modo diretto, si possono scoprire aspetti che il documento nascondeva, e oggi ricorrendo all’utilizzo dei computer questo è un lavoro molto interessante che dà risultati notevoli. Io stesso mi sono occupato di alcune ricerche in questo settore e ho introdotto in Italia alcune interessanti analisi fatte quasi quindici anni fa in Francia su questi problemi.

Ma l’utilizzo della storia non si esaurisce nel documento e nemmeno nella sua decodificazione. In questo modo restiamo sempre nell’àmbito accumulativo e gli aspetti nuovi che scopriamo proprio grazie a queste tecniche quasi ci impediscono di restare critici freddi e negativi. Per altro, la preoccupazione fondamentale dell’uomo, nel momento in cui intende conoscere, non è quella di conoscere oggetti, che se esistono, cioè sempre nella condizione specifica e particolare della relazione, esistono nell’àmbito esclusivo dell’accumulazione e quindi possono essere conosciuti alle condizioni imposte dal meccanismo accumulativo stesso, ma è quella di conoscere la realtà che non è semplicemente oggettiva, ma è relazionale, concetti questi non tanto antitetici quanto completamente diversi. Anche la decodificazione del documento può quindi concorrere a formare quei contenuti che verranno ripresi nella fase effettuale della interpretazione, ma l’obiettivo è chiaramente più modesto e non abbisogna di grande pubblicità filosofica.

È il limite del positivismo che ritorna, quello medesimo che mi ritrovai davanti negli anni miei giovanili e che mi entusiasmò per la sua vastità, non certo per il suo progetto, che di progetto ce n’era poco. Ma, è un difetto la mancanza di progettualità? Adesso che scrivo a distanza di tanti anni da quei miei ardori iniziali, non so più dare una risposta sicura. Come il cappotto di Aristippo mise allo scoperto i limiti di colui che cinicamente si considerava al di là di ogni condizionamento, costringendolo a uscire nudo per paura di indossarlo, così la paura di un progetto potrebbe gettarci nelle braccia di un artificio altrettanto presuntuoso e deleterio, quello di una pretestuosa assenza di progettualità. Se pensiamo a uno dei monumenti del positivismo storico, poniamo a Le origini della Francia contemporanea, non si può dire che si tratti di un’opera che nella sua vastità manchi di progetto, il fatto poi che questo venga annegato dal suo autore nell’immane raccolta dei fatti, questo è un altro problema e indica il limite del positivismo in genere.

Torna così utile riflettere sul modo in cui fallisce anche l’ipotesi positivista e proprio all’interno di quel microcosmo dove aveva promesso i massimi indici di attendibilità. La riduzione all’estremo dell’accumulazione consente, nel grande libro citato qui sopra, la trattazione delle vicende della rivoluzione francese come se si trattasse di studiare le attività di un gigantesco formicaio. Non è tanto che l’uomo venga ridotto al comportamento animale, secondo la tesi dell’autore espressamente specificata, quanto che viene ridotto a quello che la scienza ottocentesca credeva fosse il comportamento animale, qualcosa di inferiore e come tale catalogabile in modo definitivo. Al contrario, gli stessi positivisti sentivano il bisogno di ridurre, poniamo la virtù e il vizio, sempre secondo l’idea che loro si facevano di questi concetti tutt’altro che definiti, a elementi del mondo minerale, poniamo il vetriolo e lo zucchero, pensati come oggetti assolutamente specificabili senza possibilità di errore. Questa semplificazione erroneamente definita naturalistica, in quanto la natura è tutt’altro che semplice o semplificabile, finiva per distruggere quella creatività libera e assoluta che la raccolta del dato poteva fornire a patto di non restare né limitata al dato stesso e nemmeno abbandonata a riflessioni riguardanti comportamenti inesistenti.

Anche gli epigoni moderni del positivismo vecchia maniera, di cui l’esempio naturalistico segna l’estremo confine, sono molto più sofisticati e si nascondono sotto abili negazioni sia del procedere storicistico che dello stesso procedere semplicemente accumulativo del positivismo. Una delle tesi preferite di queste nuove tendenze è quella di evitare di racchiudersi all’interno di una corrente di pensiero per non condividerne prima o poi le sorti catastrofiche proprio a causa dell’atmosfera generale che ovviamente si indirizza verso la debolezza e guarda con sospetto le idee troppo sicure di sé. Va bene accrescere il meccanismo accumulativo, farlo lavorare per come ha sempre lavorato, ma soltanto perché questo è il modo migliore per fare accrescere nello stesso tempo la cultura, in quanto quest’ultima è costituita da una ben strana contraddizione, cioè tanto più si diffonde e si consuma, tanto più aumenta e fa solidarizzare gli uomini fra di loro in un pluralismo che abbatte dogmatismi e barriere di ogni genere, razziali, geografiche, economiche.

Ma di quale cultura si parla? Sempre quella del dato, oppure di qualcosa di qualitativamente più vitale? Le risposte non sono rassicuranti. Il vecchio positivista, trasferitosi nell’era dei computer, almeno per il momento è tutto indirizzato a ridurre le capacità dell’individuo per ricondurlo alla macchina, visto che quest’ultima ha limiti suoi che non possono portarla ai livelli del semplice senso comune dell’uomo. Di già questa scelta di fondo, che si esprime nella pratica in comportamenti spesso ben diversi dalle idee che si sostengono, mette in piedi un’altra volta la stupida polemica tra cultura scientifica e cultura umanistica, facendo passare quest’ultima, come sempre, in secondo piano davanti alla prima, perché più futile e meno certa. Non si tratta di una polemica senza scopo, infatti è più facile ridurre i contenuti qualitativi della cultura scientifica, per quanto solo a condizione che quest’ultima si abbassi ai livelli rudimentali della tecnologia, cosa che sta proprio accadendo in questi anni. Non è tanto, come persisteva ad affermare un catastrofista, che la scienza non pensa, quanto pensa in modo differente e questo modo di pensare risulta più adatto a essere degradato al livello della macchina. Qui si conclude il percorso positivista, come si vede in modo piuttosto triste, dopo avere sempre di più ridotto lo stimolo a quell’antico vagabondare nella ricerca che costituiva limite e gioia di tutti coloro che vi si dedicavano e, infine, perfezionando la sua tendenza ancillare nei riguardi del potere.

L’altra illusione coltivata da un diverso ramo del positivismo, non più quello naturalistico ma quello empirista, è la passione dell’equilibrio, su cui si basa la vasta congerie di chiacchiere che oggi vengono fatte sul pluralismo e sulla critica della rivoluzione. Il rifiuto dell’idealismo, diritto o rovesciato, cioè dello storicismo e del nichilismo, insieme al rifiuto del naturalismo più o meno biologizzante, non consentono di accettare come unica soluzione l’empirismo possibilista che guarda alla storia come a una tensione tra poli contrastanti, tra realismo politico e nucleo normativo. Questo conflitto, che certamente è reale, passa in forma più significativa per altre strade. Nella realtà relazionale non si scontrano soltanto norme e pratiche, ma principalmente forme e strutture. Per quanto non siamo in grado di capire bene cosa siano e come funzionino queste ultime, possiamo avere un’idea sia pur generale del loro essere molto più complesse e anche molto più contraddittorie.

Un conflitto tra pratiche politiche e tensioni etiche è destinato a ricomporsi attraverso la ragione, grazie alla scelta riflessiva di momenti pluralisti di propensione in un senso o nell’altro. In questo modo, sotto sotto, senza darlo a vedere, la vecchia dominatrice risale in sella e riprende il comando. Questa volta è meno avventata e dichiara i termini nuovi del proprio dominio ma, proprio perché di dominio sempre si tratta, la novità, se c’è, passa in secondo piano. Solo per fare un esempio indichiamo un conflitto, naturalmente risolvibile, tra individuo e collettività. La posizione pluralista e tollerante, razionalisticamente camuffata, non può, a un certo punto, dopo avere disegnato le tracce dei rispettivi percorsi, come la triste conclusione cartesiana, non può dicevo che ricadere nelle braccia della ragione, in quel caso vista come Dio, in questo caso vista come necessità del funzionamento dell’intero quadro istituzionale voluto dalla collettività, cioè dal maggior numero. Con buona pace del pluralismo e di tutto il resto.

Come sappiamo una delle caratteristiche della polarizzazione del flusso, cioè della sua nuova separazione nei due orientamenti è data dal ritiro del coinvolgimento, la qual cosa può avvenire solo come effetto della paura. Nell’àmbito dei problemi che sto qui esaminando, la paura della libertà è proprio l’aspetto che frena la spinta all’autorganizzazione, facendo tornare la gente verso la ricerca di una guida, di un capo, di una sigla, di un’organizzazione preventiva, sotto cui mettersi per ricevere protezione, per sentirsi protetta. Questa paura è un movimento trasformativo, una decisione non della volontà ma proprio della coscienza diversa, di quella stessa coscienza che era stata capace di coinvolgersi. Infatti non si può volere la paura. Comunque, sotto questo concetto decisamente troppo semplificato, si nascondono altri movimenti che si associano e si pongono in relazione fra loro o si contrastano: l’avarizia e la generosità, l’amore per il nuovo e il desiderio della tradizione, la viltà e il coraggio, l’odio e la tolleranza, ecc.

Esisteranno sempre i padroni e ci saranno sempre coloro che saranno contro i padroni? E così per sempre? Non lo so. Di una cosa sono certo: non esiste una garanzia esterna che possa fornire una qualche certezza che la situazione di miseria e di sfruttamento in cui viviamo un giorno finirà. In ogni caso, il non avere questa certezza esterna non impedisce una certezza interna. E in questa certezza interna, certezza della nostra coscienza, possiamo trovare la forza di agire senza bisogno di una eventuale protesi determinista. Le cose continueranno per sempre così? Cambieranno di poco? Ci saranno modificazioni nominali, mentre nella sostanza resteranno sempre i dominati e i dominatori? Non lo so. Forse sarà possibile la costruzione di una società libera, cioè di una società avente una qualità più alta di libertà. Forse ci sarà un “non ripresentarsi” di alcuni movimenti, di per sé sempre diversi, ma talmente differenziati, da fare parlare di una vera e propria rottura nel processo, sempre vedendo le cose dall’interno del campo e sempre mantenendosi dal punto di vista della totalità. In ogni caso, duecento anni, quanti più o meno ci separano dalla rivoluzione francese, sono troppo pochi per parlare di un vero e proprio “non ripresentarsi” di movimenti.

È ancora oggi comune, riferendosi alla rivoluzione francese, quella che consideriamo “grande”, fissare dei raccordi con il pensiero filosofico precedente e susseguente, pretendendo a volte indicare i percorsi attraverso i quali le idee precedenti si riversarono in quell’avvenimento e dallo stesso di poi presero l’avvio molte delle idee susseguenti. È certo che un ragionamento del genere, pur avendo alcuni aspetti condivisibili, non può essere accettato in un’ottica di sviluppo storicista. Che molte idee dell’illuminismo si rovesciarono nella rivoluzione e che molti mutamenti concreti di questa divennero causa di idee nate successivamente è vero ma non fonda in nessuna maniera un discorso progressivo lineare. All’interno di quel grande movimento circolava senza dubbio, fra l’altro, l’ipotesi contrattualista di Rousseau, come pure il materialismo degli enciclopedisti, l’anticlericalismo meccanicistico di d’Holbach e perfino le ultime tracce del rigorismo morale di Pascal. Ma tutto ciò non può considerarsi in contrasto con le realizzazioni concrete, con le trasformazioni anche istituzionali e politiche, come in contrasto irrimediabile sta l’astratto nei riguardi del concreto, solo perché lo storicismo hegeliano effettuava una lettura del genere nella sua critica in cui vedeva la libertà concreta nascere dalla mediazione dialettica degli interessi specifici dei singoli nel supremo interesse dello Stato.

Così diventa molto facile giustificare non tanto il terrore, che quello è un altro problema, quanto tutte le esercitazioni letterarie e filosofiche sullo specifico, cioè esercitazioni fatte sul cadavere della rivoluzione e non dall’interno della realtà in movimento, quindi rivoluzionaria in quanto elemento e oggetto della trasformazione. Che il capolavoro di Kant preceda di due anni la grande rivoluzione può anche essere stato un caso e può anche essere una favola la grande ansia con cui il filosofo aspettava le notizie degli avvenimenti, per altro uno come lui, che non era mai uscito dal proprio cortile, poteva ben vivere anche una grande esperienza come quella attraverso i “sentito dire”, ma considerare la Critica della ragion pura come il manifesto del giacobinismo mi sembra una lode eccessiva e non un’onta come forse qualcuno potrebbe pensare. Non perché in questo giudizio di Heine veda un’offesa per il giacobinismo, quanto perché vi vedo una forzatura storicistica diretta a mettere insieme due avvenimenti, due movimenti relazionali che producono grandi trasformazioni senza bisogno di alleanze spurie.

Potrebbe essere considerato un po’ meglio il giudizio hegeliano, quasi simile ma molto più profondo, diretto a fare vedere come quanto di concreto accadeva in Francia, cioè nella realtà, in Germania restava soltanto a livello del pensiero, non arrivando ancora a una vera e propria spiegazione storicista di questa concomitanza, cosa che avverrà solo nel giudizio marxiano. Ma le differenze c’erano e ogni discorso che adesso, o allora, tende ad appiattirle finisce per svilirne i contenuti. In fondo gli entusiasmi iniziali non resistettero davanti all’evolversi degli eventi. Le scelte autoritarie fecero arretrare gli intellettuali un poco spaventati, mentre la loro condizione specifica, appunto di intellettuali al servizio dello Stato, gli impediva di andare avanti e di vedere cosa realmente stava accadendo in Francia e cosa nei fatti si potesse fare per frenare l’involuzione autoritaria favorendo e sviluppando le componenti realmente rivoluzionarie e liberatrici.

In questa direzione restano emblematiche le evoluzioni intellettuali di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e Johann Gottlieb Fichte. La prima si racchiude in se stessa e cerca di prepararsi per futuri approfondimenti abbandonando le tematiche attuali, la seconda si sviluppa nello specifico giustificando in parte il giacobinismo e sviluppando posizioni stataliste radicali, anche se fondate su di un rispetto dell’individuo e principalmente su di una ipotetica abolizione della povertà, del lusso, ecc., insomma l’innesto delle tematiche classiche del pensiero riformatore europeo di quel momento in un clima molto diverso come era quello francese della rivoluzione. Anche oggi succede qualcosa di simile e le mie riflessioni nascono anche da quanto ho letto recentemente in occasione del bicentenario di quella rivoluzione. Riflessioni sull’impronta autoritaria e accentratrice dei giacobini, il paragone con i bolscevichi, considerazioni critiche su altre situazioni rivoluzionarie: in Spagna, in Messico, nelle realtà di lotta di liberazione nazionale, ecc.

Ma la maggior parte sono chiacchiere di gente con interessi tutt’altro che rivoluzionari, gente che mangia pacificamente al tavolo comune dello Stato e che indossa quella stessa berretta da notte che una delle più belle battute di tutta l’opera hegeliana attribuiva ai pensatori tedeschi nel momento in cui in Francia si mandava la nobiltà, e non solo quella, a morire sulla ghigliottina.

Per capire fino in fondo questa contrapposizione, con tutte le sue conseguenze, occorre non essere storici di professione, in caso contrario, secondo il proprio giudizio e i limiti delle proprie teorie, si può capire ora un aspetto della questione, ora un altro aspetto. Il professionista è quasi sempre schiavo del mestiere, ha troppo pudore per dire quello che pensa, è troppo pieno di dubbi, è troppo bene educato. Se non proprio tacere, preferisce dire tra le righe. Mentre è di una guerra al modello che sto discutendo, di una violenta fuoriuscita dalla regola, della negazione della norma severa imposta all’osservatore, e ciò per capire la cosa osservata che è anch’essa fuori della norma, negazione della norma.

I due movimenti sopra descritti si scontrano producendo una sorta di impedimento alla raffigurazione, studiandoli ci si sente sempre attirati, mai respinti in una zona sufficientemente tranquilla da dove dare indicazioni descrittive, da qui spesso l’espressione di inquietudini piuttosto che lo svolgimento di analisi. Di per sé questo non è un male, ma deve essere tenuto presente. Si tratta di fenomeni devastanti e coinvolgenti che non lasciano mai freddi, quale che sia il punto di vista. L’espressione più spontanea e meno controllata, quella che qui giustamente potrei definire come naturale, perfino animalesca, se non avessi in odio ogni forma di analogia biologica, è sempre la più spaventevole a guardarsi diritta in faccia. La verità è sempre spaventosa. Più ci si addentra nella desolazione della cosa, nel territorio della qualità, più ci si rende conto di come la tensione, senza la quale non c’è qualità perché non c’è verità e non c’è verità perché non c’è qualità, si possa cogliere solo sull’orlo dell’abisso, opponendosi in modo radicale alla normalizzazione generalizzata a cui ormai l’occhio e il cuore hanno fatto l’abitudine. La spontaneità della rivolta occhieggia al di sotto della rivoluzione dal basso, con la sua lunga storia diversa, irregolare, irripetibile, banditesca e perfino disumana. È questa ribellione che giace quieta al di sotto del movimento spontaneo, con tutta la sua capacità di capovolgere i valori più radicati, la stessa atmosfera delle grandi occasioni, i discorsi ufficiali, il mestiere dei politici, le accuratezze degli accademici, le apparenze della vita di tutti i giorni. Quell’antico distillato di sofferenze e di dignità offesa, viene recuperato improvvisamente in un vortice relazionale dove il bene e il male si confondono, dove non c’è più un centro, un luogo della certezza, ma solo una dolorosa persistente solitudine.

Il dibattito odierno si è un po’ ridimensionato e non si trovano facilmente sostenitori dell’autoritarismo rivoluzionario, nemmeno camuffati da progressisti dialettici. Ci sono comunque diverse tesi, variamente orchestrate, le quali costituiscono un fronte comune contro una valutazione positiva della rivoluzione spontanea dal basso, quindi a favore di più o meno avanzati sistemi di prevenzione e di controllo, allo scopo altamente morale di impedire sanguinosi avvenimenti corali, come sono appunto quelli rivoluzionari. La premessa comune di queste tesi è la fine della rivoluzione, pensata come avvenimento datato, come modello storicamente superato dai tempi, come idea ormai del tutto lontana dalla realtà di oggi.

Riflettendo sulla rivoluzione francese una di queste tesi cerca di individuarne le cause per dimostrare come la stessa si poteva evitare. Allo scopo evidente di suggerire come sia sempre possibile trovare un’altra strada, questa tesi insiste su ciò che sarebbe accaduto se si fossero accettati i suggerimenti di Turgot al parlamento, cioè una serie di riforme e forse la nascita di una monarchia illuminata. Seppure valide queste considerazioni per capire cosa effettivamente volessero le parti in conflitto nei periodi precedenti alla rivoluzione, esse diventano meno importanti se si riducono a una discussione sulle possibilità e le variabilità della storia. Nella realtà esistono movimenti di rottura e accelerazioni di imponenti dimensioni che non possono essere ricondotte a cause specifiche in modo univoco. Non si può dire che in questi processi ci sia per forza una dominanza dei moventi economici. La tesi affermativa, in questo caso quella dell’ortodossia marxista, ammette uno storicismo troppo rigido (per quanto dialettico) e quindi non accettabile. La rottura di domani, cioè l’avvio del processo rivoluzionario, potrebbe avvenire per motivi tutt’altro che di natura economica.

In effetti, se è vario il panorama della cause di un evento complesso come la rivoluzione, non è vario, anzi è piuttosto monotono, il modello di ragionamento in base al quale cerchiamo di capire il funzionamento di quelle cause. Su questo punto, francamente, siamo tutti un po’ arretrati.

Un’altra tesi oggi parla della necessità di recuperare all’interno del territorio della certezza alcuni diritti fondamentali, fra cui quello di soddisfare i propri bisogni, e ciò allo scopo di evitare eccessi, squilibri e perturbamenti. E in questa direzione vengono indicate ricette e progettati programmi, ma in fondo il problema si riduce a trovare un movimento necessario, sufficientemente oggettivabile, capace di garantire un allontanamento dall’incertezza e dalla provvisorietà con cui, allo stato attuale delle cose, anche nel capitalismo avanzato alcuni diritti fondamentali vengono assicurati. Se una volta era la grazia del sovrano a essere elemento aleatorio e a potere anche compromettere all’interno di una vasta rete di condizionamenti e intrighi quello che sulle prime veniva concesso, adesso è la logica stessa della formazione produttiva e sociale che risulta troppo aleatoria.

Ne deriva una critica abbastanza fondata dei diritti naturali che tali non sono una volta coinvolti all’interno di un meccanismo non garantito, mentre loro, proprio per la caratteristica di inalienabilità, si avvicinano a quella semplicità della cosa che appunto siamo soliti chiamare naturale. Da qui la tendenza a istituzionalizzare questi diritti allo scopo di renderli uniformi, meno individualizzati e, finalmente, meno inopportuni per una strategia di potere. È quello che è accaduto nello Stato moderno, e che sta accadendo anche ai nostri giorni, fino ad arrivare a garantire qualità che sono soltanto residui estremamente artefatti delle tensioni corrispondenti. Difatti nessun discorso del genere regge fino in fondo se non viene calato in un approfondimento classista, cioè in una logica che tenga conto dello scontro di classe in corso all’interno dello spazio sociale.

Il fondamento morale della dignità umana, concetto di grande importanza in grado di spiegare molti aspetti della ribellione ma difficile a trovarsi all’interno delle dinamiche rivoluzionarie, è stato utilizzato in chiave kantiana quindi sottraendolo al contrasto di classe, cioè all’attacco che le forze dello sfruttamento conducono su vari fronti fino a intaccare anche questo fondamento morale. Tale sottrazione svuota la dignità di contenuti pratici e la rinvia in un àmbito filosofico astratto o sociologico empirico, tendenze che solo apparentemente possono sembrare divergenti. Una variante di questa teoria sviluppata da Georg Simmel, almeno nelle sue formulazioni originarie, ritorna a fondarsi sui conflitti legandoli però al solo aspetto della delusione, cioè dello scarto che passa tra le aspettative e la realtà, per cui rimane il problema di scarnificare le aspettative per non generare una delusione eccessiva.

Ci sono al fondo di queste tesi i medesimi elementi laicizzati di una parte del pensiero cristiano moderno nelle sue riflessioni sull’ordine sociale. La riduzione dei contenuti del diritto, allo scopo di rendere quest’ultimo praticabile, è fatta in nome di un trasferimento ideale, per cui l’obiettivo diventa il raggiungimento di una sorta di pace universale che in fondo risulterebbe ancora una volta fondata precariamente sulla carità cristiana, elemento non certamente sicuro. Per capire questo aspetto basta riflettere su alcune recentissime evoluzioni del pensiero cattolico.

Riflettiamo un momento su di un intervento specifico fatto dall’attuale papa in carica dove si chiariscono alcuni punti fondamentali della dottrina e della tradizione cattolica riguardo il militarismo. Secondo questa dottrina il servizio militare è cosa degna e bella, la vocazione militare è sempre diretta alla difesa del bene e anche quando, come in guerra, si è costretti a uccidere, la colpa è sempre dell’avversario, visto che è un aggressore. Per quanto possano sembrare incredibili queste affermazioni, dovute proprio al pontefice romano, corrispondono a una precisa volizione della Chiesa, posizione che non si è molto modificata nel corso dei secoli, e non sarò certo io a meravigliarmene. Una struttura che si regge ancora oggi sul tomismo aristotelico, nella sua parte rinnovata vecchia di quasi otto secoli e nella sua parte originale di più di venti, non può ammettere modificazioni sostanziali, per non parlare di trasformazioni. La politica, che poi sarebbe una forma di guerra, è coerentemente impiegata dalla Chiesa, nella pratica, la guerra no, ma ciò non vuol dire che non giustifichi quest’ultima, soltanto sono mutati i tempi, per altro non molto lontani, in cui papi e cardinali vestivano l’armatura del guerriero e la toga del giudice d’istruzione.

Ci sarebbe da dire che il cattolicesimo, con la sua sostanza teorica oggettivante, è più adatto a giustificare la guerra, e quindi lo sfruttamento di cui la guerra è la proiezione più evidente, delle altre forme di cristianesimo. È nella parola dell’unto del Signore che si solidifica la realtà divina. Basta la parola del sacerdote, quale esso sia, anche l’ultimo dei criminali e il più indegno degli stupratori, purché insignito di quel carattere che è l’ordine sacro, perché si verifichi puntualmente il mistero della trasformazione di una misera mollica nel Dio, appunto, degli eserciti. Per la Chiesa romana in questo campo le chiacchiere, e anche le critiche filosoficamente fondate, sono inutili. Quello che conta è l’oggettività di una formula, l’oggettività vuol dire sostanza che si trasforma. Questo modello teorico di filosofia giustificante è impiegato anche in altri settori, a esempio in quello finanziario, settori che si reggono sulla validità diciamo scientifica della formula magica pronunciata da chi ha avuto, si badi bene, una volta per tutte, l’opportuna investitura. Ora, il pontefice romano ha avuto questa investitura, che nessuno gli può levare, nemmeno lui stesso, e da questa gli viene una diretta comunicazione con lo spirito santo, cosa che gli fa dire sempre, in materia di fede, la verità.

Resta da vedere, come molti miei critici farebbero, se pronunciarsi in merito al militarismo sia materia di fede. E si tratta di una obiezione infondata. Il militarismo è un problema che attiene all’uomo, alle sue cose, ai rapporti che vengono chiamati terreni, ma considerando come la fede sia esclusivamente una materia che attiene all’uomo, e non riguarda che indirettamente Dio o le categorie celesti a questo subordinate (si parla della fede in Dio, non della fede di Dio), se ne ricava la conclusione che tutto quello che riguarda l’uomo, e di cui parla e sparla il papa, è materia di fede, altrimenti che senso avrebbe ogni discussione che quest’ultimo fa in merito alla vita, all’aborto, al matrimonio, ecc.? I cristiani cattolici devono quindi considerare queste affermazioni come dettate dallo spirito santo, anche se non riguardano questioni specifiche o tecniche di teologia come quelle, molto esilaranti, dell’esistenza o meno del diavolo.

E allora, che dire del dissenso cristiano? Dove vanno a finire le grosse componenti del movimento pacifista che si richiamano alla parola cristiana? Francamente non riesco a capire come si possa venire fuori da questo dilemma: disubbidire al papa o alla propria coscienza? Forse le altre confessioni cristiane si prestano meglio, per una loro più alta soggettività, ad affrontare criticamente il problema del militarismo, non voglio metterlo in dubbio, ma resta il problema eterno del rispetto dell’autorità divina delegata su questa terra a uomini in carne e ossa, rispetto che neanche le razionaliste e soggettive religioni cristiane riformate osano discutere. Sarebbe interessante sapere in base a quale alchimia logica molti si aspettano da organismi e da uomini che si professano credenti cristiani, o peggio ancora cattolici, un reale impegno contro il militarismo.

In tutte queste tesi aleggia lo spirito conciliatore del compromesso, più o meno siglato dall’intelligenza o dalla semplice lontananza dagli intendimenti politici. C’è infatti un modo specifico di accostarsi alla gestione del potere anche da parte della Chiesa, ed è quello dell’intelligenza politica: l’antica mediazione esattamente per come si svolse nel corso della rivoluzione francese e anche dopo, quella di Talleyrand, ed è in fondo il modo più rispettabile perché più scoperto e, in tempi come questi in cui viviamo, il più corretto. Il trasformismo è patrimonio comune di tutti i politici e diventa arte quando si sposa con le sottigliezze del gesuita, fino all’estremo negozio. Qui il gusto del tradimento confina con l’abilità della professione, l’imbroglio con l’arguzia e la furberia con l’arte. Forse il destino futuro delle nazioni penalizzerà questa figura, e con essa l’intelligenza del singolo nelle brutture e negli imbrogli, una miriade di mezze maniche del tradimento, di attaccabrighe senza valore e senza stile si va diffondendo dappertutto. Costoro non sono degni di ricordo, anche se sono sempre degni d’attenzione se non altro per la loro pericolosità. Non so se ogni epoca si merita i suoi eroi e i suoi simboli, ma certamente si merita i suoi traditori.

Nel generale ridimensionamento di ogni idea di centra-lismo culturale e politico vengono a riprendere importanza, e quindi a subire nuove interpretazioni se non nuove valorizzazioni, idee e periodi storici che rifiutarono o videro ridurre le ipotesi e le realizzazioni di un potere centrale e divino. Ciò non deve essere visto soltanto nell’ottica di una scelta di argomenti o di settori analitici, e nemmeno come sottofondo comune di un più generalizzato rifiuto del dominio ideologico, ma deve anche essere visto in un più ampio venire a maturazione di approfondimenti e teorie, accadimenti e pratiche che almeno da un secolo a questa parte subivano sistematicamente una penalizzazione causata dal susseguirsi di ideologie dominanti improntate all’idealismo. Non che adesso si possa parlare di assenza delle ideologie, in quanto l’empirismo, il pragmatismo, la medesima teoria della fine delle ideologie, costituiscono tutti insieme un’ideologia ben piantata e sufficientemente dominante. Solo che la presenza di un controllo ridotto e quindi diretto a ripresentarsi attraverso altre strade e altri mezzi consente la penetrazione di idee e pratiche che prima venivano respinte fin dal primo momento.

Dobbiamo sempre tenere presente questo mutato clima in cui ci troviamo a lavorare, un clima che si sta generalizzando in questi ultimi anni Ottanta, mentre scrivo queste pagine. Adesso per la prima volta riesco a vedere la possibilità di portare a completamento questo lavoro, tante volte ripreso e tante volte abbandonato a se stesso e quindi lasciato se non alla critica roditrice dei topi, come accadde per ben altro volume, di certo alla critica altrettanto cattiva del passare delle mode e delle epoche. Ma la mia costante e obiettiva estraneità agli ambienti accademici ufficiali se da un canto mi ha penalizzato rendendomi più difficili gli accostamenti a certi strumenti di ricerca, da un altro punto di vista mi ha consentito di uscire quasi indenne da certe ottusità pecorili, le quali se appartengono alle responsabilità del singolo vengono comunque fuori da un certo ambiente e di quest’ultimo portano le stimmate.

Sappiamo oggi con chiara sicurezza che nel momento in cui si impianta definitivamente l’idea di progresso, quindi nel secolo dei lumi, il precedente patrimonio di pensiero scientifico e le sue correlazioni con la filosofia, fondati entrambi sul rapporto tra memoria e ragione e poi tra ragione e imma-ginazione, tesi che trova il suo fondamento nel lavoro di Francis Bacon ma si sviluppa attraverso le ricerche e le di-vulgazioni di Galileo Galilei, fino ai nuovi impianti scientifici cartesiani, vengono, nell’àmbito di questa nuova idea storicamente onnicomprensiva, ricondotti a un diverso rapporto in cui l’immaginazione finisce per diventare condizione intermedia tra la memoria e la ragione, la quale ultima risulta non soltanto lo scopo del progresso ma la sua molla interna.

La scienza diventa lo strumento per costruire il nuovo mondo, solo che questa costruzione rimane nella fase di ipotesi fin quando non si incontra con la rivoluzione vera e propria, dove quel pensiero agisce certamente da componente ma viene decomposto in una nuova prospettiva, diretta questa volta alla costruzione di un potere capace di utilizzare anche la scienza. Mentre il potere precedente era considerato, sia sotto l’aspetto della Chiesa che sotto l’aspetto della monarchia, di diritto divino, una sorta di ostacolo obiettivo da combattere e superare, adesso il nuovo potere, nato proprio nel corso della rivoluzione, mentre sta per ricostituirsi in vista del futuro regime napoleonico, si presenta in forma del tutto diversa. I giacobini rimproverano agli illuministi di avere indirettamente saldato il vecchio potere, malgrado la loro critica materialista, alla Chiesa e alla religione, e fanno ciò perché cominciano e rendersi conto di avere bisogno di una nuova organizzazione della scienza, con meno filosofia e più pratica. Non per nulla è questo il momento in cui oltre all’Istituto nascono in Francia la Scuola normale e il Politecnico, cioè i centri specializzati di ricerca scientifica e di insegnamento delle scienze applicate.

La ormai vicina autocrazia avrà bisogno di tutto ciò per costruire i ponti, le strade e i grandi eserciti indispensabili alle sue future conquiste, mentre dentro l’Istituto viene eliminata la classe di scienze morali e politiche capace di turbare i sogni che le altre sezioni costruivano e realizzavano.

Ancora una volta, per vie sempre diverse, si riconferma l’insostenibilità, quindi implicitamente anche la pericolosità, dell’idea di progresso. Ciò significa che non esiste nella realtà un meccanismo automatico che indirizza la storia degli uomini e lo spazio sociale verso qualità come la giustizia, la bontà, l’uguaglianza. Ciò non vuol dire che questi traguardi non siano raggiungibili, insieme alle altre tensioni, solo che lo sono singolarmente dagli individui, nell’àmbito dei flussi che li costituiscono e anche collettivamente in base al rapporto che passa tra questi flussi e la società, sempre considerando la possibilità di una perdita dei tentativi, cioè di un abbandono del coinvolgimento, con il ripresentarsi di situazioni di flusso ancora una volta orientato. Lo smarrimento della qualità non è solo un fatto di paura individuale, ma anche di paura collettiva.

Bisogna ribadire che non esiste un processo oggettivo verso l’uguaglianza sociale, qualcosa da potersi paragonare con quello che nell’Ottocento era il modello dei processi meccanici. Nel Capitale di Marx un’idea del genere esiste. Era nelle intenzioni del suo autore il paragone con il darwi-nismo, tanto che vi fu perfino la proposta di una dedica al teorico della selezione naturale, dedica da quest’ultimo rifiutata proprio perché non si sentiva in grado di valutare, con competenza di economista e di sociologo, la probabilità di una eventuale legge naturale avente carattere necessariamente migliorativo valida per la società. Oggi sappiamo con maggiore certezza che non esiste nella storia una legge migliorativa, qualcosa di simile a un meccanismo necessario, o semplicemente orientativo. In più, sotto un altro aspetto, sappiamo meglio del secolo scorso come funziona lo stesso meccanismo della natura che non è così semplicistico come se l’erano immaginato i deterministi sociali e i naturalisti seguaci del darwinismo.

Lo spostamento degli interessi in zone della riflessione sempre più lontane da questi meccanismi storicistici mutuati dal vecchio naturalismo e da altre concezioni filosofiche che abbiamo di già considerato, si è andato sempre più accentuando, trascinando con sé, come era e resta ovvio, modelli contrapposti a quello del progresso, che comunque presentano tutti i limiti che si riscontrano nelle contrapposizioni occasionali. Si è usata per esempio la fioritura di studi sul Medioevo, per altro databile almeno per quel che riguarda la Francia agli anni Sessanta, per suggerire, dapprima tra le righe e poi più apertamente, un modello storiografico chiuso, con una sua maggiore insistenza sulla riproduzione delle strutture, sui ritardi nelle trasformazioni sociali, sulle forme delle società tradizionali, sui meccanismi di riequilibrio dei perturbamenti economici, sulle condizioni di sviluppo della mentalità media, sui sistemi di controllo, ecc.

Ciò ha finito per causare una sorta di amore per una “mentalità circolare”, ma proprio nel senso della chiusura del mondo feudale, del ritmo di quelle condizioni di riproduzione, più che “circolare” nel senso delle relazioni e di un metodo interpretativo quale è quello che qui sto proponendo. Posso ipotizzare che questa sia una cattiva circolarità, cioè una rivalutazione dei valori di un mondo precedente a quello moderno, in effetti precedente al periodo umanistico, in nome di una critica tradizionalista di tutto quello che è accaduto dopo, visto alla luce delle tristi conclusioni verso cui ci avviamo in questa fine del millennio.

La caduta delle condizioni in cui era potuta sorgere una ipotesi storicista della realtà ha coinvolto, secondo me, anche l’ipotesi apparentemente antitetica che oggi potrebbe richiamarsi alle pretese oggettivistiche dell’empirismo, in pratica una ipotesi di grande modestia e di effetto sicuro. Sono difatti molti coloro che proprio davanti al fallimento di un metodo si rifugiano nel metodo inverso, come se le cose nella realtà fossero o bianche o nere. La stessa raccolta dei fatti oggi assume una nuova nozione di inquinamento, che ho ricondotto molti anni fa alla legge fisica dell’indeterminazione, approfondimenti svolti in epoche non sospette ma che oggi finiscono per avere una tale evidenza dilagante da diventare uno sforzo superfluo.

I fatti, almeno nel senso documentale che una lunga tradizione ci suggerisce, non esistono più, almeno non è più possibile raccoglierli e quando si possono raccogliere non è più possibile conservarli. L’accumulazione produce effetti riorganizzativi talmente veloci e pesanti da non potere più considerare come luogo della conservazione quanto ormai è diventato luogo della rielaborazione. Questo fenomeno rende soltanto verosimili i documenti raccolti, i reperti in ogni caso già modificati, le cosiddette notizie. La realtà è catalogata attraverso simulazioni, ma non più nel senso antico della codificazione, perché è ovvio che tra il fatto e la strumentazione che lo codifica c’è pur sempre una differenza, ma proprio nel senso che l’apparato di accumulazione non funziona più da ricettore ma diventa attivo, dilaga oltre il flusso che lo ospita e strappa ai movimenti della realtà ulteriori elementi di senso, obbligandoci a prendere partito davanti a questi comportamenti autonomi di un meccanismo che avremmo preferito continuare a considerare passivo. Non appena questo si verifica dobbiamo intervenire nel flusso dove sta agendo il meccanismo di accumulazione, in caso contrario smarriamo la qualità del nostro coinvolgimento.

Per spiegare meglio questo fenomeno molto importante che ci sollecita continuamente prendo l’esempio di una registrazione musicale su di un compact disc, certo si tratta di una registrazione fedele ma la grande perfezione tecnica ha trasformato negativamente il pezzo musicale in quanto lo ha pulito di tutte quelle scorie che fanno parte integrante della musica e sono le imperfezioni delle pause, le esitazioni degli strumentisti, le incertezze del direttore, i colpi di tosse degli spettatori, insomma tutto quello che normalmente fa parte di un’esecuzione musicale dal vivo. La musica è quest’ultimo insieme con i suoi immodificabili difetti, con il fascino dell’inatteso. Adesso invece un meccanismo ferocemente perfetto penetra nell’esecuzione e ne trae fuori una simulazione purificata e fin qui non ci sarebbe nulla di male se, attratti dalla perfezione, non si finisse per dimenticare che la realtà è tutt’altra cosa di quella registrazione simulata. Un esempio ancora più efficace è quello della ripresa televisiva in diretta. Qui, anche nel vivo dei fatti, nel corso di una manifestazione o di una rivoluzione, come sta accadendo in Romania nei giorni in cui scrivo queste pagine, entra come elemento di documentazione, ma anche di disturbo, lo strumento accumulativo, il quale non resta passivo perché produce effetti sull’avvenimento stesso, avvenimento che si modifica a causa della presenza del mezzo televisivo, nuovo punto di riferimento con cui dialogare, a cui fare vedere per essere visti, a cui fare un discorso per potere discorrere e spiegare. Nel momento dell’azione si inserisce una trasformazione negativa, una polarizzazione di flussi che in quel momento non dovrebbero essere divisi, ma che questa forma aggressiva di accumulazione divide e di cui non possiamo fare a meno di prendere nota.

L’unica strada per uscire da queste limitazioni strettamente storiciste o ampiamente empiriste è quella della logica del “tutto e subito”, cioè la considerazione della realtà come un insieme totale di relazioni che ci costituisce nel suo movimento e da cui cerchiamo di prescindere solo a causa delle nostre incapacità strumentali. Nell’àmbito del campo l’accettazione e la verifica di queste incapacità attraverso una critica negativa producono un’apertura in grado di spezzare il cerchio vizioso dell’accumulazione e aprirsi a una forma differente di circolarità la quale potrà ancora chiamarsi storia, sempre nella prospettiva del campo e dello spazio sociale, ma non appena ci si pone ai confini di queste delimitazioni surrettizie eccola tornare a essere semplicemente “la totalità del reale”.

Poiché queste operazioni sono realizzabili solo a partire dalla coscienza, la quale si trasforma in coscienza diversa, quindi abbandona la ristretta attitudine accumulativa della volontà, è stata ipotizzata l’impossibilità di rompere l’ipoteca soggettivistica, per cui qualcuno ha concluso che tutta la filosofia sarebbe una sorta di commento alle tesi platoniche. La preoccupazione non ha fondamento perché la totalità, da cui bisogna pur partire, comprende di certo il soggetto e il soggetto, essendo relazionale, comprende la totalità, quindi anche l’oggetto. Non c’è modo pertanto, partendo dalla totalità e lavorando su quello che pensiamo sia la coscienza, di considerarci lavoratori esclusivi del soggetto, e ciò perché stiamo, nello stesso tempo, lavorando sull’oggetto. Così la storia diventa la traccia circolare degli avvenimenti della totalità del reale per come sono vissuti nel coinvolgimento all’interno dei flussi che costituiscono l’individuo, la sua situazione, il campo, lo spazio sociale.

Questa traccia entra anch’essa a far parte della totalità del reale e ne vive i movimenti all’interno dei flussi. Io posso ipotizzare e anche realizzare una sua accumulazione all’interno di un meccanismo che cerca di fare assumere a quella vicenda una oggettività diciamo preponderante, ma si tratta di tentativi spesso fallimentari in quanto travolti dal medesimo meccanismo dei processi di riorganizzazione, oppure revocati in dubbio da me stesso nel mio coinvolgermi verso la tensione. In questo giro quella storia si legherà con altri tentativi, con altre proposte, con altre accumulazioni, entrerà in altri flussi, in modi sempre diversi, senza riuscire mai a trovare una collocazione definitiva, mortale, perché sempre vi si tornerà sopra, in un continuo movimento circolare in cui le caratteristiche dello spazio e del tempo entreranno e usciranno man mano che la traccia si avvicinerà ai problemi d’identificazione del campo o si allontanerà verso gli aspetti relazionali nella loro totalità. L’idea totale della storia riduce quest’ultima all’insieme relazionale delle effettualità che soggettivamente siamo in grado di realizzare. Ciò costituisce di certo una riduzione nei confronti della storia intesa storicisticamente e idealisticamente, ma costituisce un allargamento incredibile in quanto non stacca la storia dalla realtà nel suo insieme e non la cristallizza nell’oggetto storico, nella storia conchiusa dal libro o dal documento, ma la rinvia a una possibile nuova costituzione che corrisponde al continuo muoversi di quella storia, e non di un’altra, nella totalità delle relazioni. Solo che quella storia non è mai compiuta ma continuamente si muove e nel muoversi cresce e si dispiega sia nella semplicità della cosa, sia riducendosi a oggetto nel meccanismo dell’accumulazione, dividendosi e ricomponendosi nei flussi che di volta in volta si orientano e si unificano.

Solo ricacciandola a forza, estraniandosi in modo rigido, la si può imbavagliare nel contesto accumulativo, perdendo così non solo la possibilità di capire gli altri, di coinvolgersi in flussi sempre più diversi, ma perdendo anche la possibilità di capire se stessi. Solo in questo modo smarriamo la storia, smarriamo la nostra storia che non è diversa da quell’altra, non essendoci una Storia idealisticamente data ma solo la storia che è la nostra, quella della nostra vita, la storia che è la vita che viviamo e su cui riflettiamo sforzandoci di strappare al nascondimento dell’oggetto tutto quello che pensiamo possa essere portato verso la qualità della tensione. Ciò è valido per un semplice ricordo, per un gesto, un odore, un’immagine, un colore, come per sensazioni e sentimenti più complessi, un dolore, un progetto, un amore, un desiderio, un odio.

Quasi sicuramente non sappiamo mai cogliere il cominciamento della nostra storia e siccome la questione ci pare importante ci diamo un gran da fare, cadendo negli equivoci dei processi lineari. Ciò è ostinazione della volontà che lavorando solo all’interno della catalogazione pretende di mettere ordine in tutto quello che la tocca. Ma la realtà è di-versa, nessuna storia ha un inizio perché non ha mai una fine. Ricomincia sempre ed ogni fine è l’apertura per nuovi inizi. Tutte le volte l’intenzionalità ritrova la strada verso qualcosa che non si trova nell’accumulazione ma al capo opposto, cioè nella totalità del reale. Per cui l’inizio di ogni storia è al di là del campo, dove si sarebbe potuta collocare in quello che per noi è il passato. Essendo al di là del campo è anche al di là della divisione del tempo in passato e in futuro.

Comunque sia, quando cogliamo la storia nel campo, quindi nel suo dispiegarsi temporale, come quando la cogliamo come elemento relazionale della totalità, quindi fuori del campo, non cogliamo due cose diverse, ma la stessa cosa da due angolazioni diverse. Cogliendola nel campo, quindi temporalmente, non vuol dire che il tempo le appartenga, ma che questo è uno dei modi di cogliere la realtà all’interno del campo, non una delle forme dell’estrinsecarsi della realtà, cioè uno dei movimenti del reale. Siamo noi che dobbiamo sempre tornare alla totalità, anche interrompendo quei processi oggettivanti che invece cercano di proporci l’evidenza immediata come il segreto della realtà. Nella critica allo storicismo bisogna capire che è proprio qui l’elemento più importante, la pretesa di ridurre a oggetto un processo relazionale che ha caratteristiche diverse, non possiede una logica interna giustificante, come potrebbe essere l’intima razionalità del progresso, non possiede le tante illusioni del naturalismo.

La storia è quindi sempre coinvolgimento, cioè oltrepassamento dell’oggetto, della nostra stessa vita ridotta a oggetto. Per capire la vita, anche la nostra vita, la dobbiamo continuamente ricostruire, cioè rimetterla in gioco, non possiamo considerarla di già tesaurizzata, nel bene come nel male. Essa non è mai ricordo, anche se sempre prende la forma del ricordo perché è l’aspetto più agevole all’interno del campo, al contrario è sempre ripresentazione, quindi ritorno continuo e diverso, movimento relazionale che propone diverse combinazioni. E ciò non vale solo con la mia vita ma con la vita degli altri, con le relazioni degli altri, con i flussi dove gli altri si costituiscono, e le loro storie sono anche la mia, sia pure in minima parte, per cui mi ci trovo dentro, non in questa o in quella storia, recente o molto lontana, ma nella storia universale, in quella storia della totalità del reale che non sarebbe possibile senza di me e che è continuamente ripensata perché continuamente effettuata, nella sua complessità, da quel cominciamento che costituisce l’elemento di più radicale affievolimento riscontrabile nella realtà.

L’uomo si specifica nello spazio sociale ed è anche qui che la storia si specifica, affievolendosi man mano che da questo spazio si allontana diventando sempre meno rintracciabile e traducibile in specificazione interpretativa, in materia del secondo livello dell’effettualità diventando movimento della realtà allo stesso modo degli altri movimenti relazionali. Così la conoscenza che finora abbiamo approfondito, la vicenda della coscienza nell’àmbito dell’accumulazione e nell’àmbito ricognitivo, l’apertura e tutto quello che viene dopo, l’avventura nella qualità, sono la mia storia, ma non solo la mia, sono la storia di tutti, sempre diversa e sempre uguale. Riflessa nella coscienza e principalmente nella capacità d’inquietudine della coscienza, la storia ritrova il proprio statuto vitale, allontanandosi definitivamente dalle pretese oggettivanti dello storicismo.

A differenza della conoscenza la storia è una presenza che io devo rintracciare, in questa ci può essere una sedimentazione maggiore che in quella, per quanto si tratta sempre di nuove forme relazionali alle quali va incontro. Esistono nella totalità del reale movimenti che posso conoscere ricostruendoli, mai alla stessa maniera, e movimenti che non riesco a ricostruire se non abbandonando ogni idea di ricostruzione per quanto sfumata possa essere. Ci sono movimenti che voglio diventino, per me, novità, e ci sono movimenti che voglio diventino ripetizione, per quanto nella realtà non possano esistere mai novità, né ripetizioni. Se il bisogno di questa ripresentazione, cioè della ricerca storica, per me è esclusivamente strumentale mi muoverò nel modo classico dell’accumulazione producendo ritrovamenti che considero automatici, perfino naturali, di questi ritrovamenti me ne gioverò in un secondo momento specie nel livello interpretativo. Se invece anche la ripresentazione che voglio realizzare si sta indirizzando sempre di più verso la conoscenza, cioè se mi trovo di già nell’effettualità trasformativa, allora produrrò un’altra forma di storia, spesso assolutamente non riproponibile nell’àmbito delle categorie tradizionali.

Anche il sedimentato, pur sempre in movimento, può riuscire a diventare elemento creativo, può racchiudere in sé la mia vita, se improvvisamente lo faccio diventare presente, attuale, libero, capace di trasmettermi tutte le infinite in-tersecazioni relazionali di cui è pur sempre portatore con il suo continuo movimento. Ciò accade con lo strumento che elaboro nel mio laboratorio, il quale proprio per assolvere alla sua funzione deve per forza essere accumulativo, ripetitivo. È la sorte della tecnica e della logica che la fonda, quella dell’ “a poco a poco”, la sorte di qualcosa che non può uscire dal cerchio cattivo senza spezzarsi e diventare inutilizzabile. È proprio questo fare lo strumento che mi mette in condizione di mettere a fuoco la mia inquietudine, perché nel fare precedente c’è un fare che non è soltanto mio ma comprende il senso dei flussi accumulati da tutti gli altri, che diventa elemento presente nella mia inquietudine, sollecitazione alla riflessione e condizione di apertura.

È lo strano destino del mio essere oggetto che devo potere sollecitare fino in fondo, nell’oscurità del meccanismo accumulativo, se voglio realmente produrre quegli elementi di risveglio che sono indispensabili alla mia presa di coscienza di essere soggetto capace di decidere. Nello sviluppo circolare di questa intenzionalità, che si scopre ora oggetto e ora soggetto, ma che è sempre ambedue le cose, in quanto è distribuita in due versanti, si racchiude per intero la mia vita, con la sua creatività catturata dalle condizioni di accumulazione e, per quanto riguarda la storia, dalle condizioni del campo, in primo luogo dello stesso linguaggio che mi impedisce ogni eventuale sottrazione ai limiti del campo o comunque me la rende difficoltosa. Parallelamente al fare coatto c’è quindi un subire coatto, un accettare senza reagire, un adeguarsi alla conoscenza finendo per cogliere questo adeguamento come uso e incidenza intellettiva, quando è in fondo il suo contrario.

Più mi adeguo a vivere un’esistenza artefatta, costruita in laboratorio, lontana da ogni differenza, più mi convinco che la mia vita è proprio il mio corpo che si muove, mangia, respira, fa l’amore e pensa, tutto in modo codificato, tutto sulla base della moda del momento, sensazioni e desideri, parole e pensieri si sono adeguati alla sedimentazione dominante. Con ciò sono diventato corpo morto, oggetto in grado di essere manipolato come tanti altri oggetti, comprato e venduto, catalogato, previsto, governato. Il coinvolgimento è, prima di ogni cosa, lotta per il recupero della propria preminente soggettività, coscienza che si fa diversa per riuscire a diventare quella che essenzialmente è in quanto, continuando a restare nell’immediatezza dell’accumulazione, questo suo essere finisce per smarrirsi sempre di più nell’oggetto con una intenzionalità circoscritta alle necessarie volizioni della volontà.

La storia la scopro in me come costruzione relazionale che rintraccio nella mia coscienza, riducendola spesso a un aspetto meno ricco e addirittura puntuale. I movimenti relazionali che costituiscono la mia storia sono tutti presenti, sebbene in continua modificazione, rintracciabili ora e qui, tutti e subito, secondo una logica della totalità che non intende separarli e condizionarli nell’àmbito di una sequenza storicizzata, anche se per far ciò deve vincere la resistenza causaleggiante specifica del campo. Il passato si presentifica a me perché è la mia presenza di adesso, non perché lo riporto alla memoria, quest’ultima operazione è uno dei mille percorsi possibili dell’attività relazionale della coscienza, sia immediata che diversa, ma non è ricordo di qualcosa che è lontano nel tempo e che è di già accaduto, anche se dovessi ripetere più volte l’operazione non è mai una serie di operazioni, ma sempre la mia operazione che è sempre nuova e attuale, sempre diversa e che sempre riassume in sé tutte le operazioni possibili senza essere in grado di indicarle con esattezza nella totalità delle relazioni possibili, fatta eccezione per la particolare visione del campo.

Ecco perché il cominciamento della volontà non è vero e proprio cominciamento, in quanto manca di quella radicalità che costruisce il nuovo a partire da una effettiva trasformazione. Nell’àmbito dell’accumulazione invece la volontà costruisce storie temporali che risultano fittiziamente allocate in un inizio e una fine del tutto relativi. La continuità circolare della coscienza viene così spezzata artificiosamente in una storia che può anche avere le sue utilità, in quanto strumento, ma non può giocare il ruolo dell’originarietà. La storicità si rivela come la grande illusione di cui la coscienza immediata è continuamente preda, la vera fonte dell’inquietudine, e anche di tutte le idee di conquista e di realizzazione che assillano la volontà di controllo obbligandola a rendiconti continui con il fare.

La realtà, quindi anche l’uomo, non è storia, non ha bisogno della storia, in quanto è sempre qua, è sempre in corso, con le sue innumerevoli modificazioni le quali sono anch’esse tutte qua. Ricostruire queste modificazioni è privo di senso, oltre che impossibile, conoscerle è un altro discorso, effettuarle, nei diversi modi, anche questo è un altro discorso, e sono proprio questi aspetti, del tutto diversi, che scambiamo per storia, facendo una grande confusione tra storia e realtà, tra storia e azione. Il presente non implica il passato, ma è il passato, la qual cosa non significa che il presente sia nella storia, ma solo che la realtà non può essere storicizzata in parti se non come visione del tutto strumentale, come avviene nel campo ed esclusivamente per gli scopi specifici del campo.

Mi sembra che l’ultima parola sulla storia, con tutte le illusioni di vario genere che essa suggerisce, si possa dire nel modo più semplice: o essa è nulla, o è la realtà, e questa ultima eventualità mi pare la più accettabile. Però, essendo la realtà, non è altro che il movimento delle relazioni e va quindi spiegata nei modi e seguendo i processi che di questo movimento sono caratteristici, senza sovrapporre sviluppi idealisti assolutamente inesistenti e diretti soltanto a supportare specifici obiettivi di controllo e di dominio.

La triste conclusione dello storicismo è che con esso si è perduta la concretezza del soggetto, la sua capacità di farsi strada nel mondo. Alla fine esso, intrappolato nella rete del progressivismo filosofico, si è rivelato semplice affermazione speculativa, mentre la realtà è fatta di relazioni che danno vita a movimenti concreti che sono sempre, nello stesso tempo, capaci di produrre individui muniti di doppio versante, soggettivo e oggettivo, per quanto diversamente proporzionato. L’indagine di questa realtà, nel suo insieme totale, non potrà mai prendere l’aspetto di un fatto oggettivato, ma come un insieme relazionale dove siamo inseriti noi stessi, mentre nel caso di una prevalenza dell’accumulazione, e quindi nel caso di una temporanea vittoria della parzialità, saremmo noi stessi a trovarci inseriti in un processo di oggettivizzazione.

Possiamo vedere e costruire un’angolazione particolare, il nostro campo, e da questa angolazione produrre pratiche e teoriche capaci di dare vita a persistenti e resistenti strutture, ma con ciò non possiamo mettere definitivamente a tacere i processi che la nostra coscienza inquieta genera nella vasta rete di flussi che la circonda e nei cui confronti essa è, di volta in volta, ora centro e ora periferia. Noi siamo questa realtà concreta, non l’ipotesi astratta elaborata dall’idealismo o quella altrettanto astratta elaborata dal materialismo positivista o dal realismo naturalista.

Carcere di Bergamo, giugno 1989

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

A tutti gli “ospiti” del Sistema

I. Al margine del problema
Nell’iniziare queste riflessioni mi sono più volte chiesto se fosse veramente giunto, per me, il tempo dell’impegno umano e politico. Ho dovuto concludere il mio esame di coscienza in senso positivo.

Un uomo non può a lungo interessarsi delle faccende astratte della logica o di quelle concrete ma lontane della storia, senza sentire il bisogno di spingere lo sguardo fuori dalla finestra. Un rifiuto davanti a una necessità così improrogabile, finirebbe per tradurre ogni sforzo di riflessione e ogni ricerca nel vano armeggiare dello scarno monaco medievale foscamente tratteggiato dalla storiografia romantica.

Quindi un impegno. Restavano da vedere i limiti di questo impegno e, più ancora, i modi della sua concreta messa in opera.

Un primo limite venne subito a delinearsi quando dovetti decidere sull’impronta generale da dare alla ricerca. Ma la decisione fu più semplice di quanto credessi. Il mio lavoro non doveva essere un’opera di dottrina, ma un colloquio aperto e chiaro, da uomo a uomo, fuori delle solite involuzioni accademiche fatte per confondere le idee e per distruggere l’iniziativa. Da qui l’aspetto pratico di quello che sarà il mio dire, quasi un manuale d’azione umana e politica.

Comprendo benissimo che molti non condivideranno le idee di questo libro, però anche costoro non potranno disconoscere che nell’individuazione dei pericoli, se non dei rimedi, non dovrebbero esserci contrasti e dissensi.

L’organizzazione politica e civile dello stato moderno minaccia di distruggere definitivamente il senso positivo del valore umano, inteso nei termini essenziali di intima rivoluzione personale, di continua vigilanza per evitare cedimenti, di rifiuto dell’imborghesimento, di rifiuto dei dogmatismi e delle verità assolute, di ridimensionamento dei valori economici.

L’arma più efficiente posta in azione è quella dell’integrazione progressiva.

