Volare terra terra?

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Le turbolenze che sta attraversando l’economia mondiale fanno sentire le loro scosse. Molti negozi chiudono i battenti, diverse fabbriche vengono smantellate. A un governo che ci assicura quotidianamente che il peggio è passato, fa eco l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) che ci ammonisce dell’esatto contrario: il peggio deve ancora arrivare. Entro la fine del 2010 sono previsti oltre un milione di disoccupati in più in Italia. Un milione di stipendi in meno. Che contribuiranno a mandare in rovina quante famiglie? Composte da quante persone? Non importa, non si può andare tanto per il sottile. Per gli industriali è il momento di tagliare, ridimensionare, ottimizzare. È il momento di licenziare.

Per i lavoratori, invece, è il momento di resistere e di lottare. Per ottenere cosa? In fondo, nemmeno in questo caso si può andare troppo per il sottile.
A fronte della crisi dell’economia e della rappresentanza, nuove forme di azione si delineano nelle imprese pubbliche e private. Non potendo continuare ad affidarsi ai vecchi delegati sindacali sempre più screditati per risolvere pacificamente le vertenze al tavolo delle trattative, molti lavoratori stanno passando a metodi meno ortodossi per far valere le loro rivendicazioni. In Francia, per impedire i licenziamenti, si arriva a sequestrare manager o a minacciare di scatenare incidenti dalle catastrofiche conseguenze. In Italia si è preferito iniziare col sequestrare se stessi, mettendo a repentaglio la propria vita sospesa a decine di metri d’altezza.
Un esempio, quello ormai noto della Innse di Milano, subito imitato in altri settori. Dopo gli operai che vogliono continuare a produrre merci, è stata la volta dei vigilantes che vogliono continuare a proteggere proprietà, poi dei precari della scuola che vogliono continuare a trasmettere briciole di sapere… e via così. Tutti pronti a salire sui tetti per gridare forte la loro voglia, il loro desiderio, la loro aspirazione: che tutto continui come prima.
Questo slancio d’impeto in cima a fabbriche e palazzi ha provocato un certo entusiasmo in un movimento che sta facendo i conti con la paralisi di azione nelle strade e l’asfissia di idee nei cervelli. La radicalità della forma, laddove si è accompagnata al conseguimento dell’obiettivo, è stata da più parti considerata una vittoria. E, in tempi di magra, una vittoria fa bene al morale. Inietta fiducia. Alimenta speranza. Incita alla mobilitazione.
Si può qui toccare con mano la terribile potenza della riproduzione dell’esistente, con le sue nefaste conseguenze. Il ricatto della sopravvivenza obbliga a rinunciare ad ogni sogno e a rassegnarsi a timbrare il cartellino della servitù volontaria. Chi ha ceduto a questo ricatto, barattando la propria esistenza in cambio di un salario, si trova oggi comunque in pericolo. Cos’altro fare, se non aggrapparsi ai propri ricattatori, invocando il loro intervento come se fosse l’unica salvezza? Operai alla ricerca di un padrone che li sfrutti. Sbirri privati alla ricerca di intrusi da far arrestare. Aspiranti pedagoghi alla ricerca di giovani menti da indottrinare. Ciascuno con figli da mandare a scuola, un mutuo da pagare, un frigorifero da riempire. Ragioni materiali da far pesare come macigni sulla coscienza altrui, mentre i lavoratori che rischiano di finire sul lastrico si appuntano sul petto le foto dei propri pargoli. Padroni che ci state di fronte, abbiate pietà, mettete una mano sul portafoglio e rinunciate a una parte dei vostri lauti profitti. E voi, sovversivi che ci state accanto, siate comprensivi, mettetevi una mano sul cuore e rinunciate alle vostre grandi utopie. Niente ristrutturazioni, niente rivoluzioni. Non vogliamo drammi, teniamo famiglia.
Pur con qualche imbarazzo, c’è chi preferisce accontentarsi e godere del nuovo “protagonismo operaio”. Pazienza se in Francia questo fenomeno assume i tratti della minaccia e in Italia quelli della supplica. Pazienza se dalla lotta contro tutti i padroni si è passati alla lotta a favore di un padrone. In fondo, non si può mai sapere cosa ci riserva il domani. Magari, a furia di recitar preci si finirà per lanciare bestemmie. Sempre che, a furia di pregare, non si finisca col diventare prelati.
È il solito dilemma. Con la rabbia nel cuore per quanto ci circonda, si è proiettati verso eventi talmente fuori dal comune da essere in grado di elevarci, almeno per un attimo, al di sopra delle banalità della vita idiota. Eppure, più si è in preda al desiderio di uscire da questa esistenza terra terra, più questo avvenimento si sottrae. Ci si ritrova ad accontentarsi di piccole cose, meschini ideali, sogni amputati delle ali. Questa moneta spicciola non manca mai. Ecco perché «la lotta paga». Ciò che manca, ciò che manca disperatamente, è solo il fatto tanto desiderato, quel favoloso trampolino che permetterebbe di balzare verso orizzonti imprevedibili.
[Machete, n. 5, novembre 2009]