Lettere dal Carcere ( Fonte: Liberarsi dalla necessità del carcere – 1992/1999/2000/2001)

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Estate 1992: l’Isola di Pianosa

Ormai da parecchie ore mi sono addormentato, ad un tratto mi sveglio di soprassalto, alcuni secondini hanno aperto la porta blindata ed il cancello, entrano in cella, circondando la branda e mi dicono: “Alzati, devi partire”. “Per dove?” Un secondino, con la mano destra, mi prende per i capelli tirandomi fuori dal letto, un altro mi da un pugno dall’alto verso il basso sul collo.

Cerco di difendermi. Mi si buttano tutti e sei addosso con pugni e calci, riesco a dare qualche pugno, cado per terra, mi rialzo, cado per terra, mi rialzo di nuovo finché ricado per terra per non avere più la forza di rialzarmi. In faccia sono una maschera di sangue, non ho detto una parola, né un lamento, si sono sentite solo le grida dei secondini. Mi portano all’ufficio matricola, ancora tutto stordito mi vengono messi i tre pizzi (manette), salgo su un furgone blindato. Vengo fatto scendere all’aeroporto militare. Non chiedo nulla di dove mi stanno portando e dove sono i miei vestiti. Infatti, l’unico vestiario che ho il pigiama che indosso ed un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Sono fatto salire su un elicottero militare, un rumore assordante, non mi è stata data la cuffia. Dopo molte ore atterro nell’isola di Pianosa e ci sono una trentina di secondini, carabinieri e finanza.
È il 22 luglio 1992, ore 19.20, un caldo insopportabile. Finalmente, viene spento l’elicottero, una liberazione per le mie orecchie, ancora tutto stordito sono fatto scendere. Appena metto i piedi a terra alcuni secondini mi danno pugni e calci, sono preso di peso come un fiammifero e poi vengo lanciato dentro una jeep, sbatto la testa sulla sbarretta del bracciolo del seggiolino, le manette mi vengono messe ancora più strette, bloccandomi il passaggio del sangue dei polsi. Mi danno un pugno sulla testa gridando: “Abbassa la testa, bastardo”. Dopo cinque minuti di strada mi fanno scendere con uno spintone, cado per terra, per istinto mi porto l’avambraccio al viso riparandomi, sono sollevato di peso con schiaffi e calci, fatto entrare in un fabbricato e messo in una cella d’isolamento, tre metri per due, una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro, sopra un rubinetto con acqua salata non potabile. L’isola di Pianosa è sprovvista d’acqua dolce, è portata sull’isola dalla nave cisterna che la preleva da Piombino. Per bere si consuma acqua minerale imbottigliata. La direzione passa solamente un litro ogni giorno, l’altra la dobbiamo comprare da noi se non vogliamo patire la sete.
A fianco del lavandino c’è il gabinetto alla turca, a destra una mensola di ferro saldata al muro, a terra nel mezzo un seggiolino.
I muri pieni d’acqua formano alcuni canaletti, che conducono fino al pavimento l’acqua come per i campi delle risaie. Mi viene ordinato di spogliarmi, rimango nudo, fatto abbassare a quattro piedi, mi vengono allargate le chiappe del sedere per guardare meglio nel buco, mi fanno aprire la bocca, alzare la lingua per ispezionare bene la bocca, mi guardano persino le orecchie e i fori del naso. Ad un tratto si scagliano di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio dura alcuni minuti lunghi come un’eternità, svengo, riprendo i sensi con una puntura fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclama: “Ma come è ridotta questa persona?” Il suo lavoro (perché è obbligata) è di far finta di nulla, infatti, nel certificato per la medicazione scrive: “Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte scivolando in cella”: Mi è imposto di firmare che sono caduto da solo e vengono lasciato per alcuni giorni in cella d’isolamento, un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto con dentro cicche di sigarette e pezzettini di vetro. Spesso entrano in cella con la sbarra per battere le sbarre, mi ordinano di stare dritto e di abbassare la testa, di guardare per terra, con le mani dietro la schiena e sono costretto a salutare senza ricevere risposta sia all’entrata dei secondini e sia all’uscita per quattro volte al giorno. Mi è consegnato un documento che mi è stato applicato il 41 Bis. Tutti questi maltrattamenti, queste umiliazioni così crudeli, hanno uno scopo ben preciso: far dire ai detenuti, sotto le torture, le falsità (che per loro sarebbe la Verità): Dopo diversi giorni in cella d’isolamento sono condotto nel reparto “A”, terza sezione, primo blocco, cella numero tre. Trovo un detenuto. Questa cella ne può ospitare tre con le brande ben saldate al suolo.
A due metri d’altezza dal pavimento si trova una bilancetta per conservare la biancheria. In un angolo saldato al muro vi è un televisore bianco e nero, per terra una panca di ferro lunga due metri per 50 cm e un tavolo, tutto bloccato col cemento. Il detenuto che c’è dentro si chiama Salvatore ma si fa chiamare Turi, è un mio concittadino anche lui di Catania. Turi mi offre alcune brioche, uno dei pochi alimenti che ci permettono di acquistare, più che altro questo serve ai secondini per divertimento sui detenuti. Accetto con piacere per fame, sono dimagrito di cinque chili.Turi mi dà un paio di pantaloni, una maglietta, alcuni boxer, le scarpe non me le può dare perché ogni detenuto ne può avere solo un paio. Per la prima volta al mio arrivo nell’isola mi è finalmente data la cena, un pezzo di mortadella e un pezzettino di frittata. In seguito mi sono accorto che la domenica è il giorno più sicuro per consumare la cena, all’apparenza si presenta senza scorie, diversamente dal pranzo dove si trova sia nella pasta sia nel secondo un po’ di tutto tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi. La carne non si vede mai. La tabella ministeriale del vitto non rispecchia assolutamente ciò che viene distribuito. Dove vanno a finire i soldi stanziati per il vitto? Un gran mistero!