Si tratta della linea politica che è possibile vedere oggi nel mondo in molte espressioni che vanno dal collettivismo alla libera concorrenza, ma che non fanno differenza alcuna per quanto riguarda la cura che mettono nel mantenere in efficienza il meccanismo dell’integrazione, con il quale eliminano progressivamente ogni istanza di rivolta. Per quanto riguarda la denuncia di questo meccanismo non si sarà mai detto abbastanza. Le masse, che cadono con tutta facilità sotto i colpi subdoli della pubblicità e della propaganda politica, devono essere avvertite da coloro che hanno ancora la possibilità di farlo non essendo stati del tutto integrati. Costoro sono quegli uomini che hanno rifiutato l’allettante promessa di una collocazione definitiva nel “sistema”, che vivono – e non sarebbe possibile altrimenti – la vita nel sistema da veri e propri ospiti, sotto l’apparente uniformità dei pensieri e delle azioni. Su costoro grava il compito di illuminare le masse e di indirizzare le ribollenti forze giovanili verso la strada della rivoluzione.

Dappertutto è vigile il lungo braccio del conservatorismo.

Gli stessi strumenti tradizionali della rivoluzione operaia, i sindacati, si sono imborghesiti, facendo muovere alla cieca masse immense di lavoratori che non sanno come e perché quei movimenti si traducono immancabilmente in qualche briciola.

Come può l’uomo contemporaneo, strumento e semplice ingranaggio, ripercorrere la strada verso la responsabilità e verso l’incidenza politica? La risposta verrà data in questo libro e, purtroppo, non sarà una risposta piacevole per nessuno. Spiacerà a quelli che tengono in mano le redini del carro, spiacerà a coloro che lo debbono trainare; ai primi perché metterà in luce la strada per rompere quelle redini tanto comode e fruttifere, ai secondi perché li porrà davanti ai propri impegni di uomini e non di bestie da soma.

I modi concreti di attuazione dell’impegno si possono riassumere nella rivoluzione permanente. L’intero svolgersi della storia dell’umanità può considerarsi come il dipanarsi di un’unica vicenda rivoluzionaria. Il resto, tutto ciò che possiamo riassumere sotto l’aspetto del conservatorismo, è stato sempre una remora contro la quale le forze sovvertitrici hanno dovuto lottare.

Non voglio, a questo punto, iniziare una lunga dissertazione sui momenti storici di questa lotta, anche perché scopo del presente libro è di colpire direttamente il centro di quello che io considero la piaga più grave e purulenta del nostro caotico presente: la dottrina della non-violenza.

Questa lotta si è presentata sempre come eresia, cioè come violenza contro l’ordine istituzionalmente costituito. Il concetto di eresia è importante per spiegare le relazioni che intercorrono tra tolleranza e intolleranza da un lato e violenza dall’altro. Ambedue queste posizioni di prassi politica, sebbene tanto lontane tra loro, sono vicinissime per quanto riguarda il rigetto della violenza e la pratica che propagandano della dottrina della non-violenza. Salvo poi, ambedue, a fare l’uso migliore della violenza costituita, ovviamente dal loro specioso punto di vista. Il paese che si fonda sul principio di tolleranza remorerà qualsiasi iniziativa contraria al proprio sistema finché questa non cadrà nel ben circoscritto limite antilegale, in quel preciso momento entrerà in atto la violenza costituita (polizia, organizzazioni giudiziarie, ecc.). Il paese che si fonda sulla intolleranza si preoccuperà di prevenire – sempre sotto la forma istituzionale – questo ricorso alla propria tecnica della violenza costituita, per mezzo di una serie di provvedimenti, e ciò perché sa in anticipo che la propria dottrina non ammette quel rimando, quella remora, che nella dottrina della tolleranza rendeva il processo di repressione apparentemente meno pesante.

Ma le forze sovvertitrici, le forze vive che non intendono asservirsi alle mire miopi del sistema, ripresentano sempre le loro istanze, la loro ricerca della verità. È ovvio che questa ricerca venga definita dal sistema come eresia, e come tale condannata con un più o meno immediato ricorso alla violenza.

Queste pagine si possono considerare un’esortazione al combattimento e alla rivolta. Tutto ciò che presenta le caratteristiche dell’integrazione istituzionale deve cadere sotto i vostri colpi. E i più decisi debbono essere diretti contro le fondamentali creazioni del principio della non-violenza: il dialogo e l’integrazione.

Quello che queste pagine non possono in ogni caso significare è un’esortazione alla lotta dispersiva, intesa come momento d’una reazione dettata dal risentimento personale. Vista sotto questo aspetto la nostra idea diventa una ben misera cosa: il disperato tentativo di un forzato di rompere le catene, gli ultimi sussulti di un condannato a morte che cerca di spezzare le cinghie che lo legano alla sedia elettrica. Esortazione al combattimento e alla rivolta significa, prima di ogni altra cosa, un’azione decisa e senza remore contro se stessi, contro tutto quello che dentro di noi ricorda e rappresenta il sistema.

Dopo il momento personale, la rivoluzione può diventare generale, intendendosi in questo modo, semplicemente, come somma o conseguenza necessaria dei singoli momenti personali.

II. La rivoluzione permanente personale
L’inizio della rivoluzione permanente è da collocarsi nella singola persona, nell’àmbito, sia pure limitatissimo, di interessi e moventi privati.

In questo modo l’idea astratta di rivolta viene a tradursi in termini concreti, utilizzabili via via su piani differenti e sempre più ampi, fino a raggiungere la massima ampiezza possibile consentita dalla concreta sfera politica.

Il primo ostacolo da superare è quello dell’abbattimento del tradizionale compartimento stagno posto tra coscienza privata e coscienza pubblica. Come se fosse possibile che una persona abitudinariamente portata ai compromessi, se non all’avidità e al furto, nella sfera privata, possa agire diversamente una volta trasferitasi nella sfera delle pubbliche responsabilità.

D’altro canto è indiscutibile che finché il richiamo dell’azione pubblica verrà esercitato solo dall’orgoglio di una smisurata megalomania, oppure dalle possibili occasioni di tornaconto personale, i difetti della sfera privata verranno trasferiti in pieno in quella pubblica. Non solo, ma possiamo affermare, al lume della più elementare logica, che tanto più forti saranno i primi tanto più pressante sarà il richiamo di quelle agognate possibilità di illecito guadagno.

Siamo quindi di fronte a una caratteristica unità di coscienza, per cui l’instaurazione di un abito di rivoluzione permanente personale, può collocarsi nella sfera privata, ma avrà immediata ripercussione in quella pubblica.

Vediamo, adesso, di fissare gli ostacoli contro i quali si deve immediatamente dirigere l’azione disintegratrice della rivoluzione permanente personale.

1) Ignoranza delle varie teorie politiche

Un primo ordine di ostacoli è fornito dalla ignoranza della vera realtà delle teorie politiche. Non si tratta qui di una mera questione dottrinale, che avremmo sorvolato in armonia con lo scopo pratico di questo libro, ma si tratta di una essenziale componente concreta di ogni coscienza impegnata politicamente e civilmente.

Lo studio delle teorie politiche contemporanee deve avvenire utilizzando fonti diverse e tra loro contrastanti, giungendo a un’opinione quanto più obiettiva possibile, senza però fare intervenire elementi estranei al giudizio puramente politico e teorico.

Gli elementi estranei, che di solito si inseriscono in questi casi, e che poi finiscono per distorcere definitivamente le conclusioni facendo scadere la loro possibile obiettività, sono di carattere sentimentale: religione, spirito di bandiera, ricordi di tempi trascorsi, paragoni tra periodi storici che non possono essere in alcun modo paragonati, ecc.

2) La necessità di scegliere una soluzione politica

Davanti a questo ostacolo ogni spirito rivoluzionario sembra perdere la propria forza. Dopo tutto, sento dire da più parti, anche la rivoluzione è un modo di interpretare la realtà politica e quindi di scegliere una soluzione. Ma qui siamo davanti a una grave tautologia.

La rivoluzione permanente è uno stato di sospensione del giudizio, un’attesa critica e vigile, una preparazione continua, è tutto questo e, nello stesso tempo, qualche cosa di più; è lotta, combattimento, violenza organizzata, è rottura della tradizione, distruzione di tutto quello che manifesta i segni della senile concupiscenza, ed è anche organizzazione di uomini e cose, di mezzi e scopi, di energie e programmi.

Scegliere l’abito mentale della rivoluzione permanente non significa abbracciare una qualsiasi teoria politica, per motivi che il più delle volte sono inconfessabili oppure banalmente sentimentali. Significa incidere inizialmente in senso critico sulla realtà politica contingente, preparare la rivolta definitiva contro l’assorbimento e il dialogo, rifiutare ogni teorica della non-violenza come contraria alla vera essenza dell’uomo, organizzare la vita politica come insieme di singoli costantemente rivolti al mantenimento d’una retta coscienza privata e pubblica.

3) Difficoltà di permanere in una situazione di rivolta

Questo ostacolo deve essere superato con una profonda riflessione intorno alla natura dello spirito umano.

Indiscussamente l’uomo tende all’accomodamento, seguendo in ciò molte delle più note manifestazioni naturali che si risolvono prima o poi in un assestamento o in un livellamento. Ma l’uomo ha qualche cosa in più delle forze brute della natura, l’uomo ha la propria volontà e la propria possibilità di scelta. È proprio nell’uso di queste sue qualità che possiamo costruire una scala del valore umano, scendendo via via, dagli uomini particolarmente dotati, a quelli che possono facilmente essere convinti e trascinati.

Possiamo logicamente credere possibile una costante situazione di rivolta in tutti gli uomini? Certamente no. Sarebbe un’utopia fuori del tempo e delle cose. Dobbiamo però pretenderla in quegli uomini che, a ragione o a torto, si credono capaci di recitare la difficile parte di uomini pubblici. Se costoro non sanno o non possono per loro interessi personali, sostenere la rivolta costante contro tutti gli ostacoli che veniamo enunciando, ben difficilmente si potrà pensare di allargare la cerchia delle persone impegnate civilmente e politicamente nel miglioramento delle condizioni della moderna società integrata.

Davanti alla necessità che l’uomo pubblico si mantenga in una situazione di rivolta permanente, sorge spontanea la deduzione che questa rivolta assumerà in breve un valore dimostrativo, l’indicazione di una strada da seguire, per coloro che pur non essendo in grado di recitare un ruolo pubblico, avvertono lo stesso l’urgenza del momento politico. Però questi ultimi saranno sempre uomini educati al principio rivoluzionario, per cui potranno, impiegando il loro spirito di penetrazione critica, valutare la posizione degli uomini che recitano la propria parte nella scena politica, non giudicando in base a moventi personali o sentimentali, non lasciandosi avvincere da questa o quella personalità, ma semplicemente in base alla posposizione degli interessi personali a quelli collettivi. Uomo pubblico, pertanto, sarà colui che avendo posto da canto gli interessi immediati della propria persona e della propria cerchia di sostegno, cercherà di attuare quelli più ampi della collettività.

Ed eccoci nuovamente al punto di partenza di questo penoso lavoro di scavo. Come è possibile, a coloro che sono vissuti di compromessi, diventare intransigenti di colpo? Si può senz’altro vestire Verre con gli abiti smessi di Bruto, ma l’osservatore critico, l’osservatore allenato alla tecnica della rivoluzione permanente personale, farà poca fatica a scoprire il colpevole di peculato e concussione anche sotto la candida veste del senatore.

L’uomo di studio, l’uomo di legge, l’insegnante, l’operaio, l’impiegato, tutti campioni di stati specifici della vita civile, sono immersi fino al collo in una società che concede stentatamente onori e prebende, salvo che in base al rapporto del compenso. Da qui l’uomo di studio si trasforma in occasionalista, cioè non più in ricercatore indipendente ma assoldato da questa o da quella casa editrice o ente pubblico, per redigere uno studio su di un argomento prefissato e con prefissate conclusioni. Il poveruomo si mette al lavoro, in capo a pochi mesi ha messo da parte qualche milione che gli consentirà di guardare sotto un’altra luce il futuro. C’è poi il caso che l’uomo di studio senta odore di carriera universitaria, allora s’informa ben bene sulle procedure da seguire e si mette subito al lavoro per pubblicare uno, due volumetti, su di un determinato argomento che viene consigliato dall’amico professore più avanti nell’ardua scalata alla poltrona.

Tutti questi uomini di studio sono brave persone che non farebbero male a una mosca, ma sono, purtroppo, persone abituate al compromesso, fin dall’inizio della loro carriera, fin dai banchi di scuola o dalle grame soddisfazioni dell’assistentato. È mai possibile che questa scuola di compromesso non dia i suoi frutti al momento dell’inserimento nella carriera politica? Non vi potrebbe essere sicurezza più grande.

Che cosa dire dell’uomo di legge? dell’insegnante? dell’operaio? dell’impiegato? Diventerebbe necessario ripetere il discorso già fatto, utilizzando temi diversi, il più delle volte basati sull’eterna dea: la raccomandazione.

Cercare di correggere il male della nostra realtà politica è pura utopia, bisogna giungere concretamente alle origini di questo male, proclamando la necessità di una costante vigilanza personale. Ciascuno deve potersi considerare la sentinella di se stesso, contro tutti i cedimenti e le false glorie.

4) L’istituzionalizzazione degli strumenti di rivolta

Questo è un ostacolo nascosto e quindi molto più temibile degli altri. In genere è costituito da tutto quello che viene considerato dalle classi oppresse ultimo baluardo da difendere a qualsiasi costo contro gli oppressori.

La cosa veramente curiosa è che questi strumenti di difesa, creduti di proprietà degli oppressi, sono invece manovrati con intelligenza e rara maestria proprio dalla classe dirigente.

Intendiamo riferirci alla rappresentanza parlamentare, al meccanismo legislativo, allo stesso strumento tradizionalmente costituito dalle classi più deboli: il sindacato.

Sono strumenti che hanno perduto il loro effettivo potere di incidenza a favore delle classi più arretrate, proprio perché sono stati assorbiti dall’organismo che racchiude in sé la forza immensa della classe dirigente: lo Stato. Infatti è stata proprio la classe dirigente che ha voluto istituzionalizzare questi strumenti, con lo scopo di renderli inattaccabili… a se stessa.

Ma in concreto: con la trasformazione della rappresentanza popolare in elezione dei membri delle camere in base a un meccanismo di propaganda che falsa irrimediabilmente l’effettiva consistenza dell’espressione politica popolare, con la trasformazione di una legislazione semplice e lineare – comunque vicina a quella essenzialità che, sia pure imprecisamente, veniva definita naturale – in una farraginosa e caotica predisposizione di trappole legali, con la trasformazione di uno strumento di rivolta (sciopero) in un diritto riconosciuto dalla legge, con tutte queste modifiche attuate attraverso il lento processo di integrazione, le forze vive e brutali sono state immeschinite in trafile burocratiche e in stentate manifestazioni di platonico dissenso.

5) Il principio della non-violenza

Siamo davanti a un’idea di chiara origine religiosa che, lentamente, è riuscita a infiltrarsi nel campo dell’organizzazione civile delle cose umane.

La politica di progressiva evirazione delle forze anticlericali condotta dalla religione, ha trovato il suo punto forte proprio nella dottrina della non-violenza. Da qui una curiosa mistificazione della posizione riguardante l’uso delle armi. L’idea religiosa non pretende un’abolizione della struttura militare, sia perché espressione del potere sia perché valido baluardo di difesa contro eventuali pretese delle forze anticlericali. Da canto loro queste ultime, almeno nella espressione anarchica, combattono il militarismo come espressione del potere statale, ma giustificano e invocano la violenza come espressione incontaminata dello spirito umano. Un grave contrasto fatto apposta per confondere le idee.

Da parte nostra bisogna notare come la risposta armata sia una forma di violenza, sotto un certo aspetto interessante e utilizzabile agli scopi rivoluzionari, ma solo nel caso che possa venire svincolata dalla caparra politica. Allo stato in cui si trova oggi nel mondo essa è spesso l’espressione più concreta dell’oppressione e l’ostacolo più grave allo sviluppo della violenza organizzata dei gruppi rivoluzionari.

Il principio della non-violenza è un ostacolo difficile a superarsi perché punta le proprie carte sulla debolezza umana e sul desiderio dell’accomodamento. Vediamo l’esempio americano nel comportamento dei neri, divisi tra la strada della non-violenza predicata da King e quella del “potere nero”, della violenza organizzata. Evidentemente se vogliono giungere a qualche cosa di concreto questi uomini devono agire con decisione e forza, costituirsi in organizzazioni valide e temute, controbattere punto per punto le angherie e i soprusi, produrre uomini nuovi e preparati.

Con il sistema di voltare l’altra guancia questi poveri neri faranno, come hanno fatto in passato, il giuoco della classe che li opprime e li odia.

Altrove le cose stanno forse diversamente, ma lo stesso non è possibile adottare il sistema della non-violenza. Con le discussioni, le arrendevolezze, gli accontentamenti, i piccoli bocconcini dati alla massa e i grandi bocconi inghiottiti sotto forma di buste e prebende dai rappresentanti delle classi più misere, non si ottiene niente.

L’azione vale di più di centinaia di anni di discussioni e riflessioni. Ancora una volta non ho dubbi sull’affermazione che la filosofia vale solo in quanto mezzo di preparazione alla lotta e alla visione pratica della vita, altrimenti resta semplice esercitazione accademica degna del pacifico giardino di Epicuro.

6) Il dialogo

Questo è il mezzo dell’integrazione. Ostacolo duro e difficilmente eliminabile. Duro perché affascina le persone anche le più provvedute, illudendole sulla possibilità di convincere l’altra parte, quella che tiene in mano il potere e governa le sorti del regime.

Ma questi poveri illusi non si accorgono che all’attuazione del loro programma si contrappone una piccola realtà: la malafede della controparte.

Contro questa malafede non ci sono mezzi dialogici ma solo il ripiegare sull’azione concreta della rivoluzione.

A questo punto è doveroso illustrare la necessità della malafede in coloro che detengono il potere. Infatti se non ci fermassimo su questo punto potremmo fare la figura di coloro che rifiutano il dialogo perché non vogliono esaminare le posizioni altrui e preferiscono stare chiusi nel proprio guscio, a gustare il sogno delle future distruzioni.

Poiché questa non è la nostra idea, veniamo alla chiarificazione promessa. Chi detiene il potere deve necessariamente provvedere, prima di ogni altra cosa, alla difesa dell’organizzazione che rappresenta e che lo giustifica come detentore di quella forma concreta di autorità. Questo principio può considerarsi vero in forma assoluta, salvo che non intervengano situazioni patologiche comunque non ammissibili in sede preventiva. Qualsiasi organizzazione ha come scopo principale quello della propria sopravvivenza, tutti gli altri fini sono secondari. Ecco perché tutto ciò che potrebbe ledere la sopravvivenza del potere viene eliminato, smussato, assorbito. In questo sta la malafede del dialogo, in quanto la necessità della sopravvivenza del potere si pone come limite insormontabile all’ampiezza e alla stessa possibilità dell’incontro dialogico.

Coloro che continuano a illudersi che con le parole, le riunioni, le conferenze, le aperture a sinistra o a destra, le laicizzazioni o le socializzazioni ecclesiastiche, si possa ottenere qualche cosa di veramente concreto e definitivo in favore degli umili e degli oppressi, si illudono in buonafede o acconsentono in malafede.

7) L’integrazione

Eccoci alla fase conclusiva dell’azione della classe dominante. Il ruolo che una volta veniva giocato dalla repressione, dalla persecuzione e dalla violenza, oggi, in armonia con le melliflue teorie della non-violenza, viene giuocato dalla tecnica dell’integrazione.

Gli spunti di rivolta, le istanze anche più modeste dovute non a sommosse popolari ma a giuste pretese avanzate con la tecnica istituzionale del sindacato, tutto ciò insomma che viene a turbare i sogni della classe dirigente, non è direttamente rifiutato. Infatti un rifiuto netto e immediato finirebbe per fare il gioco della parte avversa, spingendo di più alla lotta e alla resistenza, oppure, nel migliore dei casi, spingendo i rappresentanti sindacali a cercare altre proposte da sottoporre all’autorizzazione di chi tiene il potere. Invece la tecnica dell’integrazione consente di portare quanto più a lungo possibile le trattative, con tutta una serie di incontri, dialoghi, raffinate elucubrazioni para-metafisiche, fino al momento del parziale acconsentimento alla richiesta, acconsentimento che intende integrare gli spunti di rivolta per un periodo di tempo quanto più lungo possibile.

Un vero monumento di tecnica dell’integrazione sono i contratti nazionali di categoria che vengono, per l’appunto, stipulati per un tempo non inferiore a un anno o due.

Qui si conclude la trafila degli ostacoli che deve superare l’atteggiamento di rivoluzione permanente personale.

Come si vede si tratta di ostacoli che senza soluzione di continuità passano dalla sfera privata a quella pubblica, investendo l’uomo nella sua assoluta completezza.

III. Il ruolo della religione
Non posso evitare di affrontare il problema dell’ingerenza del fenomeno religioso nella vita politica, in quanto determinante ai fini della possibilità di dar vita a una situazione di rivoluzione permanente.

La religione presenta stimoli e necessità che, a prima vista, si risolvono in una sfera del tutto staccata dalle manifestazioni concrete delle attività umane. Il regno dello spirito dovrebbe avere confini molto ampi ma, in ogni caso, del tutto inconciliabili con quelli delle faccende terrene.

Eppure la religione si rifiuta con tutte le sue forze di restare tagliata fuori dall’agone politico, perché sa benissimo che così facendo resterebbe tagliata fuori dall’uomo nella sua integrità, cioè dall’uomo quale esponente di una società e quindi quale animale politico. E in questo suo rifiuto scende a patti con l’originale fine metafisico, sviluppando una serie di curiose giustificazioni che la portano a inserirsi, con tutto il peso delle proprie idee, nel vivo di problemi dibattuti in altra sede.

L’oppresso e l’oppressore hanno motivi diversi per sentirsi attratti verso quello che la religione può offrire loro. Il primo l’illusione di un conforto che lo aiuti a superare la difficoltà di certi momenti di scoramento e di abbandono; il secondo l’alibi pietoso per tante malefatte che ricevono, in questo modo, il crisma superficiale della rettitudine.

Il nostro discorso non potendo andare al secondo, verso cui sarebbe meglio indirizzare altri mezzi di convincimento ben più persuasivi, vuole invece andare al primo, perché impari a sollevare la testa al di là di tutte le oscure minacce e di tutte le vaghe promesse dell’ampio processo religioso di distorta raffigurazione della realtà.

La rivoluzione permanente personale non può prescindere dalla preventiva risoluzione del problema dei rapporti con la religione. Una convivenza non è possibile. Occorre un radicale mutamento. Il rivoluzionario deve essere libero da qualsiasi remora religiosa, onde potere affrontare il problema politico nella sua effettiva realtà. Per questo egli deve essere essenzialmente ateo, non nel significato tradizionalmente involuto del positivismo, circoscritto alle pretese prove scientifiche, ma nel senso moderno di un ateismo libero da teologismi e da teismi vari.

Questa posizione atea riguarda strettamente la rivoluzione permanente personale, notevole presupposto per lo svolgimento del compito rivoluzionario, ma non sufficiente in senso generale.

Il rivoluzionario deve poter recitare la sua parte pubblica, liberamente e con convinzione. Per fare questo deve agire non più astraendosi dall’idea religiosa ma considerandola nella realtà concreta del suo manifestarsi nell’agone politico. Ecco che dalla iniziale sospensione o, se si vuole, astrazione, si giunge a una presa di contatto che deve tradursi al più presto in una ferma decisione: il fenomeno religioso, nelle sue manifestazioni concrete di dominio trovanti origini da interessi terreni, deve considerarsi un regime politico sotto tutti gli aspetti e, come tale, deve sottoporsi all’azione rivoluzionaria.

Una iniziale valutazione negativa dei postulati teorici (in questo caso equivalente alla posizione atea), una vigile critica, un’abolizione dei sentimentalismi e delle false virtù, sono presupposti per un’attuazione del precedente programma.

Una campagna rivoluzionaria del genere può attuarsi e non rischia di cadere nell’utopia, per due motivi. Il primo è dato dal fatto che essa deve essere preceduta da un’educazione all’ateismo. Il secondo che la religione può essere affrontata solo nel suo concretizzarsi in realtà sociale, non potendosi pensare una eliminazione della riserva metafisica che fonda e giustifica il presupposto religioso. D’altro canto la storia ci insegna che ogni tentativo di distruggere con la violenza un’idea è sempre fallito, mentre sono giunti a compimento quei tentativi che attuano una distruzione sistematica della concretizzazione sociale di un’idea.

Venendo a mancare come espressione concreta, però, essa finirà per estinguersi lentamente, atrofizzandosi in pura esercitazione metafisica.

Non si deve dimenticare che una presa di posizione decisa contro l’aspetto sociale della religione, contro le sue istituzioni nel mondo, contro la sua gerarchia, contro il suo predominio, non può operarsi disgiuntamente da una lotta rivoluzionaria. Anche volendo prescindere dall’esaminare l’aspetto concreto di quest’azione, aspetto che almeno per il momento ci interessa meno, esiste il fatto che tra regime e religione si opera una compenetrazione indiscutibilmente forte. Molti canoni tipicamente religiosi sono accettati e fatti propri dal regime, sia perché facenti comodo a fini demagogici, sia perché trovati di larga diffusione popolare. Basta pensare alle lunghe discussioni cui sta dando origine, in Italia, il problema del divorzio che invece di essere affrontato dal punto di vista sociale e legislativo, non si riesce a evitare una contemporanea considerazione dal punto di vista religioso. Un altro esempio potremmo averlo, sempre in Italia, dall’attuale situazione del concetto artefatto di morale pubblica. Lo Stato, dietro le sollecitazioni degli interessi della classe dirigente, coinvolta tra l’altro anche nell’industria dell’eccitazione collettiva, è andato, via via, consentendo larghe aperture al concetto primitivo di pudore, fino ad arrivare all’odierna ridicola situazione che vediamo su tutti i giornali e in tutti i cinematografi.

Quindi non sarebbe pensabile un’azione contro il regime che non sia contemporanea a un’azione contro la religione.

A questo si deve aggiungere che agendo separatamente contro le istituzioni temporali della religione si finirebbe per ledere determinate leggi che è necessario, per tutta la durata dell’azione rivoluzionaria, porre in sospensione.

L’azione che oggi svolgono le ultime propaggini del gigantesco meccanismo religioso, dovrà essere sostituita in futuro, dopo l’avvento della rivoluzione e l’instaurazione di un regolare processo di nuova organizzazione sociale, dall’azione promossa dall’ateismo, dove i giovani potranno imparare a risolvere nell’àmbito delle faccende terrene tutti i loro problemi di ordine spirituale. L’unico pericolo di questo nuovo assetto delle cose potrebbe essere che le dottrine atee insegnate si tramutino, in breve, in un vero e proprio surrogato delle precedenti dottrine religiose, con tutto il seguito di oscurantismi e superstizioni. Comunque quest’ultimo pericolo, che presenta tutte le caratteristiche del cedimento, potrà evitarsi rifacendosi ai metodi e ai sistemi che più avanti esporremo quando parleremo del periodico ritorno ai princìpi.

IV. La teoria della violenza
Abbiamo visto come uno degli ostacoli più terribili che la rivoluzione permanente personale deve superare è dato dalla teoria della non-violenza. Originata dall’idea cristiana della sofferenza come riscatto, questa teoria è ormai sorpassata dai tempi, risultando accettabile solo da popoli tagliati fuori da ogni sviluppo tecnologico e abbrutiti dalla miseria e dalla fame.

Oggi, anche nei paesi meno sviluppati, un minimo di efficienza tecnica è in atto, le comunicazioni sono sempre relativamente facili, le notizie fanno presto a raggiungere un capo e l’altro del mondo. Tutto ciò concorre ad aprire gli occhi alla gente, a trarla fuori dalla medievale figurazione del povero costretto a pascersi solo di sogni celesti e di future gioie. Tutto ciò ha il suo peso nello spingere le classi più arretrate a chiedere sempre più forte i diritti che sono stati sottratti e le ricchezze che vengono sperperate in nome d’una smodata fame di dominio.

L’esempio concreto di questo fenomeno l’abbiamo dall’America che piange, ora, a calde lacrime la morte di King, ma già, fin dal 1964, anno della premiazione di questo leader della non-violenza con il Nobel della pace, aveva cominciato ad abbandonarlo per ingrossare le fila del “potere nero”. Evidentemente qui ci riferiamo ai neri d’America, a questa nuova grande forza che sta apprendendo giorno dopo giorno che “la verità va trovata sulla canna di un fucile”, per citare le note parole di un rappresentante del black power: Stokeley Carmichael.

Possiamo dirci certi che le classi meno ricche sono disponibili per la lotta. Bisogna programmare questa lotta, darle una fisionomia, e darle soprattutto una teoria logicamente inespugnabile. Questo non può più essere compito delle classi che adesso avvertono soltanto un vago senso di insoddisfazione, ma deve essere compito di coloro che dovranno domani guidarli sulle piazze, nella rivoluzione, alla conquista definitiva del potere, alla riorganizzazione del futuro.

Il più delle volte questo senso di insoddisfazione dipende da una imperfetta integrazione. Donde le richieste che vengono avanzate tramite gli organi istituzionali della rivolta operaia, sono sempre quelle di qualche miglioramento nella remunerazione prevista nei contratti di lavoro. Nessuna richiesta assume l’ampia traiettoria di una riforma generale. Né, d’altro canto, si potrebbe immaginare qualcosa del genere. Le classi più povere non possono aspirare a una riforma della società e tanto meno chiederla in sede sindacale, questo compito resta assegnato alla “intellighentia”, che deve non solo progettarla in fase teorica, ma fornire gli schemi concreti alle masse per l’azione pratica.

È naturale che questo lavoro non può avvenire all’interno del sistema istituzionale. Qualsiasi organo previsto dallo Stato per la manifestazione dell’opinione pubblica deve essere dichiarato sospetto. Il principio della rivoluzione generale non può affermarsi attraverso i canali normali della comunicazione, ma imporsi attraverso il proselitismo personale derivante dalla comunità d’intenti che viene fuori dalla nuova situazione di rivoluzione permanente personale. Anche la stessa stampa, che in molti casi presenta particolari garanzie di indipendenza dal potere integrante, deve essere dichiarata sospetta, salvo che non si tratti di organi assolutamente indipendenti da finanziamenti o protezioni statali o di partito. Anche in quest’ultimo caso, come potrebbe essere appunto quello dei giornali stampati a spese della stessa comunità rivoluzionaria, le comunicazioni che potranno contenere non dovranno superare il momento della rivoluzione permanente personale, mentre assolutamente niente deve essere inserito di quello che concerne i programmi concreti della rivoluzione generale, programmi aventi un contenuto strategico. In questo modo i giornali rivoluzionari potranno preparare al duro compito del mantenimento dello stato costante di rivoluzione permanente personale, ma gli aspetti concreti della conclusione rivoluzionaria finale dovranno essere lasciati segreti, al fine di renderli noti solo al momento opportuno.

La violenza è, come abbiamo avuto occasione di dire, la disposizione naturale dell’uomo. Ma si tratta di una violenza bruta senza scopo, che l’uomo impara ben presto a coartare e nascondere, fino a illudersi di non averla più, di essere diventato uno strano essere metafisico, pronto a voltare l’altra guancia davanti allo schiaffo. È naturale che questo genere di autoconvincimento può giungere fino al punto estremo che in buonafede l’uomo ci creda veramente e in realtà volti l’altra guancia dopo avere ricevuto il ceffone, preparandosi in cuor suo al peggio e sperando solo di trovare un posto libero in Paradiso. Ma tutto ciò non può essere spacciato per naturale quando si fonda palesemente su di un artificio e su di una suggestione. La realtà naturale è la violenza e l’uomo deve sapere riprendere contatto con la violenza, educandosi, nello stesso tempo, a saperla dirigere al momento opportuno contro gli oggetti che si interpongono tra lui e la costituzione di una nuova forma sociale, fondata essenzialmente sull’uguaglianza e l’ordine.

Una teoria della violenza è stata costruita in passato sull’analogia biologica ed evoluzionistica, oggi non credo sia possibile mantenere questa tesi specie dopo le tante avventure occorse alla biologia negli ultimi cinquant’anni.

Sostituendo un’impostazione positivista della teoria della violenza con un’impostazione umanistico-indeterminista, forse è possibile arrivare a concrete conclusioni.

È indiscussa la necessità di scardinare l’attuale complesso di cose, questo sistema che minaccia il nostro futuro e che prepara con diuturna dedizione la nostra rovina. La rottura causerà, con ogni probabilità, un primo momento di grande disordine e caos, durante il quale la violenza si scatenerà nella forma bruta e difficilmente controllabile. A questo punto agirà la fase di organizzazione programmata prima, che ricostruirà la società sulla nuova misura dell’uomo e dei valori delle cose. Abbiamo quindi una riduzione a forme di convivenza che, viste attraverso la lente deformante dell’attuale impostazione societaria, possono sembrare assurde o retrograde, ma che si avvicinano di più all’intendimento umanistico del valore umano.

Se a tutto ciò viene aggiunta la fase centrale, già vista in sede di rivoluzione permanente personale, otteniamo un accostamento della concezione umanistica con l’attitudine al controllo e alla critica, cioè alla concezione indeterminista intesa nella sua vera essenza di rifiuto a ogni assolutismo positivista.

Quel complesso statico di forme organizzate, inteso come punto terminale di uno sviluppo avente origine dalla rivoluzione e culminante nel paradiso terreno degli umili e degli oppressi, derivante sia da una concezione metafisico-idealista della vita come pure da una interpretazione positivistica della scienza, deve potersi sostituire con una organizzazione flessibile, sottoposta periodicamente a una riduzione ai princìpi, in modo da evitare qualsiasi forma di imborghesimento. È l’assolutismo che deve essere negato, sia nell’aspetto teorico di un idealismo monistico mistificante la realtà, come in quello pratico che risente dell’influsso deleterio del sistema diretto sempre all’accomodamento. La riorganizzazione della nuova società deve potersi fare sulla base apparentemente poco solida del costante spirito di controllo e di critica, in quanto solo così si potranno evitare gli spunti tendenti a ricostruire precedenti forme autoritarie di organizzazione.

È facile, a questo punto, capire il ruolo che gioca la violenza in tutto questo. Infatti la critica e il controllo continuo, anche dopo la rottura iniziale, non potranno affidarsi all’accomodamento e al compromesso.

V. Uomo pubblico e uomo privato
L’uomo nasce come singola individualità poco propensa alla comunicazione con gli altri uomini. I tentativi che compie in questo senso, fin dalla più tenera età, sono tutti determinati da moventi di carattere personale, come la sopravvivenza.

Crescendo apprende però la possibilità di una vita sociale, finendo per convincersi della innaturalità del vivere solitario.

All’alienazione completa del valore della solitudine concorre l’organizzazione della vita moderna, basata sul processo tecnologico. Ma la solitudine ha un suo valore, tanto da potersi affermare che l’uomo che non riesce a vivere, anche per un tempo molto limitato, in solitudine con se stesso, non è un uomo degno di questo nome. Molti dei mali della tecnica moderna, molte delle sopraffazioni che essa rende possibile, sarebbero eliminati con un adeguato culto del valore della solitudine.

Siamo davanti a un fenomeno che trova le proprie origini in uno col nascere delle forme di vita tecnologica. Anche le espressioni più immediate e naturali di questa nostra epoca, come potrebbero essere quelle legate allo sport, sono sempre riprodotte nel campo più ampio della manifestazione collettiva. Il giuoco del calcio, come quelle versioni meno diffuse nel nostro paese che rispondono al nome di pallacanestro, di rugby, di baseball, sono sempre giuochi collettivi. È sempre l’uomo di oggi che non riesce a trovare neppure nello svago la possibilità della solitudine che una volta, con grande sollievo, veniva cercata nella pesca e nella caccia. Anche i cosiddetti sport individuali oggi sono trasformati in gigantesche manifestazioni collettive.

Questa diminuzione del senso del proprio valore, si traduce in un cercare continuo il plauso e l’approvazione degli altri, come continua riprova di un valore che non trovandolo da soli in noi stessi, desideriamo che altri, almeno, fingano di trovare. Siamo qui davanti a una delle spinte più forti che dell’uomo privato fanno l’uomo pubblico. La piazza, la folla, la platea, il corteggio assordante dei facinorosi, il facile successo degli applaudenti prezzolati, possono stuzzicare la latente megalomania di tante persone, ma sono quasi sempre la conferma di un valore perduto e che si crede ritrovato.

Eccoci, ancora una volta, davanti a una possibilità di ripercussione di alcune manchevolezze di origine intima, nell’arco ben più ampio dell’azione pubblica. Ovviamente il motivo è sempre quello dell’integrità dell’uomo, che non può assumere aspetti o maschere diverse, una per la vita privata e l’altra per la pubblica.

Finiti i giorni ruggenti della propaganda, davanti al modesto risultato di un posto in seno a uno degli organismi che oggi amaramente palliano la rappresentanza popolare, il nostro uomo si ritrova un’altra volta solo con se stesso, ulteriormente necessitato a risolvere l’eterno problema della solitudine. Anche in seno a quell’assemblea dove è stato chiamato a partecipare attivamente, egli si accorge di non essere altro che la semplice ruota di un ingranaggio ben più grande di lui, e come ruota deve fare impeccabilmente il proprio dovere, per non essere immediatamente sostituita dall’attento controllore del meccanismo. Ecco quindi che la vita scarsa di ricchezza spirituale che prima conduceva si ripresenta, questa volta, sotto l’aspetto pubblico, con la strana alternativa della scelta davanti alla solitudine.

Risolvere il problema della solitudine, significa riorganizzare se stessi, rieducandosi al clima vigile e severo della rivoluzione permanente. Solo in questo modo i valori costituiti nell’àmbito della sfera privata potranno, di continuo, essere profusi nella sfera pubblica.

Ma questo ritrovamento del valore della solitudine non deve essere visto attraverso il tentativo di ridare nuova linfa alla costituzione di un processo di deificazione dell’uomo. In questo senso il valore della solitudine si riduce in semplice mito, venendosi a confondere col culto della personalità.

Morto Dio sembrerebbe necessario riproporre qualche cosa che possa surrogarlo sul piano del valore assoluto. In effetti tante (forse troppe) impostazioni atee ammettono questa necessità non riuscendo a nascondere il loro vasto fondamento teistico. Morto Dio non è affatto necessario sostituirvi l’uomo. La dimensione di quest’ultimo non è necessariamente proiettata verso l’infinito, potendosi ridurre a un rapporto con gli altri uomini nell’arco di una relazione tra termini del tutto di uguale valore.

Ovviamente qui diventa necessario rivedere alcuni canoni tradizionali dell’etica, giustamente definita il campo minato della storia. Infatti quante non sono state le esplosioni dovute a princìpi etici mal risposti o, peggio, male interpretati. I tradizionali significati di virtù, di equità, di verità, ecc., devono essere modificati in funzione di un sostituirsi della misura indefinita con la misura finita, però non nel senso di porre quest’ultima al posto della prima, come ultimo termine di paragone, ma nel senso di sostituire al paragone la relazione tra termini di uguale forza: gli uomini.

Il ritrovamento del valore della solitudine diventa quindi la riscoperta della pienezza di un termine della relazione umana, liberato finalmente dal suo presupposto teleologico.

VI. La rivoluzione generale
Eccoci giunti alla conclusione del nostro discorso sulla necessità, per l’uomo consapevolmente indirizzato alla rivoluzione permanente personale, di operare e vivere in vista della rivoluzione generale.

Quello che era preparazione teorica e pratica diviene adesso azione concreta.

Il primo serio problema che si pone è quello del contenuto etico della distruzione. In qual senso, e dentro quali limiti, possiamo ammettere la necessità morale della distruzione?

La risposta non è poi tanto difficile. Non certo nel senso in cui è stata posta dagli anarchici russi dell’Ottocento, in quanto mancano oggi i presupposti etici (errati se si vuole, ma solo per difetto di prospettiva) che allora fecero giungere a quelle conclusioni.

La distruzione deve avvenire nel senso “antisocialmente utile”.

Vediamo di chiarire questa affermazione. Operare dal di fuori su di uno schema, fare in modo che l’impalcatura burocratica e organizzativa finisca per cedere, significa “distruggere” più profondamente che vagheggiare catastrofi o calamità assolute e irrealizzabili. L’azione in questo caso deve essere “antisociale”, cioè contro la società nella forma che si vuole colpire, allo scopo di riuscire “utile” alla forma di società che si vuole costituire dopo.

Abbiamo quindi da un lato il riconoscimento della distruzione come azione coordinata diretta a uno scopo preciso, dall’altro l’ammissione della necessità di limiti.

L’individuazione di questi ultimi non è sempre facile.

Di regola potrebbero individuarsi fissando a priori quali sono i programmi costituenti che verranno posti in atto dopo l’attuazione del momento rivoluzionario. In altri termini, il buon senso consiglierebbe di ridurre l’azione distruttiva nei limiti oltre i quali sarebbe dannosa alle future necessità sociali. Ma alla base di questo ragionamento sta un grave errore di principio. La rivoluzione è un momento storico che deve tenersi separato dal successivo momento costituente, pertanto deve avere dentro di sé gli elementi necessari alla stabilizzazione dei limiti e non cercarli altrove, in un momento successivo.

Sarebbe come dire che la distruzione non può avere a propria misura che se stessa, diventando banale tautologia ogni limitazione della distruzione rivoluzionaria con i canoni della necessaria ricostruzione posteriore.

Ma distruzione per la distruzione non significa necessariamente gratuito disimpegno di ogni programma e di ogni dirittura morale, anzi determina un richiamo perentorio a dettare i termini essenziali di nuovi limiti, questa volta commisurati all’uomo come centro di relazione tra uomini e non come possibile meta trascendente.

In questo senso la distruzione diventa consapevolezza programmata, anche se limitata nell’àmbito dei pochi che rendono possibile l’attuazione teorica del piano rivoluzionario, in quanto i più, coloro che traducono in concretezza la teoria, debbono essere soltanto guidati e prevenuti negli eccessi gratuiti e senza significato.

Quello che deve cadere è tutto ciò che rappresenta la concretizzazione del regime contro cui si dirige il movimento rivoluzionario. Ogni organizzazione che prende a proprio fondamento un’autorità ricevuta per delega dallo Stato. Ogni organismo collaterale allo Stato che ripete i temi del dogmatismo assolutista. Ogni concezione, sia pure astratta, che ripete e giustifica la tecnica del dominio dell’uomo sull’uomo.

A tutto ciò, almeno finché dura il momento rivoluzionario, non deve sostituirsi alcunché. La distruzione deve prendere semplicemente il posto della realtà precedente. Finché dura l’azione distruttrice la morale della distruzione è la distruzione stessa. Ogni programma entra in azione solo nel momento costituente.

Non è nostra intenzione, almeno in questa sede, entrare in particolari, sia riguardo la programmatica rivoluzionaria, sia riguardo la minuziosa analisi degli elementi dello stato di cose precedente che deve essere investito e distrutto.

Si tratta di un lavoro che riguarda l’aspetto organizzativo della rivoluzione e deve essere svolto in sedi più adeguate e in fondo più produttive.

Qui vogliamo proporre una guerra ai luoghi comuni e agli infiacchimenti del pensiero libero. E uno dei più duri a morire è il luogo comune che costituisce la “paura della violenza e della distruzione”. Fondato sulla morale borghese questo tenace luogo comune vuole interpretare il valore della distruzione col metro della costruzione sociale, in altri termini cerca di rendere ancora più oscuro il significato della distruzione (significato negativo) paragonandolo al significato della costruzione (significato positivo). Ma in questo modo non si è provato niente. La distruzione ha una propria misura che non può ritrovarsi una volta posta accanto al corrente senso positivo della costruzione, si finisce per considerare come antitetiche due posizioni dell’azione umana che sono, ambedue, positive.

I valori che trovano determinazione attraverso la morale borghese dell’accomodamento e del compromesso, non possono essere visti attraverso la lente deformante del principio di distruzione. Ma ciò non vuol dire che al di là non esistano altri valori, su cui in ogni caso torneremo a discutere in altra sede, più significativi per l’uomo, valori che possono essere determinati solo attraverso lo stretto passaggio della violenza e della distruzione.

Sulla base della risoluzione del problema morale nella rivoluzione si può incominciare e parlare di una organizzazione dei gruppi rivoluzionari. Per quanto possa sembrare strano, l’atto materiale di giungere alla localizzazione di uomini che si dispongano a un progressivo abbandono personale del modo di vita precedente (rivoluzione personale permanente) e che si programmino un momento culminante di rivoluzione generale, deve essere preceduto da un chiarimento etico, e le presenti pagine costituiscono un contributo a questa avvertita necessità.

L’etica nuova deve essere quella della distruzione, stabilita nei termini del valore che transitoriamente deve collocarsi nel momento distruttivo, senza alcun riferimento a possibili valori futuri (valori costituenti), o a possibili valori passati (valori da distruggere).

Nel riconoscimento di questa nuova etica è possibile la fattiva collaborazione di più gruppi, anche ideologicamente divisi.

L’ammissione di questo postulato è molto importante in quanto la rivoluzione generale, anche se espressione di una ristretta cerchia di persone, è sempre intellettualmente un fenomeno complesso e risultante dalla fusione di opinioni e programmi diversi.

Una divisione incolmabile in sede programmatica (costituente) può essere superata in sede preventiva (rivoluzionaria), salvo che non ci si possa mettere d’accordo sul fondamento etico della distruzione. Superato questo punto iniziale tutto viene dopo, cioè ogni riemersione delle originarie partizioni avviene dopo l’attuazione della rivoluzione.

Per la causa fondamentale della rivoluzione deve essere non solo tollerata ma anche auspicata la coabitazione di gruppi aventi programmi tra loro perfino contrari. Non per un residuo di malinteso principio dialogico, ma per una necessità pratica di arrivare alla distruzione rivoluzionaria.

Da canto loro questi singoli gruppi elaboreranno separatamente il programma organizzativo futuro, ognuno secondo la propria dottrina e secondo le proprie forze intellettuali. Dopo il momento rivoluzionario, in sede costituente, ciascun gruppo farà valere il proprio punto di vista, sviluppando un’azione concreta che lo porterà alla conquista del potere e alla definitiva sistemazione dello stesso. Gli altri gruppi non potranno che rimproverare la propria inettitudine se non riusciranno a prevalere.

Eccoci quindi alla necessità di una specie di “coda rivoluzionaria”, un riflesso della prima distruzione, attraverso la quale i princìpi etici precedenti erano stati spazzati via e sostituiti dall’etica stessa della distruzione. La “coda rivoluzionaria” potrà risolversi anche in sede costituente, senza la necessità di ricorrere a un ulteriore intervento violento e collettivo, sempre che i gruppi che hanno partecipato alla rivoluzione si siano uniti tra loro con una preventiva e sincera preparazione alla rivoluzione permanente personale.

Nel caso questa risoluzione in sede costituente non fosse possibile, la “coda rivoluzionaria” si deve considerare come un male necessario e accettarsi come logica conseguenza del grave compito iniziale di estirpare la barbarie dalla società moderna.

Riassumendo possiamo considerare fondamentali per l’attuazione della rivoluzione generale: la collaborazione di gruppi ideologicamente anche contrastanti e la volontà di andare fino in fondo al calice amaro della distruzione.

VII. La tecnica della rivoluzione
Abbiamo già detto come non sia questa la sede più adatta per dettare norme concrete di intervento rivoluzionario sui diversi tipi di organizzazione sociale. Ciò non toglie che sia lo stesso obbligatorio dare qualche cenno su ciò che costituisce la tecnica della rivoluzione, in particolare la tecnica relativa al comportamento di coloro che abbracciano la causa rivoluzionaria.

Gli ostacoli all’attuazione della rivoluzione permanente personale sono i punti di riferimento iniziali, contro cui deve dirigersi la forza critica di ciascun rivoluzionario, ma non sono ancora l’oggetto immediato della rivoluzione generale. Quest’ultimo è, come abbiamo già detto, un’azione contro le strutture istituzionali, condotta in senso antisocialmente utile.

Al momento di inserirsi nell’arco magico della rivoluzione generale, il rivoluzionario personale deve potersi giovare di una tecnica di vita tipicamente rivoluzionaria.

Qui interviene ancora una volta la misura etica. Come nella distruzione la misura etica è data dalla stessa distruzione, e questo in senso oggettivo, nel rivoluzionario distruttore la misura etica è data dall’integrità assoluta del suo rapporto personale con la distruzione, e questo in senso soggettivo.

Mentre nel primo caso la distruzione per la distruzione fondava eticamente il concetto, tradizionalmente avulso dall’etica, di distruzione, nel secondo caso la distruzione rende possibile il fondamento del comportamento etico del rivoluzionario.

Tutto questo deve tenersi costantemente presente se non si vuole far precipitare nel caos e nel gratuito l’impalcatura rivoluzionaria. La tecnica della rivoluzione non può separarsi dal concetto etico di distruzione. Infatti, nel momento distruttivo, venendo meno i precedenti valori tradizionali, si impongono soltanto valori di ordine personale che non è più possibile commisurare, come per il passato, agli statici parametri dell’arrivismo, del desiderio, della costruttibilità, dell’antagonismo, della competizione.

Il rivoluzionario deve potersi appellare continuamente al momento distruttivo, utilizzando la sua preparazione personale dimenticando di colpo tutto ciò che lo legava a situazioni precedenti interpretabili solo attraverso una rigenerazione dei valori che sono stati superati.

Che cosa dobbiamo intendere per “tecnica di vita tipicamente rivoluzionaria”? Soltanto un disporsi contro le cose che caratterizzano il concetto istituzionale preesistente? Oppure un cercare di distruggerle pensando a come successivamente si possa provvedere alla ricostruzione di qualche altra forma societaria?

Qui viene a cadere il punto di estrema delicatezza che distingue il vero rivoluzionario dal riformatore casuale o dal burocrate in vena di revisioni. Il rivoluzionario deve vivere nella rivoluzione e per la rivoluzione, cioè il suo impulso vitale deve soltanto tradursi nella distruzione, commisurando il proprio comportamento all’eticità dello stesso principio distruttivo. Cercare di distruggere tenendo presente il modo con cui da quelle distruzioni potrà sorgere un nuovo futuro, significa fare piombare la distruzione nel suo tradizionale significato negativo, esponendo tutta la condotta rivoluzionaria al rimprovero etico.

Questa è la risposta più importante che possiamo dare alla domanda precedente. Una “metodologia di vita tipicamente rivoluzionaria” non deve prospettarsi niente per il futuro. Il suo futuro deve essere il suo presente: la distruzione.

È ancora il principio fondamentale della netta separazione pratica tra il momento rivoluzionario e quello costituente, che qui regola il nostro problema.

I teorici della rivoluzione francese pervennero alla giustificazione del delitto, necessitati dall’errore di principio che portò il loro più lucido rappresentante Saint-Just a formulare un’etica della rivolta fondata sui princìpi pretesi eterni della sostituzione dell’uomo a Dio. Tutto ciò è puerile. Un solo delitto, anche con la maggiore buonafede del mondo, finirebbe per squalificare tutta una rivoluzione, non è possibile affermare, come a suo tempo ebbe a fare Marat, che bisogna tagliare poche teste per salvarne un gran numero. La rivoluzione deve essere a tutti i costi salvata dal pernicioso contatto con una etica del costruito come pure con un’etica del costruibile.

La distruzione deve avere il compito di rendere possibile una completa riformulazione di tutti i piani, su basi che non presentano ombra di sospetto, rese neutre da ogni principio precedente. Quest’opera presenta molti punti di contatto con i frequenti movimenti di assestamento della superficie terrestre, i quali causano molte vittime e distruggono del tutto grandi città e forse anche grandi continenti, ma sussistono. La loro giustificazione non è teleologica. I terremoti si giustificano da soli col solo fatto che esistono. Un altro punto di analogia possiamo trovarlo nel compito del chirurgo chiamato ad asportare con l’abile punta del suo strumento la parte malata di un corpo umano. Apparentemente la giustificazione etica all’azione del chirurgo si trova nel fatto che egli tende a riportare lo stato di salute in un corpo attaccato da un male non altrimenti curabile che con un’operazione. Anzi quest’opinione è tanto diffusa da aversi anche un’etica professionale in merito che spinge il medico a non intervenire che nei soli casi in cui si hanno buone probabilità di giungere a risultati positivi. Da qui tutto l’apparato di ricerca e di sperimentazione che la medicina appronta sotto l’egida strana e contraddittoria della salute dell’uomo. Ma la medicina è una scienza e come tale non può avere un’etica a prestito, ne deve avere un propria, ed è quella della ricerca scientifica. Tornando al nostro caso solo apparentemente la giustificazione dell’intervento del chirurgo è data dal fatto che bisogna tentare di salvare il malato, la vera giustificazione è data dal fatto che bisogna distruggere la parte infetta. Caso mai il fatto che il medico deve tentare tutti i mezzi per salvare il malato è una questione che riguarda l’etica del costruibile e non quella della distruzione. Infatti, nel disporsi a intervenire il medico non pensa poi tanto alla salute del malato quanto invece si preoccupa di prendere tutte le precauzioni necessarie perché l’opera di distruzione che intende compiere venga fatta quanto meglio possibile, ogni altra preoccupazione finirebbe per risultare fuori posto e dannosa.

VIII. La disintegrazione dell’intellighentia
Il termine disintegrazione viene usato qui nel senso di rottura del continuo processo di integrazione cui viene sottoposto l’uomo contemporaneo.

Il rifiuto di questo assorbimento non può assumere che la veste concreta e generale della rivoluzione. Ogni forma anomala di resistenza all’integrazione finisce, prima o poi, per denunciare una crepa e attraverso questa crepa, un raccordo con il sistema integrante.

Tra i gruppi costituiti oggi dalla “intellighentia” esistono gruppi di disintegrazionisti, come pretenderebbero chiamarsi. Sono per lo più giovani studenti che assumono posizioni di critica all’apparato sociale, concretizzandole in un rifiuto più o meno totale dell’uniformità esterna: vestiti, modo di comportarsi, pulizia, ecc. Da questo si arriva, in alcuni casi, a un rifiuto più avanzato: eliminazione di fatto di alcuni vincoli sociali come il rapporto familiare, la residenza, il lavoro, il colore politico.

Eppure tutti questi gruppi hanno una crepa: devono fare ricorso al sistema per consentire la stretta sopravvivenza.

Infatti, anche se limitati al necessario, i bisogni del mangiare, del coprirsi e del dormire sono da soddisfare, e in una società integrata questi bisogni si possono soddisfare solo acconsentendo alla integrazione, cioè inserendosi nel meccanismo circolatorio della moneta. Come sappiamo questo meccanismo non ammette sbocchi ma si presenta come un tutto unico: da un lato l’individuo integrato deve procurarsi la moneta prestando ciò di cui dispone, lavoro o capitale, dall’altro erogando la moneta ricevuta può ottenere ciò di cui ha bisogno. Il fatto che alcuni di questi gruppi si procurino la moneta con una forma elegante di accattonaggio limitato allo stretto necessario per sopravvivere, non significa che in questo modo non mettano in atto un’attività lavorativa, consistente appunto nel sollecitare il contributo, facendo in modo che lo strumento tipico della società integrata, cioè la moneta, giunga fino a loro.

Malgrado questa considerazione negativa dell’odierno fenomeno della gioventù che tenta, senza riuscirci completamente, una forma di disintegrazione, non possiamo pronunciarci per un bilancio propriamente negativo. Se non altro costoro hanno il vantaggio indiscutibile di “fare” qualche cosa sulla strada del rifiuto e della rivolta, anche se non sono in grado di porsi sulla strada della rivoluzione. Si tratta di un tentativo, sotto certi aspetti anche lodevole, di smuovere la acque stagnanti di un problema, ma purtroppo si tratta di un tentativo fine a se stesso.

Infatti questi giovani non si programmano un futuro rivoluzionario, non considerano il presente come una fase transitoria di preparazione, ma risolvono tutto nella rottura parziale e definitiva con le forme della società integrata.

Quello che invece ci fa sperare bene è il fatto che la maggior parte di questi gruppi, come si è detto, è costituita dalle forze migliori della “intellighentia”.

Non siamo davanti a giovani dandy, ma a giovani seriamente preparati che si propongono problemi molto seri, ai quali da sempre è stato difficile rispondere. Il punto principale della nostra azione dovrebbe essere quello di preparare questi giovani alla scuola della rivoluzione permanente personale, perché possano agire concordi nel momento della rivoluzione generale.

Ora questa preparazione, come abbiamo visto, consiste in una sospensione del giudizio, in una fase precipuamente critica, ma non consiste in un’azione immediata e parziale contro le istituzioni della società integrata. Un’azione soltanto in parte rivoluzionaria è destinata ad abortire.

Questi giovani debbono convincersi che il vero rifiuto alla integrazione consiste nel vivere da integrati solo apparentemente, una perfetta vita di automi, ma preparandosi internamente alla dura disciplina della critica all’organizzazione sociale, sospendendo il proprio giudizio fino al momento decisivo dello scatto finale dell’ora rivoluzionaria.

È veramente disarmante che tutti questi sforzi, questo chiaro modo di vedere i definitivi valori della nostra epoca vadano sprecati in una rivolta parziale, invece di essere incanalati fruttuosamente verso la rivoluzione generale.

Il fatto principale di questa sconcertante situazione è il disporsi verso la negazione della morale del costruito.

Atteggiamento regolare che possiamo condividere in pieno. Le sovrastrutture della disuguaglianza imposte dal regime della moderna società tecnologica sono spacciate per realtà morale, e in questo l’organizzazione temporale della religione contribuisce non poco.

