Tesi sul razzismo

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Les Amis de Némésis
I
Il razzismo è attualmente la sola sfasatura ammessa dallo spettacolo politico: è quindi diventato, in una maniera verificata nella pratica, un soggetto puramente spettacolare. La sua posizione via via monopolistica nei falsi dibattiti ha permesso di compiere l’eliminazione di ogni questione sociale, avendole sostituite tutte. Esso rappresenta ormai il dibattito in un’epoca sprovvista di dibattito. Simula la critica in un’epoca senza critica. Fa credere che la politica esista ancora. Diventa uno dei surrogati più apprezzati del pensiero, davanti alla sua scomparsa reale.
II
In ogni epoca il razzismo è stato una questione avvelenata, fatalmente votata a veicolare e a trasmettere la falsa coscienza ideologica. In effetti il razzismo determina generalmente la posizione di coloro che si oppongono ad esso, e i suoi nemici sono così portati a fare il suo gioco. Il cretino che attacca un nero perché è nero incoraggia con l’esempio un altro cretino, che difenderà il nero perché è nero. In questo modo tutti gli elementi reali di valutazione di un individuo scompaiono a profitto di una opposizione formalista vuota, e la posizione razzista contiene e domina — di fatto e subdolamente — la posizione antirazzista. Ai neri non resta che completare questo delirio trattando gli altri da «sporchi bianchi», e diventare magari ancora più razzisti dei bianchi. L’antirazzismo è stato universalista per poco tempo, molto timidamente e solo in teoria; in pratica, si modella diffusamente sull’esempio americano, traducendosi in sordido equilibrio fra razzismi ritenuti in grado di tollerarsi fra di loro in quanto razzismi. La realtà non conta più, da qui ad esempio l’inverosimile ferocia nei rapporti che certa sinistra tende a giustificare fra immigrati, con il pretesto che questa sarebbe «culturale»; e che, immancabilmente, alimenta senza fine le proteste razziste. In un contesto così viziato, l’antirazzismo non è più della buona coscienza che vuole dissolvere una miseria particolare nella miseria universale: gli antirazzisti pensano che i neri debbano essere trattati bene quanto i bianchi, ma passano sotto silenzio il fatto che come premessa occorre che i bianchi siano essi stessi trattati male quanto i neri — per cui alla fine risulterà che i neri saranno trattati bene quanto i neri.
III
È da un pezzo che le categorie razziste non si applicano più solo alle questioni di colore di pelle o di etnia e vengono estese ad altre caratteristiche empiriche, come il sesso, l’età, il peso, le preferenze erotiche, o a pretese «culturali», come la religione, la lingua o il dialetto, l’origine territoriale, l’alimentazione, o la forma del copricapo tradizionale. È così che la ragione amministrativa conta di trionfare sull’intelligenza viva e individuale. Eccoci giunti allo stadio della conclusione di questa miserabile ragione: non solo funzionari e ideologi ci registrano come fossimo rappresentanti delle diverse categorie, ma masse compatte di prodi soldatini si accalcano ai cancelli degli uffici di registro dello spettacolo per reclamare la loro immatricolazione immaginaria. Immatricolazione che essi considerano docilmente come se indicasse la loro «natura», le loro «radici», per farla breve, come ciò che li contraddistingue e che essi intendono rivendicare come se li esprimesse. Immancabilmente, compaiono altri soldatini che li contestano e si decidono ad odiarli. La balcanizzazione dell’umanità è un metodo sperimentato per dividerla: essa ha dei bei giorni davanti a sé. I due campi che organizza, i razzisti e gli antirazzisti, si arruolano in una lite che non avrà fine perché non ha prospettiva.