…Si accende il televisore e dopo qualche minuto viene il secondino e ordina di abbassare il volume. Turi, con gran pazienza esegue l’ordine, dopo alcuni minuti viene lo stesso aguzzino facendo la medesima richiesta, era solo una scusa per insultarci, visto che il volume era al minimo. Turi fa finta di abbassarlo e il segugio va via soddisfatto. Le guardie vengono sull’isola a rotazione un mese o due al massimo, alcuni firmano per molti mesi dato che la paga è molto più alta, inoltre si arrangiano con la merce che rubano ai detenuti, francobolli, sigarette, bagnoschiuma, shampoo etc. I pacchi delle brioche sono aperti per prendersi i punti dei regali che le case dolciarie danno. Volendo, la Ferrero potrebbe confermare. Il vino e le birre sono le prime cose che rubano appena dopo qualche minuto che sono state messe nello stiletto, fuori della cella. Pochi poi erano i secondini non ubriachi, la maggioranza canticchiava la stessa canzone (Faccetta nera). Per me non era una novità, infatti, già sapevo che le forze dell’ordine battono a destra. Di notte si dorme poco o niente per colpa di questi indegni individui perennemente ubriachi, che marciano sbattendo gli scarponi sopra il tetto delle nostre celle ove di solito camminano, spesso giocano con le scatole vuote dei pelati di latta urlando e schiamazzando. Finito di schiamazzare sul tetto entrano in sezione, aprono gli spioncini e c’insultano pesantemente. Alla mattina non conviene prendere il latte o il caffè perché ci viene versato addosso. Quando si va all’aria si deve salutare e mettersi di fronte al lato della cella con il viso al muro, mani e braccia aperte, gambe divaricate al massimo come un piccolo ponte con la testa abbassata; un secondino come tutti gli altri con un cappuccio in testa e con i guanti e manganello, ci tasta su tutto il corpo, ci fa girare facendoci aprire la bocca, dopo colpi di manganello che piovono da tutte le parti, più si corre e meglio è; e così si arriva al passaggio: il corridoio è pieno di secondini incappucciati che tirano manganellate da tutte le parti e si divertono ingiuriandoci con frasi oscene d’ogni tipo, finché si arriva ai cancelli del passaggio chiuso. Allora bisogna fermarsi. Altro pestaggio, poiché non puoi correre ma devi aspettare che il secondino, il quale ritarda apposta, apre il cancello. Vedendo ciò un giorno non voglio andare al passeggio, allora i segugi entrano in cella e mi si scagliano addosso: è un massacro, un pestaggio così l’ho visto solo nei film del terrore. Quasi svenuto sono preso di peso e trascinandomi mi portano al passeggio. Turi mi si avvicina mentre sono disteso per terra, il secondino gli grida di non avvicinarsi. Era proibito parlare con altri detenuti. Rimango per terra sotto il sole per un’ora, finita l’aria i secondini mi prendono e sempre trascinandomi per 100 metri vengo portato in infermeria.
Messo sul lettino di visita, il dottore non dice nulla, fa solo il certificato con la richiesta delle lastre, il viso è una maschera gonfia, il naso è rotto, il corpo pieno di sangue e lividi, sono irriconoscibile, le pupille degli occhi coperte dal gonfiore delle sopracciglia e dalla carne del viso, il labbro rotto e gonfio, il dottore non sa cosa dire e cosa fare. Il comandante dei secondini con un sorriso: “Non si preoccupi questi mafiosi di merda, uomini senza onore e senza dignità, non sono nulla, solo con i poveracci sono malandrini, con noi guardie sono vigliacchi, ruffiani, tremano appena ci vedono, anzi fuori ci offrono il caffè, gente vile senza neanche una briciola di dignità. Fra di loro, se un poveraccio si dimentica di salutarti, questo è già morto. A noi invece ci fanno un pompino, li trattiamo da animali, poi gli tocchiamo l’onore, offendiamo le loro famiglie, mogli, figli e cosa fanno? Ci leccano i piedi, questi sono i mafiosi di merda”. A questo punto vengono giù tante risate offensive da parte dei suoi scagnozzi.
Incomincio a muovere le dita, mi sto riprendendo, il dottore mi chiede come mi sento, se ho sintomi di vomito. Non gli rispondo e il dottore intuisce che non lo faccio per paura di altre botte.
Vengo portato in cella, per alcuni giorni come pestaggi vengo lasciato tranquillo ma non certo come insulti, con sforzo mi devo alzare quando entra la battitura delle sbarre. Per Turi il discorso è diverso, è bastonato, umiliato ogni volta che esce per andare al passeggio. Appena sto meglio giù altre botte, tutto questo dura 51 giorni. Questi pestaggi avvenivano dalle quattro alle otto volte al giorno. Alla notte ci veniva buttata acqua calda con una pompa, portando i detenuti più anziani allo svenimento causa l’afa.
Bisognava alzarsi per pulire la cella, raccogliere l’acqua da terra perché era tutta allagata. Dopo 51 giorni, viene a visitare il centro di tortura l’Onorevole Tiziana Maiolo, sull’isola, i detenuti da pochi minuti erano stati bastonati. L’Onorevole chiede di visitare le sezioni, invece il comandante le vuole far vedere soltanto le strutture. La Maiolo insiste a voler vedere i detenuti, un vice maresciallo come se capitasse lì per caso, rivolgendosi alla Maiolo l’avvisa che fra poco si alza il mare e se non va via subito non può partire perché col mare grosso la vedetta non parte e nell’isola non ci sono alberghi né pensioni. L’Onorevole parte, ma vede il mare piatto come una tavola. Quindi una volta giunta a Piombino va direttamente al comando della guardia di finanza e chiede se nelle ore a venire ci sarà il mare mosso. Gli addetti lo escludono nei modi più assoluto. La Maiolo si chiede il perché hanno cercato la scusa per mandarla via e cosa succede lì? Qualcosa tramite gli avvocati le era già arrivato all’orecchio. Infatti, anche gli avvocati che avevano chiesto il colloquio con i propri assistiti, per un mese erano stati negati i permessi per incontrarli. Dopo alcuni reclami tale permesso era stato accordato dal Ministro dell’Interno