Possiamo dire, anzi, che oggi il miglior venditore di questa morale della disuguaglianza, del sopruso e dell’ingiustizia è proprio la religione. I giovani avvertono il contrasto e dichiarano scadute le regole della morale del costruito, provvedendo a programmarsi una loro morale del contingente, del frettoloso momento presente, una morale del vivere giorno per giorno, ora per ora, senza prospettiva e senza possibilità di qualche cosa di costruibile. Non siamo pertanto davanti a una morale della distruzione, ma soltanto a una riduzione della tradizionale concezione moralistica ai princìpi essenziali della convivenza in piccoli gruppi.

In questo modo non è possibile una rivoluzione. Il fatto che il punto centrale della morale del costruito, Dio, sia stato annullato, non significa che bisogna sostituirvi la “fede nella rivoluzione”. Un simile atteggiamento negherebbe di fatto non solo la possibilità di giungere alla rivoluzione, ma la stessa valutazione del reale, avendosi soltanto una banale trasposizione delle oscure forze della religione, nell’àmbito del movimento altrettanto oscuro che dovrebbe condurre allo sbocco rivoluzionario.

Il decidersi per la distruzione, considerandola come necessaria, allo scopo di consentire uno sbocco alla vincolante situazione creata dalla società della tecnica, non significa niente di più – almeno sul piano della credenza fideistica – del fatto che un individuo assonnato decida di andare a letto per dormire allo scopo di uscire fuori dalla situazione di sofferenza in cui l’ha posto la mancanza di sonno. Non crediamo che il decidersi per andare a dormire comporti un irrazionale movimento riconducibile alla fede. Chi ha sonno sa per esperienza che dormendo supererà la fase di sofferenza che avverte: nient’altro.

Allo stesso modo il decidersi per la distruzione non comporta nessuna fede nella distruzione stessa, nessun giudizio sulle presunte facoltà risolutive che possa dirsi fondato su presupposti irrazionali o fideistici.

Specie i giovani intellettuali devono avere chiara l’idea che non s’intende distruggere un vecchio santuario per erigerne uno nuovo, così come temeva Nietzsche. Il fatto che la morale del costruito sia essenzialmente negativa, non significa che la distruzione debba avvenire attraverso una morale del costruibile, anche se quest’ultima si dimostrasse per virtù di qualche artefatto metafisico, una morale utilizzabile in sede distruttiva. Quello che la distruzione insegnerà sarà un nuovo modo di vedere le cose, un sistema diverso della prospettiva del credere. Infatti non possiamo, adesso, pensare un’etica della distruzione, col tradizionale concetto etico del decadente uomo costruito a pallido riflesso dell’uomo concreto, dalle dottrine che da Socrate conducono al Cristianesimo attuale.

IX. La disintegrazione delle masse
Il fenomeno pietoso, che osserviamo di continuo nella società opulenta, della vastissima classe operaia quasi del tutto ormai integrata, è in ogni particolare facilmente spiegabile. Bene o male che sia stato fatto, il processo di integrazione si fonda su di un soddisfacimento di bisogni, infatti l’impalcatura stessa della società opulenta si fonda proprio sulla possibilità che i bisogni, e in particolare alcuni bisogni che vedremo subito, vengano soddisfatti. I bisogni che raccolgono tutta l’attenzione dei sostenitori del regime sono quelli che sollecitano la domanda di beni di consumo durevoli, cioè beni prodotti attraverso una particolare struttura tecnologica e che pur essendo intimamente “beni di consumo” hanno la caratteristica di essere usati per un certo tempo.

La società opulenta, almeno a grandi linee, si basa proprio sul fatto che i meccanismi economici di moltiplicazione vengano posti in atto, e questi meccanismi scattano proprio a seguito della produzione, principalmente, di beni di consumo durevoli. Le linee di reddito che si producono vanno a beneficio della popolazione lavoratrice che viene in questo modo a incassare la contropartita del proprio assoggettamento all’integrazione.

Non possiamo definire insoddisfatti gli operai di oggi, proprio perché, inseriti nel regime, vivono la vita di tutti, la stessa vita integrata che è propria di coloro che una volta venivano additati come mostri: i proprietari del capitale. Gli operai guidano macchine molto simili a quelle dei loro padroni, hanno gli stessi frigoriferi, assorbono la stessa dose di integrazione giornaliera attraverso gli stessi apparecchi televisivi, le stesse radio, gli stessi giornali. Ricevono insomma le medesime sollecitazioni di tutti gli altri integrati.

Una rivoluzione dettata e voluta dall’indigenza, una rivoluzione del risentimento, come era quella predicata dai nichilisti, oggi non troverebbe proseliti, e finirebbe per concludersi allo stesso modo dell’avventura romantica dei decabristi russi del 1825.

Bisogna provvedere per tempo a una programmazione della necessità di distruzione del processo integrativo in corso. Questa programmazione deve essere diretta alle masse, formulata in linguaggio specifico e liberata da tutti i residui metafisici.

Non si può pensare, senz’essere degli utopisti, che il processo estremamente delicato e difficile della rivoluzione permanente personale, possa trasferirsi di peso nella massa, esso sarà valido solo per l’ “intellighentia”, la quale dovrà essere pronta al duro compito che l’attende.

L’uomo-massa di oggi si crede in una botte di perfezione. La sua incommensurabile vanità gli dice che è ormai alle soglie della scalata ai pianeti, quindi l’universo potrà anche essere suo, sempre quella vanità gli detta il discorso metafisico che cerca di giungere a misurare l’essenza dell’uomo e il suo curioso prolungamento chiamato Dio, sempre quella vanità lo spinge alla costruzione di meccanismi più elaborati, utilizzando forze naturali delle quali difficilmente ammetterebbe (per non fare torto alla sua vanità) di conoscere appena qualche particolare di poca importanza.

Da vanitoso quale è l’uomo-massa non può fare a meno degli altri, donde la pessima riuscita del tentativo di vivere anche per breve tempo in solitudine, come abbiamo già visto.

Quello che la vanità compie negli uomini-massa più colti, l’ignoranza lo compie negli uomini-massa che non hanno potuto, per diversi motivi, darsi una cultura. Qui il problema è eterno e non è certo questo il luogo per discuterne le cause e i rimedi.

Cozzare contro questi due tipi fondamentali di uomini-massa, significa impiegare inutilmente i princìpi della necessità della distruzione, i princìpi che dovranno condurre alla formulazione di un mondo diverso basato sull’uguaglianza e sull’equità, significa in termini figurati impiegare diamanti per tappezzare il fondo di un bidone della spazzatura.

Eccoci quindi davanti alla necessità che qualcuno decida per costoro, in modo che la loro disintegrazione non potendo attuarsi attraverso la libera convinzione, si attui attraverso la forza del dato di fatto. Il compito di attuare questa scelta per le masse è ancora una volta dell’ “intellighentia”, la quale, ovviamente, deve in prima analisi operare la propria disintegrazione.

Il punto essenziale da superare è quello di convincere le masse che il ricorrere alla violenza non è un eccesso da condannare, almeno nel caso in cui questa violenza sia veramente tale e non costituisca solo una delle tante manifestazioni del regime integrante. L’uomo si è sempre rivolto alla violenza, all’azione diretta, una volta con maggior frequenza, successivamente sempre meno, fino a oggi, in cui ricorre alla violenza solo in casi estremi, quando non riesce con tutti gli altri mezzi a far prevalere le ragioni della giustizia e della verità.

Da canto suo il sistema integrante ha costruito nei secoli tutta una nomenclatura di freno all’impiego della forza. La civiltà non è violenza, caso mai è un modo concreto di ridurre la forza a estrema soluzione da cercare di non raggiungere mai. Relazioni, accordi, discussioni, rimandi, cortesie, temporeggiamenti, compromessi, segrete speranze di successo parziale, elementi di un quadro della civiltà odierna che facilmente induce a distogliere lo sguardo.

L’impiego della violenza come espressione d’intervento delle masse nell’azione rivoluzionaria non è barbarie, in quanto presenta l’aspetto terapeutico della necessità.

X. Perché è necessaria la distruzione
Innanzi tutto un esame di coscienza. Ciascuno di noi è un individuo integrato. Su questo non ci sono dubbi. Anche e forse principalmente coloro che si rivoltano parzialmente, come tanti giovani di oggi, lo sono più di tutti. Viviamo quindi nel clima dell’integrazione e misuriamo i valori con l’etica che abbiamo definito del costruito.

Che cos’è che non regge in quest’etica? Quali sono i motivi che la rendono inaccettabile? Queste risposte non dobbiamo attendercele da questo o quel gruppo ideologico, da questo o quello studioso, dobbiamo darle noi, nell’intimo di noi stessi, sforzandoci di restare anche per qualche minuto in solitudine, facendo insomma un breve esame di coscienza.

La nostra morale del costruito è una morale del privilegio sorretta e resa possibile dalla legge e dalla polizia. Prendiamo per esempio il concetto economico di distribuzione. Alcune correnti di pensiero economico sostenevano che lo scopo cui deve tendere lo studio del meccanismo della distribuzione è quello del raggiungimento del massimo beneficio per la totalità. Tutto ciò solo apparentemente non ha relazione con l’etica, come ha insegnato con chiarezza per tanti anni Giuseppe Toniolo. L’economia non è dissociabile dal suo fondamento etico, e adesso ce ne accorgiamo in modo lampante.

La teoria del mercato c’insegna, d’altro canto, come il meccanismo della libera concorrenza porti alla formazione di un prezzo unico, non potendosi pensare più prezzi contemporanei nello stesso mercato, in quanto verrebbero subito livellati dalla legge della domanda e dell’offerta. L’interdipendenza nello spazio e nel tempo dei mercati trasporta questo assurdo concetto sul piano complessivo, riducendo la nazione a un solo mercato.

Ma dobbiamo chiederci: il prezzo che si raggiunge sul mercato è un prezzo giusto? La storia del pensiero economico dice di no. Il principio liberista è stato tradito dalla realtà, qualsiasi significato si voglia oggi dare al termine “giustizia”. Da qui l’intervento più o meno pesante dello Stato, allo scopo di assicurare una migliore ripartizione del prodotto.

Eppure non è possibile negare come la distribuzione attuata oggi nel mondo, senza con questo volere fare distinzioni di metodo o di razza, non è quella che un principio morale di equità pretenderebbe che fosse. Anche se esistono dei meccanismi, come quello fiscale, che tendono a una redistribuzione dei redditi, assistiamo a una distribuzione che facilita sempre di più la disuguaglianza. Da qui la necessità, per la civiltà moderna, di giungere subito alla costruzione di una morale che possa egregiamente sostituire quella dell’equità, in modo da creare un alibi alle persone consapevoli e una “verità” per quelle inconsapevoli. La nuova morale è quella del privilegio.

Chi non possiede niente non è niente (morale della società occidentale fondata sulla libera concorrenza). Chi non possiede qualche preparazione tecnica non è niente (morale della società orientale fondata sul collettivismo). In ogni caso qualcosa (il denaro o la tecnica, non fa molta differenza) permette il dominio dell’uomo sull’uomo.

Ogni concetto che cerchi di giustificare questo stato di cose, o che cerchi di spacciare per necessario o ineliminabile il permanere di una disuguaglianza tra gli uomini, deve essere cancellato, mentre tutto il costruito derivato da quel concetto deve essere distrutto.

Eccoci quindi alla necessità della distruzione. Una morale del privilegio crea la casta. La casta rassoda e rende ancora più forte la separazione dei gruppi nella società. Questi gruppi finiscono per diventare delle vere e proprie “chiese chiuse”, con un loro codice, un loro linguaggio, un loro programma. A questo punto l’effetto di emulazione, così bene studiato dall’economista americano Duesenberry, spinge il gruppo sottostante a cercare di penetrare nel gruppo che lo precede, con ogni mezzo, lecito e illecito. L’impiegato vuole diventare dirigente, l’operaio impiegato, l’uomo di fatica operaio.

Questo spirito di lotta, senza esclusione di colpi, sarebbe anche lodevole, se non avesse come metro il valore del denaro e la deplorevolissima megalomania della conquista del potere, del comando, della possibilità di soffrire di meno e ottenere di più. Non siamo davanti a una lotta per l’affermazione in vista del fatto che determinati valori intrinseci dell’uomo vengono considerati sottoponibili a una graduatoria, per cui chi possiede quelli che stanno a un grado superiore deve necessariamente trovarsi collocato in un gradino più alto della scala sociale. Questo sarebbe ancora discutibile.

Invece siamo davanti a una lotta senza quartiere che prescinde dai valori intrinseci di ciascun uomo, per riferirsi a valori che sono estranei e che sono direttamente commisurabili al denaro che possono produrre. In altri termini l’impiegato non vuole diventare dirigente perché si è accorto di avere in concreto meriti tali, di rettitudine, di capacità di scelta, di competenza, che possano consentire al meccanismo di cui fa parte, di utilizzarlo meglio come dirigente. Egli vuole diventare dirigente, perché questo nuovo posto nella scala dei valori si traduce immediatamente in una retribuzione più alta, in una considerazione sociale diversa, nella possibilità di comando e di affermazione della propria personalità.

Questo meccanismo di emulazione allontana sempre più ogni uomo dai valori concreti della morale: uguaglianza ed equità. Uguaglianza tra gli uomini ed equità nella distribuzione delle cose che agli uomini appartengono. Sperare che questo stesso meccanismo di spietata prevaricazione del forte sul debole, del furbo sull’ingenuo, del criminale sull’onesto, possa condurci a una stabilizzazione pacifica, quando che sia nel tempo, della morale dell’uguaglianza, significa illudersi in buona fede.

XI. L’importanza dell’elemento morale
La necessità della distruzione non si può comprendere bene se non si tiene chiaro il concetto altrettanto necessario di morale. Non che qui si voglia negare la possibilità teorica di giungere a una stabilizzazione della morale dell’uguaglianza e dell’equità con mezzi diversi dalla distruzione. Tutt’altro. Teoricamente lo stesso sistema democratico dell’opposizione autorizzata, come pure il sistema collettivistico della revisione centrista, prevedono la possibilità di ritornare sui propri passi, verso una linea di benessere collettivo, il che non significa veramente “uguaglianza della distribuzione”, ma piuttosto sufficienza del minimo reddito a soddisfare i bisogni più impellenti e tutti gli altri che la società stessa crea e rende altrettanto impellenti come quelli tradizionalmente necessari.

In altri termini la società moderna tende a sostituire il principio etico dell’equità della distribuzione con un altro principio: il diritto di non morire di fame. Questo diritto, nato dall’antica legge ferrea dei salari, ignominia perenne di un certo pensiero economico, viene tradotto in termini concreti assicurando, o cercando di assicurare, l’eliminazione progressiva della disoccupazione. Lavorando tutti coloro che ne hanno voglia, guadagnando la loro paga sia pur minima, non si avrà più motivo di lamentele e di disordini.

In pratica questo concetto non si è rivelato molto lontano dalla realtà. L’operaio oggi non costituisce più quella forza che premeva contro i cancelli, minacciando di far cadere la teoria socialista dello sciopero generale. Oggi l’operaio è integrato sufficientemente e ha perso di vista le antiche rivendicazioni e le antiche dottrine. Oggi l’operaio entra in agitazione sindacale solo per ottenere una sempre migliore e più ampia integrazione.

È ovvio che qui non siamo davanti a un principio etico, ma a un banale accomodamento, che potrà essere messo da parte in ogni momento, quando non converrà più, alla classe che detiene il potere, utilizzare la presente politica di integrazione.

Le masse operaie mondiali, sia integrate in un regime di libera concorrenza, sia integrate in un regime totalitario, non si accorgono che la politica della piena occupazione, attuata per fini economici dal primo tipo di regime e per fini demagogici dal secondo tipo di regime, potrebbe essere in breve sostituita, mancando della sufficiente garanzia etica per essere posta su di un piano inattaccabile al mutar delle correnti e degli uomini.

Certo in questo modo coloro che percepiscono il reddito più basso non hanno molti elementi di scontento, esclusi quelli sempre validi attinenti al desiderio di scalare la piramide sociale, ma l’ineguaglianza della distribuzione resta. Per cui, tenendo conto che questo assunto è puramente teorico e che questa situazione limite di “benessere collettivo” è più una meta che un risultato acquisito, tenendo conto che la maggior parte dei bisogni “procurati” potrebbero evitarsi, tenendo conto che una notevole parte delle energie impiegate nella produzione sono sprecate per sostenere un sistema a piena integrazione, la realtà finisce per assumere un significato profondamente diverso.

Il concetto morale di uguaglianza della distribuzione viene modificato in quello di raggiungimento del benessere collettivo, la separazione tra le classi diviene sempre più rigida e sempre più commisurata al corrispettivo reddito che i componenti la classe percepiscono, i bisogni inventati crescono nel disperato tentativo di mantenere un sistema produttivo che non può fare a meno del costante aumento della produzione. Tutto ciò si contrappone, con la micidiale evidenza delle cose reali, a un misero cumulo di illusioni e di speranze.

Ma questo caso limite cui tende la moderna società integrata, a prescindere dalla sua reale consistenza di meta da raggiungere, non elimina l’amoralità di una disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e, in senso lato, nella valutazione delle singole persone.

In questa particolare prospettiva il problema dell’importanza dell’elemento morale si pone non come astratta giustificazione all’azione dei pochi diretta a sovvertire i princìpi falsi dei molti, ma come unico ostacolo possibile a un processo di progressiva accumulazione fondato sullo sfruttamento e sull’integrazione.

Queste ultime parole non devono sorprendere a causa della loro apparente mancanza di relazione. Le classi meno abbienti pagano il prezzo dell’integrazione, e della sicurezza che ne deriva, con lo sfruttamento progressivo della loro forza lavoro, cioè con la loro personale capacità di produzione. La classe che dirige le fila dell’integrazione, da canto suo, ha tutto l’interesse che le classi inferiori, nelle quali risiede la vera possibilità di mantenere in piedi l’impalcatura produttiva, non avvertano i disagi materiali delle progressive richieste che vengono loro dirette, da una parte come mezzi di produzione e dall’altra come fonti di consumo. Per questo provvede a salvaguardare una morale dell’ingiustizia e del privilegio, fondata, come abbiamo detto, sui falsi canoni della non-violenza, del dialogo e dell’integrazione.

Garantito il processo integrativo la classe dirigente ha cura di mantenere in vita il sistema, con periodiche manutenzioni di quelle che sono le idee fondamentali: la non-violenza viene esaltata come virtù cristiana, si trovano i suoi martiri, i suoi santuari.

Si provvede allo scarico inoffensivo della dose superflua di violenza, negli stadi e nell’attività sportiva in generale. Il dialogo viene esaltato come unica possibilità di risoluzione di tutti i problemi sociali a qualsiasi livello, mentre, nello stesso tempo, si provvede con tutti i mezzi a nascondere il suo vero significato di remora e di ammorbidimento delle coscienze. Infine l’integrazione viene nascosta del tutto sotto l’alibi della necessità, agendo solo raramente con proposte dirette, ma quasi sempre ripiegando sulla persuasione nascosta della pubblicità, dei mezzi di comunicazione delle idee, quali la televisione, i giornali, la radio, la scuola.

Ma quello che la classe dirigente, in omaggio alla necessità irreversibile del sistema, nasconde più di tutto, è la mancanza assoluta di uno scopo. Per che cosa lotta la gente in una società integrata? Quali prospettive ha oltre quella di vivere alla giornata? Quale è il valore morale dell’accumulazione del denaro?

Tutte domande alle quali la società integrata non risponde, proprio perché richiedenti un fondamento etico che non possiede, proprio perché rifiutanti quella larva di fondamento etico che essa si affanna a spacciare per valido e universale.

Il tecnicismo non può concludersi che in un supremo grido di angoscia, di paura, di distruzione. Come qualsiasi strada in salita giunge, prima o poi, al culmine dopo il quale comincia la discesa, come a qualsiasi moto succede lo stato di quiete, in questa maniera l’avventura della tecnica è destinata a ridimensionare il fondamento morale che le è proprio e a provvedere alla stesura di un piano di riorganizzazione.

XII. Il movimento di ritorno ai princìpi
La necessità di una collaborazione di tendenze diverse al fine di giungere alla rivoluzione generale, la stessa difficoltà di mantenersi in uno stato di rivoluzione permanente personale, la tendenza naturale dell’uomo a prevalere sul proprio simile, lo stimolo alla conquista e al guadagno, lo stesso fascino della distruzione che potrebbe indurre non pochi a desiderare un perenne stato di caos, tutti questi motivi, e altri che non elenchiamo per amore di brevità, rendono necessario un periodico movimento di ritorno ai princìpi che generarono e resero possibile la rivoluzione.

Dato che tutti i gruppi partecipanti al movimento rivoluzionario, indiscriminatamente, avevano ammesso la necessità di procedere a una sostituzione dell’etica del costruito con l’etica della distruzione prima e del costruibile poi, e dato che non sussistono gli elementi necessari a giustificare una persistenza dei processi distruttivi, resta come elemento comune di coesione l’etica del costruibile la quale, pur non essendo il fondamento della rivoluzione, ne costituiva l’elemento lontano e programmatico. In questo senso un ritorno ai princìpi non è un ritorno alla distruzione, ma alla costruzione, salvo il caso particolare in cui sussistano gli elementi giustificativi di un ripristino dei valori etici della distruzione. In ogni caso questo denunciarsi automatico della presenza di pericolosi perturbamenti in seno anche allo stesso momento costituente, determina un ritorno alla distruzione, sia pure temporaneamente e su scala ridotta, in modo chiarissimo e privo di equivoci.

Abbiamo quindi una duplice interpretazione del “ritorno ai princìpi”, in base a ciò che lo stato dell’organizzazione sociale presenta: un tradimento dell’etica approvata in sede rivoluzionaria può condurre a un rinvigorimento dei costumi da parte degli organi responsabili, come pure a un’azione repressiva a carattere distruttivo, tutto dipenderà dalla valutazione personale dei predetti organi responsabili, come pure dall’oggettiva azione deleteria di coloro che, guidati da un difettoso sentimento di libertà, cercheranno di ricondurre l’organizzazione sociale sul tragico cammino di cui oggi è possibile vedere tanti esempi.

Con questo meccanismo di periodico ritorno ai princìpi viene assicurata compattezza ideologica a un sistema che, fondandosi sulla coesione post-rivoluzionaria di gruppi idealmente separati, deve prevedere momenti di sbandamento e pericolosi cedimenti, deve prevedere e studiare in anticipo quali saranno i rimedi più opportuni, sempre in vista della salvaguardia dei canoni essenziali della nuova etica.

Poiché è nella natura umana venire meno alla propria parola e alla propria idea, poiché è facilmente prevedibile l’adagiarsi del chiaro impulso rivoluzionario sul compromesso e sull’accomodamento, il meccanismo di ritorno ai princìpi deve essere stabilito a priori, staccandolo dalla decisione dei singoli, per affidarlo a quella imparziale del tempo. È per questo che un processo di revisione deve essere stabilito per un certo momento futuro, dopo quello costituente, e dopo di questo momento dovranno essere stabilite altre epoche, alle quali puntualmente tutta l’impalcatura dell’organizzazione societaria deve essere revisionata, come avviene con qualsiasi meccanismo. Gli organi responsabili saranno chiamati a condurre questa revisione, sempre nella misura e nei princìpi fissati dal modello di partenza approvato dall’assemblea costituente, dopo questo esame questi organi stabiliranno se sussistono gli elementi per una repressione anche con la forza di quegli stimoli societari che chiaramente o nascostamente progettano un ritorno a sistemi in contrasto con l’etica del costruibile.

Tutto ciò non deve spaventare nessuno. Non solo non deve mettere paura per la sua apparente macchinosità, in quanto i sistemi organizzativi che oggi vediamo all’opera pur non presentando nessun preordinato schema di riduzione ai princìpi, sono molto più macchinosi di quanto non sembri. Ma non deve neppure mettere paura per una sua eventuale coattività. Infatti il meccanismo di riduzione avviene non più in senso interpretativo, sulla base di nuove necessità sorte con l’evolversi dei tempi e delle idee, ma resta legato a uno schema fissato subito dopo la rivoluzione e quindi fondato su di un programma staccato completamente dalle passioni momentanee delle fazioni e approvato incondizionatamente da tutti i gruppi anche se in contrasto tra di loro sul piano dell’attuazione pratica.

XIII. Conclusioni
Al termine di questo nostro sforzo diretto a focalizzare l’attuale necessità della distruzione dobbiamo riconoscere non tanto la determinabilità di alcune situazioni patologiche, cosa che forse non avrebbe avuto da sola la necessità di una documentazione esplicativa, sia per la sua grande evidenza, sia perché continuamente oggetto di lunghe discussioni e studi, quanto la scarsamente documentabile incidenza del progressivo abbandono dei valori etici, via via sostituiti da valori transitori, ricavati dal processo stesso di sviluppo e giustificati con il metro generale del privilegio.

Per questo motivo il presente lavoro si prospetta come una ricerca teorica sui fondamenti etici della distruzione, quindi sui fondamenti di qualche cosa che in questo momento non solo non esiste ma non ha nessuna carta in regola perché esista. Abbiamo fatto quindi un lavoro su basi che non sono minimamente deducibili dall’aspetto contemporaneo del mondo. Infatti ogni interpretazione in questo senso finirebbe per rendere assolutamente intraducibile il nostro tentativo, riducendoci a semplici utopisti. La morale corrente del costruito, quella morale che ha bisogno del privilegio per giustificare la disuguaglianza e la morte senza motivo, quella morale che spinge l’uomo a fissare e rafforzare il dominio sull’uomo, non ci interessa, al di là di una condanna assoluta e senza appello.

Abbiamo già detto come il contesto rivoluzionario non può fissarsi che su di una morale della distruzione, del tutto separata da quella del costruito.

Un altro compito che ci siamo assunti è stato quello di fissare i limiti all’integrazione, come momento preparatorio alla rivoluzione e allo scopo di arginare un processo di mistificazione che minaccia di rendere impossibile ogni azione se portato avanti ancora per molto tempo. Questi limiti possiamo rinvenirli nella dottrina della rivoluzione permanente personale.

Conseguentemente non possiamo condividere l’azione parziale di rivolta alla quale stiamo assistendo in questi ultimi tempi, condotta avanti disordinatamente da alcuni gruppi di giovani, sostenuti e indirizzati – suprema ironia – dai partiti politici, cioè da gruppi di uomini che siedono sugli stessi banchi del Parlamento, cioè da uno degli strumenti che forse più di tutti ha perduto oggi, a causa della sua istituzionalizzazione, il tradizionale significato di rappresentanza popolare.

Sebbene valida sul piano astratto di una rivendicazione isolata della teoria della violenza, l’azione di rivolta parziale cade al momento della riprova pratica, proprio perché non tiene conto dei principali presupposti della rivoluzione permanente personale: sospensione del giudizio, indagine critica costante, perfetta adesione alle leggi del sistema, studio e programmazione di un futuro momento costituente post-rivoluzionario.

Teniamo a ribadire, anche in questa sede conclusiva, che la posizione veramente disintegrata è quella dell’uomo cosciente del fenomeno integrativo in corso. Una volta avvertito questo processo di progressiva alienazione degli effettivi valori morali, chi rifiuta l’integrazione non deve esplodere in vaghe e limitate manifestazioni di disturbo ma aderire perfettamente al sistema, studiarne le manchevolezze e i lati positivi, prepararsi per il momento conclusivo della distruzione. È inutile dibattersi senza scopo come forsennati.

Facciamo l’esempio del poveruomo che viene arrestato per errore. La sua prima reazione sarà la resistenza. Una violenta lotta contro coloro che, ingiustamente, vogliono privarlo della sua libertà personale. In questo modo, però, egli non fa altro che giuocarsi la possibilità, sia pure remota, che il suo caso venga esaminato con calma e, una volta riconosciuta infondata l’accusa, egli venga rilasciato. Rivoltandosi contro coloro che eseguono l’ordine di arresto, egli commette un’azione che automaticamente lo qualifica come condannabile.

Molte posizioni estremiste, oggi, somigliano a questo poveruomo che si dibatte tra i carabinieri. Non si capisce che, non essendo possibile operare una disintegrazione totale di alcuni elementi della società, e non essendo concepibile una disintegrazione parziale, è indispensabile che l’integrazione in atto venga ridotta allo stretto necessario, fino a trasformarsi in una patina superficiale, una crosta che serva soltanto a mimetizzare il rivoluzionario, ma che non giunga a intaccare i valori effettivi che stanno sotto e reggono tutta l’interpretazione della realtà.

Coloro che gridano nelle piazze, che dichiarano di avere superato il momento comunitario della famiglia e della nazione, coloro che in nome di un malinteso antinazionalismo buttano dalla finestra la lapide al milite ignoto, non hanno capito niente. Non sono loro i disintegrati. Tutto questo resta ancora da superare. La loro è integrazione ulteriore: integrazione della rivolta parziale, prevista e catalogata dal sistema.

Studi preparatori
I. Note per l’Introduzione di Vincenzo Di Maria alla prima edizione
Perché distruzione necessaria e non rivendicazione? Perché negare alla rivolta, alla lotta di classe, agli scioperi di piazza, come missione da compiere la possibile ristrutturazione degli organismi che attualmente palesano in ogni settore la mancanza di una trasformazione sociale a livelli democratici accettabili, in base a un progetto che possa assicurare al futuro una continuità di carattere governativo? La socialdemocrazia non offre più alcuno sbocco al rinnovamento sociale, in maniera da sanare le evidenti crepe che oggi affiorano nel mal costume della burocrazia?

In varie occasioni l’autore ha avuto modo di affrontare questi temi inserendoli nelle tante pubblicazioni anarchiche con cui collabora. Il libro è in ogni caso singolarissimo e a tutta prima non permette al lettore una fruizione diretta e agevole. Il fatto è che questo tentativo di affrontare temi di natura sociale in maniera teorica e generalissima si basa su mille riferimenti che qui non possono venire alla luce. Particolarmente Croce, Machiavelli e Gasset.

In effetti, noi avvertiamo che non rimane alcun appiglio né alcuna giustificazione, per il verificarsi crescente di un disagio che investe soprattutto le classi intellettuali. Queste non riescono a compiere il passo decisivo. Noi abbiamo tentato e voluto sanare le ferite prodotte dalla dinamica del processo evolutivo, tamponando con tiepidi sonniferi quello che ha rappresentato in questi ultimi trent’anni il più grave dissanguamento etico mai riscontrato, almeno nella sua rapidità, nella storia di tutti i secoli. Il risultato è stato per lo meno sibillino, pur trascinando ognuno di noi nel movimento che ci circonda.

Si è inventato un ceto politico mettendo insieme i cocci di una momentanea coesione di interessi e di ideali particolari, il quale è venuto alla ribalta per sostituire – in attesa di un vero ed efficace rigeneramento – la passata classe dirigente, vi si è sovrapposto ristagnando e limitando tutta la prospettiva che stava per nascere dal crollo di un mondo segnato dalla stessa storia. Il movimento minaccia di diventare fine a se stesso. Quando si parla di opposizione clandestina, di movimenti partigiani, e della resistenza in generale, non si deve trascurare che avevano alla base un principio di pura necessità sovversiva. Anche adesso che semplicemente riflettiamo su quegli avvenimenti, tenendoli docilmente per patrimonio comune, ci facciamo prendere e alla fine rimettiamo in gioco ogni irrigidimento critico. È una risposta improvvisa e violenta che sentiamo sorgere dentro di noi.

Non si deve dimenticare che questa comune antitesi non avrebbe potuto rappresentare il nucleo della vera sovversione, la sola capace di sfidare gli invitanti legami del controllo, che ha radici al di fuori dei gruppi e dei partiti entro i quali dovettero operare quelle forze, trascurando che un fine ultimo non può essere rappresentato da un fine mediano. D’altronde l’opposizione a dei regimi di carattere dittatoriale e imperialistico diveniva spontaneamente la “libertà”, una forma di libertà che acquistava dimensioni macroscopiche anche negli elementi che ne rappresentavano i presupposti più semplici. Ma il sollievo è questione di poco, si affievolisce in breve e scompare.

Per cui la dinamica del nuovo momento storico veniva rallentata, ostacolata, appesantita da un gioco politico inteso a smorzare possibili ritorni al passato, più che a gettare le basi di uno sviluppo nell’avvenire. Ogni momento, in cento occasioni pratiche, ci fermiamo a ripercorrere le peripezie di questo movimento. Dentro di noi sentiamo nascere una nuova forza che pone domande e insiste per avere risposte. Il benessere che ci circonda non si è ancora cementato sopra le nostre teste (almeno sulle teste di alcuni di noi) ed è così che torniamo indietro, riflettendo, scoprendo senza fine nuove prospettive, intuendo nuove strade in un labirinto che minaccia di diventare infernale.

Si badi bene, in questo gioco fazioso si è perduta la possibilità di guardare al domani e di rinnovare il presente. Da ogni dove si sottrae la forza creativa che si sviluppa inventando se stessa ogni giorno. In questo gioco cioè si è permesso al passato di rinvenire, di coesistere, e quella che doveva essere la rivoluzione dell’Occidente si è trasformata in un riformismo senza alcuna via d’uscita, anche perché le forze che avevano contribuito all’abbattimento del potere egemonico avevano chiesto ausilio ad altre forme di potere che, così, preparavano la difesa del loro sistema. Tagliare di netto: ecco quello che sarebbe stato necessario. La chincaglieria pietistica della non-violenza ha invece occluso ogni sbocco praticabile in direzione rivoluzionaria. Di molte scelte non si sa cosa pensare e forse non è nemmeno il caso di darsi pensiero. Le tesi basate su interessi miserabili spiegano tutto, e forse sono nel vero, ma non soddisfano. Annotare percorsi differenti – quasi sempre marginali quanto esemplari – non giustifica le tristi conclusioni di tante speranze.

Quanta colpa oggi abbia l’Occidente nel mancato assetto mondiale, nei cozzi che si ripetono a tutte le latitudini, tra stati di bisogno e stati di benessere, non è ancora possibile affermare; comunque si deve sia alla pigrizia sia al cedimento della sua cultura se oggi ci troviamo di fronte alla porta sbarrata. Divagazioni spiritualiste, squarci lirici, approfondimenti teorici, meditazioni metafisiche, non reggono a sufficienza. Tutto sembra avere l’aspetto precario dell’improvvisazione. Ma cosa si intende per “giustizia sociale”? È qui il punto. Dovunque abbondano i languori sentimentali, i ricordi di un tempo migliore, di certo mai esistito, i rumorosi riconoscimenti elencati (veri o falsi, che importa?), ci si costruisce una propria idea di giustizia e vi si accomoda dentro come nel salotto di casa. Ogni strategia nasconde una giustificazione.

I ceti politici, anche quelli di estrema sinistra, hanno ritenuto che la libertà in senso assoluto si potesse identificare con la libertà dal bisogno, che per altro non sono riusciti a conseguire. Né potevano conseguire. Non hanno capito che al centro di ogni umano interesse risiede lo svincolo dalla coartazione, dalla disciplina controllata attraverso sistemi farraginosi che imprigionano, sminuiscono, depauperano ogni forma di volontà privandola di fondamento, piombandola nell’inferno quotidiano. Non hanno capito che l’uomo ha bisogno di guardare al domani e di non lasciarsi intrappolare in un formalismo che distrugge la spinta vitale e lo riduce ad automa desideroso soltanto di vedere riconosciuta la propria patologia. Hanno tolto cioè all’uomo il senso della conquista, del superamento dei suoi limiti, dandogli delle medicine che lo fanno restare ammalato. Perché oggi sono i giovani che si agitano in tutti i settori, spesso (lo ammettiamo) inconsapevolmente?

Si chiede loro che cosa vogliano, si chiede loro come vorrebbero ristrutturare la società, si chiede loro che tipo di miracolo cerchino di realizzare. E quelli che rivolgono alla gioventù queste domande sono gli stessi, in parte, che ieri lottarono (sia pure non alla cieca) contro le dittature senza sapere cosa avrebbe portato la libertà.

Ma quale barriera sconosciuta possono inventare al dilagare di questa spinta che si traduce in termini molto diversi da ogni probabile accomodamento momentaneo?

In sostanza, lo sforzo della classe dirigente è rivolto a dilungare e distrarre la gioventù da ogni attenta ricognizione del futuro che indubbiamente spazzerebbe con la forza di una missione da compiere in ogni caso il presente e ogni altro residuo di statalismo. Rivelare o semplicemente indicare i mille trabocchetti di cui si serve il sistema per delimitare entro il confine dell’integrabile ogni manifestazione, ogni contestazione della gioventù, è la parte essenziale di questa “distruzione necessaria”.

Pietismo, dialogo, sindacalismo, rivendicazione di classe, rivolta, sono tutti termini che possono essere convogliati e integrati nel sistema quando, come è ovvio, essi debbono sottostare a determinate forme di autorizzazione del potere che li controlla e li dirotta dentro il letto del riformismo a rotazione continua. Le illusioni ideologiche sono oggetto continuo di rielaborazione. L’effettiva esperienza della realtà viene così “occultata” rendendo disponibile una lettura alternativa, addomesticabile a fini specifici e quasi sempre non in grado di strappare consensi se non transitori. Si tratta di allontanare via via il miraggio sino all’esaurimento della carica vitale delle masse, esaurimento che indubitabilmente dovrà verificarsi, dato che la società è incasellata in tante accettabili piccole rinunce che servono benissimo a smagliare il tessuto connettivo della violenza. Tanta precisione non consente nemmeno un’ombra di previsione. Crisi ideologica e crisi economica si corrispondono prestandosi reciprocamente man forte.

La classe dirigente teme soprattutto la violenza. Ma quale tipo di violenza? Non certo quella di cui il potere è il massimo depositario, non certo la violenza del sasso, del fucile, della barricata: in un sistema democratico questo tipo di violenza è sempre recuperabile. La violenza come ribellione materiale è sempre destinata a spegnersi o a trasformarsi, nel caso di un suo vasto allargamento, in violenza della vittoria, in definitiva in nuova violenza del potere. Individuare altre strade: ecco il compito del rivoluzionario. Egli deve rivivere con un certo ordine, dentro di sé, il caos della realtà per riprodurlo nella prospettiva del cambiamento, del radicale abbandono delle vecchie prospettive. Pur avendo effetti esteriori, tutto comincia qui con un monologo interiore. Una mano discreta (non avvertibile pubblicamente) guida verso un traguardo certo.

L’illusione dei rivoluzionari dell’Ottocento fu appunto quella di potere scardinare lo Stato e sopraffarlo per ricostituirlo sulle basi della dittatura del proletariato. Essi pensarono di rafforzare i gruppi, i movimenti, i partiti di tendenze ideologiche estreme, per dare l’assalto allo Stato, contarono anche sull’apporto dei sindacati e sperarono che uno sciopero generale si potesse trasformare in rivoluzione. Ma non si resero conto che la contingenza non può mai sostituirsi alla permanenza, cioè, loro correvano incontro a quegli strati sociali che via via nelle diverse regioni giungevano a delle condizioni di bisogno proprio al limite della esplosione sovversiva, sperando che la sovversione si propagasse e diventasse rivoluzione. Nessuna strutturazione per quanto robusta giustifica se stessa fino in fondo. Ma anche quando una rivoluzione del genere avesse sortito gli effetti sperati, in che modo questi rivoluzionari avrebbero potuto ricostituire le strutture sociali? Il rischio era quello di ripresentare la vecchia stretta finale, l’appiglio del controllo e della repressione. L’esperienza sovietica fece aprire gli occhi ai più puri e ai più preparati tra i libertari: esempio tipico quello di Errico Malatesta, il quale dovette constatare che l’organizzazione sindacale e di partito rappresentava già una forma gerarchica molto consimile a quella del potere statale, mentre un’assoluta libertà, non incline ad alcuna organizzazione, avrebbe dovuto soggiacere a una realtà degli accadimenti sicuramente negativa, anche perché l’esperienza marxista aveva già apertamente scritto la sua pagina di storia in cui è dimostrato che il settarismo riesce sempre a soverchiare il libertarismo. E allora Malatesta (diciamolo pure, non compreso neppure oggi dagli attuali anarchici e libertari) concepì l’idea della libertà organizzata, e per libertà organizzata egli intese una libertà in cui non fosse annullato in alcun senso l’individualismo dell’uomo, non di meno esso avrebbe dovuto costituire una catena comunitaria e libertaria nell’autodeterminazione della volontà di massa. I movimenti liberi danno l’impressione di svilupparsi con difficoltà, ma costruiscono per il futuro, quindi sono privi di forza analogica e suonano insoliti all’orecchio dell’osservatore non preparato a comprenderli.

A cosa tende oggi la parte viva della massa sociale? Tende appunto alla eliminazione del potere che coarta l’individuo, alla liberazione da ogni forma di tecnologismo, ma senza evidentemente perdere di vista che l’uomo non organizzato in comunità non può esprimere un processo storico avanzante. Questo tendere è a volte inconsapevole, ma non meno forte e pieno di significato per il futuro. La massa si rende conto di ciò ma non ne sa ancora la definizione e non conosce ancora i diversi momenti per giungere “integralmente” alla rivoluzione violenta che, spianando tutti i verticalismi di potere, dia adito a una società organizzata sulla reciprocità degli apporti e sul rispetto dell’uomo come tale con parità di diritti in ogni manifestazione di vita fisiologica e intellettuale. Ogni dubbio, ogni sospensione di questo percorso sono considerate come manifestazioni della paura, presagi di un futuro incerto. Le contraddizioni individuali dovrebbero nascondere tesori esplosivi, eppure sistematicamente vengono disinnescate da cause eterogenee che supposte omogenee avrebbero dovuto produrre effetti risolutori.

A questo punto nasce la necessità di una chiarificazione pedagogica e morale della distruzione intesa come atto rivoluzionario indispensabile al ricambio dell’organismo sociale. La distruzione necessaria si indirizza verso la risoluzione di questo problema, verso un’etica rivoluzionaria attuale e nuova che può districarsi dalla complessa problematica presente solo attraverso la precisazione dei diversi momenti in cui l’uomo-individuo può riuscire ad essere maturo per agire come uomo-massa, attuando la rivoluzione totale che da sola può determinare una nuova epoca storica. Un’attenzione rigorosa rivolta all’etica è necessaria alla costruzione di un mondo diverso. Nessuna azione umana, singolarmente presa, è una bagattella, un’affermazione uguale e contraria è sempre stata sostenibile e per questo ogni riforma ripropone intatto il problema sociale con tutte le sue amare sfumature.

Dunque, che la rivoluzione sia necessaria è un dato di fatto. Che per metterla in atto occorra la violenza è un secondo dato di fatto. Terzo dato, centrale e dominante, è che alla violenza fisica preceda la violenza psicologica e intellettiva. È indispensabile cioè che alla rivoluzione di fatto preceda una rivoluzione permanente dell’uomo inserito nella società ma disinserito da tutte le forme che governano la società e la avvelenano costantemente corrompendola con il richiamo di tutte le appariscenze che vengono spacciate come generi di benessere definitivo. Spesso, nella storia, ci si è fermati proprio sul punto di compiere questo ultimo passo, quello decisivo. Il permanere nella condizione di “ospite” è difficile impresa di equilibrio. Molto più facile rompere gli indugi, ma con quali risultati? Come distinguersi dall’impostura?

È naturale che per potere porsi nella condizione di rivoluzione permanente interiore occorre che l’individuo non si lasci irretire né dal pietismo né dal ribellismo, che neghi il dialogo e rinunci a ogni eventualità riformistica, anche quando essa può dare dei risultati immediati che, col tempo, si tramuteranno in forme di vecchiaia e, pertanto, in forme da distruggere. Ciò non significa che tutto quanto è stato fatto non abbia alcun valore; significa soltanto che ha valore in quanto prepara l’ultima finalità, non in quanto possa significare una meta su cui soffermarsi. Noi dobbiamo guardare solo al domani, anche se l’oggi ci scorre dinanzi e non possiamo fare a meno di viverlo. Questo non è un assioma dogmatico, ma la coscienza di una destinazione che non può divergere lungo il percorso. Il diaframma tra uomo pubblico e uomo privato tende ad assottigliarsi fino a scomparire. Occorre lottare per conservare se stessi, la propria personalità, ma questa lotta non ha mai fine. Lo scetticismo illuminato comincia a mostrare i propri limiti, come fare ad astenersene? La lucidità deve prevalere, aprire nuove interpretazioni, la gioia della distruzione diventa più intensa.

Per operare in questo senso non si può prescindere però da una igiene mentale purificata da ogni profanazione intellettiva che può essere determinata da una serie innumerevole di deformazioni della verità sociale: pacifismo, non-violenza, cattolicesimo, protestantesimo, ecc. Queste sono tutte forme aberranti che servono da allucinogeni del pensiero e dell’azione organica dell’uomo. La forza di liberazione non ha più bisogno di preghiere, è arrivato il tempo dell’azione. Noi non sappiamo vedere una vera sostanza rivoluzionaria in tutti quei movimenti giovanili che si vestono di mascherature correnti con la moda e si danno una denominazione più o meno insignificante.

Oggi il pericolo della religione si avverte più profondamente nelle concessioni che tutte le Chiese, via via, vanno elargendo per procurare un accesso facile dell’uomo nel regno dell’irreale e del futile. È un pericolo non meno grave di quello che corse l’umanità nel periodo della Controriforma: quella era una violenza da carnefici con la mannaia nelle mani, questa è una violenza da ipnotizzatori con in mano la siringa dell’oppio. Dai due lati la confusione e l’imbroglio. Guai per gli uomini quando i vari poteri si confondono e cercano di sopraffarsi reciprocamente. Bisognerebbe approfittarne per insediare un potere nuovo, ma non è cosa facile. Denudare queste forme ipocrite, stabilire una tecnica rivoluzionaria che prevenga ogni rilassamento dell’individuo minacciato dagli illusionismi religiosi, è il compito di ogni rivoluzionario che stia attuando la sua rivoluzione permanente. Si tratta di scoprire il gioco attraverso la cortina dell’inganno, si tratta di porre al centro dell’universo (universo sociale) l’uomo come fine ultimo della sua presenza e della sua essenza lungo l’arco della vita materiale.

Vogliamo esseri perfetti? No, vogliamo soltanto che l’uomo venga estratto da tutte le sue debolezze e portato su un piano di coscienza che lo tolga dall’abbrutimento di una falsa civiltà che lo rende nemico, oltraggiato, immiserito, imbrogliato, commerciato, massacrato dalla parte peggiore di se stesso che è quella minoranza in cui viene assorbito tutto l’egoismo che esiste nell’uomo, egoismo e desiderio di possesso che la detta minoranza va continuamente innestando nelle masse come il morbo più salutare alla sua sopravvivenza.

La distruzione necessaria tratteggia gli aspetti di questa situazione.

[1968]

II. Storia: Ricerca di definizioni
Storia, storicità, storiografia. Ricerca storiografica: definizioni. Intendo per storia il dipanarsi delle alternative vicende di quella costruzione indefinibile che è l’uomo. Il concretizzarsi di un flusso, il puntualizzarsi di una serie di situazioni, il realizzarsi delle possibilità. Storia significa vita, vita che non ha bisogno di ricorrere a definizioni di carattere strumentalistico per delinearsi in un sembiante e per discutere di forma.

Intendo per storicità la consapevolezza del problema della storia. Il sentimento della sua esistenza, la constatazione della sua importanza. Soltanto nel riconoscimento della tensione che il problema storico genera in tutti noi si può incominciare a parlare di storicità. La presenzialità della esperienza esistenziale fa scaturire il problema storico, che altrimenti rimarrebbe annegato nella inutilità di riportare a galla documenti che non possono dirci alcunché di vitale.

Intendo per storiografia la ragionata discussione del problema storico. Discussione emergente da una riconosciuta capacità di puntualizzazione della situazione esistenziale. Quest’ultima si ha quando il momento focale di individuazione della scelta, il punto infinitesimale in cui l’uomo ha effettivamente bisogno di una cosa, in cui ha un’esigenza, è coscientemente riconosciuto. Superamento evidente della fase abitudinaria iniziale, che, sprovvista di una sufficiente consapevolezza della storicità, si arena in una trattazione meramente cronachistica. Questa situazione abitudinaria rientra nell’ordine generale delle cose e, di conseguenza, tende a raffrenare ogni tendenza individualista e personale. Essa si contrappone alla situazione esistenziale assorbendo la forza integra della individualità, del caso singolo, della sofferenza intima, del travaglio solitario, per trasformare tutto in amorfo comportamento abitudinario.

Intendo per ricerca storiografica l’organizzazione e la interpretazione delle fonti storiche. Anche in questo momento ci si deve porre dal punto di vista del ragionamento esistenziale, per impedire che dei morti avanzi di documenti inutili o traditori possano inquinare l’impronta della ricerca storiografica.

Fonti: definizione. Intendo per fonti storiografiche la concretizzazione passata delle realizzazioni dell’esperienza esistenziale. Tutto ciò che di vitale e di vero ha fatto l’uomo, tutto ciò che dal conflitto col tempo il suo essere è riuscito a salvare, è passibile di venire considerato fonte storiografica. Ho detto passibile perché nella maggior parte dei casi la nostra ignoranza o la nostra mancanza di contingente esperienza esistenziale, ci fa restare ciechi davanti all’emersione di un’esperienza passata, che chiaramente ci parla il linguaggio della storia.

Verità storica: definizione. La ricerca storica tende a strappare alla indifferenza del passato tutto ciò che di essenziale alla vita costruttiva dell’avvenire può sussistere. Onde intendo per verità storica questa essenzialità del passato. Una verità figlia della temporalità, valida come fonte di conoscenza.

Il passato come indeterminazione. Il dissidio che strazia il nostro essere, interpretato nei termini di problematizzazione dell’esperienza, non è un fenomeno nuovo. Non soltanto serve a turbare il nostro destino ma contribuisce a darci una concezione abbastanza sufficiente della nebulosità del passato. Per quanto vicino a noi, il passato ci guarda da milioni di chilometri, lo sentiamo nemico, avvertiamo il nostro essere armarsi e mettersi in guardia, incominciare a temerlo. La stessa indifferenza del passato suona scapito ai nostri conati di conoscenza delle sue trame. Fosse, magari, una lotta aperta, chiara, alla luce del sole, avremmo occasione di conoscere meglio il nostro nemico. E dall’indifferenza alla ineluttabilità il passo è breve. Soltanto agli spiriti forti è dato indagare la storia. I più rimangono ai margini, affascinati dai contorni di questo mondo misterioso, si sperdono in ricerche limitative, senza costrutto e, pertanto, senza eccessivo impegno.

Non si tratta di soggettività che impedisce agli altri l’esame, ma piuttosto di obiettività che abbisogna di un particolare affinamento soggettivo per essere opportunamente riconosciuta e vagliata.

L’indifferenza del passato ci appare allora come barriera difensiva e non più offensiva. La sua resistenza alla conoscenza, si trasforma in giustificabile imprecisione, derivante dalla costituente indeterminazione. Prendete, per esempio, una biografia; essa non riesce a dirci nulla, si tratta di un insieme di notizie senza interesse, date, incontri, scritti, azioni, pensieri. Vuota materia che ci traccia davanti agli occhi un fantasma già morto. Qui non si parla del valore intrinseco di una qualsiasi opera storiografica, né del metodo che più degnamente possa portare a compimento una simile iniziativa. Qui si indicano i termini di un’interpretazione esistenziale di un documento storico. La biografia, di cui all’esempio precedente, cessa il suo ingrato compito cronachistico per assurgere a ben altra importanza se fa emergere dai dati raccolti la esistenzialità dell’essere che viene trattando. Allora l’irrazionalità di cui era viziata scompare per lasciare il posto a una utilizzazione produttiva delle fonti, la storiografia subentra alla cronaca. È il nostro impegno nella ricerca storica, la nostra stessa presenzialità di esseri che la trasforma e la sublima.

Mezzi e possibilità di uno studio delle forme storiche. La ricerca storica avviene nel tempo, e dal tempo deriva la sua fedeltà all’indeterminazione. Dalla problematica del tempo il mondo storico assume un significato, perdendo l’illusorio di una vita assoluta, per acquistare il relativo di un divenire nel senso esistenziale. Caratteri di una costituzione che compare e si autorizza al permanere nel soggetto stesso che volge indietro il suo sguardo per scrutare il passato.

Le forme storiche debbono parlarci in termini di connessione al nostro bisogno di prospettabilità al futuro, altrimenti si esprimerebbero in un linguaggio per noi muto. E muto è per noi, il problema delle origini. Biologicamente è stato provato come intere specie di esseri viventi si siano succedute sulla scena del mondo. Moltitudini enormi sono sfilate e poi scomparse, resti di organismi ci indicano l’azione distruttiva che ha annientato il soffio di vita che una volta le animava. Non solo si tratta di specie viventi, ma anche di interi continenti, una volta floridi e rigogliosi di vita, e ora mestamente ricoperti di ghiaccio o di sabbia. Il tempo ha avuto ragione della vita, tutto quello che ci rimane sono delle ossa e qualche resto animale incassato nel ghiaccio. Tutto questo non ha valore storico. Paleontologico, paletnologico, biologico, senz’altro, ma non storico. Alcuni hanno cercato di intravedere in questo succedersi di creazioni e di distruzioni un ritmo concorde che giustifichi l’idea della unilateralità di direzione della storia. Non crediamo di potere condividere. Anche volendo scendere insieme a costoro, nel loro stesso campo di ragionamento, non possiamo intravedere ordine nella natura. Essa, per la stessa necessità di conservazione che la spinge a creare, deve distruggere, una forza misteriosa la indirizza a mettere gli uni contro gli altri, quegli esseri che ha creato, favorendo l’odio e la dissoluzione, fornendo i mezzi di difesa e di offesa. In tutto questo ci è difficile scoprire un senso. Anche nella vita psichica si può assistere a un ergersi dell’intelligenza verso forme sempre più progredite, ma non meno resistenti agli attacchi del male e della distruzione. Tanto più la vita psichica si sottilizza in forme più elevate, tanto più si indebolisce e rimane soggetta all’animalesco del senso e della natura. In tutto ciò manca la possibilità d’individuare un fine superiore, presupponendo un ordine nascosto si scopre un caos evidente, soltanto ammettendo l’indeterminazione costitutiva si può superare lo sgomento iniziale della scoperta dell’angoscia, per arrivare alla costruzione che fiduciosamente guarda al futuro.

Dovunque la vita si è puntualizzata in una aperta ammissione di questo concetto esistenziale, ivi è la storia. Soltanto in quel caso si è superato l’aspetto abitudinario e ci si è avvicinati all’uomo, al mistero dell’essere, alle più elevate concretizzazioni dell’essere come forma.

Mezzi di uno studio delle forme storiche, oltre che le fonti intese nel senso che ci siamo venuti chiarendo, sono anche i vari punti del riconoscimento della nostra precarietà di fronte al futuro, della necessità della costruttibilità di questo futuro, del bisogno di completezza della parzialità del presente, dell’affettuoso richiamo che il passato esercita sul nostro essere. Nessun avvenimento del passato, nessun uomo o comunità, può assumere significato storico e valore esistenziale, se non visto attraverso questa lente. (In questo caso l’esperienza diltheyana assume una larvata interpretazione discorsiva, l’elemento distorce la positività neo-kantiana del pensiero del filosofo tedesco, che viene assorbito soltanto per le sue esterne caratterizzazioni irrazionali).

Da quanto detto possiamo rilevare che l’uomo è storia del suo passato perché come temporalità è insieme la progettabilità del suo futuro. Come, d’altro canto, è la possibilità del suo futuro, perché ammette in se stesso la ricezione dell’esperienza cumulativa del passato.

La comprensione della storia. Ponendosi a descrivere un periodo storico, lo studioso non si propone soltanto, e di questo ci siamo resi conto, la enumerazione più o meno elaborata di una serie di eventi, persone, comunità. Una simile individuale elaborazione dei fenomeni storici avrebbe un valore meramente cronachistico. La comprensione della storia svanirebbe nel nulla. Il suo insegnamento non solo non sarebbe valido in termini di costruttibilità futura, ma non significherebbe niente nemmeno al presente.

Naturalmente nell’analisi storica del comportamento di un individuo o di una nazione, lontani nel tempo e nello spazio, non si può parlare di identità logica. Questo sarebbe possibile nel caso che il rapporto storico si risolvesse in un gioco di concetti. Un concetto può essere eguale a un altro: due uomini dotati di diverse esperienze esistenziali non possono costituire un’uguaglianza. Allora non resta che cercare di rivivere l’esperienza di quell’uomo o di quella nazione che ci guardano da lontano, cercare di immedesimarsi in essi, di sorpassare la frammentarietà delle azioni e delle espressioni di quel periodo per riviverle nel tempo presente. Tutto questo non per pura esercitazione dottrinale, ma per nostra intima necessità, per potere completare il quadro di conoscenze che ci permetteranno una migliore e più razionale costruzione del nostro futuro. Comprendere la storia significa comprendere la vita. L’essere ci parla dalla storia il linguaggio puro della vita. Il mistero di questo scorrere del tempo, la meravigliosa completezza di questo ordine storico che dal futuro muove i suoi passi e trova la sua giustificazione a venirci incontro attraverso il passato, si può tradurre in termini di esistenza.

Comprendere la storia significa mettersi in quella tale posizione di osservazione che permette l’individuazione di tutte quelle scorie inutili che l’appesantiscono e ne falsano il vero significato. In questo la filologia è maestra. Come studio scientifico della lingua e delle tradizioni culturali, come raccolta e vaglio di tutti i materiali validi a subire un’interpretazione storiografica, la filologia è uno dei mezzi più interessanti in nostro possesso per la comprensione della storia.