IV
Questo stadio della realizzazione della ragione amministrativa è soprattutto, in effetti, quello del razzismo positivo: l’epoca non si accontenta del razzismo negativo (l’odio dell’altro), ma organizza una proliferazione molto più importante del suo correlato identitario, l’infatuazione per ciò che si considera se stessi. Il razzismo positivo è per certi versi il semplice rovescio del razzismo negativo, ma è anche la forma sotto cui quest’ultimo cova prima di scoppiare apertamente, la sua versione illusoriamente pacifica, la sua gentilezza semplicemente transitoria. Il razzismo positivo è stato sperimentato innanzitutto dai lobotomizzati antirazzisti associati del genere SOS Razzismo, a proposito delle vittime del razzismo negativo che essi si sono messi stupidamente (e cristianamente) a idolatrare; poi questo razzismo positivo ha adottato una forma egocentrica, nella misura in cui queste vittime, costantemente maltrattate e blandite al tempo stesso, hanno finito col prendere sul serio le adulazioni (per il fatto di essere stati maltrattati, sarebbero l’avvenire dell’umanità!) e per atteggiarsi a vedette. Ma le due forme di razzismo non fanno che esprimere secondo circostanze variabili l’assenza d’individualità cui gli schiavi salariati e disoccupati sono condannati, individualità che essi cercano di trovare già pronta in qualche fantasmagoria «culturale» pronta da indossare, allorché bisognerebbe crearla in una intera esistenza di libertà.
V
Nessun individuo che abbia la minima briciola d’amore per la libertà può definirsi determinista. In effetti una simile definizione, vale a dire l’accettazione e la difesa delle proprie «origini», è la manifestazione stessa dell’alienazione soggettiva dell’individuo, in quanto approvazione e duplicazione della propria alienazione oggettiva. Le «radici» sono amate dai vili, dai deboli e dai sottomessi, da quelli che aspettano di morire: esse sono considerate in grado di spiegare e scusare il loro stato di morti viventi. A forza di confondere gli uomini e gli alberi, i primi non sono più che tronchi immobili. Si tratta della posizione umana più antiumana, della posizione filosofica più antifilosofica, della concezione della libertà che più assomiglia a una cella di prigione. «È la mia cultura!», dice l’incosciente che non vuole riflettere e che vuole proibirlo anche a noi. Quanto a questa «cultura», nell’ideologia universale della nostra epoca non è altro che una cauzione radicalmente non-critica apportata ai particolarismi di ogni genere. Per compiere la sua missione puramente apologetica e mercantile essa comprende tutte le pratiche ancestrali e tutte le mode più recenti, il tutto sapientemente mescolato, finché non resta che un magma indistinto. Dopo Platone e Aristotele, si sa che lo scambio monetario e mercantile sono indifferenti al contenuto e lo rendono praticamente indifferente; l’antica cultura, foss’anche «borghese», non interessa affatto alla merce, ma ciò che le interessa è di vendere sotto questo nuovo appellativo, vuoto di contenuto, una massa infinita e indefinitamente aumentabile di gadget privi di significato ma capaci di giocare un ruolo di sostegno identificatorio. Insomma, non si vende che identità. La «cultura», che all’epoca dei Lumi significava apertura attraverso la conoscenza, è adesso sistematicamente legata a questo ripiego, con questa illusione di una «origine» o di una «natura» alla portata di tutte le borse. È «Blut und Boden», ma solo quel tanto che basta per non scatenare di colpo la Terza Guerra Mondiale.
VI
Per simulare un’opposizione ai leader reazionari più beceri, la casta politica europea benpensante rimprovera loro unicamente il loro razzismo (per esempio, il loro antisemitismo). Ecco perciò dei neonazi venire apostrofati dai democratici, i quali si limitano a domandar loro di correggere il linguaggio per venire ammessi al banchetto: dovranno solo abbandonare le loro manie razziste per diventare anch’essi dei democratici. Il nazismo si ridurrebbe all’antisemitismo, e solo a questo. Se Hitler non avesse massacrato sei milioni di ebrei, sarebbe stato probabilmente giudicato un bravo democratico. I vari leader nazionalisti possono così giocare sul velluto: prima si fanno notare per una mania pubblicamente e intenzionalmente inaccettabile, distinguendosi così dalla marea di pretendenti al potere; poi abbandonano più o meno questa mania, e rientrano nel gioco politico come trionfatori per realizzare il resto del loro programma, che viene in tal modo tacitamente ammesso. Così facendo, nessuno rimprovera loro di essere favorevoli a uno Stato poliziesco, a un capitalismo ultra-liberale, a uno sfruttamento identitario dello stupido folklore nazionale, a un conservatorismo morale muscoloso, o a un asservimento totale al lavoro, al denaro e al capitale: giacché tutti condividono questi gusti, da destra a sinistra.