e da quello di Giustizia. Un’avvocatessa era andata a Pianosa per un colloquio con il suo assistito, la fanno aspettare fuori dalla cinta sotto il sole cocente. Chiede un bicchiere d’acqua e le viene rifiutato, dopo ore viene fatto entrare, è perquisita, spogliata nuda. Ha cercato di protestare, ma la secondina le sta per mettere addosso le mani. L’avvocatessa intuisce l’antifona e se ne sta zitta. Le viene tolto l’assorbente, dopo un’ispezione nei minimi particolari è fatta vestire, dopo altre ore di attesa finalmente può parlare col suo assistito. Non riesce a dire nulla, è sconvolta, si scusa, le racconta i maltrattamenti subiti: “Io non vengo più qui, mi dispiace, dopo ci vediamo al processo.” Il detenuto non le dice nulla di quello che lui subisce qui. L’avvocatessa ha capito guardando il suo assistito, che presenta segni di pestaggi sul viso e ha gli occhi neri e gonfi. L’indomani, l’Onorevole Maiolo telefona al Ministero per farsi autorizzare a visitare i detenuti, questo a sua volta ordina agli aguzzini di riportarla a Pianosa e di farla parlare con i detenuti. A malavoglia viene accompagnata dal comandante e dal vice sceriffo. Entra nella prima sezione, si ferma ad ogni cella, chiede come stanno e se ci sono problemi. Nota negli occhi e nel viso la paura, sono terrorizzati, ma la paura è troppo forte, se fosse stata da sola avrebbe avuto il coraggio di chiedere aiuto. Accanto a lei ci sono tutti i secondini con i loro capi, che con sguardi di minacce gelano i prigionieri; la paura e il terrore sono in loro i padroni assoluti. I secondini avevano carta bianca. Alla fine l’Onorevole si ferma nella mia cella e mi chiede come sto, rispondo: “Male, sono bastonato minimo dalle quattro alle otto volte al giorno”. Mi alzo la maglietta e la Maiolo rimane di ghiaccio, mai in vita sua aveva visto un corpo così martoriato. Il comandante diventa giallo in viso, cerca di affermare che il detenuto è un po’ malato di cervello e che gli ematomi se li è procurati da solo. La Maiolo è piena di rabbia, chiede di aprire il cancello, vuole parlare da sola con me. Il capo degli aguzzini si rifiuta categoricamente, la Maiolo urla, lo stesso fa il comandante che la vuole intimorire. Dopo un batti e ribatti il maresciallo cede ordinando al secondino addetto alla sezione di aprire la cella e parla con me. Io le racconto tutto, la Maiolo rimanendo sbalordita, prende nota di tutto quello che dico. Dopo che l’Onorevole era andata via entrano i secondini in assetto di guerra, sono in otto, entrano gridando frasi oscene, io e il mio compagno veniamo colpiti a colpi di coda elettrica, sono sollevato, sbattuto nelle pareti, il sangue mi scorre mentre loro ridono. Da terranno riesco ad alzarmi, il mio sguardo cercava il mio compagno di cella, egli giaceva immobile, credevo fosse morto. Ad un tratto spunta una pompa davanti alla porta, esce acqua salata, con tutta la sua potenza vengo sbattuto in un angolo, l’acqua salata bruciava le ferite. Dopo la visita della Maiolo, le torture erano un po’ diminuite ma le iene continuavano a divertirsi. Molte volte i secondini prendevano il secchio con acqua, shampoo e detersivo, preso dai detenuti, facevano un miscuglio e lo buttavano nel corridoio in modo da far diventare il pavimento molto scivoloso per i detenuti che andavano a passeggio, per far sì che cadessero. Un certo Zio Paolo, uomo anziano, batté al cancello con la testa aprendosi il cranio, i secondini gli urlano di alzarsi e di continuare a correre. Quel poveretto non riusciva ad alzarsi finché i secondini non lo presero a calci…
Un giorno mi preparo per la doccia e chiedo alla guardia il bagnoschiuma e lo shampoo; -“Qui non c’è nulla, stronzo, chi vuoi prendere in giro?”- mi risponde. Gli assicuro che me l’avevano consegnato il giorno prima. Il secondino tutto arrabbiato per intimorirmi mi dice:-“Come ti permetti? Cosa vuoi affermare che ti è stato rubato? Stronzo”: Sul mio viso arriva uno schiaffo e sbatto la testa contro il muro fino alla doccia.
Una mattina, mentre mi trovavo al passeggio, vengo chiamato dal vice sceriffo, dopo le manette vengo fatto salire in una jeep, mettono in moto e usciamo. Mi ordinano di tenere la testa abbassata. Ad un tratto il vice impugna la pistola e mi dice: “Stai per morire!” Mi punta la pistola nella tempia a destra. Non ho battuto ciglio, certamente la paura c’era ma non potevo fare nulla. In quel momento pensavo alla mia famiglia quando sento il grilletto girare a vuoto… una finta esecuzione con le risate dei secondini. Come se non bastasse mi dice: “Ora scappa corri per la campagna”. Io con la testa faccio segno di no.
Un aguzzino mi dà uno schiaffo e urla: “Scappa” io non mi muovo. Prendono una corda la mettono tra le mie manette e la legano alla jeep, mettono in moto e mi tirano dietro, cerco di correre il più forte possibile ma non posso farlo più forte della jeep, finché con un piede entro in una buca, perdo l’equilibrio, cado e sono trascinato per circa 100 metri con risate e divertimento dei maiali…
Dopo alcuni giorni da questo fatto, prima di andare all’aria, all’improvviso durante la perquisizione mi arriva un pugno che mi colpisce il fianco destro. D’istinto mi muovo, non l’avessi mai fatto, mi danno pugni e calci in ogni parte del corpo. Dopo cinque minuti di pestaggio il brigadiere ordina agli aguzzini di smettere e mi portano alle celle di punizione. Dopo tre giorni vengo chiamato dalla Direttrice, aveva occupato il posto del suo predecessore. Dopo mesi tutti si davano il cambio, dopo che con immane sadismo si erano divertiti sui poveri detenuti. Dentro l’ufficio, ella mi comunica che mi era stato fatto rapporto, mentre mi stavano perquisendo mi ero mosso. Io spiego i fatti. La Direttrice mi minaccia e dice che mi denuncerà per calunnia. Io mi alzo la maglia per fargli vedere il mio corpo pestato a sangue: “Questo chi me lo avrebbe fatto?”: Abbassa la testa e dice: -“Può andare”.

