Dieci pugnalate alla politica (it/fr/de)

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La politica è l’arte della separazione. Dove la vita ha perso la sua pienezza, dove il pensiero e l’azione dei singoli sono stati sezionati, catalogati e rinchiusi in sfere staccate — lì comincia la politica. Avendo allontanato alcune attività degli individui (la discussione, il conflitto, la decisione in comune, l’accordo) in una zona a sé che pretende di governare — forte della sua indipendenza — tutte le altre, la politica è allo stesso tempo separazione tra le separazioni e gestione gerarchica della separatezza.

 

Così essa si rivela come specialismo, costretta a trasformare il problema irrisolto della propria funzione nel presupposto necessario per risolvere tutti i problemi. Proprio per questo il ruolo dei professionisti in politica è indiscutibile — e tutto ciò che si può fare è sostituirli di tanto in tanto. Tutte le volte che i sovversivi accettano di separare i vari momenti della vita e di cambiare — partendo da questa separazione — le condizioni date, diventano i migliori alleasti dell’ordine del mondo. Proprio mentre aspira ad essere una sorta di pre-condizione della vita stessa, la politica soffia ovunque il proprio alito mortifero.

La politica è l’arte della rappresentanza. Per governare le mutilazioni inflitte alla vita, essa costringe gli individui alla passività, alla contemplazione dello spettacolo allestito sulla propria impossibilità di agire, sulla delega irresponsabile delle proprie decisioni. Allora, mentre l’abdicazione alla volontà di determinare se stessi trasforma i singoli in appendici della macchina statale, la politica ricompone in una falsa unità la totalità dei frammenti. Potere e ideologia celebrano così le proprie nozze funeste. Se la rappresentanza è ciò che toglie agli individui la capacità di agire, fornendo loro come contropartita l’illusione di essere partecipanti e non spettatori, questa dimensione del politico riappare sempre là dove una qualsiasi organizzazione soppianta i singoli e un qualsiasi programma li mantiene nella passività. Riappare sempre là dove un’ideologia unisce ciò che nella vita è separato.

La politica è l’arte della mediazione. Tra la presunta totalità e i singoli, e tra individuo e individuo. Come la volontà divina ha bisogno dei propri interpreti terreni, così la Collettività ha bisogno dei propri delegati. Come nella religione non esistono rapporti tra uomini ma solo tra credenti, così nella politica a incontrarsi non sono gli individui, bensì i cittadini. I legami di appartenenza impediscono l’unione perché solo nella differenza la separazione scompare. La politica ci rende tutti uguali poiché nella schiavitù non ci sono diversità — uguaglianza davanti a Dio, uguaglianza davanti alla legge. Per questo al dialogo reale, che nega la mediazione, la politica sostituisce la sua ideologia. Il razzismo è l’appartenenza che impedisce i rapporti diretti tra i singoli. Ogni politica è simulazione partecipativa. Ogni politica è razzista. Solo demolendo nella rivolta le sue barriere si possono incontrare gli altri nella loro singolarità. Mi rivolto, dunque siamo. Ma se noi siamo, addio rivolta.

La politica è l’arte dell’impersonalità. Ogni azione è come l’istante di una scintilla che sfugge all’ordine della genericità. La politica è l’amministrazione di quell’ordine. «Cosa vuoi che sia un’azione di fronte alla complessità del mondo?» Così argomentano gli addormentati nella duplice sonnolenza di un Si che è nessuno e di un Più tardi che è mai. La burocrazia, fedele ancella della politica, è il niente amministrato affinché Nessuno possa agire. Affinché ciascuno non riconosca le proprie responsabilità nell’irresponsabilità generalizzata. Il poter non dice più che tutto è sotto controllo, dice al contrario: «non ci riesco nemmeno io a trovare i rimedi, figuriamoci qualcun altro». La politica democratica ormai si fonda sull’ideologia catastrofica dell’emergenza («o noi o il fascismo, o noi o il terrorismo, o noi l’ignoto»). La genericità, anche quella antagonista, è sempre avvenimento che non avviene mai e che cancella tutto ciò che avviene. La politica invita tutti a partecipare allo spettacolo di questi movimenti da fermo.