Ora, da quanto siamo venuti scrivendo, una indagine storica è da considerarsi oggettiva o soggettiva? Una indagine valida per il mio presente, e meritevole di cambiare il mio futuro, può avere valore oggettivo? E se possedesse questo valore oggettivo una indagine del genere non sarebbe negata alla soggettività del singolo in particolare?

Al di là di qualsiasi dubbio e fuori di ogni formulazione dogmatica la storia ha carattere oggettivo. Questo perché una volta concretizzato l’ordine storico, messi da parte i molteplici punti di vista, si perviene a quella sublime verità storica che non ha valore soltanto per il ricercatore, per la prospettabilità del suo futuro, ma anche per tutti gli altri uomini, purché si rivelino di buona volontà, purché si tratti di uomini che abbiano superato le strettoie della situazione abitudinaria. Proprio per quel carattere di politicità insito nell’uomo, la storia ha valore universale, anche se costruita al fine immediato di risoluzione di un problema esistenziale. Se così non fosse la storia riuscirebbe intollerabile a coloro che non possono usufruire del suo esistenziale insegnamento, e giustificherebbe la tracotanza di coloro che ne fossero a parte.

Il futuro come obbligatorietà di ricerca e come garanzia della precarietà del passato. L’accettabilità del futuro, in termini esistenziali, si concretizza in una obbligatorietà dell’esperienza. La storia non avrebbe significato se non contribuisse a completare il quadro di possibilità che sono presenti davanti all’operatore. La constatazione che il divenire non è una strada tranquilla e progressiva, si può attuare, con maggiore chiarezza, nello studio del passato, proprio perché si è in possesso della prospettiva di studio. Da questa constatazione l’uomo trova novella prova per dare chiarezza d’intendimenti al suo presente, al suo sforzo contingente di superare i dubbi della scelta e le ansie dell’angoscia. Da questa constatazione l’uomo riceve il dono di schiudere al futuro il proprio orizzonte, e di fare di ogni bellezza e virtù del passato, una bellezza e una virtù programmatiche del futuro. Come, d’altro canto, ogni malvagità e ogni stortura del passato, può contribuire a evitare future malvagità e future storture.

La nostra strada per l’avvenire, il nostro tragitto di ricerca, passa attraverso il passato. Ogni conoscenza produttiva trova forza propulsiva e convinzione nella storia.

Proprio per questo esiste e si autorizza quella fondamentale distinzione tra storia e cronaca, proprio perché non si tratta di mera esercitazione dottrinale la storia si eleva sovrana sulla sua derelitta sorella. L’erudito potrà marcire una intera vita tra i libri e non riuscire a vedere al di là del proprio naso. La sintesi gloriosa della storia gli rimarrà estranea, proprio perché il suo avvenire non potrà mai essere penetrato dallo spirito del passato che lui sta discoprendo. Morti i documenti oggetto di studio, morto anche lo studioso. Inutili sono stati quei documenti nel passato, inutili sono anche nel presente.

Trovandoci davanti alle forme storiche è nostro compito scoprire quella insita vitalità che le giustifica come tali, vitalità che abbiamo identificato con l’esperienza. Una volta che le forme oggetto di osservazione non fanno parte di un ordine più grande, che trovi la propria origine nel travaglio esistenziale del passato, non riusciranno mai a superare la fase di documenti puramente descrittivi. Naturalmente non potremmo pretendere che ogni forma storica possegga in se stessa una legge di carattere universale che contribuisca a farle superare l’iniziale frazionamento; in tal caso il nostro compito si ridurrebbe alla scoperta di questa legge. Compito illusorio dietro al quale sono andati generazioni di storici di scuola romantica. L’indeterminazione impedisce la considerazione delle forme storiche sotto questo aspetto. A una prima, superficiale, indagine potrebbe magari sembrare evidente che la storia s’indirizzi verso determinate direzioni, quasi vi fosse costretta da forze indipendenti dalle forme che la costituiscono. Lungamente si è favoleggiato sulla necessità di dare ordine e nome a queste direzioni. La razionalità, lo sviluppo dialettico, l’ordine eterno, non potranno mai dominare un mondo intessuto di contingenza. Donde il passato ci appare come un caos che non riusciamo a dipanare. Di tanto in tanto si fa luce la tendenza a un ordine superiore; essa però non trova il terreno adatto bastante alla riuscita delle premesse, e affoga nell’insuccesso. Dal passato tante esperienze di vita ci parlano di espedienti, di capricci, di eventi inaspettati, di giochi assurdi del destino, di opere funeste che annientano il lavoro fatto, di sconfitta della ragione e del buon senso. La durezza, l’astuzia, il terrore, la vendetta sovvertono l’amore, la speranza, la libertà, i valori superiori dell’essere. E allora? che cosa ci resta da fare? Dovremmo chiudere gli occhi davanti al dilagare della irrazionalità che ci perviene dal passato? Dobbiamo lasciarci sballottare dal presente, in un animalesco abbandono che non speri più nell’alba di un domani?

Solo nel futuro, nelle vette impervie che a tratti ci mostra, nella direzione che ci indica, possiamo trovare la forza di superare il senso di scoraggiamento che ci prende alla gola, vedendo la precarietà del passato. Solo nella speranza di un mondo migliore possiamo dare ordine e senso alle forme storiche. Solo come ponte di connessione tra il futuro e il passato, il nostro compito di storici è un compito vitale.

La ricerca dell’ordine storico come ricerca dell’uomo. Da quanto si è detto si potrebbe ricavare un primo indirizzo nella considerazione dell’ordine storico. Agendo nel circolo vitale del tempo, e vivendo della sua problematica, l’ordine storico è indeterminazione. Ma il problema della ricerca dell’ordine storico non è solo il problema di quello che l’uomo è in virtù dell’eredità che riesce a strappare al passato, ma è anche il problema di quello che l’uomo può essere. È questa possibilità d’interpretazione in senso di miglioramento, che conferisce all’uomo il sembiante d’indagatore. L’ordine storico ha valore effettuale perché concepito come precedente di uno svolgimento in corso. Donde gli scopi che lo causavano e lo agitavano nel passato lo continuano ad agitare nel presente e lo giustificheranno in una permanenza futura. Questo rapporto è di origine dinamica. Nella storia, nell’ordine che la promuove, nelle intime connessioni che la compongono, si può vedere chiaramente il rapporto tra l’essere-totalità e l’emergenza dell’essere-forma. L’esperienza storica è quanto di più palese ci è dato osservare nell’indagine storica. Questo rapporto è la forma di attività del mondo storico. Le fonti storiche non avrebbero valore alcuno se non considerate sotto questo senso. Esse ci pervengono crudamente, come fatti esteriori che incontrano ostacolo nel nostro procedimento riflessivo. Spetta a noi, alla nostra esperienza di uomini e di studiosi, il compito di cogliere in questo venirci incontro delle fonti storiche, il nesso strutturale che li collega all’elemento attivo che abbiamo definito come ordine storico. Dobbiamo superare la fase introduttiva dell’apprendimento del dato per addentrarci in quella speculativa della ricerca dell’ordine storico che presiede alla funzionalità esistenziale del dato stesso. Tutte queste operazioni procedono a una concretizzazione di valori valutabili esistenzialmente in tante prospettabilità per il futuro. Si tratta di un’opera di realizzazione di eventi futuri attuata sul passato. L’aspetto più duraturo e più interessante dell’ordine storico si manifesta nel permetterci quella apertura che conduce alla ricerca dell’uomo. Pertanto possiamo identificare la molteplicità di concretizzazioni di valori prodotta dall’identificazione dell’ordine storico, nella emersione uomo. In ciò si racchiude la storia, in quello che di vitale e di permanente può insegnarci, in quelle regole di ordine che può fare valere per il nostro futuro.

Acquisizione di esperienza e di vita, come è possibile vedere, valida non soltanto per l’uomo singolo, ma per tutti gli uomini singoli, in tutti i tempi presenti possibili, e funzione della realizzazione di tutti i futuri realizzabili. In questo concorda l’opera dello storico con quella del filosofo, in questo lo storico e il filosofo abbandonano le differenti posizioni per confondersi insieme, in questo l’ordine storico e l’esistenza si accomunano, in questo la storia e l’uomo si assomigliano.

L’ente-storico come temporalizzazione del dato-storico. La connessione oggettiva che prelude alla identificazione del dato-storico, come abbiamo visto, fa parte del complesso delle operazioni di un’indagine che affonda le sue radici nella matrice comune a tutti gli sforzi esistenziali: l’incompletezza e quindi l’angoscia.

È la problematica del tempo e la sua deleteria influenza che impongono questo stato di cose. Proprio dalla temporalizzazione il dato-storico riceve la sua investitura a ente-storico. L’uomo non può considerare dall’esterno il dato-storico, egli ne è partecipe, sia perché intimamente connesso a un processo storico, sia perché validamente garantito alla prospettabilità del futuro proprio dalla storia. L’uomo è un essere storico, provvisto di mezzi storici, formato da esperienze storiche, al di là della storia resta una nullità.

Vediamo adesso il grado d’interpretabilità del dato-storico in termini di ente-storico. Cioè vediamo in che modo si può dare interpretazione universalmente valida all’esperienza storica, quando che sia nel tempo. È la verità storica che deve trasmetterci l’ente-storico, anche se il dato-storico ne era potenzialmente negato.

Il dato-storico, una volta liberato a opera della filologia scientifica da tutte le scorie che lo rendevano inutilizzabile, viene sottoposto all’indagine storiografica. Ma nemmeno in questa fase il dato-storico è pronto a essere interpretato in termini di temporalizzazione e pertanto trasformato in ente-storico. Donde il nascere di storiografie idealistiche e romantiche, critiche e psicologiche. Vediamo come si deve procedere nell’esame dei dati-storici.

Prendendo in esame dei dati-storici, se si vuole fare opera duratura e veritiera, si deve — non mi si fraintenda — risalire all’origine di questi dati, alle cause che hanno permesso l’attuazione e la completizzazione di essi. Sulle nostre effettive possibilità di indagine di queste cause si nutrono dubbi di diversa origine e validità. Prima di tutto un concetto deterministico della storia non ha più ragione d’essere, dopo che lo stesso è stato messo fuori addirittura dalla fisica, dove pareva che non dovesse mai fallire. Secondo, il risultato della ricerca delle cause dipende dal modo di interpretazione usato nell’esame dei dati-storici stessi. Terzo, è assodato che non ci si può basare su casi analoghi, o su ripetizioni presunte, quando che sia, nella storia, potendosi trattare di eventi puramente accidentali. E l’elenco potrebbe allungarsi.

Però, una volta effettuata una stesura degli esami dei dati-storici, possiamo procedere a delimitare una linea di probabilità che ci permetta di intravedere le cause che li hanno prodotti. Eccoci, pertanto, davanti a una prima possibilità di interpretazione in termini storici esistenziali del dato-storico. In seguito, da quanto ci viene dalla fisica quantistica, sappiamo che con l’introduzione di nuovi dati-storici, possiamo avere una visione sempre probabilistica, ma più chiara dell’ente-storico. Come, d’altro canto, è da non dimenticare che non possedendo tutti i dati-storici possibili resta sempre aperta la questione del ritrovamento di altri dati-storici che possano fare aumentare l’approssimazione all’ente-storico in questione.

Tutto questo sembrerebbe indirizzarci verso una direzione stabile dell’interpretazione del dato-storico. Ma in quanto si è detto abbiamo presupposto l’esatta valutazione dei dati-storici esaminati, come se il loro valore presente fosse uguale e permanente al valore passato. Ciò non è esatto e l’abbiamo proposto per prepararci il terreno alla discussione seguente. La misurazione dei dati-storici è relativa all’impegno di ricerca che l’uomo pone in essa. L’investitura soggettiva, sublimata in valore oggettivo, non comporta una esattezza universalmente riconoscibile. Il tempo è sempre pronto, la sua possibilità di dispersione agisce e contribuisce a rendere indeterminata l’indagine condotta sui dati-storici.

È proprio la temporalità che noi riconosciamo alla storia il punto chiave in cui si autorizza l’emersione dell’ente-storico. Anche qui, l’eterno problema dell’uomo che cerca se stesso, muove a giustificazione del perché della ricerca. Anche qui, al di là della dispersione e del particolare, si cerca di dare una impronta riconoscibile all’essere. Anche qui, ci è possibile notare l’incompletezza dell’uomo che dal bisogno muove alla ricerca degli altri, direttamente o tramite i documenti da questi ultimi lasciati nei tempi passati, egli può soddisfare la sua necessità d’aiuto.

[“Studi e ricerche”, 1965, pp. 53-62, con lo pseudonimo di Guido Cossanich].

III. Il valore come delimitazione dell’esperienza
Nell’alternarsi delle lotte che l’uomo conduce nel mondo dell’essere che è suo, non si viene a costruire una solida base d’individualità capace di garantire l’indipendenza.

Non si forma una sfera a se stante e separata dai pericoli della dispersione, ma tutto l’essere rimane impegnato nella lotta in modo sempre più violento e compromettente. Di certo non ci si è rassegnati facilmente a un simile intendimento. Si è cercato in tutti i modi una costruzione progettante al futuro, ma le fragili impalcature idealistiche sono crollate al primo sollevarsi del vento della realtà.

Però nella lotta l’uomo non segue una condotta cieca, il suo non è un divincolarsi nelle strette dell’angoscia, ma è qualche cosa di più, un impegno di sorpassare quelle strette per arrivare all’esperienza: e questo impegno è assunto in vista del valore di questa esperienza. Ora, se l’esperienza tende al futuro (come temporalità) e se come determinazione intrinseca essa è passato, come valore essa è presente. Pertanto possiamo definire il valore dell’esperienza come la temporalità nel suo presente. Che un qualsiasi concetto di valore possa avere una realtà giustificabile in se stessa non è possibile ammetterlo, come ci pare improbabile intuire soggettivamente il valore anche nelle manifestazioni che esteriormente sembrerebbero tendere alla personalizzazione.

Il valore deve riconoscersi dall’interno dell’essere, non come puro atteggiamento soggettivo, ma come punto limite dell’esperienza. Il potere di delimitazione che stiamo riconoscendo al valore contribuisce alla identificazione della sostanza. Certo che procedendo in questo senso l’intero mondo umano corre il rischio di diventare qualche cosa di intrinseco e, pertanto, di personale. Ma non si tratta di una inerte considerazione, una sorta di contemplazione che astragga l’uomo dalle vicende concrete della vita, o che lo vincoli con forza al valore delle cose, diventato improvvisamente necessario. La criticità a oltranza di certi sistemi filosofici (Wittgenstein, Ryle, Carnap e i neopositivisti in genere), non può trovare dispensa dal bisogno di ricercare un valore nell’esperienza. Se così non fosse la nostra stessa vita sarebbe uno stupido gioco, e non varrebbe davvero la pena di soffrire tanto per continuare a viverla. È probabile, anzi da un punto di vista schiettamente scientifico è quasi certo, che tale ricerca non sia garantita. Ma come si può parlare di garanzia in una manifestazione dell’esistenza, come possiamo ricercare solide basi di sicurezza e stabilità dal punto di vista (necessario) dell’indeterminazione? Certo che se facessimo un inventario dei nostri mezzi d’indagine, delle nostre effettive possibilità di venire a conoscenza della verità, dell’essere, del valore, ecc., non rimarremmo entusiasti. Come primo, e potrebbe pure bastare, ostacolo, andando alla ricerca del valore siamo costretti a utilizzare dei simboli, male comune non solo a una indagine sul valore, ma a qualsiasi indagine filosofica. Mi si potrebbe obiettare che in questo caso l’indeterminatezza del simbolo avrebbe un peso maggiore che non in altri casi, ma in definitiva questi sono i mezzi, e non potendo migliorarli dobbiamo usarli nel migliore modo.

Ora, se il valore è sostanza non è affatto sostanza necessitante. La sostanza è la presenzialità dell’essere a se stesso, il punto infinitesimale di raccordo in cui l’esperienza, ricevuta l’investitura soggettiva, è pronta a ritornare all’essere-totalità per consentire l’eterna legge della temporalità. Se l’uomo vuole mantenere un valore alla propria esperienza, cioè se non vuole che quest’ultima sfumi in qualche cosa di vuoto e di utopistico, non deve aspettare doni dall’esterno, egli deve procedere verso la conquista che è sua, con la fermezza che sola può derivargli dalla convinzione della propria parzialità. Certo, nella quotidiana abitudine non si può parlare di valore in questo senso, è l’utilità il vero valore, la vita intera è dominata dal contrasto tra valore vero e valore fittizio.

L’aspetto abitudinario del mondo riconosce all’idea del valore una parvenza di astrazione, ma troppo debolmente. Le difficoltà che raffrenano il dipanarsi di quest’idea sono svariate e tutte ugualmente importanti. La religione, per esempio, compie il primo e più importante travisamento dell’idea del valore. Tutto ciò che ha valore è il fine ultimo e questo è il congiungimento con Dio. La religione sostituisce alla lotta l’attesa, al tormento intimo la rassegnazione, alla ricerca la fede, allo stimolo l’abbandono. Raggiungendo una perfetta aseità crede di alleviare i mali dell’uomo, ma in effetti finge di non vederli. L’uomo non può tendere a un valore assoluto, un valore eterno fuori del tempo. Egli si potrà solo illudere di raggiungerlo, ma questa illusione non lo pone al di là dell’ordine mondano delle cose. Certo, non possiamo pensare a una metamorfosi di quelli che sono i tradizionali schematismi della religione. Ogni pensiero liberamente scientifico deve, per ragione di cose, cozzare contro la religione, vuoi per il suo carattere deduttivo, vuoi per la ventata di critica che necessariamente deve portare con sé. Il senso di umiltà, di sgomento, di solitudine; la necessità di una salvezza, di una liberazione, di una redenzione; l’idea di un essere-supremo, di un Padre, di una Vita migliore, sono patrimonio di ogni religione e non possono trovare giustificazione o accettazione in nessun indirizzo critico-scientifico. Ogni tabù diventa illusorio davanti alla ricerca, ogni mito di colpa e di dipendenza non può trovare posto logico davanti alla scienza.

Dopo quello della religione un ostacolo non meno importante si pone davanti alla interpretazione del valore come sostanza: il concetto della morale corrente. Mentre la prima poneva il valore al di là del mondo, la seconda lo pone nel mondo, ma in un particolare atteggiamento del mondo e non nella sostanza. In ultima analisi questa considerazione del valore non è molto lontana dall’utilitarismo, tranne che in questo caso non si tratta dell’individuo, ma della collettività. Se un atto non è morale vuol dire che qualche cosa è intervenuta dall’esterno a renderlo immorale, qualche cosa che deve essere per forza di carattere astratto e non concreto. Questo risulta logico se pensiamo a tanta letteratura amorale che non è stata considerata tale perché toccata dalle ali del genio e resa capolavoro.

È chiaro come una interpretazione del valore condotta in questi termini, venga a perdere il significato esistenziale che abbiamo voluto dare alla nostra indagine. Per noi valore è un impegno all’attuazione della potenzialità dell’esistenza. Naturalmente non cercheremo in quest’insieme di simboli che ci siamo venuti descrivendo l’atto concreto che riesce a trasformare la potenzialità in attuabilità. Questo fenomeno si promuove e si concretizza nell’esperienza, il nostro assunto potrebbe, tutt’al più, valere come proposta.

Oltre gli ostacoli che abbiamo trattato, l’uomo incontra nella vita un dubbio, un mistero che quasi lo sorprende e lo mortifica. Egli lavora, soffre, opera, ama, si duole, ma non sa bene per quale motivo. Il motivo stesso della sua esistenza non lo vede, non riesce a trovare una giustificazione logica del perché egli esista. Solo nell’idea di Dio può trovare una comoda interpretazione di questo problema, che non potrà mai vedere vitali determinazioni al di là delle strettoie della sofferenza filosofica. Dio diventa così non soltanto la giustificazione dell’esistenza, ma il solo, unico, possibile, ammissibile valore. Il punto di riferimento e di paragone, l’oggetto che come dignità e grandezza non può avere bisogno a sua volta di una giustificazione. Come abbiamo visto in altra sede questa è una delle manifestazioni caratteristiche della viltà dell’uomo e della sua poca resistenza alla lotta. Su di essa si fonda la credenza di questo valore definitivo e i valori terreni vengono interpretati in guisa di corruzione del valore primitivo, fermo restando che anche queste parvenze di valori restano in vita per riflesso del valore unico. L’utilitarismo, la fede, il dubbio, e tutti gli altri ostacoli che si interpongono al puntualizzarsi della situazione esistenziale impediscono, di ragione, il consolidarsi dell’idea del valore come sostanza.

Queste precisazioni, che abbiamo condotto, ci potrebbero presentare direttamente un concetto oggettivo del valore, concetto senz’altro prematuro. Certo che il fatto di avere messo da parte ostacoli quali la morale corrente, la religione, Dio, l’utilitarismo, la fede, il dubbio, farebbero pensare alla necessità di superare ogni frazionamento della vita psichica, per abbracciare a pieno il valore inteso nei termini di oggettività. D’altro canto se abbiamo identificato il valore nella sostanza non vediamo adesso il perché non dovremmo identificarlo come oggettività. Ma non bisogna dimenticare che abbiamo inserito il problema del valore nel circolo vitale del tempo, anzi lo abbiamo puntualizzato nel momento più arrischiato dell’espressione temporale: il presente. Questo ci riconduce a un ripensamento dei nostri mezzi d’indagine. Se questi ultimi non sono altro che simboli, e se il nostro discorso non può avere significato alcuno che come progetto nel tempo, il valore per essere inteso nei termini di oggettività deve tenere presente l’ingerenza trasformante del tempo. Il valore non è eterno, perché attuabile nel presente. Una volta attuata, questa determinazione diventa la base di delimitazione per una successiva determinazione di valore. Procedendo in questo modo l’esperienza viene a essere determinata (almeno provvisoriamente) in quell’istante estatico che fa registrare il suo passaggio dall’essere-forma verso l’essere-totalità. In altri termini, quello che consente di fissare il valore dell’esperienza è la delimitazione dell’esperienza precedente. Da questo deriva l’impossibilità effettiva di dare misurazioni di valori uguali per esperienze diverse nel tempo.

Come abbiamo visto nemmeno il concetto di valore esce dalla trama generale dell’indeterminazione: la lotta. Ed è giusto che sia così. Se il valore fosse a portata di mano, se fosse un’entità a sé stante, una realtà a nostra disposizione, non abbisognerebbe del nostro intervento per sussistere, in ogni caso sarebbe staccato dal rischio del tempo. Invece il tempo lo circonda, la sua pericolosa azione lo limita e lo vincola. Soltanto attraverso i nostri sforzi la sua evidenza (e adesso potremmo dire senza rimorsi, la sua oggettività), diventa palese e solo attraverso il nostro riconoscimento può entrare a far parte del nostro essere. Da questi assunti parecchi svolgimenti si possono condurre. Se l’interpretazione del valore come sostanza avviene in termini di temporalizzazione, tutta la realtà deve essere riportata in questi termini. L’insieme dell’essere-forma, il suo ordine sistematico, l’organicità di certe sue manifestazioni, la imprevedibile complessità organizzata della natura, cedono le apparenze di intima connessione per denunciare gli interni problemi d’indeterminazione che saldano le giunture. Se il valore è sostanza l’uomo muovendo alla ricerca del valore incontra se stesso. Inserendosi nel momento estatico della temporalità, fissa i termini di relazione tra l’essere-forma e l’essere-totalità, rinvenendo in un unico punto la sua esperienza, la possibilità dell’esperienza e il valore di quest’ultima.

[“Studi e ricerche”, 1965, pp. 113-117, con lo pseudonimo di Guido Cossanich].

IV. Primo saggio su Machiavelli: L’uomo
La mia occasione di intraprendere lo studio di Machiavelli risale a molti anni fa, quando, uscito da poco dall’ombra, forse pesante, delle teorie crociane, mi accinsi a muovere i primi passi in una direzione non frequentemente battuta dagli storici della filosofia.

Era il tempo aureo dell’esistenzialismo, delle dottrine nulliste e della malinconica e rassegnata versione positiva di Abbagnano. Le puntate fenomenologiche di Enzo Paci non avevano ancora la forza che seppero poi trovare qualche anno dopo, mentre il neopositivismo italiano scopriva, e le sbandierava ai quattro venti come verità incontrastabili, le continuazioni americane delle teorie viennesi.

La mia strada verso Machiavelli partiva, in quel tempo, da una occasione di natura prettamente filosofica. Come filosofo della pura politica mi si prospettava l’indiscussa necessità d’indagine, troppo legato restava il suo nome a ricerche meno specificatamente improntate a considerazioni di scienza politica.

Adesso [1968], riordinando il gran quantitativo di materiale raccolto, non sono pochi i dubbi. Ripresentare all’attenzione il problema “Machiavelli”, anche se limitatamente all’aspetto della visione politica, nel clima attuale e dopo tante e così autorevoli interpretazioni, non è compito lieve. Per prima sorge spontanea la domanda se tale fatica debba considerarsi legittima, se ancora oggi, nel periodo travagliato e dubbioso che veniamo conducendo, una voce proveniente da tanto lontano possa avere la forza di farsi intendere. In secondo luogo riesce difficile immaginare come, ammessa la bontà della prima ipotesi, la viva sostanza del discorso politico del fiorentino, possa essere riscoperta, ancora una volta, fuori delle vuotaggini e delle sovrastrutture che i secoli e le false ideologie su di essa hanno accumulato.

Non adirata e sconvolgente come quella di un Savonarola, più tagliente di quella del Guicciardini, meno dottrinale di quella di Pomponazzi, ma molto più larga e allusiva di quella di un Leonardo o di un Galileo, la voce di Machiavelli ci parla delle sue pene, delle pene della sua Firenze, dell’Italia tutta, fuori dell’angusta cerchia intellettuale che sarebbe lecito presupporre in un uomo del suo tempo. E il linguaggio è quello eterno della realtà. È l’uomo nuovo che viene avanti dalle sue pagine, l’uomo nella piena affermazione della nuova dignità acquisita con la forza dell’espressione che tutto un secolo aveva contribuito a fondare.

In questo senso il Machiavelli è un maestro. Non solo per il pubblico ristretto degli Orti Oricellari, ma per tutti gli uomini, di tutti i tempi, sotto tutte le bandiere di Stato o di religione.

Ecco perché riteniamo possa riuscire attuale, come se avesse da poco concluso la sua fatica terrena e non come un vecchio letterato che vestendo in altra foggia il proprio pensiero non può arrogarsi la pretesa di capire le nostre necessità.

Tante e continue sono le alternative, altamente drammatiche, che si prospettano al mondo contemporaneo. Mi è sempre riuscito odioso il tentativo di riportare discorsi validi per il passato ad argomenti di carattere contingente, quasi si trattasse di un vestito già di moda che un sarto abile riesce a trasportare avanti negli anni. E non desidero smentirmi in questa occasione. Penso solo come sarebbe istruttivo, per tanta gente che tiene fra le non troppo delicate mani le sorti della nostra vita, dare una piccola lettura alle sentenze e ai pensieri dettati da questo modesto letterato di tanti secoli fa, ormai assolutamente sorpassate! Chissà che non trovino da conto maggiormente queste vecchie pagine, di tutte quelle, recentissime, che continuamente si vanno stampando ogni giorno di più e che sproloquiano di politica come farebbe un pazzo di matematica.

Ma, evidentemente, l’attualità di Machiavelli può anche non trovarsi per questa strada e quindi occorre ricercare un altro pretesto alla stesura delle presenti pagine.

Valido o non valido un discorso attualizzante è sempre un discorso. Le parole – alle volte per fortuna – sono soltanto parole. Se Machiavelli è da considerarsi valido e attuale anche per problemi di carattere contingente, può dimostrarsi con una breve ricerca comparativa, ma non vorremmo correre il rischio di scrivere cose ovvie, dando l’impressione di ricamare deduzioni su avvenimenti ormai consacrati dalla storia, traendo paragoni dalla vasta opera del fiorentino.

Scartata questa possibilità ci resta l’altra, credo validissima, dell’eternità di un “grande”. Al cospetto di un uomo di così vasto ingegno e di tanta perspicace capacità di arrivare al nocciolo supremo delle relazioni che determinano il comportamento dei popoli, non si può non sentire il bisogno di desiderare che altri prosegua nell’indagine e nello studio.

Il secondo ostacolo di legittimità assume aspetti più difficili. Anche riuscendo a venire fuori dai vasti componimenti di tanta critica filologica, bisogna fare i conti con lavori critici di maggiore respiro, portati avanti da grandi nomi anche se nella maggior parte dei casi non più validi, perché troppo legati a insegnamenti di scuola e di parte, lo stesso difficilmente eludibili perché garantiti dall’autorità dei loro assertori. Non che si voglia, in questa sede, istituire paragoni tra l’opera di De Sanctis o di Croce con quella di Villari o di Tommasini, o, sia pure, di Toffanin o di Russo. Ma il pericolo, sebbene di altra natura, persiste e si mantiene; tanto più grave quanto più legato a motivi ideologici anziché filologici.

Nello studio della cultura di Machiavelli si è costretti a farsi strada tra la vasta preparazione che in un uomo del suo tempo non costituiva niente di eccezionale. Sappiamo che questo desiderio di universalità nella preparazione culturale vedrà gli ultimi tentativi di attuazione in Campanella, uomo di un secolo successivo a quello di Machiavelli. Eppure salta subito evidente, tra le deviazioni per altro di grande valore – vedi la Mandragola – il suo indirizzo principale, lo scopo unico della sua vita di studioso e di politico: lo studio degli uomini.

Non che nelle manifestazioni del suo ingegno che non si rivolsero alla politica, egli abbandoni lo studio dell’uomo, che a tale fatica sempre attinse per tutta la vita, ma solo nel più alto respiro delle cose dei prìncipi e degli Stati, gli parve riconoscere il campo più adatto a gettare le basi dottrinali che riassumessero tutti i suoi studi e tutte le sue esperienze di vita pratica.

Quindi è proprio al concretizzarsi in dottrina delle sue teorie politiche, che lo studio della cultura di Machiavelli deve indirizzarsi. In questo sforzo è possibile osservare, assai ben delineati in alcuni punti e in altri piuttosto oscuri, due movimenti: il primo è quella sua possibilità di utilizzare, al di là della mera erudizione cronachistica, talché alle volte non avverte nemmeno la necessità di spartire bene credenze e verità, la scienza storica antica, nel pieno della propria raggiunta maturità intellettuale, e di rivolgerla alle sorti della sua Firenze, e anche per menare autorizzazione più alta, all’ideale lontano e sentimentalmente vagheggiato, della sua Italia.

Il secondo movimento è costituito dai temi che di volta in volta viene trattando, temi che diventano figurazioni epiche e aperture visive di secoli, pagine immense non mai aperte prima del gran libro sconosciuto del mondo. Forse in molti casi semplici intuizioni e orientamenti ma che, dopo di lui, prendono la forma di dogmi politici.

Il primo moto viene fuori da una ininterrotta tradizione dottrinale che si riassume in lui, ma il secondo si pone autorevolmente all’apertura di una sorta di tradizione filosofica che da lui promana. Assistiamo all’esame degli antichi ordinamenti della repubblica romana, non in modo sistematico e nemmeno criticamente lodevole, eppure è di storia che si parla in quelle disorganiche annotazioni, come non è possibile dedurre, nemmeno oggi, da una lettura diretta degli estranei capitoli di Livio.

Perfino i luoghi comuni di un Medioevo nebulosamente affidato alle imprese dei barbari, diventano pagine di mirabile storiografica, addirittura – è l’opinione di Croce – tra le migliori di tutti i tempi.

Nel pieno rigoglìo della ricercatezza rinascimentale della lingua e dello stile, quest’uomo, che pure altrove aveva dato non pochi esempi di pessimo acconsentimento alla vuotaggine delle norme estetiche del suo tempo (Decennali), abbandona le inadatte vesti del retore, per scendere in piazza, accanto al Savonarola, accanto agli uomini nuovi, pronti per affrontare le nuove battaglie. Ecco il suo stile diventare disadorno, schietto, tagliente. I suoi concetti venire su repentini, senza fronzoli, quasi come uno che ha fretta e teme di non giungere in tempo a completare quello che ha da dire. Ed esempio notevole di stile ebbe a dare in quelle pagine in cui ricercò la sostanza, cioè in quelle più nude ed essenzialmente dirette a uno scopo di carattere scientifico e, per ciò stesso, più adatte a mettere a fuoco il suo pensiero. Sono le pagine dedicate alla complessa formulazione della sua filosofia politica.

Certo non può definirsi uno scrittore filosofico nel senso tradizionale della parola. Gli manca la “sistematicità”, la diretta e costante presenza di un fine da raggiungere, la costruzione progressiva delle varie sintesi in vista di una definitiva sintesi terminale. Il suo procedere pare incontri, a volte, una battuta d’arresto, e che la vera natura del suo discorso subisca cambiamenti con più frequenza di quanto non sia strettamente necessario: ora precettistica, ora storica, ora retorica, ora erudita. L’alzata riflessiva sembra diventare una sorta di divagazione, quasi un brusco distogliersi da pensieri diversi e meno gravi.

Ora se di limite s’ha da parlare non è quello della mancanza di un “sistema”, donde la modernità di uno scrittore che tramanda le sue riflessioni a distanza di tanti secoli. L’asistematicità, il rifiuto in quelle mirabili costruzioni filosofiche, apparentemente perfette in tutti i loro particolari, ma solo apparentemente, è una conquista della filosofia contemporanea. Eppure anche in passato non mancarono – e Machiavelli costituisce un elevato esempio – uomini che rifuggirono dal mistificare il proprio pensiero dentro i drappeggi ordinati del “sistema”.

Non che la dottrina politica del fiorentino sussista quando si interrompe il procedimento ragionativo-espositivo e ci si inoltra nel procedimento ragionativo-riflessivo: si tratta di due ordini paralleli e il loro reciproco interferire non spezza che apparentemente il corso di ciascuno.

Questa premessa è bene averla presente onde disporci noi stessi a non travisare il suo pensiero.

Risulta ovvio, a questo punto, come occorra abbandonare, in un’indagine della dottrina politica di Machiavelli, l’impulso fondamentale della critica filologica, che il concretarsi in figura di studioso dipenda da un numero molto ampio di consultazioni e ricerche dottrinali. Come se un uomo fosse una biblioteca il cui valore si misura dal numero dei volumi che contiene e dagli autori che è possibile reperirvi.

Su questo punto si mantiene tanta critica allenata all’arte incomparabile dei segugi della penna: scovare, interpretare e trascrivere, per la gioia dei non numerosi lettori: temi, divagazioni mnemoniche, ricordi libreschi, ripetersi di nomi e di date, titoli di libri, numeri di pagine, divergenze delle varie lezioni, e del tutto farne valida premessa per un inquadramento che oserei chiamare statistico.

Ma un procedimento del genere suona scapito a una interpretazione che vuole uscire da un vuoto schematismo concettuale. Ed il primo a reagire credo sia proprio lo stesso Machiavelli, che risulterà incomprensibile da questo punto di vista.

La ricerca del valore dell’opera del fiorentino deve avvenire superando in pieno la sua apparente frammentarietà, le comuni divagazioni e le frequenti divergenze nelle fonti: l’erudizione ha la sua importanza, ma cercando questo soltanto si è sbagliato indirizzo, Machiavelli può fornire ben poco. Se si cerca qualche cosa di più, come il senso della storia e la grande misura dell’idea della politica disancorata da ogni residuo morale tipico della speculazione scolastica, se si cerca l’idea conduttrice delle genti e dei costumi, se si cerca il supremo omaggio alle età del passato, cioè la raccolta della loro eredità, di quello che veramente di vivo esse possono tramandare ai posteri, se tutto questo si cerca e si reputa più importante della misera citazione o dell’indagine erudita meschina e circoscritta, allora Machiavelli è l’autore da studiare.

[“Studi e ricerche”, 1968, pp. 521-525].

V. Secondo saggio su Machiavelli: Teoria della fortuna
Conducendo man mano la ricerca di una nuova misura della realtà, portando progressivamente ordine e senso a una tradizione che poteva sembrare farraginosa e fredda, improntando al segno della propria presenza un’interpretazione decisamente rivoluzionaria delle esperienze del passato, rifiutando l’eredità medievale ed universalistica per un più concreto indirizzo di ricerca, viene ad attuarsi in Machiavelli una sorta di riduzione dell’antico orgoglio filosofico e teologico. Il segno di questa modificazione lo possiamo cogliere precipuamente nei vari passi che tratteggiano una vera e propria “teoria della fortuna”.

Il primo punto che bisogna tener presente è la relazione con il dogma fondamentale del cristianesimo: l’esistenza di un Dio motore. In tutto il suo discorso, sia che formi parole espositive sia che progetti segni anche più profondi d’una maturata umanità e di un riconoscimento – sia pure tardivo – del valore incredibilmente alto dell’uomo; è proprio la necessità dell’attuazione del processo di rinascita mentale dell’uomo che viene fuori dalle sue puntualizzazioni in merito al problema religioso.

Finché la vita – e il Medioevo segna il massimo concetto raggiungibile dall’intelligenza in condizioni di inferiorità – risulta incentrata in quel dogma, nessun processo di rinnovamento poteva condursi a termine:

Creder che sanza te per te contrasti
Dio, standoti ozioso e ginocchioni,
Ha molti regni e molti Stati guasti.
E son ben necessarie l’orazioni:
E matto al tutto è quel ch’al popol vieta
Le cerimonie e le sue divozioni:
Perché di quelle in ver par che si mieta
Unione e buono ordine, e da quello
Buona fortuna poi dipende e lieta.
Ma non sia alcun di sì poco cervello
Che creda, se la sua casa ruina,
Che Dio la salvi senz’altro puntello;
Perché e’ morrà sotto quella ruina!
L’ateismo può anche avere chiesto all’uomo l’orgoglio di crescere da solo contro il divino, il naturalismo proporgli la necessità disperata di una separazione incolmabile, ma ogni concezione del mondo che nel dualismo causato dalla compresenza di umano e divino, si arroghi il diritto di accettare come punto centrale del proprio svolgimento speculativo, l’umano, può evitare di costruire una sovrastruttura fittizia sulle gesta e sulla condanna dell’uomo, solo a patto che abbandoni del tutto il processo trascendente instaurato con la compresenza di umano e divino.

Solo in questo modo si potrà entrare di diritto in un campo d’indagine fuori del cielo della teologia e, contemporaneamente, evitare la gratuità d’un ateismo che minaccia di presentarsi come un assurdo processo trascendente con il segno cambiato.

In Machiavelli questa necessità di abbandonare qualsivoglia aspetto del processo trascendente è tanto connaturata, da una così assidua meditazione nel tempo e da una così retta frequenza nei ricordi, da sembrare persino inesistente. Non che dalla empietà, per timore delle tempeste del mare aperto, si vada verso la sterilità delle idee. Il solo fatto di rifiutare un mondo dominato dall’organizzazione intellettuale del divino è come un tirare i remi in barca sull’argomento della trascendenza.

Machiavelli non fa il processo a Dio, ma all’uomo. Questo particolare aspetto della sua riflessione deve tenersi presente, onde non travisare per blasfema offesa allo spirito del suo tempo quello che invece si deve considerare come notomistica precisione di analisi sociale e storica.

La sua zona è legata a una più pura naturalità del divino, fuori dei segni equivoci dell’interesse e dell’ipocrisia, diritto verso la certezza di un innalzarsi alla comprensione dell’umano, per giungere senza fatica a un successivo miglioramento del rapporto tra spirito e materia.

La situazione, in un certo senso, si è capovolta. L’uomo non tenta più Dio, neanche con l’intenzione di non essere indotto al male e al peccato, per restare innocente. In definitiva potrebbe sembrare sacrilega la presunzione di cercare fuori della tradizionale presenza teologica la propria trascendenza. Ma il dramma religioso di Machiavelli si accentra proprio qui: la realtà nei suoi termini di assurdo rifiuto della razionalità e dei valori superiori dello spirito, egli è andato a cercarla con ostinazione, per paura di vedersela sfuggire. Il suo mondo sembra nato da una paura, pur nella fredda descrizione di certe sue riflessioni sulla natura umana e sui mezzi da impiegare per piegarla ai fini prefissati, ed è proprio da quel vuoto morale che con ostinazione egli scava attorno alla vicenda umana, che la realtà gli si prospetta davanti, nuda, inesorabile, incombente.

Il problema della fortuna è di capitale importanza nello studio di Machiavelli. Vi si può notare l’alternativa spasmodicamente sismografica di un uomo che si fa centro dell’universo proprio per dare la prova che il centro può essere altrove: proprio nell’astrazione estrema della personale riflessione del filosofo, in quella zona rarefatta in cui cadono per sempre le assurde beghe della meschina umanità per aversi la “scienza” nel significato più alto di questo termine.

E questa prova Machiavelli la dà violentandosi a dettare una, a volte assurda, apologia dell’io, sin quasi a dare l’impressione di aver messo in campo una sfida a Dio. Egli ha voluto che il complesso dell’io fosse empiamente perfetto, perché quella perfezione risultasse già un errore, nel senso di sembrare ricalcata sulla tradizionale perfezione posta fuori dell’io stesso.

In quest’atmosfera di tensione è possibile fare non poche scoperte: quello che nella sua dottrina appariva fragile diventa solido, da una incongruenza scaturisce un dogma. A volte può sembrare un maniaco, proprio come un polveroso alchimista che tenti di ricavare l’oro da un ridicolo intruglio. Ma alla fine è lui ad avere ragione, perché l’oro è venuto, ed è oro come quello naturale, col vantaggio d’essere nato da un terreno inadatto, contro le aspettative di tutti.

La fondazione dell’uomo nuovo era fissata dal cristianesimo a partire dal dramma del Golgota e si andava ripresentando in molti atti di uomini particolarmente legati alla concezione scolastica della vita. Ma era un inno trascendentale che celebrava la danza senza fine della creatura intorno al creatore, una strana elisione di ogni rapporto terreno o, se si vuole, nei casi migliori, una strana sospensione momentanea. La figura del vecchio Adamo scoloriva abbandonata a se stessa, mentre nella realtà si ripresentava puntualmente con tutti i segni dell’inesausta concupiscenza a dettare, via via, le pagine concrete della storia. Evidentemente lo scolorimento era da collocarsi solo in relazione a una particolare visione della vita, visione che, per altro, rappresentava, a quei tempi, una grande fetta della generalità. Col Rinascimento, nel suo principio e poi sempre, la figura dell’uomo assume una nuova e ben diversa mitografia, riesce per la prima volta a rapprendere una vivida rivelazione dottrinale che esula dalle antiche presenze sante: non per questo le opere del vecchio uomo segneranno un accentuarsi delle eterne vicende di corruzione e di sangue.

Fu una visione miope della realtà storica a fare affermare l’antitesi netta tra l’uomo medievale e l’uomo del Rinascimento, e solo la ripetizione, innumerevoli volte fatta, di uno stesso errore, lo rese credibile agli inerti. Certo dalla credenza nell’intervento del divino provvidenziale alla acuta analisi dei caratteri e degli interessi degli uomini, il passo non è breve e non poté essere fatto di un fiato.

Riportando il nostro discorso su Machiavelli, se di distacco s’ha da parlare è con l’autorità terrena della Chiesa, che gli uomini di allora combattevano più volenterosamente concordi di quanto non combattano oggi. Se il suo polemicismo prendeva non di rado un’agrezza tipicamente fiorentina, non abbandonava mai nell’escussione teorica la riprova, dopo essere stato sconfitto nell’applicazione pratica. In effetti, in un’epoca in cui ferveva la lotta tra naturalismo e ascetismo, egli non perdette mai la utopica sicurezza di arrivare a una conciliazione.

Vi sono dei momenti in cui sembra impossibile andare avanti, quasi una crisi interna causata da intemperie sentimentali. Non sono mancati coloro che, pur così attratti dalla sua dottrina, spesso sono rimasti interdetti davanti alla figura del Valentino o ai casi di Castruccio, e hanno cercato di limitarne l’estensione a semplici esplosioni intime dell’animo, causate dalla lotta più acerba. No! i motivi di quelle figure sono altri.

Riconosciuta la difficoltà di pervenire a risultati concreti con le semplici affermazioni polemiche, e nell’attesa di quella superiore conciliazione tra l’uomo e la divinità che era e si palesava nella verità, quando che fosse nel tempo, deriva da tutto questo un attivo senso di moto, ben differente dal moto ateistico che a ogni istante ha bisogno dell’alzata riflessiva per evitare di affacciarsi sul nulla dell’atto irreparabile e gratuito. Dacché il trascorrere degli uomini nella storia poteva e doveva essere capito da una superiore direttiva teodicea, ma non intaccante il libero arbitrio. Ne deriva un metodo di integrazioni successive, conciliazione anch’esso, tra le più circoscritte, dei termini contrastanti della provvidenza remota, non più del tutto certa, e l’avventura dialettica affascinante in cui sempre più si accumulano le prove di una certezza, entrambe in contrasto come due duellanti nel giudizio del Signore.

La parola della teologia medievale, con tutto il suo apparato di sopravvissute superstizioni pagane, impegnava a sé il mondo, vincolando l’uomo, in tutti i suoi atti, riducendo la linea della sua condotta in un unico punto fermo: Dio. Machiavelli ha chiaro davanti a sé il cammino: dettare i termini essenziali di una dottrina capace di diventare punto di paragone per tutti i regnanti, disponendosi lungo un cammino terreno avente un chiaro fine improntato alla sopravvivenza dello Stato, consentendo all’uomo, nell’attesa del rinnovamento, di trovare conforto e forza anche al di fuori del sole troppo fervido e del vento troppo rigido di una malintesa trascendenza a Dio.

La concezione di una teologia, quale rivelazione per formule, per parole e atti del Divino, avrebbe dovuto comportare un’esclusione dell’idea della Fortuna. Le idee medioevali su quest’argomento costituiscono uno dei punti più notevoli dal quale trova origine una sempre presente corrente di sfiducia nel Dio del Cristianesimo e una corrente storica altrettanto forte portata a rifiutare i dogmi della finalità e dello svolgimento preordinato, dogmi per altro troppo spesso presentati in forma mitologica e, quindi, facilmente coinvolgibili in arbitraria superstizione.

La posizione, alle porte del Rinascimento, era la seguente. Il pensiero antico aveva tenuto in gran conto l’idea della Fortuna, associandola in vario modo, ora con la Divinità positiva, ora con quella negativa della imperscrutabilità. Anche tra i migliori storici non è possibile trovare dissociata dagli eventi della realtà questa mitologica concezione della Fortuna. Da ciò le frequenti superstizioni ricorrenti in filosofia, storia, costume, scienza, letteratura dall’antichità agli inizi del Rinascimento.

Questo il punto che si può ricavare dalle letture prerinascimentali. Negli uomini educati alle virtù umanistiche la Fortuna e la Provvidenza risuonano di aspetti, se si vuole diversi, ma lo stesso ripresentanti superstizioni e miracoli, forse in forma spiritualizzata – come vorrebbe Croce – ma lo stesso legati al rifiuto della realtà nella sua armonica organizzazione. Tutto questo malgrado gli strali di un Bruno che si erge quale solitario combattente nella grande uniformità delle interpretazioni.

Giovanni Pontano nell’Aegidius e nel De Fortuna, Francesco Berni e Iacopo Nardi, Sassetti e Ariosto, per non citare che i più noti, parteciparono tutti alle dispute sulla Fortuna.

In Machiavelli, ancor prima di parlarne, questa polemica era sentita presente, mescolata alla vita, con una frequenza che noi moderni non possiamo capire. Era dolore per lui, vedere come si fosse perduto non solo il senso di rintracciare un sentiero filosofico, ma la credibilità di tal senso. Le difficoltà di combattere con le forme sempre più abbarbicate della superstizione, anche se adesso abbigliate in abiti di diversa foggia, aumentavano sempre di più. Il fatto stesso di vedere, non poche volte, l’intellettualismo del clero accorrere a distogliere i creduli dalla suggestione dei visionari, dovette influire negativamente sulla giusta considerazione di giungere a dettare i termini di un miglioramento.

Non potendo rifiutare, in pieno, l’idea della Fortuna, Machiavelli dispone una scala all’impervio cammino dell’intelligenza.

Procedendo nella lettura si potrebbero collocare, lungo l’ovvia successione del tempo, i tratti dell’opera in cui si affronta il problema della Fortuna. Ma questo lavoro, quand’anche necessario in altra sede, risulterebbe insufficiente a provare, in questa, le relazioni con il più ampio problema religioso. Infatti, quando il nocciolo della questione assume contorni tanto sfumati, come avviene nel campo dell’indagine alle intenzioni critiche di Machiavelli, le presenze dell’opera, disponendosi l’una dietro l’altra, in un ordine estraneo alla stessa direttiva voluta dal pensatore, contribuiscono poco alla chiarezza del problema finale.

Quando la successione diventa superiore agli stretti legami del tempo materiale in cui i vari brani dell’opera furono redatti, quando si guarda al momento culminante d’un dialogo che resta continuo, al di là di momentanei ripensamenti e ritorni, si esce fuori di una formula tanto breve quanto fasulla, per giungere a una conoscenza forse più intima.

Prendiamo il caso del Valentino. Quando la Fortuna interviene nel condurre un uomo al comando, la strada è fatta di volata, ma è la permanenza che richiede accortezza e volontà di dominio. Questa la tesi di Machiavelli. La Fortuna recita ancora un ruolo, forse anche decisivo, ma è sempre l’intelligenza umana a decidere nel tempo. Si tratta della contrazione estrema di una formula filosofica che abbiamo visto dilagare negli anni precedenti alle riflessioni di Machiavelli. La figura di Valentino si cristallizza nella formula storica dove il decadente trascendentalismo medievale, se si vuole, non è estraneo del tutto, ma dove appare definita la possibilità della ragione di circoscrivere un limite, quando che sia ulteriormente circoscrivibile, alla superstizione e all’ignoranza.

Ma il patrimonio di segni e di simboli, indiscutibilmente connaturato alla preparazione dottrinale di Machiavelli, trova una strada diversa per venire fuori. Osserviamo sempre la figura di Valentino. Machiavelli lo cita a esempio affermando, in nome dell’avvenuta separazione della morale dalla politica, che non avrebbe alcun dubbio a proporre le azioni sue come modello per tutti gli altri prìncipi. Il fatto della sua caduta si deve, pertanto, attribuire a estrema malignità di fortuna.

Come si vede è ancora presente il filone delle superstizioni medievali. Come ben affermò Croce, sembrerebbe che Machiavelli “assegni il corso degli avvenimenti per metà alla Fortuna e per metà alla prudenza umana”, con la precisazione che le ammissioni alla Fortuna sono da considerarsi residui che non inficiano il punto centrale della dottrina: le norme di comportamento pratico per mantenere e consolidare il regno.

Come conciliare i termini così dissonanti di superstizione e dottrina? Certo il problema non è facile, talmente in profondità si trovano disposti nell’opera sua.

Se superstizione significa farragine mentale e colpevole pigrizia, tutto ciò non si può dire presente nell’opera di Machiavelli, così consapevolmente si rivolge allo studio dell’ordine storico e alla individuazione e separazione delle istanze morali. Se dottrina significa privare, con paziente ottusità, il tempo della sua legittima forza di stendere un oscuro velo sulle cose inutili e superate del passato, anche ciò non si può dire di Machiavelli, basta considerare la naturale agevolezza con cui la poca dottrina che è in lui, fuori della sua opera si accende di viva luce e si moltiplica.

Questo apparente contrasto è quasi sempre presente in ogni filosofo, intorno al quale il mondo è tutto in movimento e tutto si scopre con momentanei balzi d’intuizione, per poi chiudersi in oscuri baratri intellettuali. Tanto più in alto si spinge l’intelligenza dell’uomo, tanto più corre il rischio di fare rovinose cadute. Ma la virtù sta nel salire in alto, senza paura di cadute eventuali.

Sempre sul problema di Valentino non è che si arresti al tetro limite della maligna fortuna, ma, superato il ritorno momentaneo delle presenze oscure, costruisce una giustificazione logica, basata sulla mancata ingerenza di quel principe nella elezione di Giulio. È pur vero che l’evasione nel campo medievale della superstizione può rintracciarsi nella sua opera, opponendosi alla realtà e quasi rifiutandola, ma si tratta di sussulti, dai quali viene fuori una raffinata considerazione dei limiti e delle possibilità della specie umana, nella sua più alta incombenza: l’azione politica.

L’opera di Machiavelli costruisce una dottrina e tuttavia oltrepassa la validità oggettiva, la saldezza accertabile di una sistemazione logica: tutto vi si raccomanda per la presenza operosa di un uomo, per il caratteristico sigillo di uno stile. La critica non è mai andata spedita nel recupero del significato della sua opera, spesso si è quasi accorta a stento della grande umanità di quest’uomo, così spesso tacciato d’essere stato disumano, da chi forse aveva un significato del tutto personale della parola “umanità”.

[“Studi e ricerche”, 1968, pp. 525-531].

VI. Terzo saggio su Machiavelli: Il metodo
Il punto fondamentale su cui trova sostegno e giustificazione tutto il lavoro di Machiavelli è il metodo.

Fare rivivere la sapienza degli antichi e riportare le cose presenti a quella fonte, perché vi trovino ispirazione e indirizzo. Tema diffusissimo nell’epoca che veniamo considerando ma che solo in lui diventa preparazione organizzata di idee, così come negli altri era rimasto costumanza o semplice ripercussione di esausti tentativi dottrinali.

Eppure questo dogma dell’imitazione, con l’indirizzo metodologico che ne consegue, non esaurisce appieno il campo delle sue responsabilità teoriche. Anche se ci è possibile prenderne in esame il meccanismo, anche se possiamo rinvenirlo alla base di tutta la sua costruzione, non significa che in questo modo si possa riassumere la sua dottrina o costringere la visione filosofica del suo compito politico.

Va bene che il tronco della sua speculazione umana si rivolge al conoscibile, imponendo realizzazioni sempre concrete che non trovano riscontro in contemporanee esercitazioni astratte e formulazioni metafisiche, richiedendo una base di accertamento storico, eppure è sempre possibile sorprendere altri itinerari dell’intelletto e del senso, via via con inconcludenze pratiche maggiori, dentro cui si respira aria di rinnovamento, se si vuole un’aria diversa da quella che rinveniamo nell’esame della preoccupante figura di Savonarola, ma lo stesso rigettante una interpretazione della tradizione in termini di ristagnante passività.

Uno studio della storia, da utilizzarsi in senso pragmatico quale metro valutativo di questioni presenti, è sempre uno studio costretto dentro limiti che possono rivelarsi, a ogni momento, estranei e artificiosi. Si tratta di vedere in che senso possiamo valutare l’opera del passato, le testimonianze che di questo perenne concretizzarsi ci sono giunte, le tradizionali interpretazioni di quelle testimonianze. Tutto si amalgama, si confonde, si sovrappone. Avvenimento reale, documentazione, esposizione, interpretazione, conoscenza. In questo modo la realtà del passato e i suoi resti concreti subiscono l’azione dell’indagine storica. Storia e storiografia si sovrappongono finendo per distorcere l’antica realtà delle cose e per legarla alla nostra presente interpretazione, quasi per farla rivivere.

Se questo avvicinarsi al passato avviene in termini per quanto possibile svincolati da una situazione contingentale, quale che sia, allora avremo un tentativo di rivivere quella lontana realtà. Invece, nel caso del raffronto, anche fatto allo scopo di “ricondurre alle origini”, tipico di Machiavelli, non si può sfuggire a una trasposizione di problemi presenti in un passato remoto in cui quei problemi sarebbe stato impossibile pensarli e, tanto meno, venirne a capo.

Ma non è nostro compito stabilire quale potrebbe essere il migliore metodo d’indagine storica. Per prima cosa dobbiamo infatti parlare del metodo impiegato da Machiavelli, dopo possiamo passare a occuparci dei risultati concreti ottenuti con l’impiego di quel metodo. Soltanto in ultimo ci sarà dato capire, almeno speriamo, come quei risultati erano già scontati in conseguenza dell’impiego di quel particolare metodo, oppure come sia stato possibile ottenerli con una sufficiente dose di oggettivazione.

La riflessione valutativa delle antiche costumanze impone un’indagine non più basata su semplici esiti stilistici e verbali, ma un’osservazione diretta delle vicende umane condotta al lume di una concezione di limiti spirituali dell’uomo, con tutte le meschinità relative e senza i falsi eroismi, senza le illusioni di una permanenza divina che ogni giorno di più minaccia di non ritrovarsi.

Purtroppo la profonda asistematicità del procedere causa in Machiavelli una doppia possibilità d’intesa tra quello che le cose significano di per se stesse, e quello che invece assumono nell’incastonarsi nel vivo del ragionamento. Una grande convertibilità esiste nello spirito d’indagine applicato dal fiorentino. Si tratta di una vera sintesi di continua unione e distacco, semplice intervento e oggettivazione sicura, accettazione fiduciosa e sottile senso critico nello scovare il significato recondito che per secoli aveva tradito i ricercatori. Due poli opposti, insomma, quello dell’imitare e quello del creare, fusi in qualcosa di più alto che non una semplice applicazione occasionale di precettistica filosofica. E qui, oltre che la chiave di volta di tutto il sistema, si colloca uno degli insegnamenti più alti di Machiavelli.

Non bisogna illudersi però sul vero significato del “ritorno alle origini”. Più che come precetto pedagogico, esso è valido come “riduzione al limite”. Machiavelli non era un utopista e quindi non poteva non vedere l’estrema disparità del Rinascimento con le età che andava esaminando. Volere costringere il suo pensiero in una formula così angusta, significherebbe macchiarlo di una ingenuità che non possiede. Quando assistiamo alla sfilata delle antiche costumanze e degli uomini antichi, è la tematica del “limite” la vera trama del sottofondo, mentre un sottile “realismo” compare dietro il dogma precettistico.