Matteo Greco

(Fonte: Liberarsi dalla necessità del carcere, n. 1, anno XV, novembre 2001.)

 

Quattro anni in clima di guerra
di Roberto Guadagnuolo
Lettera a Giuliano Capecchi di Liberarsi (dalla necessità del carcere), settembre 1999

Gentilissimo Giuliano, ho ricevuto oggi la tua graditissima lettera e in un momento veramente difficile per il sottoscritto. Sono quasi 4 anni che sono sotto, e come forse saprai, vissuti in un clima di guerra.
Spero che la mia umile penna possa trasmettere a te e nel caso fosse pubblicata su “Liberarsi”, ai lettori, le mie vicissitudini, o meglio le indicibili sofferenze che mi hanno procurato i secondini. Ho incominciato l’espiazione della mia pena nel tristemente famoso carcere di Sollicciano. Lì sono incominciati i miei primi problemi. Un giorno mi chiama il medico di reparto, dottor Del Vecchio e mi dice: “Lei, Guadagnuolo, a visita medica da me non viene più; quando si sente male, chiami il medico di guardia”. Io di rimando gli dissi: “Scusi, dottore per quale motivo?” e lui: “Guadagnuolo, non mi faccia ripetere le cose; se ne vada o la faccio prendere a calci nel culo”. Non ci ho pensato due volte: mi sono levato una ciabatta e gliel’ho tirata nel muso; poi gli ho dato una spinta. Sono arrivate le guardie e anche lì è volato qualche schiaffo di troppo. Sta di fatto che il giorno dopo ero partente per Livorno. Arrivato alle Sughere, mi si avvicina un brigadiere e mi dice: “Qui non siamo a Sollicciano, qua ti si spacca le ossa”. Pensai tra me e me: s’incomincia bene …
I primi giorni passarono tranquilli, poi anche lì i soliti problemi.
Un pomeriggio ero in cella a leggere. Sento bussare con le chiavi al cancello e mi vedo la guardia che con accento sardo mi dice: “Guadagnuolo, stai disturbando la sezione, abbassa il volume”.
Stupito per il fatto che la televisione era spenta, gli risposi: “Guardi, agente, sarà il televisore di un’altra cella. In questa, la mia è spenta”. Lui si alterò e mi disse: “Lei sta marcando male, Guadagnuolo, ti farò piangere”. Essendo un impulsivo per natura, mi alzai di scatto dal letto e cercai di tirargli uno schiaffo dalle sbarre, ma non lo presi. Il giorno dopo mi chiamò l’ispettore Spalletta che devo dire era una brava: persona e mi comunica che l’agente mi aveva denunciato. Parlai con lui a lungo spiegandogli come erano andate le cose. Lui capì e nel giro di quindici giorni fui trasferito per opportunità al carcere di Prato. A Prato non era malaccio e vi trascorsi alcuni mesi relativamente tranquilli. Parlavo tutte le settimane con lo psichiatra e raccontandogli le mie problematiche, un bel giorno fui trasfèrito all’O.P.G. di Montelupo Fiorentino in osservazione.
Fui traumatizzato da quella esperienza. Dopo circa 30 giorni mi rispedirono di nuovo a Prato. Nei giorni a seguire incominciai a bere (quella schifezza di vino che passano nel carcere) insieme ad un amico e un sorso dietro l’altro terminò “l’acqua di fuoco”, così si decise di chiedere ad un “amico” qualche boccino di vino. Ci fece la negativa, nonostante nell’armadietto ne avesse un’abbondante scorta. Francamente ci si rimase male ed io alzai la voce rimproverandolo. Ad un tratto mi sentii arrivare una forte botta dietro la schiena e nel girarmi vidi un brindellone di secondino rosso di capelli e pieno di lentiggini che mi urlava minaccioso d’uscire dalla cella dell’«amico» … Non feci discorsi: gli diedi un diretto destro buttandolo KO. Si rialzò e scappando per la sezione andò a chiamare rinforzi. Ne arrivarono altri quattro di corsa per farmi il “Sant’Antonio”.
Non so come feci, ma ebbi la meglio. Arrivò per mia fortuna la direttrice Toccafondi, la quale mi invitò a scendere all’isolamento. Io non volevo andare, in quanto sapevo che lì avrei trovato la squadretta. Ma lei mi assicurò che nessuno mi avrebbe toccato e così fu. La mattina dopo ero partente per Porto Azzurro e lì, caro Giuliano, incominciò il mio calvario. Come arrivai all’entrata mi vidi un esercito di secondini in assetto antisommossa. Non so quel giorno quante botte presi. Mi aprirono la testa con pezzi di ferro, mi incrinarono una costola … insomma ero messo male.
Mi ritrovai sul letto di contenzione e ammanettato così forte che dopo alcuni giorni il ferro delle manette mi era entrato nelle carni. Per un mese fui tenuto isolato e i primi 10 giorni tutte le mattine puntuali entravano e mi massacravano. Buttavo sangue da tutte le parti.
Un giorno mi arriva il colloquio. Viene su il comandante, il quale mi diceva: “Come va brutto figlio di puttana? Ora ti si slega e vai al colloquio, brutto camoscio di merda”. Mi levarono le manette e mi fecero vestire; avevo in corpo ancora in po’ di forze e con uno scatto riuscii a colpire al volto quel maledetto comandante, facendolo crollare per terra.
Feci l’ultima delle mie; ripresi altrettante botte e saltai il colloquio.
Non mi nascondo: quella volta ebbi veramente tanta paura; ero convinto che mi avrebbero impiccato. Per fortuna un giorno sento una guardia che mi disse: “Guadagnuolo, è partente, si prepari”.
Fu un giorno che ricorderò con felicità. Mi riportarono a Montelupo Fiorentino all’O.P.G.
I dottori mi diagnosticarono un grave disturbo esplosivo della personalità e così mi applicarono l’art. 148.
Passai i primi 6 mesi in coma per quanti psicofarmaci mi propinavano. Ero diventato il fantasma di me stesso. Stavo dimenticando che l’artefice del mio trasferimento da Porto Azzurro all’O.P.G. fu il gentilissimo dottor Alessandro Margara. E questa direttiva che veniva dall’alto, non è mai stata digerita dal direttore sanitario di Montelupo, dottor Franco Scarpa, il quale non perdeva occasione per aggredirmi tra le righe e ricordandomi che appena avrebbe potuto, mi avrebbe rispedito in carcere.
Difatti poco tempo fa, dopo un disguido con un dottore (dermatologo), mi innervosii e sbattei nel muro un carrello porta bibite. Arrivarono un gruppetto di guardie male intenzionate; non feci discorsi: ruppi un tavolino e poi gli levai una gamba. Le guardie tornarono tutte indietro.
Corsi in cella e presi una lametta per tagliarmi nel caso venissero rinforzi.
Salì il dottor Scarpa, mi caldeggiò di recarmi in medicheria; io annuii col capo e ci si mise a discutere. Nel frattempo vidi dietro la porta semi chiusa, una valanga di guardie. Mi ricordai Porto Azzurro. A quel punto dissi al direttore che se le guardie non fossero uscite, lui non si muoveva da lì. Siamo andati avanti per 2 ore a discutere. Chiarito il tutto, tornai in cella.
Alcuni giorni dopo, avevo una udienza in Pretura. Finito il processo, mi ammanettarono e ci si incamminò verso il cellulare e mentre stavo salendo arrivano due secondini di Sollicciano che non facevano parte della scorta e mi danno una forte spinta, facendomi scivolare sul furgone. Ho cercato di reagire, ma ammanettato, non potei fare niente. Poi a spintonarmi ci si mise anche un agente della mia scorta di nome Paradiso. Arrivato all’O.P.G., ero incazzato nero. Mi fecero una doppia puntura per tranquillizzarmi, ma volevo protestare per il maltrattamento, così mi vollero far legare.
Mentre mi incamminavo nella stanza dove si trovano i letti di contenzione, incrociai l’agente Paradiso e in modo concitato gli dissi che non era giusto maltrattare così le persone. Lui non ha fatto discorsi: mi piglia e mi dà un paio di spinte; io non mi reggevo in piedi per la puntura fatta, ma riesco a dargli un leggerissimo pugno.
Per farla corta, dopo 2 giorni viene la squadretta mentre dormivo e con calci e pugni mi trasferiscono all’O.P.G. di Reggia Emilia. Qui, per ora, è ferma la mia storia.
Ciao Giuliano
Roberto Guadagnuolo