VII
Prima di essere una opinione e una forma di falsa coscienza, il razzismo esiste nei fatti che l’opinione, come al solito, non fa che seguire anche quando ritiene di criticarli. L’intera pratica sociale organizza la realtà individuale e collettiva attraverso un tessuto di segregazioni di fatto che sono illusoriamente presentate e vissute come segregazioni di diritto. In questo contesto inetto ogni particolare umano è tentato a fare di necessità virtù e ad identificarsi nella sua realtà particolare. Al posto di una società in cui l’individuo è egli stesso la realizzazione centrale privilegiata, il compimento riuscito del sistema (come suggerisce l’antica nozione di praxis), e quindi il risultato più o meno ammirevole delle capacità sociali combinate, noi conosciamo solo un mondo degradato in cui l’individuo passa per un aspetto marginale, una spesa accessoria, un epifenomeno trascurabile, in confronto alla valorizzazione del capitale, la quale ha bisogno di contenere la realtà umana entro limiti razionalmente sfruttabili. Così la ben nota potenza dissolvente della merce si scontra con i suoi limiti intrinseci, almeno in termini di segmentazione della clientela e di specializzazione adeguata dei prodotti. Le categorie sono altrettanti mercati. Se la merce si è impegnata ad abbattere tutte le muraglie cinesi del pianeta che avrebbero fatto finta di resisterle, essa non può tuttavia ritrovarsi di fronte a un’umanità indistinta, in rapporto a cui non potrebbe situarsi; e questo l’ha compreso con la stessa necessità pratica. Le vecchie sfasature, sebbene sotto una forma trasformata, degradata, simulata, devono essere mantenute per la conservazione dell’ordine sociale mercantile, quanto meno per impedire l’unificazione del proletariato mondiale (nella miseria e un domani nella rivolta). Il ruolo “emancipatorio” della merce è strettamente limitato dalla propria autoconservazione. Ma per via del loro mantenimento sotto perfusione le sfasature ancestrali hanno perso la loro natura spontanea, originaria, e i loro sostenitori si trovano condannati ad una esistenza compulsiva, esasperata, istrionica. In realtà tutti i loro sforzi mirano a riconciliarli con una dimensione irrimediabilmente perduta. Le loro proteste irredentiste vanno ancora nel senso del mercato. Il razzismo stesso ha cambiato funzione. Da “politico” e “totalitario” è diventato un agente immediato del capitale. In quanto reazione identitaria, cerca di colmare la più grande debolezza del capitalismo giunto al suo stadio avanzato: quella di rivelare infine che non è capace di generare una civiltà, né una società. Un tempo si riparava dietro le vestigia d’un passato più antico, a cominciare dalla borghesia che si avvolgeva nella toga romana quando era “rivoluzionaria”, ai suoi inizi, e che si travestiva da aristocratico da macchietta, da principe della pappa molla o da re del fazzoletto di carta, quando non voleva che qualcosa si muovesse. Ma, esauriti questi remake in cartapesta, il capitale non ha altra cultura da offrire che vendere e comprare; oggi è sul punto di sputare questo amaro boccone, sperando che nel frattempo tutta la popolazione sia diventata abbastanza abbrutita per accontentarsene.
VIII
Se il razzismo in tutte le sue forme — positive e negative — è così forte nelle manifestazioni di pensiero attuale, non è solo perché esprime un mondo pratico basato sulle segregazioni di fatto (che il pensiero poi non fa altro che trasportare sotto una forma più o meno modificata). Questa sua forza la trae anche da una mancanza essenziale, che esprime a modo proprio: quella di una esistenza da liberi individui, ciò che la lingua di legno statale definisce “cittadinanza”. Cosa dicono gli attuali legislatori? Il diritto del suolo, ad esempio in Francia, permette in maniera pretesa antirazzista di considerare come “cittadino” il figlio di persone, ad esempio africane, che non hanno nessuna caratteristica dei francesi, o nemmeno di un europeo, che non ne avranno mai e che soprattutto non ne vogliono avere. Viceversa il diritto del sangue, ad esempio in Germania, rifiuta in maniera razzista la cittadinanza a persone, per esempio turche, nate in Germania e da genitori che vivono integralmente alla maniera dei tedeschi (così facendo, la legislazione tedesca contemporanea non si disfa delle proprie origini naziste). I due modi di trattamento sono chiaramente entrambi criticabili. Non è il territorio dove nasco, né il mio «sangue» (gran bella nozione!), a determinare la mia personalità. La vera questione è altrove: in cosa sono un libero individuo abitante in un paese, vale a dire una parte attiva della vita di questo paese? E di conseguenza: c’è innanzitutto un posto reale nei paesi moderni per qualcosa che assomiglia a un libero individuo? Perché, prima di chiedere come si possa diventare cittadini di un paese, bisognerebbe che questo termine avesse un senso diverso da quello oggi imperante di suddito obbediente. Il che è una questione eminentemente pratica, che la questione della nazionalità oscura costantemente.