E questa presenza correttrice si manifesta man mano che procediamo indietro a scoprire le istanze imitative, idealmente poste prima dell’operazione di sintesi, ma liberate da un malinteso tecnicismo che facilmente distruggerebbe ogni forza d’insegnamento e di vita. In Machiavelli vi è qualche cosa di immobile, quando prende a condurre l’uomo alla scoperta della nuova filosofia della politica.

Con un poderoso sforzo di liberazione egli riesce a presentare, nel loro nudo contrasto, la ragione e il divenire storico. La prima è vissuta in funzione dello svolgimento del secondo. L’esercizio della dottrina non viene impiegato a chiarezza del meccanismo “segreto” del divenire delle cose umane, ma lasciato immobile, a definitiva illuminazione della sapienza antica. Muovendo alla negazione della grande legge dell’irreversibilità, egli costringe l’uomo a incamminarsi sacrificando, via via che la strada si inerpica, illusioni e fantasmi, religione e morale, trascendenza e immanenza, in una spoliazione progressiva e crudele che farà “l’uomo degno del culmine”.

Se non fosse presente questa duplice funzione della ragione e del divenire necessario, se si ritornasse alla romantica interpretazione di Machiavelli come “scolaro” ritardato degli antichi e maestro di una dottrina stantia ma valida perché riflettente un ritmo sistematico sempre ritornante, sarebbe inutile la formulazione precedente del concetto di ritorno alle origini.

Malgrado le sue pretese di realtà, visto sotto l’aspetto romantico, Machiavelli non si alza di una spanna al di sopra dei suoi contemporanei utopisti.

Abbiamo parlato di estrema rarefazione del concetto imitativo, non mai scoperto in piena coscienza, ma sempre condotto in sottile sarcasmo contro ogni mancanza di concretezza. E nel raffronto il pensiero vola subito alle cose della sua città, vicende tumultuose come quella di Francesco Valori, in cui si scontrarono i seguaci di Savonarola e la forte reazione regressista, contrasti che le predicazioni del frate non avevano potuto eliminare. E l’amarezza trapela dal paragone tra la rozza ma sana organizzazione sociale dei Romani e l’odierno marasma della sua Firenze, capace di ricorrere all’aiuto degli stranieri, ma inetta nel trovare un punto di autocontrollo e di equilibrio. Sdegno di patriota e scarsa pacatezza di uomo di dottrina. Anche a un osservatore superficiale, infatti, non poteva risultare oscura l’estrema divergenza tra le contingenze politiche e finanziarie dei Romani e quelle dei Fiorentini.

Non solo questi due popoli risultavano lontani nel tempo, ma anche lo erano nel modo di intendere l’autorità degli organi di potere. Più che la forza dello Stato era viva, e operante, l’azione del partito, dell’associazione politica ed economica, della famiglia nobile, del capitano di ventura. Più che di princìpi di origine generale, valevoli universalmente per ogni categoria di cittadini, ci si avvaleva di violenze e soprusi, di agguati e minacce. Spetterà poi ai Medici restaurare quell’organizzazione che la Repubblica non aveva saputo concludere perché troppo legata alle trame dei singoli e troppo inesperiente del migliore uso della violenza e dell’intrigo. E lo schema che Machiavelli aveva presente nel dettare queste considerazioni, anche se ripensato quando ormai era posto fuori dal travaglio pratico dell’azione, quando la stella dei suoi sdegnosi avversari era di nuovo risalita per il suo corso, era sempre quello degli anni repubblicani, delle sue lunghe e inutili rappresentanze all’estero, della malinconica voglia di agire anche se modestamente e nell’ombra, ma agire per evitare di sentirsi appesantito e inutile.

La preoccupazione iniziale, tante volte espressa, di andare incontro a “fastidio e difficultà” nel porre il dogma strano e inconciliabile dell’imitazione, dovrebbe aiutarci a comprendere il vero significato metodologico del tema in questione. Uno studioso delle cose antiche, che non sia nello stesso tempo appassionato alle presenti e, più che studioso, compartecipe e attore di una vicenda non conclusa, non può temere danno e ostacolo a una sua esercitazione meramente erudita.

Ma l’uomo politico, l’indagatore sottile e penetrante degli animi di tanti uomini d’azione, il cesellatore di una rottura della stabilità in vista prematura di una più profonda stabilità remota di impronta ben più ampia del Comune, non poteva ingannarsi sul comportamento di coloro ai quali il “rapporto imitativo” sarebbe stato diretto. Per costoro, responsabili di una politica sbagliata, partecipi del marasma e della improvvisazione amministrativa, quel paragone avrebbe valicato i brevi confini dell’esercitazione accademica per suonare scorno e vergogna.

Un pensatore però non può tenere presenti queste remore. La realtà gli si schiude davanti nel corso della propria speculazione presentandogli un percorso di conoscenza al quale può difficilmente sottrarsi. E di fatto Machiavelli non si sottrae. Si conforta brevemente riferendosi a quelli che “umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino”, dai quali sarebbe stato lecito aspettarsi anche un premio. Ma l’intermezzo è breve e, in definitiva, non dovette risultare credibile nemmeno a lui stesso.

In effetti, la scienza politica, almeno all’epoca di Machiavelli, non mancava di tenere presente, con un minimo d’autorità, lo svolgimento passato delle ricerche e dei risultati conseguiti. Visto che le grandi rivoluzioni e le grandi scoperte erano di là da venire. Altro punto di sostegno Machiavelli lo ricava dalla scienza del diritto che fonda sull’autorità del passato lo studio delle leggi e delle norme della convivenza sociale. Eppure, malgrado questo grande rispetto per l’insegnamento del passato, la scienza politica non tiene in nessun conto le vicende storiche al fine di poterle applicare, concretamente, nell’arte di governare, di ordinare l’amministrazione dello Stato e di regolare le proprie cose in tempo di guerra.

Uno dei motivi di questo mancato insegnamento può risiedere nella religione e nella conseguente debolezza in cui il mondo è stato ridotto da un raffronto impossibile a mantenersi tra uomo-spirituale e uomo-materiale, tra abitante della città terrena e aspirante cittadino della città celeste. Un altro motivo può essere attributo all’ignoranza di coloro che pongono mente a quelle antiche cose come a una lettura piacevole e non come a una scuola di vita, dalla quale trarre risoluzione per non pochi casi concreti e presenti. Infatti, Machiavelli conclude, il raffronto non può dirsi difficile o impossibile, in quanto l’uomo è rimasto sempre quello che era, come il cielo, il sole e gli elementi i quali non sono cambiati di moto, di ordine o di potenza.

La dottrina che nasce dall’acquisto della consapevolezza politica, avrebbe potuto isolarsi e quindi restare sterile, da sola, nell’arco di una ricerca che dalla più concreta delle attitudini umane tendesse a ridurre la politica a mera astrazione pedagogica.

Ma compito di Machiavelli non è l’antologizzare, né quello di lasciare che altri ricostruiscano responsabilità e derivazioni. Del resto l’indole stessa lo portava a una sempre più ampia correlazione di analisi e imitazione. Il mondo partecipato è quello della storia, dove avvenimenti e uomini intessono una trama ricca di immagini e di emblemi, ma dove è pure possibile sperdersi nelle apparenti concretezze dei preconcetti del ricercatore.

Perché riconoscere la storia come fonte di “verità”? Il dogma vichiano sarebbe fuori posto. Il motivo bisogna cercarlo altrove, forse nel senso tecnico del progresso inteso in termini di degenerazione, forse nell’effettiva constatazione di una realtà macchiata e difforme che rende, per contrasto, ancora più perfette le epoche del passato, forse per una impossibilità di sufficiente penetrazione nella conoscenza della realtà storica, donde una sorta di trasvalutazione o idealizzazione.

Dal Medioevo Machiavelli aveva ereditato l’attenzione ai problemi dello spirito, ma come disposizione teorica più che come mantenimento dei limiti, più che come itinerario ascetico diretto al possesso della “verità”. Il viaggio di Machiavelli verso la verità ha per punto fermo il dominio intellettuale sui problemi nuovi dell’uomo della sua epoca, e questa novità, problematica in sommo grado, presenta l’aspetto contraddittorio dell’elaborazione politica.

Col nuovo metodo resta pur sempre attivo il senso della rappresentazione, perché se le antiche vicende svaniscono, a un dato segno, nel nulla della memoria infranta o nel silenzio di un pensiero distrutto, risorgono poi sotto l’aspetto di dogmi, prodotti dal capovolgimento della vita reale in occasioni di vita intellettuale. Ciò non sembrerà oscuro a chi pensa come la vera realtà non è sempre quella che scoprono i lettori, anche dopo una diretta meditazione, ma quell’altra che l’autore va indicando a chi è capace di ripercorrere il suo cammino.

[1958]

VII. La realtà nel pensiero di Ortega y Gasset
La ricerca filosofica, secondo quanto dichiara Ortega y Gasset, «è un enorme appetito di trasparenza e una decisa volontà di chiarezza. Il suo proposito completo è portare alla superficie, dichiarare, scoprire l’occulto o velato – in Grecia la filosofia cominciò col chiamarsi alétheia, che significa disoccultare, rivelare o disvelare – insomma, manifestazione. E manifestare non è altro che parlare, logos. Se il misticismo è tacere, filosofare è dire, scoprire nella grande nudità e trasparenza della parola l’essere delle cose, dire l’essere: ontologia». (Defensa del teólogo frente al mistico, in Obras Completas, vol. VII, Madrid 1957, p. 453). La ricerca e l’approfondimento lasciano un percorso contrassegnato, una traccia. Questa, a sua volta, deve essere liberata, salvata. Ma ogni svelamento procura un risultato che deve essere condotto alla libertà della comprensione.

Si tratta di una tesi espressamente contraria a qualsiasi tipo di scetticismo, anche se si ritiene che l’apprensione delle verità da parte dell’uomo avvenga nel tempo e, per quanto attiene alla conoscenza filosofica, non è globale e immediata. Le verità «di per sé preesistono sempiternamente, senza alterazione né modificazione. Senza dubbio, la loro acquisizione da parte di un soggetto reale, sottomesso al tempo, procura loro un aspetto storico: nascono in una data e a volte si volatilizzano in un’altra. È chiaro che questa temporalità non grava propriamente su di esse, ma sulla loro presenza nella mente umana. Ciò che si verifica realmente nel tempo è l’atto psichico con cui le pensiamo, il quale atto è un evento reale, un cambiamento effettivo nella serie degli istanti. Ciò che, di rigore, ha una storia, è il nostro conoscere o ignorare le verità. Proprio questo è il fatto misterioso e inquietante, giacché accade che con un pensiero nostro, realtà transitoria e fugace, di un mondo fugacissimo, entriamo in possesso di qualcosa di permanente e sovratemporale. Pertanto, il pensiero è il punto nel quale si toccano due mondi di consistenza antagonica». (Ib., p. 273). Da dove viene l’orgoglio immenso che ritiene possibile una determinazione talmente consolidata da risultare attendibile? Non lo possiamo sapere se non mettendo in campo una messinscena grandiosa nella quale pensiamo risieda la giustificazione del nostro fare. La verità deve essere ribellione, in caso contrario è umiliazione dell’intelletto, coerenza di una ragione soddisfatta e ottusa.

Affermare che le verità sono “sempre” tali, rappresenta un modo inadatto di esprimersi. Definirle sempiterne non deve indurre a pensare a una durata, sia pure illimitata, bensì a una relazione negativa nei confronti del tempo, un “non aver nulla a che fare” con il tempo, in nessun senso. La verità si mantiene rigorosamente atemporale e la realtà temporale della persona umana condiziona il suo apprendimento. Ricordando che la legge di gravità, per esempio, è stata sempre vera, anche quando l’uomo non l’aveva ancora scoperta, Ortega afferma che «nulla accade senza alcuna ragione. Se ciò che è avvenuto è che fino a Newton non si scoprì la legge di gravità, è evidente che tra l’individuo umano Newton e quella legge c’era una qualche affinità». (Ib., p. 283). La coerenza apparente di Ortega è incapace di mollare la presa. La via verso una possibile affinità è bloccata, almeno lo è da questo lato. Se l’accidente accade, chi l’ha procurato non sapendo bene come ha potuto causarlo se ne attribuisce la paternità. Stabilisce cioè un rapporto integrante che, codificato in maniera uniforme ad altri rapporti precedenti, prende il nome di legge.

Il cambiamento che avviene nell’uomo non comporta che una verità di ieri si converta in errore, o che una nuova verità sia prodotta o creata dall’uomo, ma soltanto che c’è la possibilità di comprendere qualcosa che fino a un certo momento si ignorava, cioè qualcosa di cui si ignorava la verità di fatto. «I cambiamenti decisivi dell’umanità sono i cambiamenti delle credenze». (Historia como sistema, in Obras Completas, vol. VI, op. cit., p. 14). Il continuo sforzo di conoscenza, operato dall’uomo a partire da punti di osservazione, da livelli storici sempre diversi, genera naturalmente risultati sempre diversi. Questo è per Ortega l’a-priori fondamentale della storia. Così precisa: «La vita umana è una realtà strana della quale la prima cosa che è necessario dire è che è la realtà radicale, nel senso che a essa dobbiamo riferire tutte le altre realtà, giacché le altre realtà, effettive o presenti, devono in un modo o nell’altro apparire in essa». (Ib., p. 13). Non basta questa affermazione per conferire valore a una realtà che potrebbe presentarsi in decomposizione. La fioritura dell’esistenza ha modulazioni che degenerano nella più cupa tristezza. Il centro della vita è a volte un deserto adatto ai gufi.

L’apprensione della conoscenza richiede un lasso di tempo non quantificabile, e se è vero che l’uomo cambia, è anche vero che sia l’uomo dell’antichità, sia l’occidentale contemporaneo sono uomini. È difficile definire l’essenza umana in termini minimi, senza cadere nelle astrazioni, ma possiamo dire che «uomo è ogni essere vivente che pensa sensatamente, e che per questo motivo può essere inteso da noi. Il presupposto minimo della storia è che il soggetto di cui parla possa essere compreso. Orbene, non si può comprendere se non ciò che possiede una qualche dimensione di verità. Un errore totale non ci sembrerebbe neanche tale, perché non lo comprenderemmo. Il presupposto profondo della storia è pertanto l’esatto contrario di un completo relativismo. Quando essa studia l’uomo primitivo, pensa che la sua cultura possedeva senso e verità e se l’aveva continua ad averli. Quali, se a prima vista ci sembra così assurdo ciò che quelle creature fanno o pensano? La storia è precisamente la seconda vista, che riesce a trovare la ragione dell’apparente irrazionalità». (Defensa del teólogo frente al mistico, in Obras Completas, vol. VII, op. cit., p. 285). La sensatezza quotidiana allontana la miseria e prepara la morte. Alla fine la ricerca di un contenuto solido nella storia diventa l’illusione portante per indorare la tristezza e la futilità. E altrove: «Essere uomo significa essere sempre sul punto di non esserlo, essere vivente problema, assoluta e rischiosa avventura, o, come io sono solito dire, dramma. Perché v’è dramma solo quando non si sa ciò che accadrà, sicché ogni istante è puro pericolo ed estremo rischio. La sostanza dell’uomo non è altro che pericolo». (El hombre y la gente, in Obras Completas, vol. VIII, op. cit., p. 28). L’inquietudine che si accumula produce altra inquietudine ma non sbocca per forza nella consapevolezza della propria precarietà. Ci sono predilezioni e simpatie anche nella paura e nella miseria. Un’atmosfera soffocante invita a scappare, ma può anche sollecitare l’accettazione della sfida, l’amore per il rischio. Confermando, più avanti: «Tutte le cose e gli esseri dell’universo che stanno lì intorno a noi formano il nostro contorno, articolano la nostra circostanza. Tuttavia mai si fondono con quello che uno è, ma, al contrario, sono sempre l’altro: un elemento estraneo e, più o meno, molesto, negativo, ostile». (Ib., p. 108). Le vicinanze, come le lontananze, sollecitano confessioni e possono concludersi con un corpo a corpo. Forse è presuntuoso acconsentire alla ricezione, come se si avesse sempre qualcosa da fornire, ma il punto di partenza è proprio qui. Le scienze esatte mi fanno sorridere, anche la mia amata matematica. Niente corrisponde esattamente se non l’identità supposta ammiccante e acquiescente. Ma è solo una supposizione. L’altro tende a farci visita e ciò ci sorprende.

Pertanto, la storia, «dando un senso pieno a ciascuna tesi relativa dell’uomo, e scoprendoci la verità eterna che ciascun tempo ha vissuto, supera radicalmente quanto nel relativismo vi è di incompatibile con la fede in un destino trans-relativo e come eterno dell’uomo». (Defensa del teólogo frente al mistico, in Obras Completas, vol. VII, op. cit., p. 286). Ciò invita alla calma, alla tranquillità, odora di accudito, di tavola comune ben imbandita. È la messinscena per sfuggire all’attenzione, per consentire che l’intelletto si intorpidisca e tardi a germogliare. Non dubito delle mie capacità, quello che mi inquieta è proprio il contrario, per questo non riesco a stare tranquillo.

In Ortega comanda una interpretazione che fa coincidere la storia con la tradizione. Nel conservare la memoria degli altri tempi storici la storia conserva il senso di ogni epoca e garantisce la porzione di verità che essa ha saputo cogliere, verità che va articolata con le altre porzioni che alimentano una tradizione viva. Si tratta di una ricerca alla quale l’uomo non può sottrarsi, e che è destinata a non avere mai fine, proprio per le caratteristiche specifiche dell’oggetto ricercato. L’affanno per possedere la conoscenza integrale dell’universo è “l’attitudine innata e spontanea della nostra mente nella vita”. “È naturale che sia così”. All’uomo è «materialmente impossibile rinunciare a possedere una conoscenza globale dell’universo». (Ib., p. 310). L’accumulazione è sinonimo di completamento impossibile. La grandezza della prova l’ammettiamo facilmente, anzi spesso malaccortamente ce ne gloriamo, quello che ci spinge a collo storto è la indispensabile dichiarazione di sconfitta. Ortega crede nella vittoria, il dominio gli sembra faccenda maneggevole e non contraddittoria. Una lunga strada in salita, a mio parere.

Per quanto la filosofia sia “costitutivamente necessaria all’intelletto”, dall’altro canto l’universo possiede una composizione e presenta caratteristiche tali da dare vita a un naturale impulso all’indagine filosofica. Ogni singola realtà che troviamo nel mondo possiede un carattere particolare: essa non è un tutto, ma una parte; ciascun oggetto è “solo un frammento che ci forza a pensare ad un’altra realtà che lo completa”. Il mondo è dato dall’insieme, dal complesso delle cose che constatiamo, però «neppure il mondo si spiega per se stesso; al contrario, quando ci troviamo teoreticamente di fronte ad esso, ci è dato soltanto un problema». (Ib., p. 332). La combinazione dei due momenti è, a dire il vero, il processo analitico della filosofia. Occorre una delicata premura per cogliere il punto dove l’intelletto stacca nel mare delle concretezze oggettive. Spesso è questo il momento in cui ci tiriamo indietro.

«Il mondo che troviamo è però, nello stesso tempo, non sufficiente a se stesso, non sostiene il suo proprio essere, proclama il suo non essere, e ci obbliga a filosofare. Il mondo è un oggetto insufficiente e frammentario, un oggetto fondato in qualcosa che non è lui, che non è ciò che ci è dato. Questo qualcosa, pertanto, ha una missione sensu stricto fondamentale, è l’essere fondamentale. Come diceva Kant, quando il condizionato ci è dato, l’incondizionato ci è posto come problema». (Ib., p. 333). Il riferimento a Kant oscura la portata della considerazione di Ortega. Anche il condizionato ci è dato come problema, solo che non vogliamo ammetterlo, e la cosa ci turba.

La scienza lavora sull’essere fondamentale. Questo è postulato e non dato, perché non lo si può cercare come una cosa tra le tante altre cose del mondo. Non è un presente, ma ciò che manca al presente, percepito in modo analogo alla constatazione che in un mosaico mancano alcune tessere; è «per essenza il completamente altro, il formalmente distinto, l’assolutamente straniero». (Ibidem). Detta in termini più elementari, l’essere fondamentale è Dio: «Nelle religioni appare sotto il nome di Dio ciò che in filosofia nasce come problema di fondamento per il mondo». (Ib., p. 334). L’uomo accarezza da sempre l’orgogliosa presunzione di considerare il proprio fondamento come Dio. La filosofia moderna sta scalzando ogni idea di fondamento, per cui non dovrebbe più essere necessaria “l’ipotesi Dio”. Forse abbiamo lasciato la finestra aperta.

Tutti gli sforzi conoscitivi partono da due presupposti: che nell’insieme dei fenomeni vi sia un qualcosa che consenta di conoscere i fenomeni singoli (per esempio, le leggi fisiche), che questo qualcosa possieda una composizione razionale. Quanto detto equivale a dire che la conoscenza razionale parte da una opinione previa alla ragione stessa, rappresentando – insiste Ortega – uno «stato di convinzione al quale l’uomo è pervenuto». (Apuntes sobre el pensamiento, in Obras Completas, vol. V, op. cit., p. 517). L’uomo è arrivato a credere alla nozione di un essere delle cose, «per un cammino determinato, per il cammino unico che conduce a questa opinione e solo a questa, cioè in virtù di una serie di esperienze vitali, di tentativi e di correzioni successive, che l’uomo aveva fatto da solo e con la collaborazione delle generazioni anteriori, nella cui tradizione, conservata dalla comunità, è nato e si è educato». (Ibidem). Ogni tentativo di resistere e fare a meno della tradizione si rivela un disastro. Stiamo accoccolati su di una montagna e non vogliamo tornare in pianura, chiudendo i nostri orizzonti sulle limitate certezze della immediatezza, anche se continuamente è proprio quello che protestiamo di volere fare.

Per Ortega esiste una specie di cammino unico ogni qualvolta l’uomo, nella storia, arriva a qualcosa, cioè il cammino storico che porta a qualcosa è unico, è immutabile, è quel che è stato, ed è tale perché non è permesso a noi di modificarlo o supporlo diverso. «I cambiamenti – scrive Ortega – sono sempre legati alle profondità della vita». (En torno a Galileo, in Obras Completas, vol. V, op. cit., p. 11). Si tratta di unicità che possiede una certa giustificazione metafisica, la quale però non consiste in una forma di storicismo, ma si riflette nell’essenziale libertà umana, in altre parole nella caratteristica che l’uomo possiede di essere artefice della storia, e di esserlo in modo inevitabile. Ma, vivendo in un contesto, in circostanze storiche che ci sono date, che non siamo noi a decidere, e che sono il punto attualmente presente di una linea storica immutabile che porta fino a noi, la vita, la nostra vita, conduce a questo presente, soltanto perché è stata così come è stata.

Ogni epoca storica è inserita in una serie che, nel suo insieme, è il destino umano. «Il destino umano costituisce una melodia in cui ciascuna nota possiede il suo significato musicale collocata nel suo posto tra le altre». (Ib., p. 289). Questo destino non è banale somma degli eventi storici, ma possiede nella sua globalità un significato che evidentemente supera i singoli eventi storici che lo realizzano. La storia è «la melodia del destino universale umano, – il dramma dell’uomo che è, rigorosamente parlando, un auto sacramental, un mistero nel senso calderoniano, vale a dire un accadimento trascendente». (Ibidem). È proprio ciò che conferisce un valore in termini vitali al fatto che il cammino storico, la serie degli eventi, siano unici. La linea che si è verificata, e non altri processi possibili, fissa la sacra rappresentazione della vicenda umana, l’evento che, pur essendo storia, non si esaurisce nell’àmbito del puro accadere, ma, come un “mistero” di Calderón, è lo svolgersi di un’azione, una trama, le cui radici vanno al di là della realtà quotidiana che ci circonda. Il senso complessivo che queste radici trascendenti forniscono alla storia, non solo si aggiunge al senso relativo posseduto da ogni singolo evento, ma addirittura, per Ortega, il senso pieno dell’evento è nella sua dimensione di trascendenza. Si tratta di un senso rigorosamente metafisico, però di una metafisica che ha un significato diverso. Non è una ragione metafisica pensata in forma statica, ma è un’azione che diventa storia, che si fa storia, una trascendenza che non si chiarisce facendo ricorso ai sillogismi. Questa ragione è certamente la ragione storica degli eventi, per cui, riguardo quello che è già accaduto, la si conosce raccontando, anziché ragionando in astratto. Si tratta, inoltre, di una metafisica nella quale l’uomo svolge un ruolo di primo piano, essendo compartecipe e non solo autore della storia, in quanto agisce nelle circostanze concrete per adattarle alle sue esigenze e per conseguire gli obiettivi fissati nei suoi piani d’azione. «La realtà storica, il destino umano, avanza dialetticamente, anche se questa essenziale dialettica della vita non è, come credeva Hegel, una dialettica concettuale di ragione pura, ma precisamente la dialettica di una ragione molto più ampia, profonda e ricca di quella pura: quella della vita, della ragione vivente». (Ib., p. 135). Anche qui il riferimento a Hegel non è esatto, malgrado la conoscenza di prima mano che Ortega aveva del filosofo tedesco. La dialettica hegeliana è movimento (inattendibile) della vita e, secondo il suo autore, tutt’altro che un processo del pensiero. L’idea in movimento è la realtà stessa, non un suo sottoprodotto.

La storia è quindi, per Ortega, ragione vivente che si presenta con i caratteri della necessità, e ciò mentre appare perfettamente compatibile con la libertà umana. «Ogni uomo – precisa Ortega – è sottomesso a una certa condizione economica e a una certa condizione filosofica: le idee del nostro tempo e della nostra società. L’errore marxista è supporre che quest’ultima possa dedursi dalla prima, cioè dire che le idee non sono un potere autonomo della nostra vita, sono mere proiezioni fantastiche della nostra condizione materiale». (Vives, in Obras Completas, vol. V, op. cit., p. 499). Anzi, per Ortega, proprio questa ne è la forza motrice. Questa apparente contraddizione si spiega con il fatto che la dimensione metafisica presente nella storia fa da referente alla dimensione della trascendenza nell’uomo. «Nella vitalità – secondo Ortega – si fondono radicalmente il somatico e lo psichico, il corporeo e lo spirituale, e non solo si fondono, ma da essa emanano e di essa si nutrono». (Vitalidad, alma, espíritu, in Obras Completas, vol. II, op. cit., p. 451). La vitalità è una “sorgente”, un “occulto tesoro di energia vivente”, il “fondo dell’essere” che alimenta e anima la nostra realtà personale. Si tratta, insomma, di una realtà psicofisica, che comprende sia la sostanza materiale del nostro organismo, sia energie biologiche, processi impersonali della vita, meccanismi che sono il sostegno, l’ossatura della persona nella totalità delle sue dimensioni. Questa dimensione è la base, la radice, la periferia della personalità, «la cima della persona, o meglio, il suo centro ultimo e superiore, l’elemento più propriamente personale della persona, è lo spirito». (Ib., p. 461). Non si tratta di una categoria logica ma di un ideale di combattimento. La vitalità si avverte meglio nel raccoglimento e nella solitudine. Cedere all’acconsentimento verso i valori di massa: ecco come ci si nega agli istinti vitali, per cui questi diminuiscono e cadono in consunzione. La storia della virtù, catalogata dai filosofi, è roba vecchia. Di certo esistono modi nuovi per flagellarsi, ma è meglio evitarli. Con buona pace degli eterni cercatori della giusta causa.

Lo spirito è legato all’autocoscienza, ed è definito come l’insieme degli atti intimi di cui ciascuno si sente vero autore e protagonista, come avviene, per esempio, quando diciamo: “io voglio”. In tali casi, «questo risolvere e decidere ci appare come emanato da un punto centrale in noi, che è ciò che strettamente parlando deve essere chiamato “io”». (Ibidem). Tra l’autocoscienza che caratterizza lo spirito, e l’energia esuberante della vitalità si situa una zona intermedia, «più chiara della vitalità, meno illuminata dello spirito, e che possiede uno strano carattere atmosferico. È la regione dei sentimenti e delle emozioni, dei desideri, degli impulsi e degli appetiti: ciò che andiamo a chiamare, in senso ristretto, anima. Lo spirito, l’io, non è l’anima: si potrebbe dire che esso si trova come un naufrago immerso in questa, che lo avvolge e lo alimenta». (Ib., p. 462). Ma altrove dirà: «La mia vita è da fare (quehacer). E la cosa più grave è che questi quehaceres in cui la vita consiste non è che sia necessario farli, bensì, in un certo senso, noi ci troviamo sempre forzati a fare qualcosa, ma non ci troviamo strettamente forzati a fare questo o quel hacer, come è imposto all’astro la sua traiettoria o alla pietra la sua gravitazione. Prima di fare qualcosa ciascuno deve decidere, per suo conto, e a suo rischio, quello che deve fare».(Prólogo para alemanes, in Obras Completas, vol. VIII, op. cit., p. 28). Il problema e il luogo della scelta assillano Ortega, per quanto a volte egli cerchi di nasconderli sotto le tensioni della vitalità. Occorrerebbe dire tutto, ma ne siamo consapevoli fino in fondo? Non lo so. La necessità non colpisce con la forza della folgore, quasi sempre rode la carne dall’interno e tarda a servire il bubbone indicatore.

La precedente tripartizione, per Ortega, non è un’ipotesi teorica, ma un concetto descrittivo, è la denominazione di effettive realtà dell’essere personale, come risultano all’osservazione, indipendentemente da idee previe. Le tre dimensioni sono distinguibili, ma non separabili, la loro ferrea articolazione costituisce la composizione intima di quella realtà unitaria e non frazionabile che è l’uomo. «Ogni vita – insiste Ortega – parte da certe convinzioni radicali su ciò che è il mondo e su quale è il posto dell’uomo in esso. Parte da queste e si muove entro queste. Nello stesso tempo ogni vita si muove in una circostanza che è più o meno tecnica». (Vives, in Obras Completas, vol. V, op. cit., p. 499). Queste convinzioni condizionano le scelte? Di certo in modo considerevole questi condizionamenti ci sono e finiscono per agire costruendo legami e ostacoli proprio circoscrivendo la vitalità e i suoi stimoli ininterrotti.

È proprio grazie allo spirito che siamo partecipi di un mondo di verità: «Il nostro spirito non ci differenzia gli uni dagli altri. Nel pensare o nel volere abbandoniamo la sfera dell’individualità ed entriamo a partecipare a un orbe universale, in cui tutti gli altri spiriti sboccano e partecipano come il nostro. In tal maniera, pur essendo quanto di più personale vi è in noi – se per persona si intende essere origine dei propri atti – lo spirito, di rigore, non vive di se stesso, ma della Verità, della Norma, ecc., di un mondo oggettivo al quale si appoggia, dal quale riceve la sua peculiare costituzione». (Prólogo para alemanes, in Obras Completas, vol. VIII, op. cit., pp. 466-467). Qui appare chiaro come Ortega intenda riferirsi alla vita in maniera distinta dallo spirito. Se la verità è la vita, lo spirito è vita solo attraverso la verità. Potrebbe quindi sperdersi senza rimedio. Parlarne scandisce il ritmo della fine. Più le parole si affollano furiosamente e più lo spirito si appesantisce e sprofonda, la levità e il silenzio a volte si accompagnano magnificamente.

La conoscenza è – secondo Ortega – un incontro iperbolico tra l’oggettivo e il soggettivo, con l’oggettivo che, proprio in quanto tale, entra a far parte del soggetto. Che questa soggettività sia circostanziata, sottomessa alla storia, limitata, impone la conoscenza prospettica della verità, cioè una conoscenza mai globale, sempre ottenuta da un punto di vista nel quale la verità viene osservata, però in maniera parziale, incompleta.

Questo modo prospettico di conoscere è costitutivo della natura umana che, pur essendo in tal modo limitata, è intrinsecamente e radicalmente aperta alla trascendenza: «La vita dell’uomo ha una dimensione trascendente in cui, per così dire, esce da se stessa e partecipa di qualche cosa che non è essa, che si situa al di là di essa. Il pensiero, la volontà, il sentimento estetico, l’emozione religiosa, costituiscono questa dimensione». (Ib., p. 467). E altrove: «L’elemento biologico è la causa fondamentale dei mutamnenti strutturali della vita collettiva, tanto è vero che se tutti i contemporanei fossero coetanei la storia rimarrebbe anchilosata, pietrificata in un gesto definitivo, senza alcuna possibilità di innovazione». (En torno a Galileo, in Obras Completas, vol. V, op. cit., p. 38). La corrispondenza tra chi pensa e le condizioni che gli permettono di pensare, prima di tutto condizioni di fatto (organiche e non organiche), è un processo in cui solo per assurdo si può individuare una determinazione sufficientemente esatta. Il dubbio è da oltrepassare, ma nel suo pieno oltrepassamento non c’è la certezza. Un nuovo dubbio riporta indietro l’orologio.

Importante quindi il tentativo di cogliere in forma adeguata e storica – ovviamente nei limiti della storicità dell’uomo, non nell’assoluto della verità – la trascendenza verso cui l’uomo è proiettato. In questo senso Ortega scrive: «Ci sono state una interpretazione collettivistica della storia e un’altra individualistica. Per la prima il processo sostantivo della storia è opera delle moltitudini diffuse; per la seconda gli agenti storici sono solo gli individui. Il carattere attivo, creativo della personalità è, in effetti, troppo evidente perché si possa accettare l’immagine collettivistica della storia. Le masse umane sono ricettive: si limitano a opporre il loro favore e la loro resistenza agli uomini di vita personale e creativa. Ma per un altro verso l’individuo solitario è un’astrazione. Vita storica è convivenza. La vita delle individualità eccellenti consiste, appunto, in un’azione multiforme sulla massa. Si tratta di una dualità essenziale al processo storico. L’umanità, in tutti gli stadi della sua evoluzione, è stata sempre una struttura funzionale in cui gli uomini più energici – quale che sia stata la forma di questa energia – hanno operato sulla massa dandole una determinata configurazione». (El tema del nuestro tiempo, in Obras Completas, vol. III, op. cit., p. 28). Questo tentativo avviene attraverso la meditazione. Immerso in un mondo misterioso, incomprensibile, che genera continue occupazioni, «di tanto in tanto l’uomo può sospendere la sua occupazione diretta con le cose, staccarsi dal suo àmbito, non preoccuparsene e, sottomettendo la sua facoltà dell’attenzione ad una torsione completa, incomprensibile zoologicamente, può voltare le spalle al mondo e mettersi dentro di sé, attendere alla propria intimità, ovvero occuparsi di se stesso e non dell’altro da sé, delle cose». (Ensimismamiento y alteración, in Obras Completas, vol. V, op. cit., p. 300). La riflessione, operando nella solitudine, emerge in una specifica evidenza, ma che solo l’isolamento consente di cogliere come processo in corso. Non bisognerebbe prestare alcuna fede ai pretesi istruttori, né uniformare la nostra condotta alla loro, niente può aiutarci salvo la nostra fantasia, compagna assidua della solitudine.

L’uomo “lascia” il mondo per la solitudine, perché ha un “luogo” dove andare: la sua intimità, una interiorità costituita essenzialmente da idee. In questo suo “dentro”, l’uomo organizza le sue idee ed elabora progetti per agire sulle cose, perché la vita dell’uomo non è un passivo “stare”, ma è impegno continuo per adattare la circostanza ai propri desideri, per “realizzarsi”, cioè per vivere quella porzione della sua realtà, che è la sua specificità di persona umana. Ma l’azione più significativa è sempre data da una minoranza. Qui Ortega studia il ruolo dell’intellighentia e arriva alla conclusione che il movimento dinamico di un paese è dato sempre da quello che fanno queste minoranze in grado di operare una selezione sia su se stesse che nella realtà che le circonda. Ecco come Ortega precisa su questo argomento centrale nel suo pensiero: «Una nazione è una massa umana organizzata, strutturata da una minoranza di individui scelti. La forma giuridica che adotta la società nazionale potrà essere la più democratica o comunista che si possa immaginare; ciononostante la sua costituzione viva, transgiuridica, consisterà sempre nell’azione dinamica di una minoranza su una massa. Si tratta di una ineludibile legge naturale che nella biologia della società ha un ruolo simile a quello della legge della densità nella fisica». (España invertebrada, in Obras Completas, vol. III, op. cit., p. 93). Ma non si deve pensare che Ortega identifichi la minoranza che fornisce questo impulso con la semplice classe dirigente. Egli stesso scrive: «Una rozza sociologia nata per generazione spontanea, e che da molto tempo domina le opinioni circolanti, fraintende i concetti di massa e di minoranza scelta, intendendo per quella l’insieme delle classi economicamente inferiori, la plebe, e per questa le classi socialmente più elevate». (Ib., p. 103). Secondo Ortega è la minoranza in questione che possiede l’elemento essenziale di ogni progresso. Da ciò deriva che un vero appartenente a questo gruppo si sente un po’ ospite di una società che fino a un certo punto lo accoglie comprendendolo nelle sue potenzialità e anche nelle sue capacità. Dopo tutto è lui che fornisce quello che Ortega chiama «apparato di perfezionamento». (Ib., p. 106). Questo elemento specificatamente umano non si può identificare col mondo, non è riconducibile alla natura, non appartiene all’universo materialmente consistente, ma è “la trascendenza che l’uomo si porta dentro”, intesa come il suo più importante elemento costitutivo.

Nella solitudine si vede bene – secondo Ortega – che la porzione extranaturale dell’uomo non è di per sé già realizzata, ma consiste in una mera pretesa di essere, in un progetto di vita. Questo è ciò che l’uomo avverte come il suo vero essere, ciò che chiama la sua personalità, il suo io.

Ed è ovvio che sia così. Se in me c’è qualcosa di extranaturale, questo qualcosa non può essere già realizzato, come un fatto compiuto, come un accadimento che si può documentare. Se così non fosse, non si tratterebbe di una trascendenza presente in me, e neppure di una immanenza, ma soltanto di elementi e processi naturali.

La trascendentalità dell’uomo ha una sua consistenza che non può essere descritta con le categorie classiche della realtà e dell’essere. Non consiste infatti in una sostanza in atto, misurabile e quantificabile, ma soltanto in una tensione, in un progetto che richiede di essere vissuto. L’essere dell’uomo non è sostanza, ma vita, e più precisamente è storia. Ma è vita ed è storia in chiave di mistero, di sacra rappresentazione, di avvenimento trascendente

L’interpretazione della maggior parte dei passi sopra ricordati potrebbe, se correttamente impostata, suggerire che in Ortega la differenza tra il piano ontico-esistentivo e quello ontologico-esistenziale deve ricondursi a quelle “possibilità dell’Esserci” riguardo le quali niente è dovuto al caso, niente può considerarsi semplicemente “incappato” o “cresciuto”, ma l’orizzonte geograficamente e culturalmente limitato, non potendosi dire la stessa cosa dal punto di vista temporale, risulta essere una “conquista” della riflessione e dell’analitica esistenziale.

Ortega avvia la discussione sul problema dell’esistenza privandosi della caratteristica dell’ “essere gettato” come accadimento estraneo o cominciamento puro. Siamo davanti alla presa di coscienza neutra, di stampo fondamentalmente fenomenologico, condotta tuttavia dallo stesso Esserci per il quale, rispetto al problema dell’esistenza, continuerebbe a sussistere parallelamente anche un approccio ontico-esistentivo. L’Esserci – insiste Ortega – dovrebbe consistere quindi di due atteggiamenti nettamente distinti: uno ontico e l’altro ontologico, ma solo il secondo può essere in grado di condurlo verso l’esistenza autentica capace di concretizzare nella realtà la sua relazione essenziale col proprio essere.

Ma come può l’Esserci, se è vero che parte da una posizione comunque determinata – o come direbbe Ortega da una certa “prospettiva”, dalla relazione con la sua “circostanza” – lasciarla per indirizzarsi verso una “coscienza neutra” a caratterizzazione fenomenologica senza che quest’ultima sia continuamente rimessa in discussione dalla prima? Ecco perché Ortega parla dell’uomo come «pellegrino dell’essere». (Historia como sistema, in Obras Completas, vol. VI, op. cit., p. 41). Oppure, nella stessa pagina citata: «L’uomo non ha natura, bensì ha storia o, che è lo stesso, quello che la natura è per le cose lo è la storia – come res gestae – per l’uomo». Questo implica una valutazione di dinamicità che non contrasta con la messa in sospetto della semplice considerazione progressiva. Ma si tratta di una dinamicità tortuosa e malsana, comunque mai del tutto equilibrata.

In questo senso egli riporta un mito che risulta essere importante per la comprensione della sua tesi sulla natura umana: «Immaginiamo l’uomo come un animale malato di una malattia che simbolicamente chiamo paludismo poiché egli vive sopra pantani infestati. E questa malattia, che non riuscì a distruggere la specie, gli causò un’intossicazione che produsse in lui una iperfunzione cerebrale – il cui risultato fu che l’uomo si riempì di immaginazione, di fantasia – di cui, come è noto, anche gli animali superiori sono poveri; ciò equivale a dire che l’uomo venne a trovarsi con tutto un mondo immaginario, pertanto con un mondo interiore di fronte, a parte e contro a quello esteriore. A partire da questo momento, quest’ultima bestia che è il nostro primo uomo deve vivere, contemporaneamente, in due mondi – quello di dentro e quello fuori –, pertanto irrimediabilmente e per sempre inadattato, squilibrato. Questa è la sua gloria, questa è la sua angoscia. L’uomo è un animale fantastico: nacque dalla fantasia». (Una interpretación de la historia universale, in Obras Completas, vol. IX, op. cit., p. 189-190). Lo sbocco essenziale di questa condizione malata, l’unico modo per salvarsi la vita, è quindi l’azione. Ortega parla di destino: «Il destino dell’uomo – egli scrive – è primariamente l’azione». (El hombre y la gente, in Obras Completas, vol. VII, op. cit., p. 88). Devo penetrare meglio questa affermazione. Vivere assediato da ogni parte educa alla decisione repentina. Agire non può significare il “fare” delle cedole azionarie che maturano da sole in banca standosene in poltrona, allo stesso modo non può racchiudersi nella lotta parziale e circoscritta di chi pretende un miglioramento delle proprie condizioni economiche. Altrove è terreno da dissodare e non fa comodo a nessuno spingersi nel deserto. L’azione non è fatta per l’eterno scontento, allo stesso modo essa non intende somministrare provvedimenti sostitutivi.

La sfida e la risposta diventano per Ortega il principio in base al quale si può spiegare la storia. (Cfr. Una interpretación de la historia universale, in Obras Completas, vol. IX, op. cit., p. 188). Nella storia, secondo Ortega, la funzione dell’intellighentia è una funzione attiva. Ma non accetta la pericolosa guida dell’ispirato. Egli è sempre un realistico indagatore della realtà politica. «I profeti – scrive con precisione – nella fauna umana rappresentano la specie più opposta del politico. Sempre sarà questi che dovrà governare e non il profeta; però interessa molto i destini umani che il politico ascolti sempre ciò che il profeta suggerisce. Tutte le grandi epoche della storia sono nate dalla sottile collaborazione fra questi due tipi d’uomini». (La rebelión de las masas, in Obras Completas, vol. IV, op. cit., p. 291). La presenza in cui vivo, la mia stessa esistenza, sia pure nelle condizioni ridotte in cui la percepisco, rendono possibile una riduzione critica di questi due modelli estremi: il pratico che sacrifica l’ideale e il teorico che rinuncia alla realtà. Andare oltre per un’altra strada, ecco l’espediente risolutorio. La politica non ha un presente e nemmeno un avvenire, così come l’estremismo categorico che pretende imporre i propri modelli a qualunque costo. La rivoluzione deve poter operare nel mondo attraverso la propria autoconsapevolezza e quest’ultima è il risultato dell’agire che trasforma e rinvigorisce.

Ciò è facilmente intuibile vista l’azione che gli ideali compiono all’interno della realtà. «La funzione degli ideali consiste nel trascendere la realtà effettuale influendo su di essa simbolicamente, allo stesso modo con cui la stella polare indica la rotta ai naviganti». (Notas del vago estío, in Obras Completas, vol. II, op. cit., p. 134). E gli ideali sono faccenda che spesso viene elaborata (quando non viene manomessa) dagli intellettuali. Ortega precisa: «Da ciò che oggi l’intellettuale comincia a pensare dipende quello che sarà vissuto nelle piazze domani». (El tema del nuestro tiempo, in Obras Completas, vol. III, op. cit., p. 156). La funzione dell’intellettuale è presenza vivente nell’àmbito delle lotte sociali o non è niente. Questa presenza deforma il fare teorico e lo rende, alla lunga, inservibile. Operando nella realtà sociale (se ciò è in effetti quello che fa e non solo quello che dovrebbe fare) l’intellettuale trasforma se stesso seguendo la propria strada e non mutuando in un proprio atteggiamento la realtà altrui. Andare verso le masse è illusorio quando ci si muove verso di esse (presa di coscienza), o si è di già fra di esse o non le si raggiungerà mai.

Ma un altro pericolo incombe sull’intellighentia, si tratta del desiderio di comandare, a cui gli intellettuali devono sottrarsi quanto prima possibile. «Quando si vuole comandare è forzoso violentare il proprio pensiero e adattarlo al temperamento della moltitudine. A poco a poco le idee perdono rigore e trasparenza. Nulla causa maggior danno a una teoria che l’affanno di convincere gli altri. In questa opera di apostolato il pensatore si va allontanando dalla sua dottrina iniziale, e alla fine ha fra le mani la sua caricatura». (Reforma de la inteligenzia, in Obras Completas, vol. IV, op. cit., p. 498). Grandiose parole queste di Ortega, tali da gettare una buona luce su tante sue osservazioni che mettono a volte lo stomaco in tumulto. Il problema è il comando, la sede del comando è il potere, quindi l’intellettuale cerca il potere. Non si disturba per qualcosa di meno. Abbrutito dai suoi schemi occorre stare attenti a cosa nascondono le sue parole anche quando appaiono iconoclaste, quasi sempre le icone che vuole distruggere hanno i riflessi e la sostanza del dominio.

L’altro pericolo è quello che l’intellettuale finisca per scambiare la realtà con i propri sogni, con le proprie teorie. «Spesso l’intellettuale non si limita a introdurre correzioni parziali nella società che vuole riformare, ma pretende coscientemente, quindi in maniera quasi ontologica, modificare lo statuto del mondo, in altre parole invece di adattare l’ordine istituzionale alla realtà sociale, si propone di adattare questa a uno schema ideale». (El ocaso de las revoluciones, in Obras Completas, vol. III, op. cit., p. 218). È il rivoluzionario che quasi sempre agisce in questo modo, ma qualche volta anche i reazionari scambiano la realtà con le proprie idee. Ortega dimostra così di essere un pensatore realistico, quello che si dice un teorico della politica con i piedi per terra. «La rivoluzione – egli precisa – si fa nelle teste prima di cominciare nelle strade: è una nuova disposizione dello spirito. La rivoluzione non è la barricata, bensì uno stato d’animo. La cosa meno essenziale nella rivoluzione è la violenza. Per quanto sia poco probabile, si può immaginare che una rivoluzione si compia a secco, senza una goccia di sangue». (Ibidem). E più avanti, nella stessa pagina: «Il temperamento razionalista vuole che il corpo sociale si adatti, costi quel che costi, alla serie dei concetti che la sua ragione pura ha forgiato. Il valore della legge per il rivoluzionario è precedente alla sua congruenza con la vita. La legge è buona per se stessa, come pura idea. Per questo, da un secolo e mezzo, la politica europea è stata quasi esclusivamente politica di idee». (Ibidem). La forzatura kantiana è evidente. L’idea è fatta entrare nel presente, senza stare a riflettere sui costi. Un momento particolare della riflessione diventa storicizzato nel presente, nel fare quotidiano, quindi opera come inizio della propria esistenza, come causa di tutto quello che abbiamo attorno. Il passato si finalizza nei fatti che dobbiamo subire e giustificandosi si presentifica, diventa “presente”, progetto al cui dettaglio non possiamo sottrarci.

La forzatura è individuata sulla massa, su quella che Ortega ritiene sia la formazione dell’opinione pubblica. Non c’è dubbio che qui si manifesta uno degli aspetti più tecnicamente raffinati dalla concezione politica di questo filosofo. La forza, in quanto elemento brutale fondato sulla repressione e sul controllo, non è mai sufficiente per governare. Eccolo come precisa sull’argomento: «L’esercizio normale del comando non risiede nella forza, bensì al contrario. I casi in cui a prima vista sembra che la forza sia il fondamento del comando si rivelano, alla luce di una ulteriore analisi, come i migliori esempi per confermare questa tesi. Napoleone diresse in Spagna un’aggressione, sostenne quest’aggressione durante un certo tempo, ma non comandò propriamente in Spagna neanche un solo giorno. E questo perché ricorreva alla forza e precisamente perché ricorreva soltanto alla forza. Conviene distinguere fra un fatto o un processo di aggressione e una situazione di comando, il quale si fonda sempre sull’opinione pubblica, sempre, oggi, come diecimila anni fa, fra gli Inglesi come fra i primitivi. Nessuno ha mai comandato sulla terra nutrendo essenzialmente il comando con principi diversi dall’opinione pubblica». (La rebelión de las masas, in Obras Completas, vol. IV, op. cit., p. 252). Ma nessun controllo “intelligente” dell’opinione pubblica potrà mai cancellare del tutto i conflitti sociali, ed è certamente meglio che sia così: «Il fatto che vi siano polizia – scrive Ortega – e forze dell’ordine pubblico manifesta che la realtà chiamata società non corrisponde sufficientemente al suo nome, poiché in essa troviamo costantemente, assieme a comportamenti sociali, comportamenti anti-sociali; pertanto la società è una realtà costitutivamente inferma e deficiente». (Individuo y organización, in Obras Completas, vol. IX, op. cit., p. 687). Per come si presenta l’organizzazione della forza chiamata Stato è quindi mancante. Ma la coltivazione dell’opinione pubblica non la completa di certo, solo la rende più adeguata ad assolvere alle proprie funzioni di repressione e controllo. Queste funzioni sembrano delegate allo Stato ma sono in fondo esercitate da tutti. Tutti difatti reprimono tutti e ognuno controlla l’altro. La corrispondenza o meno a protocolli di costume e comportamento è uno dei canali che realizza questo controllo. La cristallizzazione di certe visioni del mondo, massificandosi, esclude ogni diversità, la allontana da sé e quindi la reprime.

Prevale alla fine l’arte di comandare, che come si è visto prima non può basarsi solo sulla forza: «Comandare non è semplicemente convincere né obbligare, bensì una squisita mistura di ambedue queste cose: è esercitare una pressione sugli altri, ma, nello stesso tempo, significa suscitare una certa dose di adesione e di entusiasmo». (España invertebrada, in Obras Completas, vol. III, op. cit., p. 55). Il modo in cui frenare i «desideri impossibili» (cfr. La idea de principio en Leibniz y la evolución de la teoria deductiva, in Obras Completas, vol. VIII, op. cit., p.86) è proprio quello di sapere instaurare l’arte del comando in modo da spegnere le speranze chiliastiche quando diventano troppo dannose per il futuro della società, mentre al contrario bisogna alimentarle quando promettono di vivificarne la struttura portante.

[1968], [1979]

VIII. La storiografia moderna e il concetto di Medioevo
Medioevo si volle indicare un periodo intermedio tra un’età antica e l’età contemporanea, un atteggiamento dell’uomo contemporaneo verso la prima delle due età che lo avevano preceduto. Il distacco polemico dal recente passato e una altrettanto polemica e ideale renovatio dell’antico determinano un concetto di Medioevo come esperienza negativa. In questo senso il concetto di Medioevo è caratteristico del periodo rinascimentale.

Il senso della corruzione del latino è presente in Petrarca e in Flavio Biondo. Qui nasce il concetto di Küchenlatain. I termini medie tempestatis, media antiguitas, ecc., ricorrono negli scrittori Beato Renano, l’umanista discepolo di Erasmo, e nel suo amico Gioacchino Vadiano. L’umanesimo tedesco guarda qui al Medioevo come al periodo che aveva visto sì la decadenza del latino ma anche i fasti grandiosi della “nazione tedesca”. Spesso si tratta di una interpretazione feticista. I rapporti sociali tardi, quelli della rinascenza tedesca, delle città commerciali e concorrenziali fra loro, dettano alcune necessità imprescindibili che non è vero che non hanno nulla a che fare con la realtà medievale, solo cercano di correggerla opportunamente.

In Leonardo Bruni è chiaro il momento del periodo in cui iniziò la declinatio imperi. Il problema viene spostato dal latino al campo civile con la riflessione sulle sorti dell’antica società romana nel suo fiorire e nel suo decadere. Così scrive Bruni: «Ho deciso di tradurre in latino i libri dell’Etica di Aristotele non perché non fossero già tradotti, ma perché erano stati tradotti in modo da sembrare più barbari che latini. È chiaro infatti che l’autore di quella traduzione — chiunque sia stato certo fu dell’ordine dei predicatori [Guglielmo di Moerbeke] — non conosceva adeguatamente né il greco né il latino. Infatti in molti luoghi ha compreso malamente le parole greche e le ha tradotte in latino in modo così puerile e indotto che ci si deve vergognare di tanta supina e crassa ignoranza; anzi spesso si mostra ignaro persino di ottime e probatissime parole latine, e povero pur nella ricchezza della lingua nostra, non essendo capace di porre una parola latina in luogo di una greca. E quasi disperato e incapace di prendere una decisione lascia parole greche.

«Così finisce per essere mezzo greco e mezzo latino, manchevole nell’una e nell’altra lingua, in nessuna completo. Che dire poi della trasformazione radicale del discorso, di cui nulla vi è di più stravolto e perverso? Invero che Aristotele sia stato studioso di eloquenza e abbia congiunto l’arte del dire con la sapienza, lo testimonia Cicerone in molti luoghi e lo rendono manifesto i suoi libri scritti splendidamente con grande studio d’eloquenza. Sicché se egli ha ora qualche conoscenza delle nostre cose, è da ritenere che, offeso per l’assurdità e la bruttezza della traduzione e indignato per tanta barbarie, negherebbe che tali libri siano suoi, desiderando di apparire ai latini quale egli stesso si fece conoscere ai greci.

«Né mi si obbietti la povertà della lingua latina. Infatti è tanto ricca da essere adatta non solo a esprimere quel che si vuole, ma anche ad ornarlo. È cosa stoltissima e indegna che un ignorante si impegni in queste cose e attribuisca alla lingua un vizio che è solo suo. Vediamo che Plauto e Terenzio, poeti comici che trattano temi leggerissimi, hanno reso latine dal greco le favole di Menandro in modo da esprimere tutto, anche i minimi dettagli, senza servirsi di parole greche; e non per questo manca loro una grandissima eleganza, né l’ornato. Anche a Cicerone non vien mai meno la capacità di espressione né la ricchezza del discorso in quei libri in cui riscrive le cose trattate da Aristotele; anzi in molti luoghi disse che la lingua latina è più ricca della greca; e pur essendo in ciò combattuto da alcuni, costoro tuttavia riconosceranno che la lingua latina è completa e ricca anche senza anteporla alla greca. Quelli che accusano di aridità la lingua latina mi sembra che non abbiano mai letto né Marco Tullio né Virgilio, ai quali non vedo perché si dovrebbe preferire Demostene per la prosa oratoria, Omero per la poesia. Sopra a questi i Greci non hanno nessuno da porre.

«Ma perché discutere sul paragone tra le due lingue o sulla possibilità espressiva delle parole? È preoccupazione da eruditi ritrovare parole rare e limate: ma questo nostro traduttore inciampa nelle vie più lisce come in vie sassose, né si travaglia in povertà, ma va mendicando nelle ricchezze». (Sull’Etica di Aristotele, in H. Baron, Leonardo Bruni Aretino. Humanistisch-Philosophische Schriften mit einer Chronologie seiner Werke und Briefe, Leipzig-Berlin 1928, pp. 76-77). La preoccupazione di Bruni risulta oggi datata, ma bisogna calarla nella realtà del tempo. La lingua italiana è tutt’altro che costituita stabilmente e il sostegno di un corretto latino appare indispensabile. La pratica linguistica corrisponde pertanto a uno svelamento degli imbrogli presenti e a una illuminazione dei cosiddetti periodi oscuri, che tali non erano.

In Machiavelli, che ha un concetto della libertà diverso da quello degli umanisti suoi precedessori (Coluccio Salutati e lo stesso Bruni), il riferimento è agli squilibri da sanare intesi come soluzione di contrasti interni nell’armonia di una società bene ordinata. È il colpo della fortuna che segna la fine dell’Impero, come quella di Teodorico e che aprirà la grave crisi gotica. Riconsiderare gli accadimenti è opera di riflessione e di svelamento. La realtà appare come fenomeno in corso, non solo come l’immagine di un tutto ormai privo di senso fattuale. Il blocco organico dell’accaduto è rifiutato dall’analisi storica e rimesso in questione grazie alle varie aperture contraddittorie che via via si rendono possibili. L’apparenza è tale in modi e configurazioni diversi secondo i tempi e i luoghi. La storia la propone sempre in funzione di concessioni attualizzate, solo che queste vanno scoperte una dopo l’altra e rese comprensibili in funzione dei tempi nuovi. Machiavelli opera in questo senso.

«E non mi è incognito – egli scrive – come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbero iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si son viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io qualche volta mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro.

«Nondimeno perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro senza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso.

«Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo; ché s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatte le variazioni grande che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo opporsi alla fortuna, in universali.

«Ma restringendomi più al particolare dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, senza averli veduto mutare natura o qualità alcuna; il che credo che nasca, prima dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia. Credo ancora che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordono e tempi.