(Fonte: Liberarsi (dalla necessità del carcere), anno XIII, numero 3, settembre 1999)

 

 

Lettera dal carcere di Prato
di Fiore Gobbato
Pubblicata su Liberarsi (dalla necessità del carcere), settembre 1999

Ciao a tutti quanti !
Sono quel Fiore che qualche anno fa vi scrisse da Alessandria e che voi leggeste su un Liberarsi del ’95.
Un pazzesco art. 671 c.p.p. (“continuato”, noto a tutti noi …) del dico ’90, mi chiuse dalla semilibertà che facevo a Saluzzo (CN). Entrai a gennaio ’71, per qualche banca ed una gioielleria …, ero un illuso “solitario”. In carcere mi “incallii” e per dieci anni corsi dietro a tentativi di evasione e rivolte. Per chi si ricorda di me, è ben chiaro che l’obbiettivo principale era evadere ad ogni costo e andare a far soldi per girare il mondo!
Purtroppo io ho solo girato un po’ del mondo carcerario e nulla di più …
Raggiunsi i 70 -80 anni di condanna, con 40 -50 processi presi dentro i carceri, dal 1971 al 1980. Poi smisi, anche perché ero dentro nei “carceri speciali” dal 1977, e di scappare se ne parlava sempre meno .. Nel 1984 fui declassificato e finii a Saluzzo (CN). Era un “infernotto”, un Purgatorio, in circa 12 -18 per camerone … Rimpiansi anche le celle singole dei carceri pur speciali che avevo visitato; ma dovevo pure mettermi in fila per uscire negli anni futuri … Permessi-premio dal 1987 e nel 1990 la semilibertà. Nel 1989 il Presidente del Tribunale di Piacenza ridefinì il mio cumulo-pene, che già Pisa e Urbino (nel 1985) portarono a 30 anni.
Poi, maledizione al Nuovo Codice di Procedura Penale (nel 1986-87) questo nuovo articolo 671 c.p.p. di nuova concezione … sconvolse l’Italia!
Nei primi 2 -3 anni la sconvolse anche piacevolmente, per alcuni … Poi, nel 1990, il 18 dicembre, Piacenza la applicò al mio caso: anziché limitarsi ad unire i 7 mesi che c’erano fuori del cumulo-pena di 30, mi spostò l’inizio della pena iniziale di circa 9 anni!!! Così, senza delinquere, dagli ultimi 10 anni di buona condotta e pur in semilibertà la mia pena fu spostata dal 1971 al 1979! Robe da chiodi !!! Eppure è successo e sta succedendo a me.
Chiuso dalla semilibertà il 22 dicembre 1990 per questo spostamento di 9 anni, tornai semilibero 2 anni dopo!!! Nel frattempo, persi il lavoro, la famiglia, la convivente, l’auto, i vestiti, i soldi per i vari avvocati e … tanta rabbia in più …
Dopo 4 mesi di semilibertà, il 5 marzo 1993 fuggii via per protestare contro il pazzesco 671 c.p.p. Durai 6 giorni in latitanza, poi persi la pazienza e decisi di andare a gambizzare 1’avvocato che mi obbligò (simpaticamente) a presentare l’art. 671 c.p.p.
Io avevo fatto 20 anni, più i 6 anni dei benefici già avuti … mi restavano circa 4 anni a finire i 30.
Il sesto giorno, mentre andavo a sparare a questo cervellone di avvocato (di Cuneo) per strada cambiai idea e … vicino a Torino decisi di fare una rapina (solitaria) e di dare a questo avvocato (ed a me stesso) ancora una possibilità per rimediare al suo guaio; dandogli 20 -30 milioni …
Ma la rapina restò una “tentata”; e dovetti difendermi da un signore attempato e un poco (folle?) stranito e con occhi fissi e sbarrati che veniva contro di me …
Cavolo, ragazzi !, davanti a un fucile a canne mozzate … “le statistiche dicono che raramente qualcuno cerca di saltarti addosso …”. Gli detti 2 avvertimenti, poi, arrivatomi a 2 metri … abbassai le canne e gli sparai un colpo alle tibie e alle ginocchia … Non dovrebbe mai accadere ad alcuno che debba sparare o essere sparato … ma in Kossovo succede di peggio …
O.K., mentre lasciavo il Supermercato e salivo nella (mia) auto rubata … due guardie mi spararono 9 colpi di pistola calibro 9 parabellum…, di cui 5 colpi andati a segno … Morii subito per mille volte, e dopo un’oretta mi addormentai, contando sotto l’anestesia … Dieci buchi alle budella, fegato, milza, pancreas, piede, gamba, braccio … Dopo 4 mesi di ospedale mi rimisi in piedi e … finii a Fossano (CN). Celle da 4 persone, un paradiso per tutti (i fumatori), ma io che non ho mai fumato né drogato ci stavo maluccio … Anche perché con 14 anni residui, più i 10 presi per la tentata rapina, più i 6 anni delle revoche … erano di nuovo 30 tondi; sono e restano 30 altro che “erano” …