La politica è l’arte del rinvio. Il suo tempo è il futuro, proprio per questo imprigiona tutti in un miserabile presente. Tutti insieme, ma domani. Chiunque dice «io e adesso» rovina, con quell’impazienza che è esuberanza di desiderio, l’ordine dell’attesa. Attesa di un obiettivo che esca dalla maledizione del particolare. Attesa di una crescita quantitativa adeguata. Attesa di risultati misurabili. Attesa della morte. La politica è il tentativo costante di trasformare l’avventura in avvenire. Ma solo se «io e adesso» decido ci può essere un noi che non sia lo spazio di una reciproca rinuncia, la menzogna che ci rende l’uno il controllore dell’altro. Chi vuole agire subito è guardato sempre con sospetto. Se non è un provocatore, si dice, di certo ne fa i servizi. Ma è l’istante di un’azione e di una gioia senza domani che ci porta al mattino dopo. Senza lo sguardo fisso alle lancette.

La politica è l’arte dell’accomodamento. Attendendo sempre che le condizioni siano mature, si finisce prima o poi con l’allearsi ai padroni dell’attesa. In fondo la ragione, che è l’organo della dilazione e del rinvio, offre sempre qualche buon motivo per accordarsi, per limitare i danni, per salvare qualche dettaglio di un tutto che si disprezza. La ragione politica ha occhi aguzzi per scovare le alleanze. Non tutto è uguale, ci dice. Rifondazione Comunista non è certo come questa destra rampante e pericolosa. (Alle elezioni non la si vota — siamo astensionisti, noi — ma i comitati cittadini, le iniziative in piazza sono un’altra cosa). La sanità pubblica è pur sempre meglio dell’assistenza privata. Un salario minimo garantito è pur sempre preferibile alla disoccupazione. La politica è il mondo del meno peggio. E rassegnandosi al male minore, si accette passo per passo quel tutto al cui interno soltanto sono concesse le preferenze. Chi invece di questo meno peggio non ne vuole sapere è un avventuriero. O un aristocratico.

La politica è l’arte del calcolo. Affinché le alleanze siano proficue, degli alleati bisogna apprendere i segreti. Il calcolo politico è il primo segreto. Occorre sapere dove si mettono i piedi. Occorre redigere dettagliati elenchi degli sforzi e dei risultati. E a forza di misurare ciò che si ha, si finisce col guadagnare tutto, tranne la voglia di giocarselo e di perderlo. Così si è sempre presso di sé, attenti e pronti a chiedere il conto. Con l’occhio fermo su ciò che ci circonda, non ci si dimentica mai di se stessi. Vigili come i carabinieri. Quando l’amore di sé diventa eccessivo, chiede di donarsi. E questa sovrabbondanza di vita ci fa dimenticare di noi stessi, ci fa perdere, nella tensione dello slancio, il conto. Ma la dimenticanza di sé è il desiderio di un mondo in cui valga la pena perdersi, di un mondo che meriti il nostro oblio. Ed è per questo che il mondo così com’è, amministrato da carcerieri e da contabili, va distrutto — per fare spazio al dispendio di noi stessi. Qui comincia l’insurrezione. Superare il calcolo, ma non per difetto, come raccomanda quell’umanitarismo che, chiotto chiotto, alla fine si allea sempre con il boia, bensì per eccesso. Qui finisce la politica.

La politica è l’arte del controllo. Che l’attività umana non si liberi dalle pastoie dell’obbligo e del lavoro per rivelarsi in tutta la sua potenza. Che gli operai non si incontrino in quanto individui e non cessino di farsi sfruttare. Che gli studenti non decidano di distruggere le scuole per scegliere come, quando e cosa imparare. Che i famigliari non si innamorino e non smettano di essere piccoli servitori di un piccolo Stato. Che i bambini non siano qualcosa di diverso dalla copia imperfetta degli adulti. Che non si liquidi la distinzione tra (anarchici) buoni e (anarchici) cattivi. Che non siano gli individui ad avere rapporti, bensì le merci. Che non si disobbedisca all’autorità. Che se qualcuno attacca le strutture dello sfruttamento dello Stato ci si affretti a dire che «non è opera di compagni». Che le banche, i tribunali, le caserme non saltino in aria. Insomma, che la vita non si manifesti.

La politica è l’arte del ricupero. Il modo più efficace per scoraggiare ogni ribellione, ogni desiderio di cambiamento reale, è presentare un uomo di Stato come sovversivo, oppure — meglio ancora — trasformare un sovversivo in un uomo di Stato. Non tutti gli uomini di Stato sono pagati dal governo. Ci sono funzionari che non si trovano in parlamento e nemmeno nelle stanze adiacenti; anzi, frequentano i centri sociali e conoscono discretamente le principali tesi rivoluzionarie. Discettano sulle potenzialità liberatorie della tecnologia, teorizzano di sfere pubbliche non statali e di oltrepassamento del soggetto. La realtà — lo sanno bene — è sempre più complessa di qualsiasi azione. Così, se auspicano una teoria totale è solo per poterla, nella vita quotidiana, dimenticare totalmente. Il potere ha bisogno di loro perché — come loro stessi ci insegnano — quando nessuno lo critica il potere si critica da sé.