«Perché si vede li uomini, nelle cose che li conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con respetto l’altro con impeto, l’uno per violenze l’altro con arte, l’uno per pazienzia l’altro con il suo contrario; e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedosi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no, e similmente dua equalmente felicitare con dua diversi studii, sendo l’uno rispettivo e l’altro impetuoso; il che non nasce da altro se non dalla qualità de’ tempi che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua diversamente operando sortiscono el medesimo effetto, e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no». (Il Principe, XXV). L’agire corretto protegge dalla fortuna contrastante solo se è in grado di seguire un progetto sufficientemente dettagliato. Ogni realizzazione diventa allora ostacolo alle avverse condizioni della sorte. Occorre però tenere presente che qualche volta la norma più ortodossa, alla quale l’agire si rifà per meglio proporzionare la propria correttezza fattiva, è soltanto una mistura ideologica, un arzigogolo speculativo, che ben presto tale si rivela. Le cose appaiono allora reali ma reali non sono. L’artificio viene a galla e sconvolge qualsiasi ostacolo all’avversa fortuna.

Un particolare problema nasce dalla polemica di Machiavelli con Bruni sulla figura di Teodorico e sulla fonte (F. Biondo, Historiae ab inclinatione Romanorum imperii [1435-1453]) di Machiavelli. Le Historiae si pongono il problema dei mille anni che separano la storia antica dalla contemporanea. Il miracolo della tradizione romana come valore perenne si pone come base di una possibile Roma Caput Europae. La narrazione dal sacco di Roma di Alarico del 410 con il consapevole allacciarsi a Orosio e ad Agostino, vuol designare l’inizio faticoso e tragico dei tempi moderni.

Particolare fortuna ebbero in Germania le opere del Biondo. Qui, nell’àmbito della cornice culturale dell’umanesimo classicheggiante nasce il termine età media. Beato Renano giunge sino agli imperatori sassoni e tratta particolareggiatamente del periodo romano e della migrazione dei popoli germani.

Le vicende politiche del periodo di Massimiliano I e dell’aristocrazia feudale determinano conflitti che si svolgono sul piano pratico per cui l’urgenza di rivendicare la dignità storica e civile della Germania dai tempi romani agli odierni. La storiografia ne viene quindi condizionata.

Aumenta l’attenzione sulla Germania al presentarsi del pericolo turco. Enea Silvio Piccolomini (Pio II) sottolinea la grandezza della Germania in una età che non fu la romana e neppure la moderna, e nello stesso tempo stigmatizza la divisione politica di oggi che compromette la forza della Germania portandola lontano dalla grandezza raggiunta nel Medioevo. Piccolomini rigetta ovviamente la tesi che la divisione tedesca dipendesse anche dalla posizione del papato, tesi che verrà ripresa dalla polemica luterana. In Melantone questi motivi anti-romani saranno mischiati alla polemica anti-imperiale dell’aristocrazia cittadina. Egli scrive nel Chronicon di Carione, ampliandolo: «Quando dunque cerchiamo le cause dei periodi e dei mutamenti negli imperi, non andiamo a perderci troppo lontano col pensiero né rivolgiamoci alle stelle (sebbene Dio non voglia che si sprezzi la potenza degli astri intesi come cause seconde di cui Egli si serve come mezzi, né i miracoli e i prodigi che ci sono offerti) ma consideriamo quanto avviene nella Chiesa, nelle costituzioni politiche degli Stati e nei regimi familiari. Se nella Chiesa regnano dottrine false, empie, fanatiche, blasfeme oppure false divinità, e i rappresentanti della Chiesa docente si combattono tra loro; se negli Stati infuriano impunemente tirannidi, sedizioni, ruberie, inganni, frode, e ciascuno può fare quel che gli piace; se i coniugi non vanno d’accordo e i regimi familiari sono contaminati impunemente da libidini capricciose e proibite, e le famiglie sono guastate; allora a questo punto saremo certi che incombono vicine pene atroci e dolorose.

«Invece se nelle Chiese, ben costituite, risuona ed è ascoltata la voce pura e integra del Vangelo, si amministrano i Sacramenti in modo legittimo, si invoca Dio con rette intenzioni, si celebrano virtuose riunioni nei templi a scopo di culto, se nelle scuole si coltivano i sentimenti del dovere e si praticano gli studi letterari; se i magistrati tutelano con debita cura le leggi, le sentenze e la disciplina; se i sudditi obbediscono e sono concordi, pensano al sostentamento quotidiano con lavori onesti e necessari alla vita, cioè l’agricoltura, il commercio e le altre attività artigiane, si costituiscono e si difendono le città contro il brigantaggio, e il volere dei magistrati e dei sudditi mira a far che in questa società si onori rettamente Dio in conformità ai precetti posti da Lui e non obbligati a un’obbedienza che è finta, di modo che questo sia un bene per tutti; se per queste cause difendono concordemente la patria; infine se nella consueta vita domestica i mariti e le mogli si amano reciprocamente di un amore casto e sincero, gareggiano in servigi dettati dal mutuo affetto, parlano di Dio, educano rettamente la prole e la abituano a conoscere e ad invocare Dio, al culto amoroso per le lettere e le virtù, se reggono con austerità la famiglia e tutti invocano unanimamente Dio in una comunicazione fiduciosa di consigli e di opere, se formano e amministrano il loro patrimonio familiare; allora per forza un tale Stato deve durare a lungo felice e florido». (Philippo Melanthone et Casparo Pecucero, Chronicon Carionis expositum et auctum multis et veteribus historiis ad exordio Mundi usque ad Carolum Quintum Imperatorem, Württemberg 1571, pp. aijr-a7r). Il conservare è garanzia contro ogni novità avversa e il pericolo immaginato è quasi sempre più grave di quello reale. Ogni chiusura è mortale e anche il più stupido conservatore lo capisce. Solo che non accetta una temporalizzazione logica del cambiamento, vuole che tutto si ricompatti nell’astrazione categoriale del mantenimento, dove gli antichi princìpi permangono lucidi e splendenti come se la patina dei secoli non esistesse.

In questi lavori di storia l’accento è posto sulla vicenda ecclesiastica (storia da Cristo a Lutero), quindi non c’è posto per il concetto e il termine di Medioevo. Un altro di questi storici, Sleidano, guardando alla monarchia romana (la quarta) può individuare un’età che comincia con la decadenza linguistica dell’età post-augustea e finisce con l’umanesimo europeo; mentre la vera e propria corruzione comincia con il primato papale. Così egli scrive: «Come il piede umano si divide nelle dita così l’impero Romano, quando per un certo tempo sarà stato fermo, appoggiato su ferrei cocchi e avrà compreso con la sua estensione tutta la terra, finirà nelle dita e quell’enorme corpo si dissolverà. Tutti sanno che questo si è verificato né occorre spiegazione. Infatti oggi cosa è più dissolto che il corpo di quell’impero così ampio? Eppure, nonostante ciò, poiché la pianta del piede è ferrea, come lui dice, rimarrà il suo appoggio e non potrà essere affatto spezzato, ma i suoi resti, il suo nome, la sua autorità dureranno finché Cristo col suo arrivo porrà fine ad ogni cosa terrena. Che sia ridotto al massimo della sua inconsistenza non si può mettere in dubbio ed è più chiaro della luce di mezzogiorno. Cade quell’alto albero, ma la sua radice tiene bene il terreno ed è salda, non però piena di linfa né tanto da poter accrescersi e propagarsi, ma è secca del tutto e arida. Eppure nessuna forza umana riuscirà a strappare fuori dal profondo questa radice e la pianta che sono di natura ferrea. Essa rimarrà fissa al suolo finché l’edificio di tutte le cose sarà distrutto. Lo sappiamo per esperienza: molti spesso tentarono di travolgere questi piccoli e deboli possedimenti imperiali: perfino i Pontefici Romani e infine anche i Turchi che, sebbene abbiano compiuto molte cose e maggiori se ne ripromettano, pure non riusciranno a mettere assieme una tale mole paragonabile alla potenza romana, né riusciranno a sconvolgere questo semenzaio dell’impero che rimane per quanto arido e privo di vitalità. Non si può costituire una quinta monarchia. La sola Germania ha il titolo e il possesso dell’impero: se unisce la sua forza e il suo coraggio sarà in grado di respingere facilmente ogni violenza esterna; e lo si può provare in più d’un modo. Pochi anni fa i Turchi fecero notevoli progressi e, superato il Bosforo Tracio, commisero violenze in lungo e in largo per l’Europa e ora hanno i territori in loro potere confinanti con quelli della Germania che si trova esposta a gravi pericoli, e così pure l’Italia per la sua vicinanza». (De quatuor summis imperiis, Babylonico, Persyco, Graeco et Romano, Libri tres, Württemberg 1559, pp. 3e-3v). Le radici sono simbolo conservativo. Strano ma molti rivoluzionari sembrano non saperlo. Il processo storico non è deterministicamente fermo sui propri piedi (in questo caso le radici avrebbero un senso come causa produttiva del progresso), ma traballa in modo incerto, cerca, trova, perde, torna a cercare. Le radici sono – a ben riflettere – la causa stessa dell’apparenza che ci sovrasta e ci cava fuori da noi stessi, producendoci fantasmi incapaci di concretezza.

Come si è visto, sia Melantone che Peucero parteciparono al rifacimento del Chronicon di Giovanni Carione. Qui Melantone, teologo più che storico, ripropone la connessione tra barbarie e corruzione dottrinale del cristianesimo con una marcata insistenza su questo secondo elemento. In Peucero troviamo l’esaltazione dell’impero carolingio dovuta alla fusione di Italia, Francia e Germania, che determina una situazione favorevole distrutta dall’ambizione dei papi alla monarchia universale. La fine dell’impero franco è segnata da Dio irritato dalla condiscendenza verso il papato corrotto. Così il primato passa agli imperatori germanici che tengono la Chiesa efficacemente subordinata.

Gli stessi temi appaiono nelle Centurie di Magdeburgo, sotto la guida di Mattia Flacio. La tesi principale è che l’imperatore non solo è garante della purezza della fede, ma la corruzione di questa si identifica con la decadenza del potere imperiale. In definitiva quindi l’interesse per l’età medievale era nato in Germania col formarsi di una autonoma coscienza culturale sotto la spinta e in reazione all’umanesimo italiano, ed era stato potenziato polemicamente dagli storici e dai pubblicisti della Riforma.

Lo stesso avviene in Francia, naturalmente con ovvie differenze, nel secolo XVI. Etienne Pasquier conduce un’aspra polemica contro quegli italiani (Paolo Giovio) che avevano chiamato barbari i francesi. Negli ultimi 500-600 anni l’Italia è stata lacerata e divisa, mentre la Francia ha avuto una monarchia che ha più di 1000 anni. Come chiamarla barbara? Un’altra spinta è data dalla sostituzione del droit cotoumier al diritto romano che si voleva considerare come diritto naturale. Dal declino dell’Impero sono stati i francesi a tenere in piedi l’Italia.

Il termine medioevo ricorre in Pasquier solo in riferimento alla Chiesa cristiana, non nel senso luterano che abbiamo visto ma nel senso del periodo da Gregorio VII a Bonifacio VIII che avevano tentato di erigere uno Stato monarchico sotto il manto della religione. Motivi di una polemica gallicana che determina in concorrenza con quella luterana l’uso e il senso del termine Medioevo.

Bernard Du Maillan si appoggia a Pasquier con cui interloquisce, ma calvinista convertito non ha dubbi sul fatto che la monarchia francese non deve nulla alla repubblica romana.

François Hotman, autore della Francogallia, afferma la necessità del ritorno al bel Stato del tempo dei nostri padri. Siamo davanti all’opera di un alsaziano in contatto con la cultura giuridica ed ecclesiastica di Germania e di Svizzera, avente il merito di avere proposto la storia di dodici secoli non come storia della monarchia ma come storia della nazione francese.

Jean Bodin, ha acuto il senso dei miserrima tempora della decadenza romana. Ma la sua concezione ciclica della storia, di estrazione polibiana, gli impedisce qualsiasi considerazione del concetto dominante di Medioevo. Antipapale, nega il diritto d’appello al papa da parte dei sudditi contro il proprio principe sovrano. È antitedesco in merito alla pretesa imperiale tedesca di eleggere i papi. L’origine dei Franchi è così esposta da Bodin. Galli è il nome con cui i Romani designavano i Celti della Gallia in un periodo in cui la Germania era ancora vuota di genti. Col crescere della popolazione i Galli si espansero nelle vicine regioni della Germania e vi impiantarono colonie. I Vandali sono per Bodin gallo-celti, per cui la loro invasione è soltanto un ritorno alle antiche sedi. Nei Sei libri della Repubblica studia la natura degli istituti e non la loro genesi. Esempio: la natura dell’istituto della protezione e del vassallaggio, il primo del mondo romano e il secondo del mondo medievale. Riguardo la funzione della storia egli scrive: «Poiché la maggior parte della storia è volta a spiegare la costituzione e i cambiamenti che subisce uno Stato, di conseguenza conviene trattare brevemente gli inizi degli Stati e le loro fini, per meglio comprendere la storia. A mio avviso, questo è uno dei profitti più notevoli che si può trarre dallo studio storico, per quanto ogni lato di esso concorra ad ornare lo spirito e a formare il carattere dell’uomo in modo vantaggioso. Tutto ciò che lo storico ci fa apprendere sugli inizi, la crescita, l’equilibrio, la decadenza e la rovina degli Stati è così necessario agli individui e alle società, che Aristotele dice di non conoscere altro mezzo più efficace per fondare e mantenere le associazioni politiche che l’apprendimento della scienza del governo. Sfortunatamente in tale scienza i pareri degli uomini di governo e dei grandi teorici sono così diversi e così discordi, che dopo tanti secoli non si è ancora arrivati a concludere qual è per uno Stato il miglior regime. Mi è sembrato utile, per la istituzione di questo metodo storico, metter a confronto i pareri degli storici e dei filosofi sulle forme di governo e paragonare gli Stati dei nostri antenati con quelli dell’epoca nostra. In tal modo la storia universale sarà meglio compresa e sinteticamente abbracciata in un solo sguardo». (J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, V, 3). Il modello rinnova se stesso nel momento in cui viene applicato alla spiegazione della realtà. Il cerchio ideologico si chiude sempre fornendo chiarimenti esaurienti e opportuni. Per garantire questa chiusura fugge via dall’individuo, cerca un movimento oggettivo che lo garantisca e contribuisca così a impressionare i paurosi. Ma questo ritorno alla responsabilità del soggetto non è per tutti, si tratta di un esercizio spiacevole. I molti gradiscono grufolare e non amano avere pensieri sgradevoli.

George Buchanan, scozzese, aveva soggiornato 20 anni sul continente dove aveva avuto contatti con umanisti francesi e italiani. Nel De iure regis apud Scotos esamina quali fossero il diritto e il potere spettanti presso gli Scozzesi al re e ai cittadini nei loro reciproci rapporti. Così scrive: «La prima forma di potere politico si fonda pertanto sul comune consenso degli associati che affidano a colui che giudicano di più elevate virtù morali l’incarico di amministrare e di garantire la giustizia nella comunità: i primi re rivestono la funzione di giudici, di arbitri che traggono i criteri per giudicare tutte le controversie dalla loro personale saggezza». (Cfr. Opera Omnia, vol. I, Lugduni Batavorum 1725, p. 8). Per questo egli indaga la storia antica. Alla costituzione di città gli uomini sono indotti da una legge di natura (che è divina) ma che si presenta sotto il profilo della utilitas. Questa utilitas definisce il potere e il diritto del magistrato che è come il medico. Medicina è la giustizia, farmaci sono le leggi create per la salute del popolo e non per l’interesse del medico. Il re quindi non viene eletto soltanto ma scelto tra una rosa di eredi in modo che sia abile e saggio. La Historia Scotorum è diretta a illustrare i meriti di questo particolare sistema di diritto pubblico. Non ci sono periodizzazioni nel racconto di Buchanan, scarso il contributo di ricerca, il tutto si riduce a un andirivieni tra passato e presente. Si limita a sottolineare il processo di deterioramento della vita religiosa in Scozia, ma non parla della Riforma come renovatio.

In Inghilterra la situazione è più matura. La Anglica Historia di Polidoro Vergilio è un frutto estraneo alla storiografia inglese. Egli riceve l’incarico di scrivere una storia d’Inghilterra. Sebbene raccolga favole come Bruto troiano e re Artù ha il merito di indicare nella conquista normanna una frattura nella continuità della storia inglese. Per il periodo prenormanno cerca di dare qualche illustrazione sui caratteri etnici dei Celti e dei Sassoni d’Inghilterra pur con il poco materiale che aveva.

John Leland, nella sua King’s Antiquary raccoglie un immenso materiale antiquario. Anglicano, cerca un sostegno alla riforma nel passato ecclesiastico ricostruendo i tratti di una tradizione religiosa inglese autonoma dal cattolicesimo papista e immune dalla sua corruzione. L’età media è quindi definita quella in cui ebbero il sopravvento i monaci incolti e falsificatori dei documenti attestanti il periodo tra la Chiesa primitiva e la Chiesa restaurata.

William Camden autore di una descrizione topografico-antiquaria della Gran Bretagna contea per contea, si avvale di fonti classiche e celtiche, e si basa su presupposti moderni: niente Bruto, niente mitici Bretoni, interesse aperto per i sassoni, dai quali comincia la vera storia inglese. Il suo lavoro prende il nome di Britannia e intende dare un quadro dell’antica provincia romana, con scarso rilievo per il seguito medievale della storia.

Edward Coke, lord Chief Justice di Elisabetta e di Giacomo I, capo dell’opposizione al re che aveva sottovalutato la common law e quindi il potere dei parlamenti affermando che si trattava soltanto di passate concessioni dei suoi predecessori, è autore di una polemica con l’arcivescovo Sancroft che, con l’appoggio del re, sosteneva che i tribunali laici non potevano avocare a sé le cause ecclesiastiche. Il re pretendeva di potere decidere lui al posto dei giudici, ma Coke sostenne la tesi della non competenza giuridica del re. La legge è il prodotto dell’esperienza di più generazioni e non di un singolo. La common law viene definita come immemorial custom. Per Coke la legge ha sempre il concetto medievale di ratio divina universale ma solo nel senso che all’inizio della storia nazionale attraverso tensioni ed esperienze si è concretizzata nella storia specifica di un popolo. Per consolidare questi concetti però abbisognava di una continuità giuridica istituzionale in Inghilterra per cui Guglielmo il conquistatore si sarebbe limitato a fare proprie le leggi sassoni di Artù e di Edoardo il Confessore, difatti egli ammette che il parlamento sassone non era diverso da quello del suo tempo.

Henry Spelman, illustra i presupposti metodologici della ricerca antiquaria, con grande chiarezza e maturità. Contrasta con l’interpretazione di Coke. Per lui le basi del diritto derivano dai Germani, ma poi l’edificio fu costruito con materiali presi dal diritto canonico e romano.

Per Hegel il Medioevo assolve a un compito supremo, quello di instaurare nell’uomo il sentimento di unione e di socievolezza. Solo che il passaggio avviene attraverso il ricorso a pochi individui potenti che vedono nel processo di trasformazione in corso un possedimento personale. Eccolo come illustra il movimento di cui discutiamo: «Il compito del Medioevo era quello di aiutare la legge di libertà a diventare reale. Portare ad esistenza il principio dello spirito libero, suscitare il principio della conciliazione universale, è il compito che lo spirito del mondo ha assegnato ai Tedeschi. Questi popoli avevano accolto nel loro cuore il principio del cristianesimo, che è il principio della libertà: ma per ciò stesso esso era tra loro efficace solo nei singoli individui, era solo astratto. La pietà era nel mondo, ma non ancora la moralità. Gli individui possono esser pii, e nel contempo completamente immorali, come avvenne negl’imperi bizantino e franco. Affinché la pietà divenga reale è necessaria l’eticità, l’organizzazione della costituzione. Ma, all’inizio del medio evo il senso della legalità e dell’universalità non esisteva affatto, non era vivo nei popoli. Gli obblighi di ogni libero cittadino, quelli del giudice di giudicare, del conte di amministrare la giustizia, l’interesse per le leggi come tali, si dimostravano inefficaci appena la mano forte dall’alto non teneva più strette le realtà. I barbari non conoscevano ancora questo bisogno di esser protetti da altri; essi consideravano come una limitazione della loro libertà il fatto che i loro diritti dovessero esser loro assicurati da altri. In tal modo non c’era, inizialmente, la tendenza a una salda organizzazione; gli uomini dovevano prima esser posti nella condizione della mancanza di ogni difesa, per sentire la necessaria apparizione dello Stato. La formazione dello Stato ricominciò dalle fondamenta. L’universale non aveva assolutamente nessuna vitalità e solidità né in sé né nel popolo, e la sua debolezza si manifestava nel fatto che non era capace di tutelare gli individui». (Lezioni di filosofia della storia, tr. it., vol. IV, Firenze1963, pp.66-67). Il presupposto del discorso hegeliano, è utile dirlo, consiste nella convinzione che la distinzione tra soggetto e oggetto è solo apparente, non reale. La coscienza in età medioevale non riesce a capire (e per questo soffre) che quel Dio potente che vede a lei opposto in realtà è lei stessa. Considerato in maniera riflessa accade quel che Hegel, in età giovanile, rimprovera alla mentalità ebraica e alla sua tendenza a vedere Dio opposto all’uomo. Da qui sorge la dialettica della coscienza infelice. L’uomo cerca di superarla in età medievale tramite la visione mistica che porta, attraverso l’esperienza dell’estrema mortificazione di se stessi, a una sorta di identità tra uomo e Dio, l’opposto da cui si era partiti. Con questo capovolgimento dialettico per cui si parte dalla concezione di un Dio opposto all’uomo per arrivare con la mistica alla concezione di un’unità tra uomo e Dio, si chiude la seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia dello Spirito e si apre la terza, la tappa della ragione. Hegel considera la ragione come “certezza di essere ogni realtà”. Vi è dunque quel passaggio da mistica a ragione che vi è stato anche nella realtà storica, quando dal Medioevo si è passati al Rinascimento. La ragione è “certezza di essere ogni realtà” grazie all’esperienza mistica. Con essa, infatti, l’uomo si è assimilato a Dio e ha acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo tra soggetto e oggetto. Mistica e ragione sono pertanto due passi contigui e permangono distaccati nel corso del Medioevo.

[1969]

IX. La verità effettuale
La verità effettuale viene fuori necessariamente dai fatti. Machiavelli, come politico militante durante le sue missioni e nei suoi scritti politici, non rincorre l’immaginazione delle cose, non si culla nell’utopia di Repubbliche o Principati che non sono mai esistiti, ma analizza la storia dei popoli e delle istituzioni da questi realizzate per ricavare regole utili ancora oggi per realizzare la conquista e il mantenimento del potere. Sottolineare, come molti insistono a fare, la pericolosità morale di queste indicazioni è ridicolo.

“Molti – riflette Machiavelli – si sono immaginati Repubbliche e Principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua”. L’unica verità che deve esistere per il politico è quella che deriva direttamente dai fatti, effettuale deriva da effetto ed effetto, come fenomeno, deriva da una precisa causa, e genera una precisa norma generale. La verità effettuale diventa la materia principale della sua filosofia, anche se questa filosofia viene indiscriminatamente rivolta agli uomini liberi e ai governanti, siano essi tirannici oppressori o democratici politici. Il tiranno come l’uomo libero è una realtà storica, eterna come l’uso buono o cattivo della libertà. Solo la grandezza della virtù potrà suggerire all’uomo di governo quella misura nell’esercizio del potere che è contraria al dispotismo.

Per il Principe la conquista e il mantenimento del potere sono fini essenziali. La filosofia non si basa sulla realtà, ma sulla capacità dell’uomo di conoscere la realtà e di realizzare i fini che si propone attraverso princìpi generali e validi universalmente. In tal modo la realtà va studiata attentamente per muovere da una serie di fenomeni omogenei alle norme che li hanno prima generati e poi regolati; la realtà deve insegnare all’uomo comune come comportarsi nella vita e al Principe nel governare. Così Ortega y Gasset: «Dal punto di vista “etico” o “giuridico” non si può costruire l’ideale di una società. Questa è stata l’aberrazione dei secoli XVII e XIX. Con la morale e il diritto da soli non si arriva neanche ad assicurare che la nostra utopia sociale sia pienamente giusta; non parliamo di altre qualità ancor più perentorie della giustizia per una società. Come? Si può esigere da una società che sia un’altra cosa prima di essere giusta? Evidentemente, prima di essere giusta una società deve essere sana, vale a dire, deve essere una società. Pertanto, prima dell’etica e del diritto, con i loro schemi di ciò che deve essere, deve parlare il buon senso, con la sua intuizione di ciò che è. È del tutto ozioso discutere se una società deve essere o non deve essere strutturata da una aristocrazia. La questione è risolta dal primo giorno della storia umana: una società senza aristocrazia, senza minoranza egregia, non è una società. Voltiamo le spalle alle etiche magiche e restiamocene con l’unica accettabile che venticinque secoli fa Pindaro riassunse nel suo illustre imperativo “cerca di essere quello che sei”. Cerchiamo di essere nella perfezione ciò che imperfettamente siamo per natura. Se sappiamo guardarla, ogni realtà ci insegnerà il suo difetto e la sua norma, il suo peccato e il suo dovere». (Spagna invertebrata, in Scritti politici, tr. it., Torino 1978, p. 569). La con-siderazione di Ortega è essa stessa un’espressione di buon senso, non si riferisce soltanto al buon senso. Ma è anche una questione di parole. La presenza di differenze è una ricchezza non una calamità. La società migliora accettando le differenze non inghiottendo ideologie egualitarie. Occorre disoccultare quanto c’è di imbroglio (spesso involontario) nelle affermazioni che garantiscono l’avvento di una società di liberi e di uguali. L’eguaglianza deve essere verso l’alto non verso il basso. Negare ogni processo ideologico come meccanismo occultante, ecco da dove possiamo partire.

I fatti soltanto possono dirci se uno Stato ha una sua intima capacità di esistere e di resistere ad agenti distruttori esterni con l’uso di un esercito nazionale anziché mercenario. È proprio nel concetto di verità effettuale che individuiamo la netta separazione fra morale e politica perché la verità è ciò che deriva dalla realtà, è lo studio di effetti determinati da precise cause, mentre la morale è l’insieme delle norme che regolano il comportamento umano, sul quale resta vigile l’intelligenza che porta l’individuo a indirizzare a proprio vantaggio le forze e le leggi della natura.

La profonda antinomia tra l’essere e il dover essere per quanto riguarda Machiavelli può essere risolta solo nella verità effettuale. La sua scelta attirerà tanta esecrazione da parte degli ipocriti che naturalmente non l’hanno mai adeguatamente valutata. Molti critici, infatti, inventeranno la massima “il fine giustifica i mezzi”. Il fine non può giustificare i mezzi né sul piano morale perché l’uso di certi mezzi è comunque condannabile (come l’uso della frode, della forza, dell’assassinio, ecc.), né sul piano razionale, in quanto si rovescerebbe il discorso logico delle cause che generano determinati effetti in “effetti che giustificano l’esistenza di determinate cause”.

Mutando le cause mutano gli effetti, così mutando i mezzi, mutano i fini. Il Principe non deve tenere conto in primo luogo dei mezzi ma dei fini, all’interno dei quali i mezzi trovano la loro logica collocazione, non giustificazione.

Parlando di verità effettuale, ci riferiamo a una verità basata sulle norme che discendono dai fatti e che permettono di raggiungere i fini prefissati; i mezzi possono essere scelti tenendo necessariamente conto dei fini. Quindi, mezzi adeguati per fini voluti.

Bisogna tenere presente che i fatti sono sia le azioni realizzate dagli individui in modo più o meno consapevole e più o meno mirate a ottenere determinati risultati, sia gli avvenimenti che accadono indipendentemente dalla volontà umana e che coinvolgono gli individui.

Per questo motivo la storia è una costellazione di rovine, come ha notato con molta pertinenza Hegel: «Nella storia noi vediamo un enorme quadro di eventi e di azioni, d’infinitamente varie formazioni di popoli, Stati, individui, in un succedersi instancabile. Tutto ciò che può penetrare nell’animo dell’uomo e interessarlo, ogni sentimento del buono, del bello, del grande vien messo in campo, dappertutto vengono proposti e perseguiti fini di cui riconosciamo il valore e il cui conseguimento desideriamo; fini pei quali nutriamo speranza e apprensione. Diffuso su tutti questi eventi e casi noi vediamo un umano agire e soffrire, una realtà nostra dovunque, e perciò dovunque un’inclinazione o un’avversione del nostro interesse. Ora ci attirano bellezza, libertà e ricchezza, ora ci seduce l’energia, per opera della quale il vizio stesso riesce ad acquistar significato. Talora vediamo il più vasto corpo di un interesse generale procedere con maggior difficoltà e disgregarsi, lasciato in preda a un infinito complesso di piccoli rapporti; talora vediamo nascere il piccolo da un’enorme spiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante; dappertutto la più variopinta folla, che ci trae al suo interesse; e se una vien meno, ecco che un’altra ne prende il posto. Il lato negativo di questa idea di mutamento ci arreca dolore. Ciò che può deprimerci è il fatto che la formazione più ricca, la vita più bella, trovino nella storia il loro tramonto, che noi ci aggiriamo fra le rovine di ciò che fu eccellente. Da ciò che è più nobile e bello, e a cui ci lega l’interesse, la storia ci strappa: le passioni lo hanno distrutto, esso è traseunte. Tutto appare caduco, nulla stabile. Ogni viaggiatore ha sentito questa malinconia. Chi avrebbe potuto fermarsi tra le rovine di Cartagine, Palmira, Persepoli, Roma, senza esser mosso a considerazioni sulla caducità dei regni e degli uomini, a rimpianto per la forte e ricca vita di un tempo?». (Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it., vol. I, Firenze 1961, pp. 14-15). Questa considerazione deve essere inserita nella realtà umana, nella dimensione della quotidianità che rende possibile la sopravvivenza ma non la ricchezza vitale a cui l’uomo ha pur diritto di aspirare. La caducità della vita (di ogni espressione della vita, quindi anche della storia che cerca di documentarla) non appare più una condanna ma si trasforma in un progetto costruttivo, quando l’uomo ha il coraggio di radicarsi in quello che è, localizzandosi e presentandosi come attiva apertura al proprio destino. Restare avvinti (e convinti) all’appassionato riferimento di Hegel significa ridurre all’astrattezza ideologica l’intenzionalità che potrebbe muoversi verso la qualità e invece resta prigioniera nel condizionamento quantitativo.

[1968]

X. Fine e mezzi
“È il fine che giustifica i mezzi”. Si tratta di un’affermazione classica che presenta qualche inesattezza.

Per quel che si ricava dalla lettura diretta degli scritti di Machiavelli dobbiamo per prima cosa parlare di “necessità”. Ogni azione del Principe deve essere necessitata dalle circostanze e deve essere proporzionata al fine da raggiungere. In questo senso è da intendersi nel Machiavelli la “giustificazione”, o sarebbe meglio dire l’accettazione per principio dell’uso della forza e della violenza.

Non si tratta di un problema morale ma politico, da inserire nel quadro generale del raggiungimento di un obiettivo predeterminato. Niente e nessuno obbliga un individuo a perseguire l’obiettivo della conquista e del mantenimento del potere, ma quando si mette in moto, allora deve prendere tutti quei provvedimenti che sono adatti al raggiungimento del suo scopo. Sul piano morale l’affermazione riguarda in particolare l’uccisione dei rivali nella corsa al potere e nel suo mantenimento, un assassinio, l’esecuzione di una condanna a morte può trovare la sua accettazione solo nell’esigenza del mantenimento del potere, non è accettabile comunque quando non persegue questo scopo e il suo uso diventa eccessivo. È per questo motivo che il potere è comunque e sempre qualcosa da condannare. Imporre agli altri (anche a un singolo altro) le proprie scelte è, qualche volta, una dolorosa necessità che, di regola, addolciamo con giustificazioni ideologiche. Non è certo la strada più breve per arrivare a una società libera. Non posso ridurre un uomo a una cosa, mai e in nessun caso. Se ciò accade, se “mi” accade, mi porterò dietro le conseguenze per tutta la vita. Quindi devo essere pronto ad affrontare tutte queste conseguenze.

Machiavelli perviene così a una concezione morale della vita non di tipo religioso, ma sociale e politico. La dimensione morale viene separata e tenuta distinta dalla religione e quando viene legata alla politica, diventa l’insieme dei provvedimenti che il principe deve prendere per conquistare e mantenere il potere. Questa separazione fonda la società moderna. Paradossalmente sono proprio i conservatori a rifiutarla, ma per motivi inconfessabili. Gli individui sono troppo imprevedibili e incontrollabili per restare al di dentro di queste ripartizioni. La loro azione può rompere qualsiasi legame ideologico e deludere qualsiasi teorico politico. Ciò significa andare al di là di se stessi.

La religione assume un valore esclusivamente funzionale ai fini che il Principe si pone, assumendo una particolare importanza. Essa è uno dei modi ausiliari per mantenere il potere sul popolo che bisogna fare in modo che creda in un Dio considerato come “ente superiore”. La religione è strumento potente perché penetra nel profondo dell’animo umano, diventando strumento per costruire il potere e per mantenere sottomesso il popolo. Questa potenza è in funzione dell’impossibilità di racchiudere gli uomini in una spiegazione causale psicofisica. Ogni tentativo del genere produce nuova linfa irrazionale e un avvicinamento a Dio.

Per Machiavelli la violenza va usata solo se è necessario e se si è costretti dalla superiore ragion di Stato, anche se in qualunque frangente il principe deve mostrare la sua potenza per incutere timore, come il leone, per non essere facilmente attaccato.

[1968]

XI. La teologia dei primi pensatori greci
Agli albori della discussione filosofica in Grecia, troviamo una grande libertà nell’affrontare il problema relativo allo studio della natura. In particolare i pensatori presocratici si indirizzano a un esame del mondo empirico del tutto alieno da preconcetti religiosi o antropocentrici: è comune considerare questa disposizione di indagine come una sorta di approssimativo immanentismo mentre a nostro avviso, può considerarsi sebbene in embrione come l’inizio di una sistematica indagine sulla natura. Le indubbie presenze di ordine trascendentale non possono far trascurare il fatto che l’atmosfera generale presocratica è essenzialmente un’atmosfera atea.

La loro è stata definita da Werner Jaeger: «Una teologia naturale, cioè la dottrina dei filosofi intorno alla natura di Dio». (La teologia dei primi pensatori greci, tr. it., Firenze 1961, p. 3). Compito specifico di questi pensatori è quello di giungere a individuare una forma possibilmente unica e sintetica: la sostanza che genera il mondo, che ne regola le leggi in grado di assicurarne il futuro. A differenza delle speculazioni che tanto frequentemente si svolgeranno in filosofia questa ricerca rimane nell’àmbito strettamente materialistico. Una simbiosi perfettamente riuscita tra sostanza, nel senso di materia che compone tutte le cose, e sostanza, nel senso di forza che assicura il movimento e lo sviluppo di tutte le cose, è alla base del nuovo pensiero. Una straordinaria possibilità di compendio si trova nei maggiori di questo periodo, Talete, Anassimandro e Anassimene, appartenenti alla cosiddetta scuola ionica.

Continua Jaeger: «Per la prima volta [con Anassimandro] vediamo una visione del mondo unitaria che comprende tutto il reale, sulla base di una naturale derivazione e interpretazione di tutti i fenomeni». (Ib., p. 35). L’unitarietà è nell’evidenza, come affermerà Parmenide, per cui ogni movimento pone se stesso e si contrappone a ciò che ha posto. Ogni evidenza si circonda di ovvietà apparenti le quali ben presto svaniscono non appena si rettificano le condizioni che costringono il presente e l’avvenire a presentarsi come in rapporto di causa ed effetto. È abitudine di alcuni vecchi storici della filosofia considerare questo periodo iniziale come grossolanamente manifestatosi in formule materialistiche e quindi di scarsa importanza, ai fini della più alta speculazione filosofica. È evidente che si tratta di un pregiudizio infondato almeno per due motivi. Un primo motivo sarebbe quello di considerare grossolane e primitive in senso assoluto queste speculazioni e non tenere presente lo stato di arretratezza generale e di primitivismo intellettuale in cui l’umanità si trovava in quell’epoca. Il secondo pregiudizio è a nostro avviso quello di considerare compito specifico della filosofia una sorta di trascendentalismo ottuso e miope e non invece uno studio sistematico empirico e scientifico della materia. Forse più fondata è l’obiezione che pone questi studiosi in difficoltà per quanto riguarda il problema in generale, come qualcosa di enigmatico da risolvere. Ma l’enigma aveva all’epoca un altro valore e tutt’altro significato di quello che continua ad avere oggi. La rivelazione del nascosto in quanto nascosto non poteva perdere di vista un duplice nascondimento che non si risolveva nelle favole della proposta enigmatica. Da questo punto di vista evidentemente la nostra analisi risulta quanto mai parziale non ponendosi problemi intorno alla soggettività dell’uomo, ma svolgendo un’indagine del mondo come semplice oggettivazione. Soltanto con Eraclito si libererà da questo stato iniziale. Come giustamente ha notato Nicola Abbagnano la tesi frequentemente avanzata da critici moderni in contrasto con la posizione classica, dello Zeller a esempio, di considerare la filosofia di questo periodo come prodotto di una potente ispirazione mistica, sembra senza fondamento. La profondità della riflessione comporta sempre un duplice riferimento: quello apparente e qualcosa di nascosto che si riflette deformato nell’apparenza stessa. Mistica potrebbe essere questa presenza deformata. Infatti eliminando alcuni ravvicinamenti arbitrari privi di fondamento storico resta soltanto l’ipotesi che questa filosofia debba considerarasi di ispirazione eminentemente naturalistica, libera da ogni fondamento religioso, perché libera dall’obbligo di garantire una tradizione.

Così ancora Abbagnano: «I filosofi presocratici hanno per la prima volta realizzato quella riduzione della natura all’oggettività che è la prima condizione di ogni considerazione scientifica; e questa riduzione è esattamente l’opposto della confusione tra la natura e l’uomo, che è propria del misticismo antico. Che la ricerca naturalistica implichi il senso della soggettività spirituale o contribuisca a formarlo è poi (come si è detto) un fatto indubitabile; ma questo fatto non è dovuto a un influsso religioso sulla filosofia, bensì è inerente allo stesso filosofare; è un nesso che i problemi realizzano nella vita stessa dei filosofi che li dibattono». (Storia della Filosofia, vol. I, Torino 1953, pag.13). La natura mi condiziona e mi costituisce in un processo passivo, nello stesso tempo, riflettendo su di essa, mi apro a una serie vastissima di considerazioni che mi rende sempre più libero. Ciò significa che non esiste una filosofia “naturalistica” che possa contrapporsi a una “spiritualistica”, si tratta di equivoci e di etichette scolastiche.

Scrive Jaeger: «Il tutto è pieno di dèi [di Talete] significherebbe: tutto è pieno di misteriose forze vive; la differenza tra natura viva e natura inanimata in verità non esiste, tutto è animato». (La teologia dei primi pensatori greci, op. cit., p. 33). Comprendere la vita è il compito più arduo di ognuno di noi. Non facciamola scorrere senza significato fra le morte dita. La presenza vivente in noi può disoccultare il senso sepolto dalle ideologie e ripristinarlo nelle sue dirompenti qualità attive.

La figura di Talete non si deve intendere come la figura dello scienziato così come verrà visto dalle successive ricerche di Platone e di Aristotele. Visto sotto questo aspetto, Talete sembra più vicino alla figura del mago o del narratore di storie. Se invece si tiene presente la situazione di Mileto attorno al 585 a.C., epoca in cui si colloca la sua principale attività, si comprenderà come questo pensatore si identifichi molto di più con la figura personale del sapiente che con quella dello scienziato. Indiscutibilmente Talete fu un isolato, cioè un pensatore incapace o impossibilitato a costituirsi una scuola sul tipo di quelle che troveranno sviluppo in Grecia successivamente.

«È dunque evidente – scrive Aristotele nella Metafisica (982 25-30, e 983 5-25) – che bisogna entrare in possesso della scienza delle cause prime, perché di ogni cosa diciamo di conoscerla quando crediamo di conoscerne la causa prima. Il termine causa ha quattro sensi. In un senso diciamo che una causa è la sostanza e l’essenza sostanziale: infatti il perché di una cosa si riconduce da ultimo alla sua definizione, e il perché primo è causa e principio. Un’altra causa è la materia e il soggetto, una terza causa quella da cui ha preso inizio il movimento, e una quarta causa è quella opposta a questa, cioè lo scopo e il bene, che è il fine di ogni generazione e di ogni movimento. Queste cose sono state studiate a sufficienza nella Fisica (II, 3, 7); tuttavia consideriamo anche quelli che prima di noi hanno praticato la ricerca intorno alle cose che sono e hanno filosofato intorno alla realtà perché è chiaro che anch’essi parlano di certi princìpi e certe cause. Da questo esame sarà possibile ricavare qualcosa che possa giovare alla nostra ricerca attuale, perché o troveremo un qualche genere di cause diverso da quelle che abbiamo enunciato ora, oppure presteremo una fiducia maggiore a quelle che ora abbiamo indicato.

«I più tra quelli che per primi praticarono la filosofia credettero che i principi materiali fossero gli unici princìpi di tutte le cose: infatti essi dissero che elemento e principio delle cose che sono è ciò da cui tutte le cose sono costituite, da cui traggono il primo inizio del loro divenire e che costituisce il termine ultimo, procedendo verso il quale, esse si distruggono, mentre la sostanza permane, pur mutando nelle sue proprietà. Per questo essi credono che nulla né nasca né si distrugga, in quanto permane sempre questa natura. Proprio come, quando Socrate diventa bello o musico, per il fatto che permane il soggetto, Socrate stesso, non diciamo mica che esso diventa in assoluto, né diciamo che si distrugge in assoluto, quando perde questi stati; così avviene per tutte le altre cose, perché ci deve essere una qualche natura, una o più di una, dalla quale tutte le altre cose nascono, mentre essa rimane quella che è.

«Sulla questione se ci debba essere un unico principio, o se debbano essere molti, e quanti, e sulla loro specie, non tutti dicono la medesima cosa. Talete che è il progenitore di questa specie di filosofia, dice che quel principio è l’acqua, e perciò affermava che anche la terra galleggia sull’acqua. Forse si è formato questa opinione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido e che perfino il caldo deriva dall’umido e vive di esso; ora, in tutti i casi, ciò da cui una cosa deriva è anche il suo principio. In tal modo Talete si formò questa opinione e anche perché i semi di tutte le cose hanno natura umida: ora l’acqua è il principio della natura delle cose umide». Una notizia assai simile ci viene riportata da Diogene Laerzio. Il principio di Talete è di già visto da Aristotele al di là del semplice luogo dell’acqua dove questa appare soltanto simile a se stessa. L’umidità comprende e riassume in sé una condizione contraddittoria, quella della secchezza che è pur sempre umida. Dappertutto è l’umidità (l’acqua) e dappertutto il principio trova riconferma.

Come si vede è del tutto assente nel pensiero di Talete la preoccupazione metafisica della religione. Il fatto che gli venga attribuita l’affermazione che “tutto è pieno di dèi” non deve far pensare a una implicita rassegnazione del vecchio sapiente all’esistenza di enti superiori agli uomini, oppure all’esistenza di una forza che possa governare la vicenda terrena della natura, dall’esterno secondo un disegno preordinato. Evidentemente questa affermazione dovette essere la concretizzazione panteistica del sentimento religioso che, come in tutti i tempi e in tutti i popoli primitivi, doveva essere sufficientemente diffuso all’epoca, in cui Talete sviluppò le sue riflessioni. Pertanto, questa affermazione più che indicare un’apertura al sentimento religioso da parte di Talete indica una sottomissione del generale sentimento religioso al ciclo compiuto della natura, il quale ciclo, come sappiamo, trovava secondo Talete fondamento nel principio unico costituito dall’acqua.

Ben più complesso del pensiero taletiano è quello sviluppato dal suo contemporaneo e concittadino Anassimandro. Questo pensatore, indiscutibilmente uno dei maggiori della filosofia antica, capace di sviluppare delle teorie scientificamente concluse partendo dall’osservazione immediata della natura, è un pensatore che si preoccupa di superare l’immediata evidenza a cui si erano fermati i precedenti osservatori della natura, non escluso Talete, per giungere alla formulazione di teorie cosmologiche che resteranno valide per secoli fino al concludersi delle vicende dell’astronomia antica. Anche per Anassimandro vale quello che si è detto a proposito di Talete. Non siamo davanti a uno scienziato nel senso aristotelico della parola, ma piuttosto davanti a un sapiente, indagatore curioso dei fenomeni della natura, dotato di un fortissimo senso deduttivo capace di aprirgli orizzonti speculativi definitivamente chiusi per gli altri pensatori. Basta tenere presente la genialissima teoria dell’evoluzione dettata da Anassimandro per avere una idea, sia pur minima, della capacità speculativa di questo pensatore.

In Diogene Laerzio leggiamo: «Disse principio ed elemento essere l’indeterminato, non specificando se fosse aria o acqua o qualche altra cosa. Disse che le parti di esso indeterminato si trasformavano, ma che il tutto era immutabile. La terra stare nel mezzo con la funzione di centro ed essere sferica. Il sole non minore in grandezza della terra ed essere purissimo fuoco». (I, 6, 1-7). Ancora Laerzio: «Anassimando dice che gli astri sono masse condensate d’aria, di forma rotonda, piene di fuoco». (II, 13, 7). E in un altro posto: «Intorno ai tuoni, folgori, lampi, uragani e tifoni, Anassimandro dice che tutte queste cose avvengono per effetto del soffio». (III, 3, 1). E Simplicio: «Anassimandro affermò principio ed elemento delle cose che sono l’indeterminato, adottando per primo la parola principio. È chiaro che egli avendo considerato la trasformazione tra di loro dei quattro elementi, non stimò che uno di essi fosse la sostanza ma qualche cosa di diverso da tutto ciò. Per primo suppose l’infinito, affinché potesse servirsene per le nascite abbondantemente; e infiniti mondi costui suppose e ciascuno dei mondi generato da questo infinito elemento, come sembra». (De coelo, 613, 13). Il contrario dell’evidenza ci appare come privo di connotazioni limitative, infinito. Ogni singolo elemento, determinato dalle sue caratteristiche, contiene un dubbio: è possibile che sia soltanto ciò? La certezza mette i piedi in questa contingenza priva di certezza, produttrice del dubbio che continuamente ha il sopravvento. Nell’identificazione del principio infinito esiste e si riconferma il dubbio iniziale, la sua certezza dipende proprio dall’incertezza degli elementi identificati in modo specifico.

Si tratta di un pensiero filosofico di ampia portata da non confondere però con i successivi spunti similari di origine metafisica. Il principio cui fa cenno Anassimandro è di carattere originario, cioè si presenta come ingenerato ed eterno, e manifesta chiaramente la possibilità di contenere tutta la natura e tutto lo svolgersi del futuro della natura. Per quanto pericoloso l’utilizzo di un principio di questo genere, ovviamente dal punto di vista materialistico, in quanto facilmente avvicinabile alle tendenze trascendentalistiche o mistiche tipiche della religione, sembra che Anassimandro lo abbia usato sempre in forma puramente scientifica senza lasciarsi avvincere dalle sollecitazioni che di certo dovettero pervenirgli dagli organismi repressivi del suo tempo.

Ecco ancora Jaeger: «La mente [di Anassimandro] è più costruttiva e analitica: soprattutto nel suo desiderio di scoprire proposizioni matematiche e armonie nel rapporto tra l’insieme e le parti del mondo. In lui si manifesta la tendenza a trovare nella costituzione stessa della realtà la chiave che racchiude il segreto della sua recondita struttura». (La teologia dei primi pensatori greci, op. cit., p. 35). Anche Anassimandro parla in più posti di divinità, secondo la testimonianza di Simplicio, ma, il senso dato alla parola “divinità” è quello di altri mondi, in quanto, nella teoria evoluzionistica di Anassimandro, lo sviluppo considerato limitatamente alla vita sulla terra lasciava intravedere la possibilità dell’esistenza di altri mondi, anche innumerevoli, sviluppatisi indipendentemente. Ora, questi mondi, nella terminologia di Anassimandro, prendono il nome di divinità. Giustamente nota il Robin: «Esso [il principio di Anassimandro] è, per un verso, un principio originario, “ingenerato e imperituro”, il quale “contiene e regge tutto quanto”, condizione dell’ “indefettibile perpetuità delle generazioni”: in breve, un infinito di grandezza, che è in pari tempo qualitativamente indeterminato, ma che, come contenente universale, non può essere caratterizzato unicamente come virtualità assoluta. È, inoltre, “ciò da” cui derivano tutte le cose e ciò “a cui” tornano “secondo il movimento eterno”: che sembra sia — ove si considerino tanto le opposizioni quanto i raccostamenti fatti, a questo proposito, da Aristotele – un processo di separazione e di riunione dei contrari, la cui forma originaria sarebbe un turbinio caotico. Per questo aspetto, Anassimandro è indubbiamente sulla via che condurrà più tardi a una concezione meccanicistica del divenire. Ma, per un altro verso, in quanto il suo “principio” è una sostanza unica, infinita in grandezza e priva di specificazione, egli è di tendenza dinamicistica. La distinzione precisa e l’opposizione di queste due concezioni del divenire presuppongono un’analisi di concetti dalla quale si è ancora ben lontani.

«Vediamo ora come si costituirono le cose, a partire dall’ápeiron, come da un nuovo Caos. La prima separazione effettuatasi in seno all’ “eterno” genera il Caldo e il Freddo. “Di conseguenza”, si forma “una sfera di fuoco” intorno all’aria circumterrestre, come la corteccia intorno alla pianta. Poi, questa sfera di fuoco si rompe, e i frammenti prodotti dalla rottura vengono chiusi in cerchi: gli astri. Concezione ardita, ma talmente frammentaria e fondata su conoscenze così grame, che non si può paragonarla all’ipotesi del Laplace, sebbene faccia pensare alla parte di quest’ipotesi che concerne gli anelli di Saturno. D’altronde, nelle testimonianze ci sono parecchie oscurità: se la Terra e l’aria che la avviluppa, entrambe anteriori alla sfera di fuoco, provengono dal Freddo come quest’ultima dal Caldo, l’acqua a sua volta non dev’esser loro anteriore? Cosí si spiegherebbe l’asserzione di un dossografo che “il movimento eterno è più antico dell’acqua di Talete”. (Diels, II, A 12). L’azione del caldo avrebbe determinato nell’acqua esalazioni donde sarebbero derivati l’aria e il moto dei venti, mentre il rimanente, in via di progressivo disseccamento, avrebbe costituito la terra con il mare. Questa crescente differenziazione nel cangiamento, caratteristica di una dottrina della evoluzione, compare anche nella mirabile spiegazione che Anassimandro dà delle origini della vita e del processo attraverso il quale gli esseri si sono adattati gradualmente ai mutamenti dell’ambiente: remoto presentimento del trasformismo. I primi esseri viventi si formarono nell’umidità primitiva per effetto della evaporazione: dunque, in una mescolanza di terra, d’aria e di acqua. In origine erano tutti simili a pesci e avvolti da una membrana scagliosa. Avanzando in età, s’innalzavano sino alla regione già disseccata, dove, liberati dalle loro scaglie, continuavano a vivere, ma per breve tempo. L’uomo proviene dunque da animali specificamente differenti. Se in origine fosse stato quale oggi lo conosciamo, come sarebbe sopravvissuto? Dunque, altri animali, della natura dei pesci, debbono averlo portato a lungo in sé, nella stessa guisa in cui certi squali porterebbero nella bocca i loro piccoli, sino al giorno in cui poté fare la propria comparsa sulla Terra e vivere con i propri mezzi.

«Per vero, tutta questa evoluzione concerne soltanto il nostro mondo; ed è probabile che, secondo Anassimandro, l’infinito abbia dato origine, in seno all’eterno movimento, ad altri cieli e ad altri mondi, in numero infinito, e – a quanto sembra coesistenti, ma separati da così grandi intervalli che essi nascono e periscono ignari l’uno dell’altro. Se egli li chiama “dèi”, essi non sono tali nello stesso senso che l’infinito, loro principio ingenerato e imperituro, sede del movimento eterno, e che tutto abbraccia e tutto regge. Così, incorporata al principio, come in Talete, la potenza divina si converte in necessità naturale». (L. Robin, Storia del pensiero greco, tr. it., Torino 1951, pp. 63-65). Di carattere materialistico il naturalismo di Anassimandro si apre a una maggiore considerazione del rapporto unità-molteplicità e quindi termina con la giusta valutazione della norma di giustizia che deve reggere il mondo. L’iniziale problema cosmologico, ingenuamente risolto da Talete, trova modo di sfociare nel più ampio e rigoglioso problema umano. Così Jaeger: «Il cosmo di Anassimandro è il trionfo dello spirito su tutto un mondo di forze rozze e informi, la cui sommossa minacciava all’esistenza umana un pericolo primordiale nel momento in cui s’infrangeva l’antico ordine della vita». (La teologia dei primi pensatori greci, op. cit., p. 36). È, nello stesso tempo, uno sforzo immane per razionalizzare l’imponderabile, per porre l’uomo di fronte all’inconoscibile in maniera diversa, meno paurosa e più cosciente di sé.

Tutto ciò avviene senza che alla religione venga fatta la minima concessione, sia nel campo strettamente cosmologico, come nel settore più nuovo della materia evoluzionistica. È da tenere presente che Anassimandro non cede assolutamente il passo al misticismo e al trascendentalismo, ma si mantiene su un campo puramente empirico di spiegazione naturalistica del mondo rifiutando tutto quanto non può riportarsi immediatamente in forma chiara, ai dati reperibili attraverso l’esperienza. Questa forma mentis sarà la stessa che successivamente Aristotele utilizzerà per il suo lavoro di scienziato. Per Anassimandro, conclude Jaeger: «L’origine del mondo poteva quindi essere soltanto qualcosa che non fosse identico con nessuna delle cose esistenti e dal quale potesse essere derivata tutta l’immensità delle cose esistenti». (Ib., p. 37). L’impulso vitale è qualcosa del genere. La vita interna all’orizzonte del mondo è spiegata ma non spiega il mondo. Quest’ultimo è sempre una sorpresa, quindi una fonte di paura. La coscienza di questo processo è il modo in cui viene spiegata la vita, ma non si tratta di una spiegazione esauriente. I tentativi attuali sono figli del tentativo di Anassimandro.

Principio fondamentale, sulla scia del maestro Anassimandro, è per Anassimene l’aria. Tradizionalmente si è assegnato a questa teoria di Anassimene un significato strettamente aderente alla interpretazione di aria nel senso di atmosfera quale, a esempio, quella che respiriamo. In effetti, però, questa semplicistica interpretazione, che da taluni è stata giustamente considerata un passo indietro nei confronti dei risultati raggiunti da Anassimandro, si deve poter considerare precipuamente sotto l’aspetto più ampio e più significativo in cui lo collocheranno successivamente gli storici. In particolare l’aria si deve intendere come quel soffio caldo dal quale ha origine la vita e lo sviluppo di tutte le cose. In questo modo Anassimene si pone sulla linea interpretativa, segnata dai suoi due predecessori, e conseguentemente non abbassa il livello della ricerca filosofica al di sotto del punto cui era arrivata col suo maestro. Non solo, ma a onore di Anassimene bisognerà dire che mentre Anassimandro aveva sviluppato un principio decisamente di ordine astratto e quindi pericolosamente vicino alle astrazioni tipiche della metafisica religiosa e mistica, Anassimene avrebbe potuto incorrere nell’errore di utilizzare quel principio per una sublimazione di ordine religioso. Questo pericolo sarebbe stato tanto maggiore per Anassimene in quanto Anassimandro si trovò molto vicino alla possibilità di concludere per l’esperienza religiosa come determinante ultima della indagine scientifica, ma per la forza speculativa del suo pensiero seppe evitare questo ostacolo. Viceversa il suo discepolo avrebbe potuto fare un pessimo uso del principio e concludere per la validità dell’esperienza religiosa e mistica. Pur considerando Anassimene un epigono è necessario notare che la sua povertà di idee è compensata da una larga precisione nei concetti. Così Robin: «L’ultimo rappresentante che noi conosciamo della scuola di Mileto è Anassimene, il quale succedette ad Anassimandro. Della sua vita, che sembra si sia conchiusa una ventina di anni prima della fine del secolo VI, sappiamo una cosa sola: che egli scrisse in prosa ionica — e, a differenza del suo predecessore, in una lingua assai semplice — un libro di cui non ci resta che un brevissino frammento autentico. Quel che i dossografi riferiscono della sua dottrina sembra provenga da un trattato speciale, che gli era stato consacrato da Teofrasto, e si presenta in ogni caso con una coerenza sufficiente per permettere una esposizione relativamente sintetica, movente dal principio.

«Tale principio, al pari di quello di Talete, è una realtà osservabile, ma è l’aria; solo che quest’aria è inoltre infinita, di modo che il principio di Anassimene si trova così reintegrato nella esperienza. Non tanto forse perché l’aria è l’elemento che cambia più facilmente di stato, giacché l’acqua presentava per l’ipotesi, gli stessi vantaggi, ma piuttosto perché, al contrario dell’acqua che non si regge senza un supporto, l’aria, per questo aspetto, basta a se stessa e sembra inoltre dotata di un potere d’illimitata diffusione. Fors’anche perché Anassimene concepiva il mondo come un essere vivente, soggetto alla nascita e alla morte e, quindi, che respira: l’indicazione di questo ragionamento analogico risulterebbe dal seguente frammento: “Proprio come l’anima nostra è aria, e per questo ci tiene insieme [fa l’unità dell’individuo], così il soffio e l’aria contengono il mondo intero [e ne fanno l’unità]”. In secondo luogo, l’infinità di questa sostanza determinata non può essere – sembra – che l’infinità di grandezza, a esclusione della indeterminazione qualitativa che l’infinito di Anassimandro poteva inoltre comportare. Così, quando dell’aria ci viene detto che ai nostri sensi si manifesta solo attraverso il caldo, il freddo, l’umido, il movimento, ecc., ma non quando è perfettamente omogenea, bisogna intendere con ciò un’indeterminazione apparente e relativa a noi». (L. Robin, Storia del pensiero greco, op. cit., pp. 67-68). La necessità di un principio esplicativo, di cui anche oggi si possono osservare le ombre lunghe, non è importazione di categorie logiche esterne. Quello che il principio apporta – in termini di legame o connessione – è di già nel problema che ci travaglia, anzi è lo stesso problema, cioè noi stessi.