Capito ragazzi ?! Questa è stata l’applicazione dell’articolo nuovo che aiutava i detenuti a finire la pena …
L’avvocato e l’art. 671 c.p.p. hanno distrutto la mia vita trascorsa in galera per quei primi 20 anni e coi 4 anni che restavano a finire … e ci fidiamo ancora degli avvocati ?!
Ho compiuto 52 anni questo mese … ho ancora 21 anni di residuo pena …
Adesso, ragazzi, state lontano dal carcere di Prato !!! Due anni fa evasero (dai permessi) due o tre; esasperati dal clima di chiusura e repressione che stava avvenendo per la legge Gozzini …; da allora Prato è un luogo morto, dimenticato, ignorato e condannato alla burocratica apatia.
Adesso, però, attenzione!, io ci sto quasi “bene”, perché ho la pena lunga e so che non mi darebbero nulla anche se sono da circa 2 anni nei termini per tutti i benefici …
Io non fumo, perciò la mia unica richiesta è avere (stare in) una cella da solo … il perché è anche un altro: mi ritengo un inventore; chissà, potrei anche essere un pazzo e presuntuoso; dicono “un grafomane” …, ma se non uso la voce uso la penna … visto che le udienze ce le scordiamo… o, quelle rare, non servono a nulla …
Ma io spero che la direzione di Prato metta giudizio … e che si torni ai permessi. Se così sarà, ragazzi, ci risentiremo presto e per forza, perché da molti anni inseguo il voler fare miliardi a palate ed in torma totalmente legale e con le mie idee da brevettare il successo “malgrado quel dannatissimo articolo 671 c.p.p.” e l’attuale fame, il successo mi sarà dovuto e mi ricorderò di Liberarsi e di dare lavoro onesto a tanti di noi.
Ciao a tutti quanti !

Fiore Gobbato

P.S. Buona prossima amnistia a tutti !!!
(Fonte: Liberarsi (dalla necessità del carcere), anno XIII, numero 3, settembre 1999.)

 

Visita-denuncia al carcere di Rebibbia

Roma 1 dicembre 2000

Primo resoconto della visita alla Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, Roma effettuata il 1 Dicembre 2000, giornata mondiale di lotta all’Aids dal collettivo Liberiamoci del carcere di Roma.

Nel pomeriggio del 1 dicembre abbiamo effettuato una visita-denuncia al carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Siamo potuti entrare nella veste di accompagnatori del consigliere regionale del Lazio di Rifondazione comunista Salvatore Bonadonna che ha gentilmente fornito la sua disponibilità ad entrare insieme a due compagni del collettivo Liberiamoci del carcere. Al nostro arrivo non siamo stati ricevuti, come di prassi, dal direttore dell’Istituto perché impegnato in una riunione con il nuovo responsabile dell’ASL del territorio su cui sorge il carcere di Rebibbia. Argomento di discussione dell’incontro il controverso passaggio di competenze della sanità penitenziaria dal ministero di giustizia a quello di sanità, che, nonostante sia passato circa un anno dall’entrata in vigore della riforma, ancora risulta inapplicato. Siamo stati accompagnati nella visita da una vicedirettrice e un ispettore di polizia penitenziaria che si sono mostrati cortesemente disponibili a rispondere alle nostre domande e illustrarci la situazione del carcere di Rebibbia.
Appena varcato il cancello del carcere siamo stati messi di fronte alla drammaticità della questione salute in carcere: una grande agitazione regnava tra i corridoi per via di un ricovero d’urgenza di un detenuto al vicino ospedale Pertini. La meta della visita è stato il reparto clinico G14, da poco ristrutturato con una spesa miliardaria. Il centro clinico di Rebibbia si articola su tre piani: al piano terra sono presenti gli ambulatori, al primo piano c’è il reparto malattie infettive e quello di medicina generale, al secondo piano sono rinchiusi i tossicodipendenti in trattamento metadonico a scalare. Nove sono le persone detenute malate di Aids attualmente ricoverate nelreparto malattie infettive del G14, di loro sette sono in Aids conclamato.