La politica è l’arte della repressione. Di chiunque non separa i vari momenti della propria vita e vuole cambiare le condizioni date a partire dalla totalità dei propri desideri. Di chiunque vuole bruciare la passività, la contemplazione e la delega. Di chiunque non si lascia soppiantare da alcuna organizzazione né immobilizzare da alcun programma. Di chiunque vuole avere rapporti diretti tra individui e fa della differenza lo spazio stesso dell’uguaglianza. Di chiunque non ha alcun noi su cui giurare. Di chiunque disturba l’ordine dell’attesa perché vuole insorgere subito, non domani o dopodomani. Di chiunque si dona senza contropartita e se ne dimentica per eccesso. Di chiunque difende i propri compagni con amore e risolutezza. Di chiunque offre ai ricuperatori una sola possibilità: quella di scomparire. Di chiunque rifiuta di prendere posto nell’innumere schiera dei furbi e degli addormentati. Di chiunque non vuole né governare né controllare. Di chiunque vuole trasformare l’avvenire in una affascinante avventura.

“Il pugnale”, maggio 1996

 

 

Dix coups de poignard à la politique

La politique est l’art de la séparation. Là où la vie a perdu sa plénitude, où la pensée et l’action des individus ont été sectionnés, catalogués et enfermés dans des sphères séparées, là commence la politique. Ayant éloigné certaines activités des individus (la discussion, le conflit, la décision en commun, l’accord) en une zone en soi qu’elle prétend gouverner, forte de son indépendance, la politique est en même temps séparation parmi les séparations et gestion hiérarchique du cloisonnement. Elle se révèle ainsi comme une spécialisation, contrainte à transformer le problème en suspens de sa propre fonction en un présupposé nécessaire pour résoudre tous les problèmes. C’est justement pour cela que le rôle des professionnels de la politique est indiscutable – et la seule chose qu’on peut faire c’est les substituer, en changer de temps en temps. Chaque fois que les subversifs acceptent de séparer les différents moments de la vie et pour changer, en partant de cette séparation, les conditions données, ils deviennent les meilleurs alliés de l’ordre du monde. C’est justement parce qu’elle aspire à être une sorte de condition première de la vie même que la politique insuffle partout son haleine mortifière.

 

La politique est l’art de la représentation. Pour gouverner les mutilations infligées à la vie, elle contraint les individus à la passivité, à la contemplation du spectacle mettant en scène sa propre impossibilité d’agir, la délégation irresponsable de ses propres décisions. Alors, tandis que l’abdication de la volonté de se déterminer soi-même transforme les individus en appendices de la machine étatique, la politique recompose en une fausse unité la totalité des fragments. Pouvoir et idéologie célèbrent ainsi leurs propres noces funestes. Si la représentation est ce qui enlève aux individus la capacité d’agir, leur fournissant en contrepartie l’illusion d’être des participants et pas des spectateurs, cette dimension du politique réapparaît toujours là où une quelconque organisation supplante les individus et un quelconque programme les maintient dans la passivité. Elle réapparaît toujours là où une idéologie unit ce qui est opposé dans la vie.

La politique est l’art de la médiation. Entre la totalité présumée et la singularité, et entre les individus. Tout comme la volonté divine a besoin de ses propres interprètes et représentants terrestres, la Collectivité a besoin de ses propres délégués. Tout comme il n’existe pas dans la religion de rapports entre les hommes mais seulement entre les croyants, ce ne sont pas les individus qui se rencontrent dans la politique, mais les citoyens. Les liens d’appartenance empêchent l’union, parce que ce n’est que dans la différence que disparaît la séparation. La politique nous rend égaux parce qu’il n’y a pas de diversité dans l’esclavage – égalité devant Dieu, égalité devant la loi. Au dialogue réel qui, lui, nie le pouvoir en niant la médiation, la politique substitue son idéologie. Le racisme est l’appartenance qui empêche les rapports directs entre les individus. Toute politique est une simulation participative. Toute politique est raciste. Ce n’est qu’en démolissant ses barrières dans la révolte qu’on peut rencontrer les autres dans leur et notre singularité. Je me révolte donc nous sommes. Mais si nous sommes, adieu révolte.