Molto più complesso e articolato di quello dei suoi predecessori è il pensiero di Eraclito. La tradizione ce lo ha schematicamente presentato con le famose parole di Diogene Laerzio: «In generale le sue opinioni furono le seguenti: tutte le cose son costituite dal fuoco ed in questo si risolvono; esse si generano secondo il fato e le cose esistenti furon formate per via di accozzamenti e sono piene di anime e di demoni». (Diels, II, A 17). Dice Jaeger: «Eraclito è il primo pensatore che non solo vuole conoscere ciò che è, ma con ciò pretende di rinnovare la vita degli uomini». (La teologia dei primi pensatori greci, op. cit., pp. 178-179). L’arrivo della conoscenza – come schema e come apparato categorico – non è rigetto e chiusura definitiva, acquietamento, ma processo che sconvolge e permette sempre nuove sperimentazioni. Per questo motivo non ci sono in fondo regole valide se non grazie alla nostra accettazione, al nostro avallo. Sospeso questo atto di sottomissione l’arrivo della conoscenza deve essere ripristinato con tutti i rischi che ne conseguono.

Il naturalismo materialistico dei filosofi precedenti diventa con Eraclito un panteismo fisico. Questa dottrina ha un fondamento molto complesso emergendo per la prima volta nella storia del pensiero la teoria dell’opposizione e della identità dei contrari, intesa come fondamento del divenire. Eraclito individua nel contrasto, nella lotta, nella guerra, il fondamento dell’esistenza, e quindi della concordia e della pace. «La guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose regina, ed essa gli uni destina ad esser dèi, gli altri uomini, gli uni fece liberi, gli altri schiavi». (Fr. 53). Da ciò deriva il tema più conosciuto e, nello stesso tempo, importante della dottrina eraclitea: l’eterno svilupparsi delle cose, l’incessante divenire: «Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume». (Fr. 12). La difficoltà intrinseca del linguaggio di Eraclito, la sua tendenza alle espressioni immaginose e contorte che gli fecero guadagnare l’attributo di “tenebroso” fin dall’antichità non sono un prodotto casuale ma provengono sia dalla stessa personalità del sapiente, come pure dai particolari argomenti affrontati, da per se stessi difficilmente esprimibili in forma semplice. Con Eraclito siamo a un grado di perfezionamento della riflessione filosofica notevole, tale da poter fare presumere la futura fioritura della filosofia in Grecia.

«Possa la ricchezza non mancarvi mai, — afferma Eraclito — o Efesi, affinché si veda bene quanto poco valete». (Fr. 152a). Affermazione indirizzata verso i suoi compatrioti, nei riguardi dei quali, ma non solo, afferma: «Una volta nati vogliono vivere e avere destino di morte, e lasciano figli perché nuove morti si generino». (Fr. 20). Della medesima forza i pensieri contro la religione, a esempio contro Dioniso e i riti dei misteri eleusini: «Empia è l’iniziazione ai misteri che sono in uso tra gli uomini». (Fr. 14).

Scrive Francesco Adorno: «Senza dubbio i testi di Eraclito sono estremamente oscuri, anche linguisticamente. Questo rivela da un lato le possibili interpretazioni posteriori, ma, dall’altro, un motivo dominante: l’intuizione di una realtà una e vivente che si puntualizza in una serie di tante realtà, che divengono tali, concrete, in quanto nominate, ma, appunto, in questo, perdute. Forse qui la differenza tra l’ionismo di Eraclito e la geometrizzazione di Anassimandro. L’indefinito definiente di Anassimandro, l’illimitato limitante che rendeva comprensibili le cose in quanto misurate, si risolve, nell’esigenza di Anassimandro, in una cartografia. Per Eraclito, che esaspera Anassimandro e va di là dall’esigenza di lui – ch’era pur sempre un’esigenza di trovare delle tecniche, – e che perde, anche per la condizione della città, la richiesta cui rispondeva Anassimandro, proprio il definire e il misurare geometrizzando o il definire, opponendo punti ai punti dei primi pitagorici, diviene la parola che distingue e distacca ciò che nel tutto, nell’Uno, è unità di vita. La parola che è distaccamento, separazione, è, dunque, morte o sogno. In Eraclito si rivela, profonda, la sperequazione tra l’intuizione dell’indefinito (anassimandreo) e dell’Uno (senofaneo), è il linguaggio che, determinando e chiarendo, perde quell’Unità stessa. Così il nascere è morire e il morire è nascere; o meglio, reale non è né l’Uno né l’individuo, ma la continua tensione (Fr. 51). Questo, sembra, il pensiero dominante di Eraclito, che lo porta a negare ogni altro interesse, ogni altro sapere o máthema – e di qui, forse, il suo disprezzo per la multiscienza (polymathíe) di Pitagora, di Ecateo, di Senofane, – esasperando sino in fondo l’Uno in cui tutto è perduto e l’Uno che si perde nei molti, in una inesorabile realtà che è sempre la stessa e che puntualmente non è mai la stessa come un fiume che è sempre lo stesso in quanto fiume, ma pur sempre diverso in quanto acqua fluente». (F. Adorno, La filosofia antica, vol. I, Milano 1965, p. 40). Mentre io mi preoccupo della mia quotidianità, faccio progetti e realizzo programmi, la mia vita si occupa di me degnandomi di attenzione non solo quando a essa pongo mente con la riflessione che illumina ma anche quando sono cieco e sordo, immerso nella modificazione produttiva fino a morirne. Anche quando cerco di racchiudere un accadimento nel quadro ristretto della rappresentazione, la vita è sempre più ampia e dilaga in territori che mai riuscirò a restringere in una futura rappresentazione dettagliata.

Nella regola degli opposti e delle contraddizioni, nel fondamento che dalla rottura consente di pervenire all’unione e alla concordia, Eraclito colloca la sua idea di divinità naturale. Il suo panteismo diventa quindi un prodotto duramente intellettuale e non di ordine sperimentale o empirico. «La legge divina – afferma Jaeger – di Eraclito è un autentico concetto normativo: è la norma suprema degli eventi dell’universo la quale stabilisce il significato e il valore di questi eventi». (La teologia dei primi pensatori greci, op. cit., p. 182). D’altro canto non bisogna pensare che l’idea di Dio in Eraclito, questa possibile identificazione con l’idea del fuoco, sia un banale e semplicistico trascendentalismo. Bisogna evitare il pericolo di interpretare il pensiero di Eraclito nel senso in cui situazioni speculative assai simili alla sua — cioè di ordine intimistico — ebbero successivamente a trovarsi. In definitiva Eraclito non abbandona l’analisi naturalistica, sebbene sposti il centro della propria attenzione dall’argomento cosmologico, che viene risolto in una forma talmente superficiale da sembrare addirittura puerile, all’aspetto dell’indagine intimistica e allo studio dell’uomo, allo studio dell’animo umano, della coscienza. Il suo concetto panteistico di Dio in definitiva può identificarsi con la legge universale che regola la composizione degli opposti. Scrive Jaeger: «La novità di Eraclito sta nel concentrare tutto questo simbolismo giuridico [relativo all’ordine della natura] nel concetto di legge cosmica che domina su tutto. Per distinguerla dall’umana la chiama “legge divina”». (Ib., p. 181). Si tratta di una ricerca di carattere squisitamente filosofico che non subisce in alcun modo influenze esterne quali quelle che graveranno in modo noto a tutti sulla filosofia successiva, con l’avvento del cristianesimo. Robin nota: «La teoria eraclitea dell’anima riflette tale concezione generale. L’anima è, infatti, un’esalazione calda, perché, per conoscere il “principio”, deve averne la mobilità: diffondersi, al pari di geni; governare il corpo come il fuoco governa il mondo; trasformarsi, infine, nella stessa guisa del fuoco. L’anima più saggia è un’anima asciutta; inumidita, come avviene nell’ebrietà, essa muore. Quando usciamo dal torpore del sonno, noi ricominciamo ad aspirare il pensiero che si trova nel fuoco: fatti allora simili a tizzoni che si riaccendano. Ma la veglia vera è quella in cui — morti o vivi, assopiti o no — scorgiamo “l’unità e comunanza del cosmo”. (Fr. 89). L’individualità della vita è una morte, e l’immortalità consiste nel reinserirsi — sin da questa vita, se si può — nella corrente universale: “Gli immortali, mortali; i mortali, immortali: vivono l’un dell’altro la morte, e l’un dell’altro muoiono la vita”. (Fr. 62). La credenza orfica, senza l’immortalità personale. Ade e Dioniso sono uno stesso dio (Fr. 15); e, come per il mondo la conflagrazione totale, la morte è per l’uomo una vita che rinasce.

«Questo profondo sentimento dell’identità del pensiero vero con la legge dell’universo ispira a Eraclito una concezione perfettamente conseguente della vita morale: “La sapienza — egli dice, precorrendo gli Stoici — consiste nel dire cose vere e nell’agire conforme a natura, a essa dando ascolto”, (Fr. 112); “Per gli uomini non è la sorte migliore che accada loro quel che desiderano”, (Fr. 110). La passione va condannata perché esprime la pretesa dell’individuo a innalzarsi al di sopra dell’ordine naturale o divino, dimenticando la sua dipendenza: “Marmocchio! l’uomo si sente chiamare così dal dio, come il fanciullo dall’uomo”. (Fr. 79). Quindi, la vera religione consiste nel fondere il proprio pensiero in quel pensiero divino del Fuoco, che circola nell’universo: adorare delle immagini è lo stesso che “conversare con le pareti”; celebrare sacrifici cruenti serve tanto poco a purificarci come “se uno, cacciatosi nel fango, volesse lavarsi con il fango”. (Fr. 5).

«Originale, vigoroso e profondo, il pensiero di Eraclito improntò di sé anche pensatori che ne furono gli avversari più risoluti. Egli concepì l’opposizione dei contrari con una generalità quale non si trova né in Anassimandro, né negli stessi Pitagorici o in Alcmeone. Ma, soprattutto, mise in una luce assolutamente nuova la nozione di una legge immanente al divenire e che serve da nesso intelligibile a quei contrari, simultanei o successivi. Non bisogna peraltro dimenticare – come fecero sia quei filosofi del concetto che, nell’antichità, combatterono Eraclito sia gli hegeliani che, nei nostri giorni, lo portarono alle stelle – che egli pensò sul terreno e nell’àmbito della fisica della sua epoca, raffigurandosi la legge come una sostanza più sottile, ma non sul terreno di una logica costituitasi solo dopo di lui, né quindi, in vista di spezzarne i quadri mentali». (L. Robin, Storia del pensiero greco, op. cit., pp. 106-107). Solo parzialmente nel giusto la considerazione riduttiva di Robin. Se è vero che cercare antenati non rafforza nessuna tesi (e meno di tutte quella dialettica) è anche vero che c’è una certa aria di famiglia in Eraclito. Che poi quest’ultimo rifletta solo in base a considerazioni naturalistiche (“una sostanza più sottile”) è spiegazione non influente.

Allettante è portare la discussione sui frammenti di Eraclito in cui egli condanna la religione del suo tempo e in particolare la religione misterica, per quanto il suo ateismo non si sposta da quello dei suoi predecessori in genere e da quello di tutti i naturalisti greci, consistendo in particolare nel mettere da parte ogni tentativo di spiegazione o di ingerenza extranaturale e nello sforzarsi di tradurre in forma strettamente naturale e empirica ogni spiegazione. In questo consiste la grandezza di questi filosofi, in particolare nel loro tentativo di accantonare ogni forma di religione e ogni ingerenza di quest’ultima nella ricerca scientifica.

Nei confronti di Senofane la critica storica ha spesso finito per costruire delle fantastiche deduzioni in merito alla sua posizione etico-religiosa. In particolare gli si è riconosciuto una sorta di ardore profetico scambiando la naturale mordacità satirica di questo filosofo, che ebbe a esprimere normalmente il proprio pensiero in forma poetica, con l’imprecisione e la genericità dei profeti. Questa particolare interpretazione si è scontrata col fatto che Senofane si è lanciato contro la costruzione religioso-antropomorfica tipica della Grecia del suo tempo, in modo particolare rappresentata da Omero e Esiodo, determinando una interpretazione sostanzialmente panteistica. È naturale che da questa concezione panteistica al trascendentalismo gretto di una concezione religiosa, quale sarebbe quella del moderno monoteismo, la differenza che passa è veramente notevole.

Questa curiosa interpretazione condotta da molti storici della filosofia è dipesa, a nostro avviso, dal fatto che la critica di Senofane contro l’antropomorfismo dei suoi tempi si identifica facilmente con l’attuale rifiuto del pensiero religioso di ogni forma non rigidamente monoteistica della religione. In effetti la polemica di Senofane non è diretta a costituire l’idea di un dio filosoficamente individuato, mosso da stimoli sempre ricavati in forma antropomorfica, seppure sostanzialmente a livelli etici superiori. Il suo interesse è quello di identificare l’essenza unica di un tutto. Così in un frammento particolarmente ironico: «Non fin dal principio gli dèi rivelarono tutto ai mortali, ma i mortali con il passare del tempo, cercando, trovarono ciò che è migliore». (Fr. 18).

Il messaggio della cultura milesia trova qui il suo più esatto significato: la ricerca critica e tecnica, contrapposta ai cosiddetti tempi antichi, quando «tutti hanno imparato da Omero». (Fr. 10). Così nei suoi versi:

«Ma se uno conquista la vittoria per la velocità dei piedi
o nel pentatlon, là dov’è il sacro recinto di Zeus,
presso le fonti del Pisa in Olimpia o nella lotta
o per l’abilità nel doloroso pugilato
o in quella terribile gara che chiamano pancrazio,
più glorioso diventa agli occhi dei concittadini
e nei giuochi ottiene il posto d’onore,
e il vitto a spese pubbliche della città
e un dono che per lui è un cimelio;
e anche vincendo coi cavalli avrebbe tutti questi onori,
eppure non sarebbe degno com’io lo sono. Ché meglio
della forza di uomini e di cavalli è la nostra sapienza.
È davvero un’usanza irragionevole, né è giusto preferire
la forza al pregio della sapienza.
Poiché anche se c’è tra i cittadini un abile pugile
o qualcuno che eccelle nel pentatlon o nella lotta,
o anche nella velocità dei piedi, che è la più onorata
tra le prove di forza che si fanno nelle gare degli uomini,
non per questo la città vive in un ordine migliore.
Ben poco diletto ne ha la città
se qualcuno vince una gara alle rive del Pisa:
non è così che le sue casse s’impinguano». (Fr. 2).
Senofane ha qui piena coscieza del significato e dell’importanza di essere poeta, o meglio sarebbe a dire “sapiente”, comprendendo questo termine anche la funzione di educatore e di formatore di nuova cultura e di nuovi valori che costituiscono il sapere inteso come ricerca, come virtú politica. «Di qui – continua Francesco Adorno – nella polemica contro Omero ed Esiodo, o meglio ancora contro una certa cristallizzata cultura, il poeta della nuova cultura non nuova però nel mondo ionico-asiatico, — di contro alle genealogie e all’antropomorfismo, canta la natura, che nelle sue vicende molteplici, nelle sue opposizioni, nel suo essere caldo e freddo, secco e umido, terra e acqua – quella terra e quell’acqua da cui tutto viene e a cui tutto torna – è una. Tale il divino di Senofane. Esso uno e unico (“un solo dio, il più grande tra uomini e dèi, né per la figura né per i pensieri simile ai mortali”: Fr. 23), in quanto unità del tutto (“tutto senza fatica scuote con il muoversi della mente”: Fr. 25), “rimane sempre nello stesso luogo immobile né gli si addice spostarsi or qui or là” (Fr. 26), ma “tutto intero vede e tutto intero ode” (Diogene Laerzio, IX, 19), e “tutto mente”. Il motivo della divinità che scuote tutto con il muoversi della mente, senza fatica, suppone ancora una volta la polemica contro gli dèi omerici che faticano e che, come uomini, scuotono l’asta con le braccia, mentre ciò non si addice al divino che, in quanto unità, tutto comprende ed è, quindi, immobile. Diremmo, dunque, che, come l’Uno tutt’intero vede e tutt’intero ode, cosi tutto intero comprende». (F. Adorno, La filosofia antica, op. cit., p. 37). Questa sorta di proiezione fisica della divinità è il fondamento, ulteriormente significativo perché radicato nella realtà umana, del panteismo, e in quanto panteismo una delle porte per la distruzione dell’idea del divino come qualcosa di separato dalla realtà umana.

Evidentemente questo pensiero nasconde delle profonde radici religiose. Però, come abbiamo accennato prima, i periodi più antichi della riflessione filosofica, sebbene più liberi da un punto di vista strettamente metafisico, non possono fornire elementi chiari di una teoria ateistica, ma il più delle volte ripiegano nel panteismo. Il fenomeno si ripeterà al momento del risveglio illuministico del pensiero filosofico con un ulteriore ripiego sul deismo puro, vera e propria anticamera delle dottrine atee contemporanee.

Così scrive ancora Senofane:

«Tutto Omero ed Esiodo attribuirono ai numi
quanto è fra i mortali riprovevole e indegno:
il furto, l’adulterio e l’ingannirsi l’un l’altro.
Se i bovi ed i cavalli e i leoni avesser le mani
potendo con le mani disegnar come gli uomini fanno
sia, cavalli ai cavalli, sia bovi simili ai bovi
fingerebber gli Dei facendone immagini e corpi,
proprio tal quale come ciascuno di essi ha il suo corpo.
Gli Etiopi i lor Dei dicono neri e camusi,
ed occhiglauchi i Traci li fanno e di rosso pelame.
C’è un solo dio, fra i numi ed i mortali il maggiore,
a gli uomini per nulla somigliante d’aspetto e pensiero.
Vede pensa ed ascolta egli con tutto se stesso.
Ma co’l poter del pensiero, tutto agita senza fatica.
Sempre in un luogo stesso rimane e per nulla si muove
né per nulla gli occorre spostarsi in un luogo o nell’altro».

(Fr. 1).
Questa dottrina panteistica è un vero e proprio rifiuto della posizione religiosa tipica dell’epoca. Da un punto di vista strettamente ateistico la posizione di Senofane è molto importante in quanto, sebbene teoricamente non giunge all’ammissione della impossibilità dell’esistenza di Dio, praticamente combatte l’attuazione sociale del principio religioso con tutte le conseguenze concrete che esso comporta.

L’importanza di Parmenide è quella di un grandissimo filosofo, ma dal nostro particolare punto di vista essa è decisamente più limitata. Il fondatore dell’eleatismo si presenta come uno dei primi studiosi capaci di condurre il pensiero filosofico dentro gli ostacoli e i profondi umori dell’ontologia. E proprio il problema dell’essere costituisce l’oggetto del pensiero di Parmenide, determinando tutta l’estensione della sua ricerca e il valore delle sue conclusioni.

Non è però impossibile individuare nella filosofia di Parmenide una forte vena naturalistica, essenzialmente di struttura panteista, sebbene il suo pensiero resti legato a riflessioni di ordine logico di gran lunga più complesse dei suoi predecessori. Questa maggiore complessità rende, fino a un certo punto, meno utilizzabile per noi le implicazioni riguardanti il problema religioso e sociale.

Dopo l’iniziale riflessione sui problemi cosmologici dovuta ai pensatori presocratici, con il suo successivo svolgersi il pensiero greco decisamente si avvia nel campo politico e letterario prima ancora che in quello più dichiaratamente filosofico e così giunge a una più ampia considerazione dell’importanza sociale dell’iniziale problema, puramente logico, in cui la religione era stata considerata.

Sono proprio le preoccupazioni di questo genere che spingono Solone a riflettere sulla necessità dell’utilizzo di una religione non essenzialmente misterica che possa servire da base alla costituzione delle singole città.

È stato giustamente notato come tra Eraclito e Socrate nel pensiero greco sussista l’idea fondamentale che la legge divina debba servire da fondamento e da giustificazione alla singola legge umana. Da ciò seguirebbe, secondo la tesi sviluppata da Jean Touchard (Storia del pensiero politico, tr. it., Milano 1967, p. 12) una subordinazione nella legislazione positiva degli Stati alla legislazione naturale codificata dalla religione. Non è possibile condividere in pieno questa tesi, tenendo particolarmente conto di non pochi esempi provenienti sia dalla letteratura sociale e filosofica dell’epoca. Lo stesso Touchard si trova in contraddizione riferendosi ad una citazione delle Nuvole. “Chi per primo stabilì questa legge non è forse un uomo come noi? e non è forse con la parola che convinceva i nostri antenati?”. Queste tesi di Filippide intaccano l’idea della sovranità della legge divina. Sostanzialmente siamo davanti a un fenomeno di sviluppo della copertura con la quale ogni scrittore, tranne rarissimi esempi, intendeva salvaguardare la propria posizione nei confronti dell’opinione corrente in materia di religione. Un altro punto che non ci fa assolutamente condividere la posizione di Touchard è quello relativo alla citazione dell’Antigone, e precisamente quello che concerne gli imperativi morali che portano la figlia di Edipo a sacrificare la propria vita opponendosi a un decreto di Creonte. Evidentemente, è del tutto trascurabile che gli imperativi morali identificabili in Antigone siano validi anche da un punto di vista strettamente religioso. Il fatto che Creonte pronuncia una vera e propria apologia della legge civile e quindi l’attenzione dello spettatore venga diretta verso la figura morale di Antigone, ci spinge a considerare il contrasto tra morale e politica più che tra religione e legge civile.

Non sono di difficile reperimento le citazioni che invece colgono un chiaro spirito critico nei confronti della religione. Basandosi su questo particolare spirito di indagine critica pensatori come Solone, a esempio, dirigono l’analisi della situazione sociale del momento con grande chiarezza e senza servirsi del tradizionale scudo della copertura. In Solone leggiamo: “La nostra città non perirà per decreto di Zeus o per decisione degli dèi […] ma sono i cittadini stessi che nella loro avidità di denaro, per imprudenza, vogliono mandare la città in rovina”. Il riferimento agli dèi è ovviamente del tutto accidentale e si può attribuire a quel tradizionale problema di copertura di cui abbiamo fatto cenno. È indiscusso che in questo passo la tradizionale posizione di privilegio assegnata alla religione in merito al futuro della città, è vista nella sua giusta luce, cioè nella possibilità che questa intenzione umana possa agire positivamente in seno alla comunità, purché quest’ultima non si lasci prendere la mano dai classici vizi umani, tra cui al primo posto l’avidità di denaro. Ci resta da notare che le influenze sulla organizzazione sociale della Grecia furono più che altro influenze derivanti dalla religione ufficiale, la religione degli dèi omerici, fondata su di un ottimismo veramente particolare che non si ritroverà più in seguito. La profondità luminosa della concezione politeista greca, come è stata definita, trovava origine in una sana base materialistica dei fenomeni che si aggiungeva alla chiara riflessione dei pensatori di cui abbiamo parlato. Nel popolo resta invece nella fase di credenza popolare ma giustificante lo stesso, sia pure in forma rudimentale, i fenomeni della natura. Riguardo le influenze si potrebbero indicare quelle della religione più antica, legate al culto della terra e al culto in particolare di Zeus. Oltre allo studio di queste religioni importante lo studio dei misteri di Dioniso. Buona parte del patrimonio etnico e culturale di queste religioni passerà nella riflessione dei filosofi.

[1968]

XII. Analisi della normalità
La norma riguarda la prevedibilità di comportamento, per cui si dice normale una serie di relazioni che non si discostano da un andamento prevedibile, da risultati identificabili a priori.

La definizione ha carattere operativo, quindi resta tutta all’interno della logica dell’ “a poco a poco”. Consideriamo normale il processo di accumulazione perché si produce nel senso dell’orientamento verso i contenuti. Accettiamo perché ci fa comodo, ma il nostro comodo è precedente all’accettazione, lo coltiviamo fin dalla nascita. L’obbedienza è un momento delicato della soggettivizzazione e dell’assoggettamento, ma non può più essere in modo restrittivo pensata come uno ostacolo dell’agire derivante dal divieto imposto dalla legge. Siamo colpevoli della nostra normalità, in quanto è proprio la nostra acquiescenza che si fa carico della crescita del potere. Non ci accontentiamo di restare nell’invisibilità del non detto, passiamo oltre la sottomissione, veniamo allo scoperto e col nostro fare operoso rinforziamo i dispositivi di morte. Dappertutto l’esortazione a combattere il male diventa un elemento della banalità quotidiana, non ci acceca nel viaggio di piacere con cui ci illudiamo di trovare l’introvabile luogo da cui resistere alle temperie sempre più complesse dell’esistenza. Quando qualcuno suggerisce la possibilità rivoluzionaria di sconvolgere il dominio, attraverso un violento e radicale ribaltamento dei rapporti di potere, cerchiamo di anestetizzare la risposta collettiva di fronte ai fatti e alle sofferenze dei singoli.

C’è di fatto un appello coraggioso a dar vita a un’ “etica antistrategica” – come ricordava Michel Foucault – che rifiuta di diventare strumento per il grande fine deterministico della storia, ma che non può lavorare partendo dai modelli tradizionali del passato, per cui deve trovare spazi al di là dello stesso soggetto storicizzato, cioè attraversato dai flussi del potere e incivilito dalle norme rassicuranti della politica? Nell’appello alla “resistenza etica”, sottolineata sempre da Foucault poco prima della morte, c’è un invito a una specie particolare di responsabilità del tutto diversa da quella suggerita dal potere nei confronti del soggetto dal comportamento normale? Quando egli scrive: “occorre una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone) e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere”, viene sottointeso un uso della sua libertà in pratica impossibile. Annota Friedrich Wilhelm Nietzsche: «Primo grado: l’uomo in ogni malessere e in ogni sventura vede qualcosa per cui deve far soffrire qualcun altro, – in ciò acquista coscienza del persistere del suo potere, e questo lo consola. Secondo grado: in ogni malessere e in ogni sventura l’uomo vede un castigo, cioè l’espiazione della colpa e il mezzo per liberarsi dal malvagio incantesimo di un torto reale o presunto. Quando egli scorge questo vantaggio che la sventura reca con sé, allora non crede più di dover far soffrire un altro per questo, – si dice libero da questa sorta di soddisfazione, perché ora ne ha un’altra». (Aurora, I, 15). Il parlare chiaramente è spesso altrettanto pericoloso della persuasione impiegata con somma accortezza dal potere evoluto. La verità incartapecorita normalizza l’esistenza e si sostituisce alla falsità o al silenzio. Non c’è più un rischio di morte immediata, mentre la sicurezza viene perfino garantita in modo quasi automatico, ma l’apatia morale non riesce a nascondere la realtà che si intravede sotto il processo di normalizzazione.

A lungo andare questo orientamento si rassoda, riducendo al minimo accettabile la presenza della tensione e trasformandola in residuo. L’accumulazione è pertanto vista come completa in se stessa ed esterna alla coscienza. Quest’ultima vi si riferisce, ma non ha mai la forza di modificarne l’andamento. La coscienza può essa stessa entrare in contraddizione e produrre inquietudine, ma non può produrre turbamenti agendo direttamente sul processo di catalogazione. La crisi del potere autoritario obbliga a uscire dalle cancellerie, per converso la scelta di dire la verità non è praticabile in quanto non c’è cosa di cui si possa parlar franco, non c’è un ultimo rifugio del coraggio individuale di dire la verità. Socrate è già ambiguo quando pretende di essere il custode di questo modo di rapportarsi con se stessi. Dire la verità anche a rischio della vita è una espressione della normalità, forse la più estrema, l’ultimo baluardo del dominio. Solo il cristianesimo renderà evidente l’impossibilità di una simile forma di responsabilità del Sé.

Ne deriva che l’orientamento organizzato verso il senso, con tutti i suoi processi di riorganizzazione, quello che altre volte abbiamo definito come orientamento analitico o scientifico in senso riduttivo, impone alla coscienza certe condizioni. Infatti, quest’ultima può con uno sforzo di volontà ridurre l’influenza dell’accumulazione, ma non può cancellarla del tutto. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel giunge al “sapere assoluto” nel momento in cui crede che “l’alienazione dell’autocoscienza, proprio essa pone la cosalità”. L’autocoscienza, cioè il soggetto umano che nella storia arriva a identificarsi come Spirito, determina le condizioni dell’esistenza, quindi della propria storia, per cui anche quelle esteriori e “cosali”. L’autocoscienza sufficientemente formata, quella “che ha percorso il mondo dello spirito estraniato, con la propria alienazione ha prodotto la cosa come se stessa; perciò nella cosa conserva ancora se stessa e ne sa la dipendenza”. Partendo da se stessa e considerandosi come oggetto, quindi introducendo in se stessa una scissione, pone l’oggetto fuori di sé recuperandolo a sé; per cui il suo andare fuori di sé, il suo mescolarsi alla realtà, la normalizzazione in altre parole (o l’alienazione, se si vuole usare la terminologia interpretativa marxista), “ha significato non solo negativo, ma anche positivo”.

È una scissione da cui si parte, la quale anche se non è del tutto fittizia, è costruita ad arte per sostenere un movimento teorico di appropriazione trasformandolo in riappropriazione. Il giovane Marx ne è quasi sbalordito, una volta arrivato a questa stessa conclusione: così dice: “Il filosofo – forma astratta dell’uomo estraniato – si pone come misura del mondo estraniato”. L’autocoscienza, una volta in grado di porre la propria normalizzazione, deve vedere per forza di cose in quest’ultima una “cosalità”, qualcosa di determinato una volta per tutte, mentre il divenire libero, l’oggettività vera propria, non essendo determinata, risulta una pura astrazione, qualcosa di irreale.

Nessuno può fare astrazione dalla conoscenza morta e accumulata oggi, se non altro a seguito delle conseguenze che i processi riorganizzativi hanno in continuazione su di noi tutti. Se la coscienza accetta l’accumulazione finisce per esserne totalmente dominata, ed è questa la condizione di normalità. Riuniamo insieme, procedendo in questo modo, sia le riflessioni analitiche della scienza, sia la cultura nel senso più ampio del termine, sia il giudizio medio che spesso chiamiamo senso comune.

Restando nell’àmbito della Fenomenologia dello spirito, l’attività della coscienza trasforma l’oggetto che le sta davanti e così ne produce l’aspetto positivo come negazione del “negativo estraneo”, così essa non solo dà vita a qualcosa di “modificato”, ma diviene oggetto a se stessa “nel formare come forma della cosa foggiata”. Hegel perviene alla conclusione: la coscienza (diventata ormai autocoscienza) riconosce che l’essere in sé (la cosalità) “non è per nulla una sostanza diversa dalla coscienza”, questo pensiero porta la coscienza nella condizione della normalità, cioè la fa diventare autocoscienza che pensa, o che è libera. Il fatto che Hegel connetta questo processo di maturazione speculativa con la relativa oggettivazione nel lavoro non è senza significato in quanto è proprio la condizone lavorativa dell’uomo che fissa i termini della sua “normalizzazione”. Il movimento della storia – insiste Hegel nella Storia della filosofia – è quello in cui lo Spirito, attraverso “sdoppiamento ed estraniazione”, si fa oggetto a se stesso, si riconosce e si unisce a sé, ritorna a sé “dall’alienazione” nel senso che “apprende il suo proprio apprendere”, e questo apprendere inconsueto è la presa di coscienza dei limiti della normalità, come Hegel precisa nella Filosofia del diritto.

Nella Fenomenologia dello spirito, il procedere del divenire, sempre identico a sé ma diverso grazie alla mediazione dell’altro, è secondo Hegel il movimento progressivo della formazione umana, della cultura. Theodor Wiesengrund Adorno ha bene precisato qui, chiarendo il pensiero hegeliano, che la normalità è il processo culturale nel quale “lo spirito si dà a qualcosa che lo fronteggia e gli è estraneo, in cui soltanto esso conquista la sua libertà”. L’autocoscienza è fatta di normalità, la sua composizione è completamente alienata, le potenze spirituali che si organizzano nel suo mondo, la sua effettualità, possono spezzarsi solo procedendo oltre. Hegel parte da una “rinunzia all’essenza” che gli impedisce ogni concetto di oltrepassamento. Nei riguardi del singolo, il potere dello Stato è per Hegel il movimento della normalizzazione nel pieno costituirsi del suo diritto, nella “formazione della sua essenza” (Realphilosophie). La volontà generale (qui c’è qualcosa che ricorda Rousseau) “deve innanzitutto costituirsi come universale a partire dalla volontà dei singoli e i singoli devono rendersi universali attraverso la negazione di sé, l’alienazione e la formazione”. Come momento della normalizzazione, il movimento ambivalente dell’estraniazione, che si esprime con “l’avere la coscienza in due mondi di diversa specie e racchiuderli entrambi”, è nella Fenomenologia dello spirito il carattere più eminente dello Stato moderno, dall’assolutismo al Terrore, in esso lo spirito estraniato dal proprio essere naturale, attraverso la cultura giunge “al culmine della sua opposizione”, per trovarvi se stesso e realizzare l’autocoscienza.

Il fatto che l’essenza dell’uomo sia posta da Hegel al di fuori dell’uomo stesso non deve stupire, se si tiene conto che l’assunto principale dell’essenza umana è dato dall’adeguamento alle condizioni dell’esistenza, cioè dalla “normalità”. La vita è una condizione diversa di cui al momento non abbiamo cognizione esatta. Ludwig Feuerbach definirà questa affermazione come qualcosa di ultrafilosofico e del tutto fuori da ogni considerazione pratica. Così facendo, invece di spiegare l’assoluto, Hegel “ha estraniato l’uomo da se stesso”. La verità della filosofia speculativa, dice Feuerbach, è la teologia. Dio si è trasferito sulla terra, con tutti i suoi precedenti connotati. La personalità di Dio non è altro che “la personalità dell’uomo alienata, oggettivata, attraverso un’autoalienazione. L’animo religioso trasforma se stesso nell’ente passivo e Dio in quello attivo. Dio è la sua attività alienata”. (L’essenza del cristianesimo). Attraverso Dio l’uomo “media la sua propria essenza con se stesso”: queste le ultime parole di Feuerbach. La normalità si realizza con la cessione a un essere assolutamente fittizio delle qualità umane, che così vengono allontanate dall’esistenza, e poste di fronte alle proprietà della “coscienza della specie”. In fondo alla teologia c’è sempre l’antropologia.

La coscienza può quindi essere normale, ma non può essere ridotta costantemente alla normalità dall’opposizione accumulativa. Qui sta l’oggetto, nel senso proprio del termine, cioè come cosa che sta di fronte, si contrappone al soggetto ma che pur gestendolo in gran parte non ne può uccidere totalmente la volontà. È un problema di confine, dove non si riesce a stabilire la fine del dominio accumulativo e l’inizio dell’inquietudine. L’angoscia è un’esperienza psicologica e umana fondamentale nell’esistenza di tutti noi. Molte sono le metamorfosi dell’angoscia. Dobbiamo spesso affrontarla nel pieno della nostra normalità, quando tutto sembra percorrere le strade di sempre. È proprio l’angoscia normale più che l’angoscia neurotica quella che più fa sentire il baratro che ci ospita quotidianamente. Dalla tristezza alla malattia il passo è breve. «L’essenza è l’angoscia, come manifestazione della libertà di fronte a sé, essa significa che l’uomo è sempre separato dalla sua essenza attraverso un nulla». (J.-P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1950, p. 72). L’angoscia ci costituisce profondamente, pervade la nostra esperienza in tutte le sue modalità, si nasconde nel cuore dell’esistenza e ne condiziona forme di espressione altrimenti inspiegabili.

Questa è la normalità. Ha scritto Viktor Emil von Gebsattel: “L’angoscia ha cessato di essere la questione privata della singola persona. L’umanità occidentale in generale è immersa nell’angoscia e nella paura: il presentimento di una minaccia, che incombe nella sua terrificante ragione d’essere, sconvolge la certezza ontologica della persona umana. Il dilatarsi dell’angoscia, che da cento anni è cresciuta vertiginosamente, si è accompagnato a una intensità mai sperimentata fino ad oggi”.

L’angoscia non è paura vera e propria. L’ansia e l’angoscia sono la risposta alle condizioni di normalità imposte con la forza, il modo in cui reagiamo di fronte al muro di cinta che con sorpresa scopriamo di fronte ai nostri occhi. Quando siamo confrontati, o piegati, da una forte condizione emozionale costituita da angoscia, o da ansia, come reagiamo? Le esperienze di ogni giorno si colorano di sventura imminente mentre una estraneità del mondo e delle cose si sostituisce al concetto di familiarità che ci conforta in tutto quello che consideriamo normale. Così Søren Kierkegaard: “Poiché il concetto dell’angoscia non si trova quasi mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto ch’esso è completamente diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità”. (Il concetto dell’angoscia). Il pensiero della normalità ha qui suggerito una distinzione tra un ordine materiale e un ordine spirituale, dove il secondo finisce quando predomina il sistema accumulativo. La distinzione evidentemente non è condivisibile. La realtà è una e non ci possono essere separazioni che sostengano l’esistenza di due leggi diverse, una per il mondo materiale e una per il mondo spirituale. Ecco un testo di Martin Heidegger del 1976: “Col termine angoscia non intendiamo quell’ansietà (lingstlichkeit) assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato”.

Esiste una speciale dimensione psicopatologica dell’angoscia, che qui non interessa, ma c’è una dimensione esistenziale, non estranea ovviamente alla psichiatria, ma con considerevoli implicazioni filosofiche. In ogni caso non è possibile cogliere il senso più profondo dell’angoscia, la sua realtà esistenziale profonda. “L’angoscia – ha scritto Kierkegaard – si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guarda, dando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade”.

Il fatto che nella coscienza si scatenano movimenti in contrasto con i progetti di normalizzazione dell’orientamento verso il senso, non significa che in essa vi è solo qualcosa di indeterminato, mentre nell’accumulazione esiste il processo deterministico in assoluto. La totalità del reale presenta questi due aspetti contemporaneamente anche all’interno delle dimensioni ristrette del campo, dove l’indeterminatezza di un parametro è solo una conseguenza dell’eccessiva determinazione di altri parametri. Lo stesso per le considerazioni che pongono la coscienza come indipendente dal meccanismo di catalogazione. Questa indipendenza è altrettanto illusoria di una assoluta dipendenza deterministica o di una assoluta indeterminatezza. La totalità relazionale presenta una interconnessione universale che rende impensabile il concetto di separatezza, se non come provvisorio modello di ragionamento, destinato esclusivamente a fini operativi e privo di ogni possibilità di riscontro reale. Per comprendere appieno la molteplicità degli aspetti legati alla totalità occorre pensare, prima di ogni altra considerazione, alla più primordiale delle idee, quella dell’infinito, più volte presa in considerazione dalla metafisica ma mai dotata di dettagli accettabili per una mente empiricamente condizionata. Considerato nei suoi rapporti con la possibilità l’infinito, secondo il significato etimologico, è ciò che non ha limiti. Questo senso che gli è proprio, non è sempre possibile conservarlo, a volte è necessario limitare l’impiego di questo concetto alla designazione di ciò che non ha assolutamente limite, escludendo tutto quello che è soltanto privo di specifiche limitazioni, cui queste ultime sono essenzialmente inerenti. Non per questo “normalità” e “totalità” si escludono. Alcuni concetti, come quello di numero, di spazio, di tempo, sono concetti totali, anche se l’uso che ne facciamo presenta sempre parzialità e limitazioni. Si tratta, mantenendosi nell’àmbito della totalità, di concetti più generali e ampi possibile, i quali oltrepassano di molto le nozioni correnti di numero, spazio e tempo. Parlare dell’indefinito richiede una tecnica del tutto particolare.

La normalità non è l’ingresso a qualcosa di “generale” o di “universale”. Le condizioni normali di esistenza, e niente di più, esistono semplicemente all’ombra dell’infinito, vi si alimentano e vi trovano giustificazione. Bisogna capire che non si può parlare di infinità se non in condizioni diverse dalla normalità. A questo indefinito si accede a volte con l’illusione di ridurlo alla semplice ipotesi quantitativa , come nel caso del cosiddetto “infinito matematico”, ma il ricorso a una parola di qualificazione determinativa come “totalità” potrebbe accontentare se non implicasse di per sé una pura e semplice contraddizione. Siamo davanti a una contraffazione che bisognerebbe approfondire. Scavare fino in fondo è forse possibile, anche se ancora non ho realizzato appieno le difficoltà connesse a questo progetto. Se a volte capita di parlare di una “totalità filosofica” è un modo per fare notare una diversa contraffazione della totalità del reale, una modulazione contraddittoria. La realtà è realmente illimitata, per cui essa non contiene alcuna determinazione se non dopo che la stessa ha subìto un processo di normalizzazione. L’affermazione riguardante ciò che oltrepassa ogni determinazione è faccenda della qualità, quindi deve fare a meno del concetto di “normalità”. La “totalità matematica” restringe al contrario la concezione a un àmbito specifico e limitato, quello della quantità. L’indefinito totale non può essere raggiunto procedendo dal finito, ciò perché la totalità non è un’estensione o uno sviluppo del finito. La formazione della totalità a partire dal finito, come avviene nella generazione della serie dei numeri, è possibile solo mantenendo il finito nella potenza definita della quantità. Spostando i limiti alla semplice ipotesi della qualità, cioè proponendosi l’assolutamente altro, sia pure come semplice proposta, i consueti strumenti di misura non sono più validi.

Bisogna ricordare un’altra affermazione illusoria della cosiddetta normalità, in base alla quale si considera passiva la coscienza di fronte alla maggiore forza attiva della catalogazione. Ciò è un’illusione derivante dal fatto che il meccanismo produttivo del senso appare inarrestabile, munito in altri termini di un movimento autonomo che non sembra essere disturbato dalle velleità inquiete. Poiché l’origine dello stimolo concreto non poteva essere pensata in un movimento incerto e spesso contraddittorio, la normalità ha preferito collocarla in un meccanismo continuo e inarrestabile.

La normalità ignora la solitudine, la difficoltà di vedere l’altro in prospettiva. Parlo qui della solitudine che riflette sul divenire, che non si chiude di fronte all’angoscia del futuro, non della solitudine quotidiana in un mondo reso impraticabile dallo stesso meccanismo che lo produce. Anche Parmenide ignora la solitudine dell’ “esistente”, ma si tratta di una impossibilità fondata sul rifiuto del nulla, la relazione con l’altro resta quasi tra parentesi. Parmenide non pensa la solitudine, non si guarda nel profondo della solitudine, l’opacità dell’essere è totalità della realtà, assicurata una volta per tutte, quindi non necessitante di altre specificazioni. Come ha affermato Jacques Derrida “il solipsismo non è né un’aberrazione né un sofisma: è la struttura stessa della ragione”. La normalità è violenza. Attraverso di essa l’intero sviluppo filosofico acconsente al nascondimento della tensione, quindi presuppone e permette l’oppressione e il totalitarismo. C’è una corrispondenza tra normalità e potere, una complicità antica tra l’oggettività teorica e il dominio della tecnica e della politica. Ancora Derrida: “Se fosse possibile possedere, afferrare e conoscere l’altro, questo non sarebbe l’altro. Possedere, conoscere, afferrare, sono sinonimi del potere”.

Del corredo della normalità fa parte il contrasto tra coscienza e senso, tra soggetto e oggetto. Ma questo contrasto non è così scontato come la logica dell’ “a poco a poco” ci suggerisce. Il senso non ha il suo punto focale, la sua più alta significatività relazionale nell’essere oggetto, è un particolare destino che lo ha ridotto a fatto, cioè a prodotto della modificazione, quindi anche a oggetto. La coscienza illuminata è uno degli aspetti del potere, l’aspetto che la normalità raggiunge nel suo più alto grado di gestazione. Normalità e potere si uniscono insieme nell’identità oppressiva e visibile di quest’ultimo, e qui restano. L’ontologia ne registra i ritmi ripetitivi e consolatori. Il vecchio nascondeva per reprimere, l’oscura rocca di Sant’Angelo ne costituiva il simbolo. Il nuovo espone per dominare (e quindi reprimere), espone prima di tutto il proprio sapere, ogni cosa viene fatta alla luce del sole, nella luce vengo costituito come simulacro di me stesso, in modo che possa accettarmi come altro da me stesso. L’abbaglio è assistito da ogni genere di metafore, tutta la retorica è al servizio della persuazione e contribuisce a sviare il mio sguardo fornendo una giustificazione alla violenza storica. La supposta garanzia del discorso filosofico costruisce in continuazione nuove innocenze. Le metafore si accavallano e non giustificano niente, ma noi non ce ne curiamo, ci lasciamo sollevare dalle nostre reponsabilità. La storia elenca in tutto il suo svolgimento fatti che corrispondono a violenze attraverso la normalizzazione, non è stato ancora costruito il linguaggio in grado di giustificare questo elenco, ma la sua semplice disponibilità è di già giustificazione. In fondo la storia parla d’altro e così facendo mostra il fatto come intenzionato a produrre qualcosa di diverso da quello che in effetti produce, deliberatamente e fino in fondo. La grande capacità di un potere che svela invece di nascondere è ancora tutta da capire. Vivere alla luce è seguire la regola, rispettare i codici e gli accordi, fare apparire questi accordi come contratti liberamente siglati, il resto (chi si rifiuta di accettare la normalità) vuole la propria eliminazione ed è soltanto lui il colpevole. In fondo la normalità illuminata non ha contraddittori se non fra le mura dei manicomi. Chi mai potrà dominare i significati profondi della normalità? Indicarne i pericoli, dirne il senso senza che sia il senso a parlare al posto suo? Quale linguaggio potrà mai fare a meno della grammatica, tavola della legge della normalità?

Di per sé, quello che coglie l’attenzione non è tanto il senso ma l’orientamento verso il senso, cioè l’accumulazione nel suo insieme, il meccanismo di archiviazione e catalogazione. È questo meccanismo che fornisce elementi, cioè strumenti, che la volontà, la coscienza non ancora diversificata, riceve e impiega senza riuscire a padroneggiarli in assoluto, anzi dai quali è condizionata.

Man mano che cresce l’autonomia della coscienza all’interno di quest’ultima l’inquietudine affina la volontà e la diversifica, cioè la contrappone in modo più diretto all’orientamento del senso, e ciò fa crescere il contrasto che prima non si poteva considerare troppo significativo. Penso che la normalità ponga come un dato di fatto un contrasto medio, in cui il senso lavora sulla coscienza e questa rielabora il senso. E non può essere altrimenti trattandosi di possibilità evidentemente limitate dalla coesistenza con altri ordini di possibilità per quanto tutti interni alla dimensione del fare, all’esistenza quotidiana che deforma la natura di ognuno di noi ma non la cancella. In questo àmbito vengono previste determinate possibilità e non tutte le possibilità sono senza restrizione. Se così non fosse, la coesistenza di un incerto numero di possibilità diverse non comprese nelle prime, ognuna delle quali ugualmente in grado di svilupparsi in modo indefinito, equivarrebbe a una impossibilità, ossia a un’assurdità logica. L’assurdo è la totalità, in senso logico (dell’ “a poco a poco”, beninteso) e matematico, e ciò perché la totalità implica una contraddizione, per cui l’assurdo è paragonabile all’impossibile, la progressione accumulativa (in questo caso, la “normalità”) è caratterizzata dall’assenza di contraddizione interna, quindi essa è logicamente, e perfino ontologicamente, possibile (non certa). La totalità, al contrario, per essere veramente tale, non può ammettere alcuna restrizione, essa infatti è da presupporre assolutamente incondizionata e indeterminata, in quanto ogni determinazione (anche semplicemente linguistica), in qualunque caso, sarebbe necessariamente una limitazione.

Sempre la normalità si rifiuta di consegnare alla coscienza l’iniziativa di rottura. In base a essa non si opererebbe mai una vera e propria apertura determinata dall’inquietudine, ma si verificherebbe sempre una sollecitazione interna alla coscienza causata proprio dall’attività di accumulazione, specie nell’aspetto di riorganizzazione. Questa sollecitazione animerebbe la coscienza ma esclusivamente nel senso di perfezionamento del controllo, sempre nell’orientamento verso l’accumulazione. Quindi la normalità considera il meccanismo accumulativo capace di prendere l’iniziativa in merito alle capacità di conoscenza del soggetto, fino ad arrivare a inglobare tutte le capacità di quest’ultimo. Peraltro la limitazione ha il carattere di negazione: porre dei limiti significa negare la totalità, ciò che i limiti racchiudono nega la totalità, allo stesso modo la totalità è negata da tutto ciò che i limiti escludono. La negazione dei limiti è parlando in senso proprio la negazione di un’altra negazione, quindi siamo davanti a un’affermazione, alla riconferma della totalità. La negazione di ogni limite è sempre affermazione della totalità del reale. L’illimitato non solo non ha limiti, ma nei suoi riguardi nulla si può negare, per cui il suo contenuto è tutto quello che c’è da contenere, ciò al di fuori del quale non vi è nulla. Il concetto di totalità, tutto e subito qui nelle mie mani, che è il più affermativo di tutti i concetti, esso riassume e comprende nella sua assoluta indeterminatezza senza racchiuderle tutte le affermazioni particolari, quali che siano, tutte le specificazioni.

Un punto di forza della tesi della normalità è dato dal fatto che le attività della coscienza che si riassumono nelle proiezioni, quindi sensazioni, percezioni, intuizioni, concetti, idee, ecc., vengono tutte ricondotte all’azione esercitata dal processo di accumulazione. In questo modo, o non ci sono proiezioni vere e proprie fuori della coscienza, o non ci sono proiezioni che si possono porre in modo critico determinando inquietudini e quindi rotture. Il ruolo della coscienza viene così considerato non soltanto subordinato al senso, ma ridotto a una specie di serbatoio delle attività accumulative. Questa ipotesi tenderebbe a fare passare il processo di continua riorganizzazione del senso in secondo piano di fronte al ruolo preminente di coordinazione e controllo esercitato dalla coscienza. Il processo di accumulazione condizionerebbe la coscienza e questa controllerebbe i processi di riorganizzazione interna. Nel mondo delle condizioni comuni, quando a governare è l’assoluta normalità, le relazioni sono incise profondamente dal muro di inevitabilità, dalle distorsioni che creano ombre angosciose che non sempre è possibile cacciare via con un ricorso alla perfetta adesione alla norma, spesso ci si inoltra in una regione estrema, al di là della quale non c’è più corrispondenza con la realtà se non quella proposta dalla morte. Le forme distorte dell’angoscia spiegano la normalità perché è al loro interno che si costruiscono le componenti più distruttive dell’esistenza, proprio quando tutto, all’esterno, sembra andare per il proprio verso. Lo stato d’animo emozionale coerente con la propria immagine comportamentale è l’ingresso a una serie incredibile di sofferenze.

La diversità viene pertanto esclusa da qualsiasi relazione con la coscienza. Quest’ultima finisce per restare un circolo chiuso, sempre diverso ma sempre uguale a se stesso, con modificazioni interne coordinate solo con l’accumulazione. La rottura, secondo le tesi della normalità, sarebbe impensabile in quanto l’accumulazione, con tutti i suoi progressivi aggiustamenti, sarebbe la causa sufficiente delle proiezioni della coscienza, fra le quali non c’è la diversità. Si ammette in questo modo l’impossibilità di relazioni che non siano previste, contenute o prodotte dal processo di catalogazione. Per arrivare, in conclusione, alla necessità di costanti di orientamento, o leggi di senso, caratteristiche della logica dell’ “a poco a poco”, strumenti per capire il funzionamento del meccanismo accumulativo e, nello stesso tempo, effetti di questo meccanismo dotati di una loro intrinseca regolarità. Ecco come si esprimeva Ellen West, una delle pazienti analizzate da Ludwig Binswanger: “Sono prigioniera: prigioniera in una rete dalla quale non posso liberarmi. Sono prigioniera in me stessa, mi invischio sempre di più, e ogni giorno è una inutile lotta: le maglie si chiudono sempre più strettamente. Sono Siberia, e il mio cuore è imprigionato nei ghiacciai: intorno a me ci sono solitudine e gelo. Mi dibatto nella mia angoscia mortale, e devo passare mille ore spaventose. Ogni giorno mi sembra che abbia mille ore, e sono spesso così stanca di tutto questo pensare spasmodico che nulla più mi auguro se non la morte. Vorrei non mangiare per non avere la spaventosa sensazione che nasce in me dopo ogni pasto. Come devo descriverla? È una sensazione sorda e muta nel cuore, una sensazione di angoscia e di abbandono”. Pur essendo catalogata come condizione patologica questa è una delle forme della normalità, superate quotidianamente col ricorso a mille espedienti, a protesi di ogni genere.

Un altro aspetto della normalità è la riduzione all’aspetto esclusivamente quantitativo della differenza tra la totalità e l’individuo, per cui tutto viene ricondotto a momenti specifici dell’accumulazione, con il presupposto non approfondito di considerare atomistico un certo livello minimo non ben identificato a priori, e di considerare totale un altro livello massimo, altrettanto poco approfondito. Il tutto comunque sempre all’interno del dominio della coscienza. La normalità non riesce a spiegare la differenza tra l’uno e i molti con il ricorso a precisazioni quantitative, e ciò perché questa differenza si collega con una diversità di natura qualitativa. Perché mai il soggetto dovrebbe conoscere solo l’uno o solo i molti? Non c’è una risposta analitica. Il motivo è da ricercarsi in una diversità che in certe condizioni è capace di esplodere dalla coscienza, quindi in una intrinseca precarietà di tutto quell’insieme di controllo e di dominio che invece è dato come perfettibile.

È ovvio che la normalità logica assegni alla coscienza una centralità che questa è ben lungi dal possedere, una centralità di pensiero, come se il pensiero fosse una funzione operativa esclusivamente gestita dalla coscienza e decisamente superiore al processo di accumulazione del senso. Per cui questa idea dominante, che stiamo definendo “normalità analitica”, entra in contraddizione con se stessa in quanto spesso finisce per ammettere che la coscienza subisce il meccanismo catalogativo e non riesce a dominarlo. Infatti, quando anche noi partiamo dai presupposti del controllo e del dominio, lo facciamo considerando l’azione combinata del meccanismo accumulativo e della coscienza nei confronti del campo, insieme relazionale che potrebbe, al limite, essere governato solo in questo modo se non fosse troppo esposto alle sollecitazioni esterne, provenienti dall’insieme totale delle relazioni e a quelle interne provenienti dalla coscienza stessa che si inquieta non poco di fronte alla ripetitività dell’accumulazione.

Mi pare opportuno notare qui che la normalità colloca il suo metodo per giudicare il vero e distinguerlo dal falso, proprio inserendo nel processo accumulativo del senso il criterio con cui valutare questa differenza attraverso i giudizi oggettivi. La scienza risulta così un processo evolutivo di giudizi obiettivi, circoscritto all’interno del processo accumulativo, dove questi giudizi assumono una dimensione universale e necessaria pur restando modificabili all’interno di quei movimenti riorganizzativi che caratterizzano l’accumulazione stessa. Questo errore di fondo caratterizza la civiltà nel suo insieme, la realtà viene occultata con un procedimento che è anteriore all’errore di giudizio stesso e che non è garantito da niente nell’ordine logico delle successioni, Heidegger ha parlato di erranza. “Ogni epoca della storia mondiale è un’epoca dell’erranza”. La realtà è tempo e storia proprio perché viene presentata sotto l’aspetto della normalità, in questo risiede 1’erranza e la specialità dell’essenza di ogni epoca, non si può ridurre a valore quello che di per sé è irriducibilmente senza valore, solo l’illusione ideologica può farlo. L’erranza interminabile ricomincia sempre da ogni dove, non essendoci un punto di partenza vero e proprio. Una religione dell’essere, qualora fosse possibile, sarebbe una specie di culto dei luoghi dell’erranza. Abbiamo bisogno di un luogo dove accumulare la nostra sete di normalità, questo non è necessariamente un attaccamento a un particolare, non ha nulla a che vedere con la nostalgia della terra, non si nasconde dietro una parola o una promessa. Con Heidegger il tema della Terra e dell’Abitazione prende proprio quest’ultimo senso, ed è per questo che non possiamo seguirlo, ma la partenza aveva un altro significato.

Con un’operazione non ben fondata, e spesso sottoposta a sommarie smentite, è stata riportata all’interno della dimensione scientifica anche la considerevole quantità di movimenti che si svolgono nell’àmbito della coscienza, ripristinando spiegazioni quantitative anche per relazioni che difficilmente potevano essere spiegate in termini di semplice catalogazione o di pura riorganizzazione accumulativa. La verità che è stata posta a tutela di tutto ciò appartiene interamente alla dimensione operativa ed è sostenuta dalle affermazioni della logica dell’ “a poco a poco”.

A volte Heidegger è stato indicato come nemico della tecnica e “della società industriale”, e per questo considerato reazionario. Ma si tratta di affermazioni che non tengono conto della tecnica nella sua funzione di “disvelamento”, non pensano alla società in cui viviamo come a qualcosa di “normale”. La violenza che tutti ci ospita è collegata sempre di più alla tecnica del disvelamento della realtà, tutto si matura alla luce del sole.