La legge 231 del 1999 stabilisce che queste persone non debbano stare in carcere, ma la burocrazia, la mancanza di un alloggio esterno, l’assurdità di una giustizia che a distanza di anni infierisce su chi già ha ottenuto l’incompatibilità costringendolo a tornare dietro le sbarre, fanno sì che queste persone stiano in carcere nonostante le loro gravi condizioni di salute, ulteriormente aggravate dal regime detentivo. Abbiamo tragicamente riscontrato la presenza al reparto malattie infettive di un detenuto da noi già incontrato in precedenti visite, allettato da giugno 2000 dopo essere stato dimesso dal reparto malattie infettive dell’ospedale Spallanzani e rispedito in carcere per mancanza di una casa dove svolgere gli arresti domiciliari concessigli dal tribunale.

Nel reparto tossicodipendenti in trattamento metadonico del G14 ci sono una cinquantina di detenuti. Lamentano di dover sottostare ai rigidi ritmi della terapia a scalare, anche quando questa provoca pesanti crisi di astinenza da metadone, difficilmente gestibili per chi, come molti di loro, è anche malatodi Aids. Il reparto tossicodipendenti è a tutti gli effetti un reparto di transito perché le persone ivi detenute vengono dirottate verso gli altri reparti a conclusione del programma a scalare che dura dai quindici ai trenta giorni. Il carattere transitorio delle presenze fa sì che non esistano attività ricreative e socializzanti e le persone rimangano chiuse nella cella la maggior parte della giornata. Nel reparto di medicina generale del G14 sono rinchiuse persone in attesa di intervento chirurgico o visita specialistica, con patologie particolarmente gravi o con difficoltà deambulatorie. Molti provengono da altre carceri del centro Italia e vengono dirottate a Rebibbia che è considerato una punta di diamante dei centri clinici dell’Italia centrale. In questo modo alla malattia in stato di detenzione si aggiunge la lontananza dagli affetti familiari, nonché quel po’ di assistenza materiale che proviene dai pacchi dall’esterno. L’attesa di interventi chirurgici, così come di visite specialistiche può durare mesi, se non anni, senza alcuna risposta da parte dell’autorità.

Terminata la visita del centro clinico G14 abbiamo avuto un incontro con i detenuti della biblioteca centrale Papillon che ci hanno aggiornato sulle iniziative di lotta all’interno del carcere. Da diverse settimane è in corsouna lotta pacifica, ma determinata che raccoglie un’adesione pressoché totale della popolazione carcerata a Rebibbia. I detenuti denunciano alcuni problemi caratteristici dell’Istituto di Rebibbia, la paralisi del Tribunale di Sorveglianza di Roma, il silenzio calato dopo quest’estate sulle condizioni di detenzione all’interno delle carceri italiane. La protesta ha già ottenuto alcuni risultati come la promessa di una maggiore presenza di personale medico, una maggiore apertura delle celle durante il giorno, la promessa di un incontro con magistrati di sorveglianza ed esponenti politici per l’inizio di dicembre 2000. I detenuti denunciano di aver subito numerose censure sulla corrispondenza con l’esterno e con altre carceri italiane. Hanno spesso dovuto ricorrere a un intervento diretto da parte della direzione del carcere per poter vedere garantita, almeno in parte, la loro libertà di espressione. I detenuti ricordano come nel mega-carcere di Rebibbia sia in atto un conflitto di potere tra direzione, di impostazione gozziniana con ambizioni di carriera ministeriale, e custodia, portatrice di un’idea custodialista.

Questa la cronaca della visita. Dal risultato delle altre iniziative tenutesi a livello nazionale nella giornata del 1 dicembre e dal confronto che ne seguirà speriamo riprenda un discorso di ampio respiro sul carcere che possa portare a interventi incisivi.

Saluti e libertà

Liberiamoci dal carcere – Roma

(Fonte: Visita-denuncia al carcere di Rebibbia, comunicato diffuso l’1 dicembre 2000 da liberiamoci del carcere out.out@libero.it)

 