La politique est l’art de l’impersonnel. Toute action est unique et particulière. Toute occasion est comme l’instant d’une étincelle qui fuit l’ordre du vague. La politique est l’administration de cet ordre. « Quel sens veux-tu qu’aie une action face à la complexité du monde ? » C’est ainsi qu’argumentent les endormis par la double somnolence d’un Si qui n’est personne et d’un Plus tard qui n’est jamais. La bureaucratie, fidèle servante de la politique, est le rien administré afin que Personne ne puisse agir. Afin que d’aucun ne reconnaisse jamais sa propre responsabilité dans l’irresponsabilité généralisée. Le pouvoir ne dit plus que tout est sous contrôle, il dit au contraire : « Si même moi je ne réussis pas à trouver des remèdes, imaginez quelqu’un d’autre ». La politique démocratique se base désormais sur l’idéologie catastrophiste de l’urgence (« C’est nous ou le fascisme, c’est nous ou le terrorisme, c’est nous ou l’inconnu »). Le vague, même celui qui est antagoniste, est toujours un événement abstrait, un événement qui n’arrive jamais et qui efface tout ce qui advient. La politique invite chacun à participer au spectacle de ces mouvements en arrêt.

La politique est l’art de l’ajournement. Son temps est le futur, c’est pour cela qu’elle nous emprisonne tous dans un misérable présent. Tous ensemble, mais demain. Quiconque dit « Moi et maintenant » ruine, avec cette impatience qui est l’exubérance du désir, l’ordre de l’attente. Attente d’un objectif qui sorte de la malédiction du particulier. Attente d’un groupe dans lequel ne pas mettre en péril ses propres décisions et cacher ses propres responsabilités. Attente d’une croissance quantitative adéquate. Attente de résultats mesurables. Attente de la mort. La politique est la tentative permanente de transformer l’aventure en avenir. Mais c’est uniquement si « moi et maintenant » le décide qu’il peut exister un nous qui ne soit pas l’espace d’un renoncement réciproque, le mensonge qui fait de l’un le contrôleur de l’autre. Celui qui veut agir tout de suite est toujours vu comme suspect. Si ce n’est pas un provocateur, dit-on, il en a certainement l’apparence. Mais c’est l’instant d’une action et d’une joie sans lendemain qui nous porte au matin suivant. Sans le regard fixé aux aiguilles de la montre.

La politique est l’art de l’accommodement. Attendant toujours que les conditions soient mûres, on finit un jour ou l’autre par s’allier au patron dans l’attente. Au fond la raison, qui est l’organe de l’échelonnement et de l’ajournement, offre toujours une bonne justification pour se mettre d’accord, pour limiter les dégâts, pour sauver quelques détails d’un tout que l’on méprise. La raison politique a des yeux perçants pour dénicher des alliances. Tout n’est pas égal nous dit-on. Rifondazione comunista n’est certes pas comme cette droite rampante et dangereuse. (Aux élections on ne vote pas pour elle – nous sommes abstentionnistes, nous – mais les comités citoyens, les initiatives dans la rue, c’est autre chose). La santé publique sera toujours mieux que l’assistance privée. Un salaire minimum garanti sera toujours préférable au chômage. La politique est le monde du moins pire. Et en se résignant au moindre mal, on accepte pas à pas ce tout, à l’intérieur duquel ne nous sont concédées que des préférences. Celui qui en revanche ne veut rien savoir de ce moins pire est un aventuriste. Ou un aristocrate.

La politique est l’art du calcul. Afin que les alliances soient profitables il est nécessaire d’apprendre les secrets de ses alliés. Le calcul politique est le premier des secrets. Il faut savoir où on met les pieds. Il faut rédiger des listes détaillées des efforts et des résultats obtenus. Et à force de mesurer ce que l’on a, on finit par tout obtenir, excepté la volonté de le mettre en jeu et de le perdre. On est s’économise, attentif et prêt à présenter l’addition. L’œil fixé sur ce qui nous entoure, on ne s’oublie jamais soi-même. Vigilants comme les carabiniers.
Lorsque l’amour de soi déborde, il exige d’être propagé. Et cette surabondance de vie nous fait nous oublier, nous fait perdre le compte dans la tension de l’élan. Mais l’oubli de soi est le désir d’un monde où il vaille la peine de se perdre, d’un monde qui mérite notre oubli. C’est pour cela que le monde tel qu’il est, administré par des matons et des comptables, doit être détruit – pour qu’on puisse se dépenser sans compter. Là commence l’insurrection. Dépasser le calcul, mais non par défaut, comme le recommande cet humanitarisme qui pas après pas finit toujours par s’allier avec le bourreau, mais bien par excès. Là finit la politique.

