Palestina. L’Intifada continua

intiIn tutti i territori palestinesi occupati prosegue la rivolta popolare e ogni giorno le cronache raccontano di scontri, incursioni e resistenza. Dalle prime settimane di ottobre oltre 110 sono stati i palestinesi uccisi, 19 gli israeliani.

Solo durante il fine settimana appena trascorso a Gerusalemme un palestinese è stato ucciso nei pressi di Damascus Gate, mentre un altro veniva colpito a morte al vicino check-point di Hizma. Nelle stesse ore, vicino all’insediamento di Ofra, nella zona di Ramallah, un altro veniva ucciso in auto mentre, appena un’ora prima, nel villaggio di Abud, soldati israeliani colpivano a morte un altro giovane. In tutti i casi le vittime erano accusate di essere in procinto di attaccare soldati o civili israeliani. Sempre con le stesse accuse, stavolta nei pressi di Hebron, venivano uccisi altri due palestinesi.

A Hebron, una delle città da cui ha preso piede questa Intifada, dove si sono registrate oltre un terzo delle vittime e dove la vita per i palestinesi è sempre più difficile, gli abitanti si trovano a vivere circondati da insediamenti con migliaia di soldati che proteggono la violenza colona. In città l’accesso ad alcune zone è vietato ai non residenti mentre chi vi abita deve quotidianamente attraversare innumerevoli check-point e subire l’umiliazione di essere fermati e interrogati spesso per ore ed ore senza ragione alcuna. Ma, come le cronache di questi ultimi due mesi hanno dimostrato, la pazienza ha superato ogni limite ad Hebron.

L’altra città al centro di questa Intifada è poi Gerusalemme con il suo hinterland. Oltre alle miriadi di check-point, alla nascita di nuovi insediamenti e alle chiusure della città vecchia, ci poi sono le continue incursioni nelle varie zone della città. Circa 2000 soldati ad esempio sono stati impiegati per il recente raid nel campo di Shufat, l’unico campo profughi nella zona di Gerusalemme, inglobato nella parte “ebraica” del Muro dell’Apartheid. Un enorme dispiegamento militare è servito per demolire la casa della famiglia del martire palestinese Ibrahim Akari. Questa demolizione, avvenuta ad un anno dalla sua uccisione, rappresenta una delle tante pratiche che, insieme agli arresti e alla revoca delle residenze, fanno parte delle punizioni collettive contro le famiglie o la comunità dei martiri palestinesi. Sempre nella Gerusalemme occupata si è poi registrato il sesto attacco militare all’ospedale di al-Makassed, nella zona di al-Tour, invaso e devastato dai soldati alla ricerca delle cartelle cliniche dei feriti lì curati per procedere all’identificazione e rendere più semplice l’arresto di chi è colpevole di lottare nelle varie parti della capitale contesa.

Un altra questione che in questi giorni continua a far parlare di se è proprio quella dei prigionieri. Infatti nelle città e nei campi profughi ogni giorno incursioni e coprifuochi aprono la strada a nuovi arresti e ad oggi si stima che i detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane siano oltre 6700.

Tra i protagonisti di questa Intifada, accanto ai campi profughi che insorgono, ai detenuti che continuano a lottare tra mille difficoltà, c’è poi una generazione completamente disillusa che, forte del malcontento generale nei confronti della leadership palestinese, non si accontenta più delle vuote parole dei tavoli dei negoziati. Cresce lo scontento verso l’ANP, quella leadership moderata che, dicendosi ancora fiduciosa delle rovine del processo di Oslo, continua a chiedere di fermare le violenze per poter raggiungere una qualche indipendenza attraverso negoziati.

Ma questi negoziati non rientrano più nei piani di chi vive le strade in Palestina e ha subito sulla propria pelle gli effetti del “processo di pace”: maggiore colonizzazione, insediamenti, servilismo dell’ANP nei confronti delle forze occupanti e svendita dei diritti nazionali. Ogni giorno migliaia di persone, a mani vuote, con un sasso o un coltello, decidono di scagliarsi contro un nemico che li opprime da quasi 7 decenni. Una lotta difficile, contro un nemico militarmente più forte, ma che riesce far si che ogni funerale e ogni liberazione dalle carceri diventi la spinta per chi non accetta più di negoziare la propria sorte all’interno di un processo fatto di parole vuote e decide invece di affidare il proprio destino alla strada della resistenza.

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