Mai dire mai – Ergastolo …

La severità della condanna inappellabile che perdura nel tempo non colpisce più quell’uomo o quella donna che pecca, ma un’altra persona che si è venuta drammaticamente formando, attraverso l’evoluzione interiore e l’intima sofferenza. Perché continuare a punire quest’uomo nuovo, questa donna nuova?
La vita, si dice, è la possibilità di risorgere dopo una caduta; un buon sistema penitenziario deve fornire questa possibilità, invece il nostro è privo di ogni logica. Ritenere che “l’ergastolo ormai è simbolico perché si può usufruire della grazia, della condizionale dopo 26 anni, della semilibertà dopo 20 anni, della licenza dopo 10 anni” ed altre corbellerie del genere è assurdo, perché per chi deve scontare l’ergastolo insieme ai reati ostantivi queste possibilità decadono.
Senza contare che questi benefici sono facoltativi e non c’è nessun detenuto, a parte i furbi ed i fortunati, che in una lunga carcerazione in un ambiente del genere non ha uno scatto di nervi, una ribellione o la sfortuna di trovarsi in una situazione non voluta …
Ma anche se teoricamente questo accadesse, dopo 25 anni di carcere e 5 anni di obblighi, che possibilità ha un detenuto di inserirsi in una società libera? E soprattutto, solo chi è stato condannato giovanissimo avrà la possibilità di uscire vivo. Per le persone che prendono l’ergastolo a quaranta o cinquanta anni la probabilità di uscire vivo è quasi zero.
Quindi è folle giudicare un uomo o una donna colpevoli per il resto della loro vita, a parte l’errore è anche un orrore. Nessun uomo, nessuna donna, anche con i valori opposti al resto della gente, merita di passare tutta la sua vita in carcere; anche se poi non accade, il solo pensiero “fine pena: mai” equivale alla più terribile tortura.
La sofferenza della pena può essere anche accettata, purché rimanga una speranza reale e non teorica come adesso, tanto la pena perpetua non può cambiare il passato, nemmeno il presente, ma cancella il futuro …
Anche l’essere più spregevole ha diritto ad una opportunità, credo che sia umano fare degli sbagli, ma non lo è non dare la possibilità di rimediare.
La forza della giustizia di una società sta nel perdonare il proprio colpevole in tempi accettabili perché altrimenti, con il passare degli anni, il colpevole diventa una vittima, e qualsiasi popolo si dovrebbe vergognare della sofferenza quando questa non è più necessaria.
Quando la società chiude una porta e getta per sempre la chiave significa che crede che vi sia poco o nessun valore in una vita umana. Invece non dovrebbe essere così: prolungare le sofferenze della pena per il resto dell’esistenza di un prigioniero è un crimine più grande di quello di cui siamo stati condannati; è come dichiarare, semplicemente, che non c’è niente da salvare in certi individui.
La pena perpetua è assurda, perché quando la pena ha esaurito la sua funzione il detenuto deve avere il modo di realizzare concretamente il suo cambiamento, ma questo non è possibile se non si ha un termine, certo, sicuro …
Così, la vita dell’ergastolano è riuscire, istante dopo istante, a reprimere una perpetua e travolgente pulsione al suicidio, per la voglia di finire la propria pena con lucida e composta dignità, aprendosi da soli i cancelli: l’ergastolo è una corsa triste incontro alla felicità della morte. Si arriva a pensarci e a scherzarci sopra, che morire prima del tempo è un guadagno e un dispetto allo Stato, perché è atroce continuare a vivere e a soffrire senza misura e senza speranza. Non si sa più se augurarsi, tra noi ergastolani, lunga o breve vita. L’ergastolo è una sorta di “medicina” tanto forte da uccidere il peccato e il peccatore; o meglio, di più il peccatore che il peccato. L’ergastolo è una morte bianca, è una ingiustizia ben peggiore di quella che si vuole punire.
Alcuni politici dicono che non è utile abolire l’ergastolo, tanto esiste solo sulla carta e nessuno, in realtà, sconta l’ergastolo. Buffoni, è come dire l’ergastolo c’è … perché non c’è. Si può stare in prigione tutta una vita, ma non certo con il pensiero di starci tutta la vita.
Prolungare la sofferenza per il resto dell’esistenza di un prigioniero è il crimine più grande che l’umanità possa fare. Non condannateci ad una vita senza speranza, perché in tutti noi c’è umanità, e nessuno dovrebbe essere scartato per sempre come un rifiuto umano.
È troppo chiedere a questo Stato, a questa Società, a questa Legge quando finisce la mia pena? Se per caso il mio fine-pena è “mai” (e lo è), perché dite che l’ergastolo c’è … perché non c’è? Mai più mai.

Giovanni Piacente
Carmelo Musumeci
Carcere di Sulmona

(Fonte: Liberarsi dalla necessità del carcere, n. 1, anno XV, novembre 2001.)

Tortura del sonno
Una denuncia dal carcere di Sulmona

Siamo alcuni detenuti del carcere di Sulmona; abbiamo girato tante carceri, siamo stati tutti i regimi e alcuni anni a 41 bis, credevamo di aver provato tutte le afflizioni in uso nelle carceri italiane: ci sbagliavamo; abbiamo trovato la Direttrice di Sulmona che ha un’enorme fantasia nell’inventarsi torture crudeli per far soffrire i detenuti.
Da circa quattro mesi veniamo torturati con la privazione del sonno; si è inventata, interpretando un articolo, la conta ogni tre ore, notte e giorno, con l’entrata in cella.
L’illegalità della disposizione è palese, ma lei, con qualche protezione al Ministero da lei stessa sbandierata, la fa diventare legale. Questa violenza psicologica sembra volta a piegare la volontà dei detenuti, con l’obiettivo di spezzarne lo spirito e formare all’interno del carcere un clima di sfiducia reciproca, tendendo a rompere la solidarietà e l’unità fra i detenuti e alimentando un clima di rassegnazione, cinismo e individualismo che, in fin dei conti, costituiscono i reali valori su cui si fonda il “reinserimento” in questo sistema penale.
L’assoluto silenzio o la totale complicità degli organi competenti testimonia il livello di omertà di cui gode la Direzione del carcere di Sulmona.
L’obiettivo perseguito con il pretesto del regime E.I.V. (elevato indice di vigilanza) è quello di applicare una detenzione sempre più afflittiva, finalizzata al controllo totale sulla vita dei detenuti mediante il ricatto, ma principalmente per compiere, nel più assoluto silenzio, ogni genere di abuso.
Questa gestione priva di umanità umilia la dignità delle persone, è una scuola di rabbia e violenza: un ottimo sistema per il futuro reinserimento!
Quando saltano le regole del diritto le conseguenze colpiscono tutti; non ricordiamo chi lo ha detto, che la civiltà di un paese si misura dai suoi Tribunali e dai suoi Penitenziari: siamo messi un po’ male in Italia, ed è una ferita inferta allo Stato di Diritto.
Quando si abbandona la strada maestra dei principi, e anzi li si calpesta con la massima disinvoltura, le interpretazioni diventano infinite quanto gli arbitrii.
Ottobre 2001
Alcuni detenuti- Sez. E.I.V.

(Fonte: Liberarsi dalla necessità del carcere, n. 1, anno XV, novembre 2001.)