L’insieme di queste posizioni, con le opportune varianti alternative che comunque non spostano di molto le basi del ragionamento, non fa altro che dare una spiegazione ad alcuni problemi della coscienza, fondandola, questa spiegazione, sul meccanismo accumulativo, considerato come il luogo dove si estrinseca l’oggettività del senso. Ciò comporta il presupposto che la coscienza conosca il risultato, sempre cangiante, dell’accumulazione e che possa costruire su di esso tutta la conoscenza scientifica, la quale, fuori di ogni dubbio, ha una sua validità oggettiva e una verità che non si può mettere in dubbio se non come possibile miglioramento a seguito dei processi stessi di riorganizzazione che si producono. Ma, c’è da chiedersi, esiste un’altra conoscenza oltre quella tutt’altro che totale che fa capo al senso? E poi, continuando con le domande, esiste, nella coscienza, una capacità di capire i limiti e le contraddizioni del senso? Dubbi in proposito ne sussistono parecchi.

La riflessione dovrebbe partire dal movimento positivo che va al di là della paura o del disprezzo dell’altro. Il movimento che si basa su di un apprezzamento o su di una comprensione dell’altro, pur non essendo ancora conoscenza si mantiene in una dimensione etica. Il bisogno filosofico è conoscenza fondata sul desiderio. Hegel non si è mai posto questo aspetto del problema del riconoscimento. Il movimento di assimilazione, la negazione dell’altro da parte della coscienza che vuole diventare “autocoscienza”, o meglio “certezza di sé” secondo la tesi famosa della Fenomenologia dello spirito, qui non è tenuto presente. Penso che il desiderio sia fondato sulla non-paura dell’altro, quindi su di un modello di conoscenza che ha una componente etico-filosofica, e che la coscienza decide di non rifiutare. Ma il desiderio è davvero rifiuto di negare l’altro? Non del tutto. L’affermazione di me stesso in quanto progetto desiderante esclude l’altro, per poi ricomporlo all’interno del desiderio soddisfatto. Il gesto di negazione procede oltre verso l’assimilazione, per cui la necessità essenziale è duplice, per quanto non sia possibile distinguere i due processi in modo netto. E siccome il desiderio vero e proprio non è mai possesso raggiunto e consumato, possesso che nega il desiderio attraverso la morte dell’altro nella sua riduzione a oggetto, torna necessario ammettere che Kierkegaard si è avvicinato più di tutti al nocciolo del problema: il desiderio è più importante della soddisfazione del desiderio. Il godimento in quanto tale può essere soltanto differito, ma se lo è non più come desiderio ma come godimento diventa miserabile modificazione del desiderio iniziale, processo che si rispecchia completamente nella produzione del fare coatto, per meglio dire nel lavoro.

Cosa succede della normalità quando cominciano a farsi sentire, all’interno della coscienza, le prime inquietudini? Il senso è sufficiente a spiegare la realtà? La realtà è fatta soltanto di contenuti? L’esistenza della realtà è comprensibile limitandosi a esperire il meccanismo operativo in atto all’interno del campo? Come si spiega che c’è sempre una insoddisfazione nel lavoro d’archivio? Come si spiega che non riusciamo a godere dei simulacri che ci vengono sbriciolati sotto gli occhi come sottoprodotti del senso? A un certo punto risulta evidente, poniamo, che l’amore non può essere né l’insieme dei luoghi comuni che vengono prodotti dai vari settori specializzati, né uno solo di questi condensati di senso. Ognuno sente che c’è qualcosa di profondamente diverso nell’amore, e che questo qualcosa deve essere cercato altrove, perché nessuno ce lo porterà comodamente fino a casa con una ordinazione da postalmarket. E questa riflessione sull’amore possiamo anche farla per quanto riguarda la verità, la bellezza, l’affinità, l’amicizia, la bontà, l’uguaglianza, la libertà e tutte quelle qualità della vita che possiamo avere solo sbriciolate o in pillole, prodotte come residui dallo stesso meccanismo di accumulazione, ma che se vogliamo avere veramente dobbiamo andarle a cercare, coinvolgendoci in un itinerario pericoloso e affascinante.

L’idea della qualità, quale è presa qui in considerazione, dal punto di vista puramente trasformativo, non può essere colta se non facendo riferimento a quelle pulsioni che avvertiamo in senso negativo proprio quando ci troviamo delusi di fronte alla nostra esistenza. In quanto idea del tutto essa non può includere in sé nessuna contraddizione, non essendo la quantità in grado di costituire una vera e propria limitazione della qualità. La totalità qualitativa è inoltre necessariamente possibile, nel senso logico del termine, in quanto la sua negazione sarebbe contraddittoriamente priva di apertura. Considerando la qualità in senso universale, è evidente che non può essere limitata in modo alcuno, in quanto potrebbe esserlo soltanto da qualcosa di interno, cioè dalla qualità stessa, distinzione che viene esclusa in partenza. La totalità, intesa in questo senso, non può essere considerata come un tutto determinato, cioè come un insieme costituito di parti che sono anch’esse qualità, fissate definitivamente in un rapporto fra loro. La totalità qualitativa è priva di parti, in quanto esse dovrebbero necessariamente prendere la forma di qualcosa di relativo e aggiuntivo e non avrebbero mai un vero rapporto con la “totalità”, né alcuna possibile misura comune.

Invece, nel ricavarci un campo, abbiamo la possibilità di elevare dei muri divisori, ma dobbiamo fare in modo che questi muri non si trasformino in una prigione. Il campo deve essere un punto di immediata familiarizzazione, dove alcune relazioni vengono schematizzate senza subire eccessivi ferimenti o deformazioni. Ciò è possibile solo pensando a una continuità di affievolimento che si trasforma lentamente ai confini del campo, non supponendo esistenti limiti rigidi e confini ben fissati. La coscienza opera nel campo e attinge al meccanismo accumulativo sempre dentro il campo, per quanto non si possa affermare che tutto l’accumulato sia dentro il mio campo, essendo impossibile la gestione di un singolo campo avente una dimensione tanto grande. L’interconnessione relazionale fra i diversi campi spiega questo meccanismo. Occorre però chiarire l’altro aspetto del problema, cioè di come la coscienza possa relazionarsi con qualcosa che è fuori dell’orientamento verso il senso. In questa direzione bisogna distinguere tra la necessità logica, ovvero l’impossibilità che una cosa sia diversamente da ciò che è oppure non sia del tutto, a prescindere da una qualsiasi condizione particolare, dalla necessità fisica, qualche volta indicata come necessità di fatto, la quale è semplicemente l’impossibilità che la realtà non si conformi alle leggi del campo a cui appartiene, per cui risulta subordinata alle condizioni da cui quel campo è definito e vale soltanto al suo interno, cioè nel suo àmbito specifico. Il mondo della vita, con i suoi aspetti di gusto e di stile, parte dal campo ma fa presto a travalicarlo, meglio a negarlo, allo stesso modo in cui ogni stimolo di conoscenza parte da un’apertura della coscienza e fa presto a diventare movimento ricognitivo. Ma questi movimenti non fanno passare in secondo piano né il campo, né la coscienza, anzi li arricchiscono con nuovi strumenti e nuove esperienze. Si tratta di proiezioni che realizzano progetti fuori delle dimensioni di partenza, progetti diversi.

A questo punto possiamo affermare che la diversità è la vita attiva, forse non ancora capace di darsi una prospettiva autonoma, quindi trasformativa, ma di già fuori del semplice fare coatto, cioè fuori della legge accumulativa che regola la coscienza e il meccanismo catologativo. La vita, in quanto diversità, esce dalla coscienza attraverso l’apertura causata dall’inquietudine. I movimenti interni alla coscienza: ricordo, memoria, propensione, anticipazione, intuizione, ecc., vengono tutti imballati nel meccanismo unidimensionale dell’accumulazione, per cui finiscono per scontrarsi tra loro. Questo modo di fare, pur lontano dalla realtà, viene avvolto in una patina ordinata e pulita, chiara ed evidente, e viene spacciato come la realtà obiettiva. La scienza è così inserita nelle caselle della catalogazione e portata lontano dalla realtà, racchiusa in leggi e assolutizzata in concretezze fuori luogo, per usare una famosa espressione di Whitehead.

Che la realtà della qualità non stia al di sopra del campo, non implica che non gli stia accanto. Senza per questo essere un’altra realtà. Non si può accettare la tesi di Heidegger secondo la quale “la significazione ontologica dell’essente, nell’economia generale dell’essere, si pone semplicemente accanto all’essere con una distinzione”, si deve andare oltre, anche se è vero che una distinzione non è mai una separazione. In effetti non c’è una realtà dominante, essendo la qualità l’assolutamente altro e non la regola da seguire. Non c’è neanche distinzione possibile, nel senso comune del termine, tra la quantità e la qualità, una volta che ci si ponga fuori del campo. Per alcuni motivi essenziali, e prima di tutto perché la quantità fuori del campo non esiste e perché l’apertura si risolve nella totalità, è impossibile fare a meno di parlare di quantità all’interno della metafora produttiva della modificazione, il linguaggio stesso ce lo impedisce, e non c’è altro modo di lasciarlo circolare all’interno dei significati della quotidianità. Una volta intesi su questo punto, il linguaggio espone e distingue, ma nasconde nello stesso tempo la realtà che lo ha codificato e suggerito come proprio mezzo di conoscenza. Solo la totalità del reale resiste assolutamente a ogni tentativo di distinzione. Ogni scienza interpretativa che affermi di riuscire a ridurre il senso della totalità all’origine particolare dell’esperienza quotidiana si lascia sfuggire, quale che sia il valore delle sue ipotesi, il senso stesso di cui pretende essere esegeta. La storia realizza concretizzazioni specifiche, distinzioni che sulle prime potrebbero apparire come processi di liberazione della qualità in maniera indeterminata e indeterminabile, ma non è così, quello che resta fra le mani è sempre qualcosa di insoddisfacente. Non c’è mai nella storia una indicazione suggestiva riguardo la generalità indeterminata della realtà, ma sempre si allineano modeste indicazioni riguardanti la sua origine allusiva, c’è sempre qualcosa che rappresenta qualcosa d’altro, ma niente di diretto e specificatamente distinto. La storia parla del tutto trascurando precisamente l’essenziale, cioè la totalità del reale. In qualunque modo si prendano in considerazione le sue determinazioni non si sfugge a questa condizione di partenza. L’empirismo scientifico, che si riverbera specificazione storica, come ogni empirismo spiega tutto tranne il fatto che la realtà non può essere sottoposta a una banale operazione di svelamento. Ecco il motivo perché la storia ricorre sempre a un movimento interpretativo basato sulla metafora, ma non riesce mai a giustificare questo movimento aprendo il varco al pensiero della totalità del reale.

È molto importante capire a questo punto che quello che sto sostenendo non ha nulla a che vedere con il meccanismo sotterraneo da disvelare su cui tanto si è affannata la dialettica. L’opposizione tra Ulisse e Circe proposta da Horkheimer e Adorno nell’Excursus I della Dialettica dell’illuminismo, sottolineata come contrasto tra preistorica configurazione della realtà e processo di emancipazione, in effetti non regge a una lettura attenta. Circe contrassegna la natura e Ulisse la cultura, ma il fatto che la natura venga indicata, con la personificazione di Circe, come inganno, incantesimo e illusione, in altre parole come artificio è contraddittoria sottolineatura in quanto è proprio Ulisse ad avere fama di bugiardo. Come aveva supposto Nathaniel Hawthorne “il palazzo di marmo, nonostante la sua splendida apparenza, in realtà è una lugubre spelonca”. La magia di Circe trasforma gli uomini in animali mettendo così in luce la loro natura autentica, quello che essi sono, osservati nel loro specifico modo di essere. Platone aveva ben visto nella reincarnazione delle anime dei malvagi quel desiderio di corporeità, che non appare dissimile dalla semplice animalità (Fedone, 80ab). L’accumulazione avviene alla luce del sole, solo che concorre a bloccare le relazioni, a dividerle tra tensione e senso, allo scopo di fornire un fondamento stabile alla coscienza, sottraendola alle perigliosità del coinvolgimento. È certamente la coscienza stessa, in primo luogo, a essere responsabile di questa accelerazione accumulativa, ma è anche lì che bisogna trovare il primo momento dell’inquietudine, anche questo alla luce del sole. Quando parlo di processi intendo svolgimenti relazionali, movimenti obiettivi disordinati che si orientano in certi modi e non in altri per poi modificare i propri flussi. Non c’è nulla in questi movimenti che ricordi il modo storicistico di impostare il problema del processo.

È certo normale che la coscienza si faccia sospingere nell’orientamento verso il senso. Il suo bisogno di contenuti non potrebbe trovare una diversa soddisfazione. Quando ancora non è una relazione sufficientemente complessa, la coscienza non può avere il bisogno delle qualità, queste le risulterebbero incomprensibili, per cui non si orienta subito verso la tensione. Nel restare attaccata al senso la coscienza scopre il suo modo di essere, la sua tecnica, la sua arte, il suo metodo scientifico e ne resta affascinata intuendo una grande concordanza tra se stessa e il meccanismo di accumulazione e non sospettando che questa concordanza è la semplice conseguenza del fatto che il materiale che è andata a mettere dentro se stessa proviene tutto per intero da quel meccanismo. «Il rapporto dell’uomo con la realtà è indiretto, circostanziato, differito, selettivo e soprattutto “metaforico”». (H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, tr. it, Milano 1987, p. 95). L’uomo, in altre parole, costruisce la sua realtà sostituendo gli oggetti fisicamente considerati, così come li incontra nel mondo, con prestazioni verbali, la retorica e particolarmente la metafora gioca in questo senso un grande ruolo. Così Nietzsche: «L’involontarietà della immagine, della metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso la verità. Qui tutte le parole dell’essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuole imparare da te». (Ecce Homo, II).

La costrizione necessaria dell’inizio viene sostituita dalla possibilità interpretativa. Per quanto la sostituzione di cui sopra nasconda sempre una trappola, ogni differimento rende possibile ipotesi di aggiustamento, fondamento quest’ultimo di ogni strategia di sopravvivenza. Se è vero che la valutazione fisica diretta della realtà forniva, proprio per il suo modesto valore, una fruizione immediata, l’interpretazione, che potrebbe dare un’idea della inutilità in senso stretto, non riesce a liberarsi dal calcolo costi-benefici, che ne garantisce l’efficacia.

Siamo davanti al limite più significativo di ogni considerazione antropologica della filosofia. Inserendo le istituzioni come sostituto dell’istinto la ricerca dell’impiego utile aumenta e non diminuisce. Sono altri i mezzi ma l’automatismo è il medesimo.

Il rovesciamento antiplatonico della mimesis naturalistica, più volte tentato (la vita imita l’arte assai più di quanto l’arte imiti la vita), non è poi del tutto infondato. L’uomo “inventa” la natura, in quanto il concetto di natura è il risultato di un articolato meccanismo retorico, particolarmente di una proiezione metaforica bene impiegata e diretta il più delle volte a cancellare le proprie tracce. Non possiamo “dire” una letteralità del mondo, non possiamo farlo se non attraverso una metafora della letteralità del mondo, cosa che è essa stessa quello che resta dell’impiego di una metafora, di un “trasferimento”, di quanto operato dall’immaginazione con il linguaggio.

Questo doppio procedimento lo possiamo definire come stato normale della coscienza, ed è quello che la scienza intende quando parla di normalità, con un gusto più che discutibile per la scelta della parola. Da qui nasce l’equivoco che tutta la realtà, sia pure su campione, sia quella contenuta nella coscienza, che è poi il limite di ogni “coscienza ingenua”. Le “forme simboliche”, seguendo la definizione di Ernst Cassirer, raggiungono il loro scopo rappresentativo a mezzo di una metafora fondamentale che sostituisce l’immediatezza della coscienza, ricorrendo a un differimento parziale in altro contesto. «Con ciò si esprime il fenomeno fondamentale per cui la nostra coscienza non si accontenta di ricevere l’impressione dall’esterno, ma collega e compenetra ogni impressione con una libera attività dell’espressione. Un mondo di segni e di immagini prodotti spontaneamente si oppone a ciò che chiamiamo realtà effettuale oggettiva delle cose e si afferma di fronte a essa in autonoma pienezza ed originaria forza». (E. Cassirer, Mito e concetto, tr. it., Firenze 1992, p. 95).

La scoperta dell’altra realtà, della totalità del reale, avviene a causa di una messa in discussione della ripetitività del meccanismo accumulativo, chiusura questa che impedisce alla vita di entrare nel senso, pena una trasformazione in natura morta, ricordo storico, indagine tassonomica, codificazione, catalogazione, archiviazione. Più la coscienza cresce, sempre nell’àmbito dell’orientamento verso il senso, e più si rende conto che questo vestito diventa ogni giorno più stretto. C’è una perdita di fondamento, una perdita di scopo nell’intenzione, una perdita di prospettiva. La normalità imposta dal meccanismo diventa sempre più asfissiante, fino alla nascita di un movimento interno che riassumiamo qui nel termine “inquietudine”. Insomma cominciano dubbi critici riguardo il funzionamento globalizzante dell’operatività racchiusa nel senso, cioè dubbi sulla produttività come modificazione, sul fare coatto. Si tratta di argomenti importantissimi che reggono una parte fondamentale del primo livello di effettualità proprio perché consentono indirettamente una presa di posizione critica della coscienza che si sta risvegliando a migliore vita. C’è difatti nel meccanismo accumulativo un rivestimento astratto che ricopre il flusso del senso, ed è una sottile patina data dalla riduzione in briciole dei resti della tensione. Sono questi residui apparentemente innocui che, come un cascame di lavorazione, mettono in apprensione la coscienza. C’è in loro una evidente difficoltà di catalogazione. La scienza feticizzata non li accetta direttamente, ma li cataloga soltanto dopo che sono stati ridotti a quantità, cioè sono stati oggettivati in modo tale da non ricordare quasi più nulla della vita.

La realtà che conosciamo, sulla base degli aggiustamenti produttivi, anche se è suscettibile di estensione indefinita, è sempre riconducibile alla dimensione circoscritta dell’accumulo, rispetto alla totalità del reale. Nessuna cosa può essere considerata come “una parte” della totalità. Questa concezione errata, forse nata in contemporanea allo sviluppo storico del panteismo, presuppone che la “parte” possegga un rapporto definito con la totalità.

Niente riesce a impedire che la totalità venga considerata come una somma aritmetica, mentre si tratta di un errore gravissimo in quanto non ci sono elementi da sommare che possano raggiungere come risultato la totalità. La totalità nel senso vero e proprio del termine è logicamente anteriore alle sue parti e ne è indipendente. Un tutto pensato come logicamente posteriore alle sue parti, di cui non è che la somma, costituisce in realtà soltanto un ens rationis per dirla seconda la terminologia della Scolastica, che esiste in quanto “tutto” solo a condizione di essere effettivamente pensato come tale. Nella totalità il principio di unità reale è superiore alla molteplicità delle sue parti, nel tutto sopra indicato non c’è altra unità che quella che noi forniamo con il pensiero.

Anche la totalità ha bisogno di un minimo di determinazione, cioè di quel minimo di determinazione che lo renda effettivamente concepibile, e anche esprimibile con il linguaggio. Si tratta certamente di un limite alla totalità e quindi di una vera e propria impossibilità, ma dobbiamo considerare la cosa dal punto di vista attivo, passando dall’impossibilità dell’espressione totale della totalità alla possibilità della sua accezione nella trasformazione attiva della realtà. In fondo l’impossibilità non può limitare la totalità non essendo altro che una negazione pura e semplice, per cui la totalità è universale e necessariamente illimitata. Nulla può esservi al di fuori della totalità (ciò sarebbe una limitazione) e la totalità non sarebbe più tale. Pensare a due totalità poste una accanto all’altra è un’assurdità, perché esse si limiterebbero l’una con l’altra, per cui nessuna di esse sarebbe totale. Affermare che la totalità è infinita o illimitata è un modo come un altro di rafforzare con elementi limitati e finiti qualcosa che di per sé non abbisogna di rafforzamenti. Non esistono aspetti della totalità, per cui tutto il resto è un’accozzaglia non indispensabile di accorgimenti retorici. Non si può nemmeno parlare di una molteplicità di aspetti nella totalità distintivamente rilevabili, ma solo del fatto che noi concepiamo la totalità sotto aspetti diversi perché non riusciamo a fare diversamente.

La coscienza nel campo e nel senso si sente circoscritta, perduta. In quanto perduta si sente in una situazione in cui sta perdendo qualcosa, se non altro una potenzialità, quasi certamente mai avvertita prima, ma ora emergente, a poco a poco, sempre più con forza ed evidenza. L’antica normalità adesso comincia a sembrare una strana e lontana cosa, una condizione puramente meccanica, in grado soltanto di rinviare sempre all’infinito uno scopo, un raggiungimento di completezza che adesso non appare più tangibile, mentre altre evidenze e altre completezze si fanno luce, una nuova corporeità, una nuova sensitività, una nuova intenzionalità, tutti elementi diversi che sommati assieme fanno una diversità complessiva, uno scarto nuovo e impensabile se commisurato a quanto accadeva prima. «Che vi sia un oblio, non è ancora dimostrato; ciò che sappiamo è soltanto che il ricordare di nuovo non è in nostro potere. In via provvisoria noi abbiamo posto in quella falla del nostro potere quella parola “oblio”: proprio come se vi sia una facoltà in più da registrare. Ma cos’è che in fondo sta in nostro potere? – Se quella parola sta in una falla del nostro potere, non dovrebbero stare le altre parole in una falla del nostro sapere riguardo alla nostra potenza?». (F. Nietzsche, Aurora, 126).

È proprio il meccanismo dell’accumulazione che adesso ci fa capire i suoi e i nostri limiti, tutti interni alla coscienza, e in base a questi limiti ci fa cogliere il mondo esterno, la totalità delle relazioni. E la coscienza viene attirata da questa totalità, viene attratta verso una breccia, un’apertura, una nuova possibilità che la inquieta e la fa sentire instabile e contraddittoria.

La strana attrazione proviene dalla vita, che in quanto totalità delle relazioni comprende anche, ma non esclusivamente, la totalità dei meccanismi di accumulazione, ed è una vita anche inter-coscienziale ma prima di tutto è la vita direttamente vissuta, la vita che considera, valuta, interpreta e principalmente trasforma. Ciò che attira la coscienza e agisce come sollecitazione esterna che si viene a sommare alla sollecitazione interna costituita dall’inquietudine, è la presenza vivente delle relazioni, non la parziale somma dei flussi orientati verso il senso, sulla quale si era fino a ora fondata la coscienza con i suoi ristretti rituali. In questa presenza ci sta il segno del dispiegarsi della realtà, il nucleo del completamento conoscitivo, l’inizio dell’altra parte della medaglia. «Quando l’uomo dice “questo è”, afferma direttamente la propria persona. La propria realtà. Quando l’uomo dice “so che questo è”, egli “si” afferma di fronte alla propria realtà. Nel primo caso egli “vuole” qualche cosa, egli afferma il modo, la persona della sua volontà. Nel punto ch’egli mette una cosa come reale fuori di sé, egli dice il sapore che hanno per lui le cose, la sua coscienza, il suo sapere – quale esso anche sia. Per la sua illusione egli dice che “è” quello che “è per lui”; lo dice buono o cattivo, quando gli piace o gli dispiace. Quando l’uomo dice “io so che questo è”, egli vuole se stesso volente: egli afferma nuovamente la sua persona di fronte a un elemento della realtà che non è altro che l’affermazione della sua stessa persona. Egli mette la sua persona nella sua qualunque affermazione come reale fuori di sé. Ora con la riaffermazione della sua persona insufficiente egli presume attribuir valore a questa che essendo per lui non è. Ma mentre l’affermazione diretta, che vive le cose – come le vive attribuisce loro il valore relativo alla persona, le sa quanto le vuole; la riaffermazione di questa persona non aggiunge niente alla realtà. La prima è sufficiente alla relatività di ciò che vive; la seconda che vuol metter questa relatività come assoluta, è insufficiente del tutto, è fuori della vita, fuori della sua potenza: è impotente. La prima sa se una cosa è buona o cattiva per la sua persona; la seconda non sa più niente se non che vuol sapere: esser persona finita. Per se stesso un uomo sa o non sa; ma egli dice di sapere per gli altri. Il suo sapere è nella vita, è per la vita; ma quando egli dice “io sono”, dice agli altri che egli è vivo, per aver dagli altri alcunché che per la sua affermazione vitale non gli è dato. Egli si vuol “costituire una persona” con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha. È l’inadeguata affermazione d’individualità: la rettorica». (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano 1972, p. 53). La coscienza comincia a capire che qui, all’esterno, non si tratta di accumulare quanto di tentare. Il tentativo è un rischio. Il rischio non è estraniazione ma coinvolgimento. Questi concetti appaiono alla coscienza come possibilità di sviluppo, di progetto, l’espressione della mancanza di coincidenza con la propria storia, l’estremamente altro, la differenza.

Questa differenza deve potere diventare la nuova normalità. La coscienza possiede sempre un’alta valutazione di se stessa, non accetterebbe di farsi coinvolgere in condizioni di precarietà. Il suo restare estranea alla propria diversità è un modo come un altro di coinvolgersi. Non è la sola diversità che si coinvolge, ma la coscienza nel suo insieme. In caso contrario non ammetterebbe nemmeno l’inquietudine e l’origine della differenza. Così facendo, tutto l’itinerario ricognitivo, tutto l’abbandono, possono mantenere con il senso un sottile cordone ombelicale, attraverso cui si collegherà la raggiunta tensione. Così Arthur Schopenhauer: «Ricordiamo che dovunque le molteplici forze naturali e le forme organiche si contendono la materia, in cui ciascuna si manifesta, di modo che ciascuna possiede quel tanto di materia che ha sottratto all’altra, viene così alimentato un perenne combattimento per la vita e la morte, dal quale deriva principalmente la resistenza, che dovunque ostacola quella aspirazione che costituisce l’intima essenza di tutte le cose. Invano incalza l’aspirazione, perché non può mutare la sua essenza; essa si tormenta, sino a quando perisce questa sua manifestazione, mentre altre subito ne occupano avidamente il posto e la materia. Da tempo abbiamo conosciuto questo tendere, che costituisce il nocciolo e l’in sé di ogni cosa, come identico e medesimo con tutto ciò che in noi, dove esso si manifesta con la maggiore chiarezza, alla luce della più piena coscienza, si chiama volontà. Noi chiamiamo perciò il suo impedimento mediante un ostacolo, che si pone tra essa e lo scopo proposto, sofferenza; chiamiamo invece il suo conseguire lo scopo soddisfazione, benessere, felicità. Possiamo anche riferire queste denominazioni ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, più deboli come grado, ma identici come natura. E li vediamo allora presi da perenne sofferenza, senza duratura felicità». (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 56). Questo legame continua a lavorare nell’orientamento verso il senso, quindi a disoccultare motivi di inquietudine ma anche ripresentazioni di controllo e di dominio. L’avvenuta apertura non assegna alla coscienza uno status radicalmente diverso. La diversità è uscita, quello che è rimasto non è diverso per quanto non si possa affermare che quella rottura sia stata senza conseguenze. La situazione relazionale della coscienza fuori dall’accumulazione chiusa, quindi dopo l’apertura, assume l’aspetto circolare. Non arriverà mai a comprendere l’origine radicale dell’accumulazione, ma nemmeno si abbandonerà alle proiezioni sempre più estese e violente della diversità. Continuerà ad alimentare queste due direzioni che corrispondono ai due orientamenti del flusso, un’alimentazione circolare dove le prime conquiste dell’abbandono troveranno modo di essere al più presto tramutate in senso, con estrema facilità, fino alle estreme conquiste del salto nel territorio della cosa che non potranno diventare senso ma, proprio come tensione, saranno lo stesso saldate in un orientamento alfine ricongiunto nella sua interezza di flusso relazionale.

La circolarità che si realizza nella coscienza consente di fare passare nell’avventuroso itinerario verso la cosa un flusso di contenuti che altrimenti resterebbe racchiuso per sempre nell’accumulazione. Il movimento non è continuo, nel senso dell’intensità ci possono essere interruzioni e difficoltà dovute sia ai movimenti ricognitivi che, specialmente agli inizi, risultano ostici per la diversità, sia alle resistenze di controllo esercitate dalla coscienza stessa. Nella circolarità non c’è propriamente un inizio o una conclusione. «L’atto dell’Io – scrive Gentile – è coscienza in quanto autocoscienza: l’oggetto dell’Io è l’Io stesso. Ogni processo conoscitivo è atto di autocoscienza. La quale non è astratta identità e immobilità, anzi atto concreto. Se fosse un che d’identico, inerte, avrebbe bisogno d’altro per muoversi. Ma ciò annienterebbe la sua libertà. Il movimento suo non è un posterius rispetto al suo essere: coincide con l’essere. L’autocoscienza è lo stesso movimento o processo. Come processo originario o assoluto, non ha bisogno di essere alterato. È intima alterità: non essere, ma essere che si ripiega su stesso, negandosi perciò come essere. Una cosa (astrattamente considerata, fissata dell’astrazione) è (sempre quella); ma appunto perciò non è pensiero, cioè autocoscienza. In quell’astrazione non è consentito fermarci, come s’è visto. Appena lo spirito si ferma o pare si fermi, la voce della logica è pronta a gridare: “Qual negligenza, quale stare è questo?”. Bisogna muoversi, entrare nel concreto nell’eterno processo del pensiero. E qui l’essere si muove circolarmente tornando su se stesso, e però annientando se stesso come essere. Qui è la sua vita, il suo divenire: il pensiero. Non c’è pura tesi, né pura antitesi: non essere e non non essere: ma la sintesi, quell’atto unico, che siam noi, il Pensiero. L’essere (tesi) nella sua astrattezza è nulla; ossia nulla di pensiero (che è il vero essere). Ma questo pensiero che è eterno, non è mai preceduto dal proprio nulla. Anzi questo nulla da esso è posto; ed è, perché nulla del pensiero, pensiero del nulla; ossia pensiero cioè tutto. Non la tesi rende possibile la sintesi, ma, al contrario, la sintesi rende possibile la tesi, creandola con l’antitesi sua, ossia creando se stessa. E però l’atto puro è autoctisi». (La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 194-195). Ho necessità di isolare avvenimenti e relazioni che sono comunque tutti continui, ma il passaggio a cui li obbligo, attraverso il campo, rompe provvisoriamente questa continuità e mi permette di fissare limiti fittizi di cominciamento e conclusione che pur essendo illusori sono lo stesso utili come distinzione degli orientamenti. Nella mia costruzione del campo fisso riferimenti strutturali che consentono il procedere ricognitivo, specialmente per quel che riguarda i nascondimenti. Qui le strutture indicate, spesso, sono salvataggi o interruzioni di flussi che minacciavano di bruciare tutto il progetto dimenticando le difficoltà della preparazione al salto. Anche questa fase terminale della ricognizione non posso dirmi sicuro di collocarla al confine del campo. Man mano che mi avvicino ai limiti accessibili questi si spostano, per cui il salto finisce per rappresentare una nuova rottura, sotto certi aspetti simile a quella dell’antica normalità, così come era stata vissuta all’interno della coscienza ordinatrice.

L’impressione del fluire che, con maggiori o minori ostacoli, più di ogni altra si avvicina alla normalità standardizzata dei meccanismi ordinativi ci viene dall’esperienza del campo, dove si colloca l’illusione della irreversibilità. «Oggi ci si può render conto che la concatenazione storica, fatta in verità da legami arbitrari o casuali, secondo cui hanno visto la luce, negli ultimi secoli, le espressioni razionali dell’uomo, porta fatalmente al disfacimento biologico, alla confusione inestricabile dei linguaggi, all’inaridirsi irreversibile dei pozzi della vita. Occorre anzitutto entrare freddamente nello stato d’animo di un’emergenza estrema, di un naufragio fra marosi, e qui comportarsi come il comandante di una nave, che vede prossima la rovina ma intanto può ancora governare il suo bastimento ed è convinto che tutto potrebbe essere salvato. Così stanno le cose per il pensiero umano e per tutto ciò che da esso dipende, cioè la vita futura dell’uomo. Una deviazione, un’inversione forse della rotta possono portare in breve fuori della procella. Ciò che fa bisogno, in ogni caso, è non soltanto la freddezza e la decisione della manovra, la fiducia che abbia ancora senso afferrarsi al timone, quando questo sembra non rispondere più ai comandi, quando sembra addirittura che non vi sia più posto per i comandi, ma altresì la conoscenza della falsità delle rotte tenute sino a questo momento e di quelle che si presentano come inevitabili, e l’intuire l’unica direzione che rimane da prendere». (G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, p. 259). Non appena ci si accosta ai confini del campo, dove il flusso si affievolisce, si sente che l’illusorietà del tempo e dello spazio trasforma realmente questi orientamenti fissi, del tutto logici, in una dimensione analitica com’è quella della logica dell’ “a poco a poco”. Il presente, come la presenza, ha un contenuto solo nell’àmbito del campo, per come appare collocato, insieme alla presenza, nel meccanismo di catalogazione. Non appena fuori della coscienza la rigidità della presenza si capovolge diventando differenza, qualche cosa di più di una semplice contrapposizione o divergenza, qualcosa che è diversità anche sul piano temporale e spaziale. Il vero senso della normalità è l’accumulazione, il luogo in cui si possono sommare e conservare i contenuti, principalmente temporali e spaziali. Il resto, per la coscienza, è diversità critica, la quale si capovolge ancora una volta in normalità non appena diventa, via via col procedere dell’itinerario, autonoma nei riguardi della coscienza, senza per questo negare il continuo rapporto di comunicazione circolare.

Organizzatosi ormai in nuova normalità, la diversità procede per acquisizioni, vittorie sul disordine reale che mantengono un lontano desiderio per l’antico ordine accumulativo. Specialmente nella fase ricognitiva questo antico sogno di controllo globale non è facile a smascherarsi. Ma, al di là dell’abile uso degli strumenti, le vittorie continue dell’adeguatezza, sempre più perfezionata dalle necessità interpretative, non possono concludersi con una sommatoria finale, altrimenti costruirebbero un nuovo regno della costrizione e dell’ordine definitivo. Così Nietzsche: «Si dice, e a ragione, che nella scienza le convinzioni non hanno alcun diritto di cittadinanza: soltanto quando decidono di abbassarsi alla modestia di un’ipotesi, di un punto di vista sperimentale e provvisorio, di una finzione normativa, si può loro concedere l’accesso e persino un certo valore all’interno del regno della conoscenza; ma sempre con la limitazione di essere sottoposte a un controllo di polizia, al controllo della sfiducia. A guardare le cose con maggiore attenzione, però, questo non significa forse che la convinzione può accedere alla scienza soltanto quando smette di essere convinzione? La disciplina dello spirito scientifico, non comincia forse col non permettersi più convinzioni?… Le cose stanno probabilmente così: rimane soltanto da domandarsi se, affinché questa disciplina possa avere inizio, non debba già essere presente una convinzione, così imperiosa e incondizionata da sacrificare tutte le altre convinzioni. Si sa che anche la scienza si basa su una fede, perché non esiste una scienza “priva di promesse”. La domanda se la verità sia necessaria deve aver ricevuto in anticipo una risposta non soltanto affermativa, ma affermativa a tal punto da esprimere questo principio, questa fede, questa convinzione: “niente è più necessario della verità e, rispetto ad essa, tutto passa in secondo ordine”. Questa incondizionata volontà di verità: che cos’è? È la volontà di non lasciarsi ingannare? È la volontà di non ingannare? La volontà di verità potrebbe essere interpretata proprio in quest’ultimo modo: purché la generalizzazione “non voglio ingannare” comprenda anche il caso particolare “non mi voglio ingannare”. Ma perché non ingannare? Perché non lasciarsi ingannare? Si noti che le motivazioni della prima domanda rientrano in un àmbito completamente diverso da quelle della seconda: non ci si vuole lasciare ingannare perché si suppone che essere ingannati sia dannoso, pericoloso, nefasto; in questo senso la scienza sarebbe una lunga astuzia, una cautela, un’utilità, alla quale si potrebbe però opporre un giusto rilievo: come? È vero che non lasciarsi ingannare sia meno dannoso, meno pericoloso, meno nefasto: che ne sapete, a priori, sul carattere dell’esistenza, per poter decidere se i vantaggi maggiori siano dalla parte di chi è incondizionatamente sfiduciato o di chi è incondizionatamente fiducioso? Nel caso però in cui siano entrambe necessarie, molta fiducia e molta sfiducia: donde potrebbe allora trarre la scienza la sua fede incondizionata, la sua convinzione, che è anche il suo fondamento, che la verità sia più importante di qualsiasi altra cosa, anche di qualsiasi altra convinzione? Proprio questa convinzione non potrebbe essere nata se verità e non-verità si fossero dimostrate costantemente come entrambe necessarie: e le cose stanno proprio così. Ma allora la fede nella scienza, che è decisamente incontestabile, non può essere stata originata da un simile calcolo di utilità, ma semmai dal fatto che la “volontà di verità”, di “verità a qualsiasi costo”, si è dimostrata sempre più inutile e pericolosa. “A qualsiasi costo”: lo comprendiamo bene, se abbiamo offerto e sacrificato su questo altare una fede dopo l’altra! Di conseguenza “volontà di verità” non significa “io mi voglio lasciar ingannare” ma – non c’è altra scelta “non voglio ingannare, neppure me stesso”: – e perveniamo così sul terreno della morale. Basti infatti porsi questa domanda di fondo: “perché non vuoi ingannare?”, soprattutto quando dovrebbe esservi la parvenza – e c’è questa parvenza! – che la vita sia costruita sulla parvenza stessa, voglio dire su errore, imbroglio, contraffazione, accecamento, autoaccecamento, e che d’altro canto proprio la grande forma della vita si sia sempre mostrata dalla parte del più irriflessivo polutropoi. Un tale proposito potrebbe forse essere, interpretato benevolmente, un donchisciottismo, una piccola, esaltata pazzia; potrebbe però essere anche qualcosa di peggio, ovvero un principio distruttivo ostile alla vita… “Volontà di verità”: potrebbe essere una celata volontà di morte. Così la domanda “perché la scienza?” ci riconduce al problema morale: perché mai una morale, se vita, natura, storia sono “immorali”? Non c’è dubbio che il vero, nel senso temerario e ultimo della parola presupposto dalla fede nella scienza, affermi un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e nella misura in cui esso afferma questo “altro mondo”, come? Non deve di conseguenza negare il suo contrario, questo mondo, il nostro mondo?… Eppure si sarà capito dove voglio spingermi, cioè ad affermare che anche la nostra fede nella scienza si basa sempre su una fede metafisica; che anche noi uomini della conoscenza di oggi, noi senza dio e antimetafisici, traiamo sempre il nostro fuoco dall’incendio appiccato da un millennio di fede antica, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone per cui Dio è la verità e la verità è divina… Ma come, se questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino tranne l’errore, la cecità, la menzogna, – se Dio stesso si rivela come la nostra menzogna più lunga?». (La gaia scienza, V, 344). Da qui la sconfitta finale come garanzia di libertà. Nel territorio della cosa è proprio la semplice visione del dispiegamento relazionale che annulla l’intenzione conservativa delle acquisizioni ottenute. In caso contrario, quelle acquisizioni si solidificherebbero in una nuova accumulazione e non potrebbero più concorrere a saldare il flusso tra tensione e senso. È proprio nella ricognizione interpretativa che il senso accumulato viene riscoperto nella fase di avvicinamento e impiegato, con opportuni mascheramenti, in vista del raggiungimento della tensione. La diversità lavora sempre col materiale dell’orientamento verso il senso, ma duplicandolo con continui accostamenti all’orientamento verso la tensione che nei primi movimenti risulta in ogni caso estremamente affievolito. Bisogna ricordare qui, e anche precisare, che la divisione dell’orientamento, nel momento in cui matura, presenta un forte contenuto e una debole tensione, man mano che gli orientamenti si divaricheranno il senso andrà ad affievolirsi e la tensione a intensificarsi.

La normalità reale è quindi il movimento della totalità delle relazioni per come appare considerandolo dal punto di vista della coscienza che si pone come intermediaria tra l’ipotesi interna del campo e l’insieme complessivo della realtà. L’accumulazione riesce in questo modo a diventare elemento della proiezione verso la cosa una volta che viene filtrata dall’apertura e senza che su di essa intervenga nessun elemento esterno a turbare il processo accumulativo stesso. In un certo senso è la circolazione di ciò che è morto che può così ridiventare vivo, entrando affrettatamente nella diversità. Le condizioni di questa fretta sono quelle imposte dal movimento di apertura che non corrisponde al ritmo dell’orientamento verso il senso, anzi se si rapporta a questo appare ancor più nella sua effettiva dimensione di rottura.

L’abbandono non precipita semplicemente verso la cosa. L’elemento dell’apertura non è una cosa, anzi è proprio l’antitesi della cosa, se questa figura potesse significare un movimento vero e proprio e non una semplice relazione fittizia. Non essendo la cosa non può dispiegarsi, ma deve procedere smontando gli aspetti semplicemente fattuali. L’attività diversa non può ripresentare i medesimi aspetti della fattività interna all’accumulazione del senso. Nella fase iniziale, quindi di netta preminenza della diversità, quest’attività non sarà ancora trasformazione, ma semplice interpretazione. Si tratta di un cambiamento che si verifica all’interno dell’effettualità, cioè proprio nella vita concreta dell’individuo e non semplicemente nel suo modo di vedere le cose. È la fisicità che cambia, il desiderio sessuale, ogni tipo di desiderio, i bisogni, i progetti concreti, le fantasie, i sogni, le speranze. Elementi del senso fuoriescono dalla coscienza e vengono inseriti in un tessuto nuovo dove diventano parte di un nuovo gioco, un gioco complesso che ricostituisce la sensibilità, la percezione, la corporeità. Il territorio della ricognizione è antecedente a quello della cosa, ma è costruito interamente dalla diversità operativa, che pilota la nuova intenzione verso il progetto di conquista della tensione.

La fase interpretativa che si realizza nella ricognizione si contrappone ai processi accumulativi anche per una minore capacità di farsi capire. Qui tutto diventa più sottile e sfumato. La diversità, una volta catapultatasi fuori dalla coscienza cessa di essere rumorosa, di essere visibile con facilità. Il senso forniva alla coscienza condizioni che si potrebbero definire esterne, cioè le medesime dell’accumulazione. Tutto quello che la coscienza realizzava in nome delle verifiche analitiche o delle conservazioni di controllo era fatto in modo visibile. La normalità stessa non avrebbe il significato e la forza che possiede se fosse occulta, se dovesse essere interpretata. Un comportamento immediatamente coglibile caratterizza tutto lo stile accumulativo, coscienza compresa, così come caratterizza qualsiasi struttura, la quale trasmette all’esterno il proprio senso sulla base di relazioni che vogliono essere schematiche ma chiare. Ciò accade anche per la cosiddetta struttura della coscienza, per quanto il sottile scavo condotto dall’inquietudine, del tutto interno a questa esteriorità, ci deve fare concludere che nella coscienza assistiamo a movimenti di natura non uniforme. Ma nella diversità vera e propria, specialmente nella diversità operativa, cioè nella fase di interpretazione, l’esteriorità stenta a ricostituirsi, anzi la vediamo man mano affievolirsi fino a scomparire in termini concreti. L’interiorità che la sostituisce caratterizza la nuova ricerca, una scelta connaturata all’itinerario discreto e schivo di avvicinamento alla cosa. Il lavoro interpretativo non ha risposte immediate, non sappiamo mai se stiamo andando nella giusta direzione, come non sappiamo nemmeno se c’è una giusta direzione. Ancora Nietzsche: «Chi sia giunto anche solo relativamente alla libertà della ragione, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante, – anche se non un viaggiatore diretto verso un’ultima meta, che non c’è. Ma egli ben vuole guardare, e tener gli occhi aperti su tutto quel che veramente accade nel mondo; per questo non gli è consentito unire troppo strettamente il suo cuore a nessuna cosa particolare; dev’esserci in lui stesso qualcosa di nomade, che gioisca del mutamento e della provvisorietà. Certo, per un tale uomo giungeranno cattive notti, in cui sarà stanco e troverà chiusa la porta della città che dovrebbe offrirgli riposo; e forse, oltre a ciò, il deserto giungerà sino a quella porta, come in Oriente, e gli animali da preda urleranno ora lontano ora vicino, e si leverà un forte vento, e i ladri gli ruberanno le bestie da tiro. Allora la notte terribile calerà per lui sul deserto come un secondo deserto, e il suo cuore sarà stanco di peregrinare. Ma quando si leverà il sole del mattino, rosseggiante come una divinità della collera, la città si aprirà, e nel volto degli abitanti egli vedrà forse ancor più deserto, sporcizia, inganno, insicurezza che davanti alle porte – e il giorno sarà quasi peggiore della notte. Questo potrà ben succedere una volta al viandante; ma poi giungeranno a ricompensarlo i gioiosi mattini di altri paesi e di altri giorni, in cui già nel grigiore della luce egli vedrà passar danzando accanto a sé, nella nebbia dei monti, gli sciami delle Muse, e in cui poi, quando silenzioso, nell’armonia mattutina dell’anima, egli passeggerà sotto gli alberi, dalle vette e dai recessi delle fronde gli cadranno intorno solo cose belle e chiare, dono di tutti quegli spiriti liberi che stanno sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, come lui, nel loro modo ora gioioso ora meditabondo, sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri dell’alba, essi meditano come mai il giorno possa avere, tra il decimo e il dodicesimo tocco, un volto così puro, così trasparente, così serenamente radioso: – essi cercano la filosofia del mattino». (Umano, troppo umano, I, 638). Tutto avviene in silenzio, il territorio della ricognizione non dà segni di vita. Proprio adesso che siamo finalmente entrati nella vita vera e propria, ad accoglierci c’è un mutismo generale, una ritrosia e una discrezione che fanno terribile contrasto con il rumore e la faziosità della raccolta del senso.

Ma non sono muti i fatti, siamo noi che non riusciamo a cogliere la loro voce, a interpretare i loro silenzi, le loro attese pazienti, i percorsi ingannevoli, le facciate uniformi, i colori, i suoni, le parole, i pensieri, i ricordi che scendono attraverso un velo di pudore che intende farceli vedere per quello che essi sono in realtà, nella loro realtà relazionale, non inseriti in un meccanismo che li sta rielaborando producendo altri fatti appositamente codificati. Siamo davanti a una nuova normalità che non riusciamo a cogliere. C’è silenzio perché le nostre orecchie sono assordate, non perché i fatti siano muti e tacciano veramente, oppure perché siano privi di contenuto, di senso. Questi fatti ci appaiono però traditori in quanto il loro senso, che pretenderemmo identico al precedente, adesso ci sfugge.

Imparare, con modestia, a lavorare nella solitudine della diversità, debbo ammettere che non è facile. Ogni pensiero, ogni parola, ogni fatto, adesso, devono essere considerati per il loro contenuto effettivo, non solo per quello che riuscivano a contenere in un meccanismo estraniante di riorganizzazione. Ecco, allora, che scopriamo vuoti dove prima c’erano evidentissimi pieni, scopriamo ricchezze e pienezze dove prima c’erano soltanto vuoti imposti dai processi di controllo. L’esterno produceva distorsioni che ora possiamo correggere dall’interno, ma dobbiamo procedere con cautela. Potremmo non capire la differenza e pretendere di imporre al nuovo interno una gestione di significati identica al vecchio esterno. Infatti, in quella passata situazione, dove la coscienza soprassedeva alla nostra esteriorità e quindi ci costringeva a un abbraccio corroborante, in fin dei conti salvifico, venivamo esteriorizzati noi stessi in quanto oggetto di produzione di senso. Nella nuova situazione siamo noi che dobbiamo esteriorizzare restando all’interno, gestendo dall’interno la forza di penetrazione interpretativa del senso, utilizzandola come propulsione e proiezione. Se dovessimo fare confusione, principalmente per paura, per rifiuto del coinvolgimento, distruggeremmo le capacità operative e, in potenza, trasformative della diversità, mischieremmo due condizioni abbassando le potenzialità della nuova alle ripetitività della vecchia.

Resta da vedere se la diversità sia realmente capace di gestire questo silenzio o se non si lasci frastornare proprio dall’assenza delle condizioni a cui era abituata nell’esteriorità. Il problema non è secondario, specie nel momento in cui si sta per costruire un nuovo concetto di normalità. Estromessa quest’ultima potrebbe considerarsi come confinata a forza in un limbo negativo, in una sorta di camera ovattata ma blindata, priva di comunicazioni con l’esterno. Il silenzio, come tutte le presenze flebili, deve essere cercato, non viene a cercarci che con tracce spesso non facili a capirsi. In una condizione come quella accumulativa, il rumore potrebbe anche avere condizionato il processo di rottura da cui si origina la diversità, sottraendo definitivamente a quest’ultima quell’intenzionalità esplorativa su cui si baserà tutto il suo lavoro futuro. Molte esperienze attuali fanno pensare che qualcosa del genere possa essere successo, per cui il silenzio diventa o sta per diventare sempre più difficile da capire, da valutare e quindi da interpretare. Un mondo terribilmente affollato svuota di senso la solitudine, anzi le conferisce un sottofondo quasi rumoroso di paura uniforme e grigia, uno steccato confinario di separazione da tutto quello che non si può ricondurre immediatamente al codice dominate.

La nuova normalità porta con sé un altro elemento dirompente, quello che le viene dal progetto di rielaborazione del senso, di ricognizione in vista di una prospettiva. L’antica sovrapposizione infinita qui si distende in una frazione di circolarità nuova, quella che si andrà a ricongiungersi a suo tempo con il flusso ricostituito nella sua interezza di senso e tensione. C’è in questo nuovo silenzio il sentimento della lontananza da percorrere, l’intuizione di un vasto territorio da esplorare, da sciogliere come un enigma complesso, l’illuminazione improvvisa di essere prudenti di fronte ai successi e alle acquisizioni, il sospetto che in prospettiva ci sia la possibilità, questa volta positiva, di una sconfitta individuale proprio nel momento della saldatura del flusso. Il silenzio testimonia di questo sentimento della sconfitta attraverso una evoluzione della sensibilità che acquisisce sospetto riguardo un utilizzo immediato del senso, una riduzione sia pure indiretta ai bisogni della modificazione. Ciò causa increspature nuove che ridondano le vecchie inquietudini esterne, le inquietudini originarie, ma che sono diverse perché non rimandano a una diversità in nome di una normalità, ma rimandano a una normalità in nome di una diversità, una normalità progressiva, progettuale, capace di precisarsi nell’interpretazione.

La diversità si propone insomma come metodo poggiante sulla logica del “tutto e subito”, per cui non può accettare le acquisizioni progressive ma, com’è naturale, ogni sua modificazione sarà frutto di un intervento complessivo che la porterà al livello vero e proprio della interpretazione. L’oscurità stessa di una gran parte del suo operare, l’osservanza interiorizzata di alcune necessità esterne del senso, che almeno agli inizi la faranno sembrare tutt’altro che oppositiva alla coscienza, la timidezza che fa riferimento costante al silenzio, non riescono a fermare la radicale capacità di sovvertimento che è insita nell’apertura stessa e nell’abbandono. In questa forza interna sta il segreto della discrezione che si contrappone alla grande fanfara accumulativa, ed è questa modestia a sconvolgere il progetto della coscienza. Il lavoro, da questo momento, si dipanerà al riparo delle regole della catalogazione, al riparo dell’evidenza, in una sotterranea ma ferma messa sotto accusa dell’efficienza. I progressi stessi di questo lavoro saranno continuamente sottodimensionati, frantumati in zone di non facile comprensione, di oscurità, di ricerca dei limiti e delle possibilità della struttura. Questa ricerca, insistente e a volte monotona, produce continue evoluzioni, riflessi, rimandi, duplicati, triplicati, come in un gioco di specchi. Un’idea singola non si salva. Viene spezzata in sovrapposizioni che ne impediscono le iniziali pretese di centralità. Ciò è molto importante per la struttura, che conserva nella propria pretesa armonia una volontà architettonica erede dell’antica pretesa del controllo e del dominio. Il percorso non cede alle emozioni della scoperta ma non abbandona il gusto e lo stile della stessa emozione, l’acutezza limpida dell’occhio penetrante, l’analiticità sovvertita in sguardo globale, la complicazione sciolta in serie difficoltà, non in cancellazioni rudimentali in nome di una preziosa ma controproducente chiarezza.

La straordinarietà dell’impresa consiste proprio nella mancanza di un modello cui rifarsi. La diversità diventa normalità ma resta la normalità di un percorso imprevedibile. Le formule del controllo analitico qui non possono essere applicate. Si va avanti spinti dall’ossessione per una coerenza differente che non si limiti agli aspetti esteriori, a esempio alla ripetitività. Un approfondimento verso l’obiettivo originario, verso la forma come archetipo della qualità, come misura e sostanza della vita. Un sentiero che bisogna trovare quasi alla cieca, abbandonandosi e studiandosi, concedendosi e frenandosi nella coerenza dei desideri individuali e nella profondità della natura. Per arrivare a ciò bisogna incidere in modo differente su diverse strutture, adattando il linguaggio, deformando il senso, spezzando l’equilibrio dei significati, rapportandosi in maniera adeguata con la realtà, avvolgendo ogni nuova relazione in una rete di deduzioni, di intuizioni, di spiegazioni, duplicando questa rete, triplicandola, ecc., fin quando tutta la conoscenza viene resa vibrante e capace di produrre nuove indicazioni, liberata da quella ormai lontana immobilità del senso.

Poi il linguaggio tende ad affinarsi, a diventare chiaro, plastico, non per raggiungere spiegazioni più essenziali, ma per internarsi di più nella realtà in modo questa volta più costruito, fino ad arrivare alle soglie del salto, fino al punto di cogliere la potenza della forma. Talvolta, anche prima del salto, un movimento carico di significato viene fuori come un dono improvviso, un’offerta dell’orientamento verso la qualità. Dal momento dell’apertura c’è questa presenza collaterale, discreta e vicina nello stesso tempo, che ha contatti con il lavoro ricognitivo attraverso delle brevi intuizioni, simili a frecciate dolorose, ad aculei che entrano nella carne e sommuovono intenzioni mai conosciute, desideri realmente inesplorati, forse nemmeno immaginati. Il ritmo della proiezione viene così allargato fino a comprendere tutte quelle cose che di solito mettevamo da parte nella classificazione rigida a cui eravamo abituati. Cose più importanti, opponibili al ragionamento, cose meno importanti, lasciate al fluire indistinto della sensualità. Ci accorgiamo che nella dimensione ricognitiva, quasi fin dall’inizio, questa divisione non è più possibile, almeno non in modo così rigido. La sensualità penetra le cose di tutti i giorni, essa fa parte della vita, diventa elemento del contenuto, anzi si scioglie in questo contenuto spingendoci a capire come le nostre operazioni di sicurezza, di accertamento e distinzione, non erano che paure concretizzate in comportamenti analitici.

Senza dubbio siamo davanti a una condizione eccessiva, come un sentimento sconosciuto che non solo non controlliamo ma da cui ci sentiamo controllati, condizione che tende a diventare ancora più eccessiva, per cui, almeno agli inizi, tutto il nostro coraggio rischia di annegare soltanto nello sforzo di mantenersi nella differenza, altro che attesa del desiderio o della qualità. Poi l’abbandono comincia a sciogliersi nello stesso gorgo inquietante delle sensazioni che si traducono sorprendentemente in conoscenze precise, seppure diverse da quelle che controllavamo nella esteriorità della coscienza, ben nascoste nelle pieghe dei progetti di controllo. Cominciamo normalmente a cogliere aspetti della realtà che prima conoscevamo come stranezze e, in quanto tali, le avevamo catalogate nel grosso capitolo delle eccezioni alla logica dell’ “a poco a poco”. Di questa nuova sontuosità sconosciamo comunque gli aspetti immediatamente utilizzabili. Lo splendore dei colori, a esempio, la vibrazione di un suono, racchiusi in scansioni matematiche nella dimensione precedente, adesso hanno una vera e propria utilità? Non possiamo saperlo, quello che accade diventerà intelligibile soltanto in seguito, e non nella sua complessità. La sontuosità di oggi, anche nei suoi aspetti di farragine non districabile, sarà sostegno parziale al processo di avvicinamento alla cosa, ma per il momento è là, in una dimensione di dilagante spreco, assolutamente sconosciuta nell’àmbito della precedente normalità. Certo, quest’antica normalità cercherà di interferire presentandosi come capacità normativa e fondandosi sulla forza regolativa del senso, per cui capiremo spesso che lo splendore di un colore non è altro che un colore splendente, ma ciò non sposterà di molto le reali condizioni in cui ci siamo venuti a trovare. Lo splendore, la sontuosità, la ricchezza di cui sto parlando, nascono dall’abbandono dell’accumulazione che tutto appiattiva nella unidimensionalità del catalogo. La rottura della diversità viene quindi capita meglio, approfondita essa stessa in quanto rottura. Non si tratta di qualcosa che viene lasciato dietro le spalle, un abbandono all’indietro. L’abbandono, come ormai abbiamo chiarito ampiamente, avviene in avanti, verso l’interiorità di ciò che si è dischiuso con la rottura stessa. Ecco perché ho parlato di apertura, nel dare una valutazione a questa rottura, proprio perché a volte può assumere la dimensione violenta di una frattura, come altre volte può assumere la dimensione pacata e cosciente di un dischiudere dolcemente una porta, di uno scostare delicatamente una tenda, un velo che nasconde e non nasconde, un lieve scarto dalla certezza all’incertezza.

[1967], [1982], [1992]

 

(Prima edizione: “Studi e ricerche”, novembre 1968
Seconda edizione: maggio 2003
Pensiero e azione n. 1)