IX
Come già detto, l’essere umano non va definito per le sue “radici”, per la sua origine, per le sue determinazioni passate, ma si definisce attivamente con la maniera in cui la sua esistenza sociale, cioè la sua vita e la sua coesistenza con altri individui, e con la loro comunità in generale, vanno concretamente a definirlo, ed essere da lui definite. Egli può esistere realmente solo esercitando in modo integrale la propria libertà di crearsi l’ambiente circostante che desidera; solo trasformando il mondo di conseguenza; solo spezzando senza compromessi il giogo della proprietà privata e dell’economia; solo vivendo con chi accetta questo progetto e lo compie consapevolmente e apertamente. Detto altrimenti, nessuno di noi e dei nostri contemporanei esiste realmente in quanto libero individuo, poiché la libertà potrebbe esistere solo a prezzo del nostro odierno modo di vivere: la nostra epoca ignora la totalità della libertà, senza eccezioni. Quanto al razzismo, non è che una scappatoia destinata a soffocare la mancanza d’una vita in libertà. Grazie al razzismo, e all’antirazzismo, una larga parte dell’umanità cerca di accontentarsi della miseria nella quale marcisce, rivendicando questa miseria come se fosse propria (o reclamando una miseria leggermente modificata, con la quale potrebbe infine identificarsi). Ma l’autoemancipazione dell’umanità può avvenire senza l’autodissoluzione delle sue categorie alienate?
X
È indispensabile sprigionare il nucleo razionale del razzismo e contrapporlo a quest’ultimo. In effetti la rinuncia alle categorie razziste non potrà avvenire da sé: nessun malato abbandona i suoi sintomi senza fare prima scoppiare la loro verità nascosta. Il modo di pensare razzista è indispensabile a un essere umano radicalmente indebolito dalla propria mancanza di libertà, dalla propria condizione di schiavo degno di servire il re di Persia. Un uomo ridotto a così poco non ha affatto i mezzi per lasciar cadere la propria illusoria consolazione: «schiavo, forse, ma di razza!». È perfettamente vano cercare di convincerlo dell’idiozia di un simile punto di vista, perché questa idiozia gli è vitale — una «menzogna vitale», come diceva Nietzsche. È solo riprendendo gusto per una esistenza di e in libertà che egli lascerà deperire queste fantasmagorie.
XI
Non è quindi l’antirazzismo che farà scomparire il razzismo, di cui in verità è solo il falso contrario, non più di quanto lo farà lo spirito di tolleranza, questa tisana dello spirito. Solo la sovversione dell’ordine esistente è in grado di riavvicinare gli individui fra di loro (al di là delle particolarità così ridotte a niente); di riavvicinare ciascuno a se stesso, alla sua natura vivente e alla sua autorealizzazione; e di riportare agli autentici obiettivi coloro che si «ingannano di rabbia».
XII
Il tasso di razzismo è inversamente proporzionale alle tendenze rivoluzionarie coscienti di un’epoca. Ai giorni nostri, la sua ampiezza traduce in forma positiva di miseria l’assenza di volontà di cambiamento. Così come il razzismo «totalitario» si era manifestato come reazione alle rivoluzioni abortite dal 1917 al 1923 in Europa e in Russia, e per meglio allontanare per sempre lo spettro di nuovi disordini sociali organizzando come antidoto dei disordini di Stato (la guerra civile contro le «razze» invalida, zingara ed ebrea; la guerra straniera contro le «razze» slava e romana), allo stesso modo l’attuale decomposizione dei conflitti sociali si scarica sulla questione avvelenata delle minoranze, povere certo, ma tenute in tale povertà da Stati del tutto spoliticizzati, a titolo di lumpen-clientelismo. Si mantiene semplicemente la divisione razzista «sul fuoco», come una possibilità permanente di appassionare le folle pro o contro questioni costantemente infra-politiche: perché lo spettacolo «politico» non ha altro obiettivo in effetti che mascherare e consolidare la scomparsa radicale della politica.
(Machete, n. 3, 11/2008)