La politique est l’art du contrôle. Afin que l’activité humaine ne se libère pas des entraves du devoir et du travail pour se révéler dans toute sa puissance. Afin que les ouvriers ne se rencontrent pas en tant qu’individus et n’arrêtent pas de se faire exploiter. Afin que les étudiants ne décident pas de détruire les écoles pour choisir comment, quand et quoi apprendre. Afin que les membres de la famille ne tombent pas amoureux les uns des autres et ne cessent d’être de petits serviteurs d’un petit Etat. Afin que les enfants ne soient rien d’autre que la copie imparfaite des adultes. Afin qu’on ne liquide pas la distinction entre les bons (anarchistes) et les mauvais (anarchistes). Afin que ce ne soient pas les individus qui aient des rapports, mais les marchandises. Afin qu’on ne désobéisse pas à l’autorité. Afin que si quelqu’un attaque les structures de l’Etat, on s’empresse de dire que « ce n’est pas l’œuvre de compagnons ». Afin que les banques, les tribunaux, les casernes ne sautent pas en l’air. En somme, que la vie ne se manifeste pas.

La politique est l’art de la récupération. La manière la plus efficace pour décourager toute rébellion, tout désir de changement réel, est de présenter un homme d’Etat comme un subversif, ou bien – mieux encore – transformer un subversif en homme d’Etat. Tous les hommes d’Etat ne sont pas payés par le gouvernement. Ils existent des fonctionnaires qui ne siègent pas au Parlement et encore moins dans ses pièces adjacentes ; au contraire, ils fréquentent les centres sociaux et connaissent discrètement les principales thèses révolutionnaires. Ils dissertent sur les potentialités libératoires de la technologie, ils théorisent des sphères publiques non étatiques et le dépassement du sujet. La réalité – ils le savent bien – est toujours plus complexe que n’importe quelle action. Ainsi, s’ils conçoivent une théorie totale, c’est uniquement dans le but de pouvoir, dans la vie quotidienne, l’oublier totalement. Le pouvoir a besoin d’eux parce que – comme ils nous l’enseignent eux-mêmes – lorsque personne ne le critique, le pouvoir est critiqué en tant que tel.

La politique est l’art de la répression. De celui qui ne sépare pas les différents moments de sa vie et veut changer les conditions données à partir de la totalité de ses propres désirs. De celui qui veut brûler la passivité, la contemplation et la délégation. De celui qui ne se laisse supplanter par aucune organisation, ni immobiliser par aucun programme. De celui qui veut avoir des rapports directs entre individus et fait de la différence l’espace même de l’égalité. De celui qui n’a aucun nous sur lequel jurer. De celui qui perturbe l’ordre de l’attente parce qu’il veut s’insurger tout de suite, pas demain, ni après-demain. De celui qui se donne sans contrepartie et s’oublie par excès. De celui qui défend ses compagnons avec amour et détermination. De celui qui n’offre aux récupérateurs qu’une seule possibilité : celle de disparaître. De celui qui refuse de prendre place parmi la foule innombrable des fourbes et des endormis. De celui qui ne veut ni gouverner ni contrôler. De celui qui veut transformer l’avenir en une aventure fascinante.

Traduit de Il Pugnale, journal anarchiste à numéro unique, Italie, mai 1996

Extrait d’A Corps Perdu n°1

 

 

Zehn Dolchstiche gegen die Politik

Politik ist die Kunst der Separation. Da, wo das Leben seine Fülle verloren hat, wo das Denken und Handeln der Individuen unterteilt, katalogisiert und in separierten Sphären eingeschlossen wird, da beginnt die Politik. Indem sie gewisse Aktivitäten (die Diskussion, der Konflikt, die gemeinsame Entscheidung, die Abmachung) von den Individuen in eine Zone entfernt, die sie regieren will, ist die Politik, aufgrund ihrer Unabhängigkeit, gleichzeitig eine Separation unter den Separationen und hierarchische Verwaltung dieser Trennung. Sie erweist sich also als eine Spezialisierung, die gezwungen ist, das anstehende Problem ihrer Funktion in eine notwendige Voraussetzung zu verwandeln, dazu bestimmt alle Probleme zu lösen. Genau darum ist die Rolle der professionellen Politiker indiskutabel – und das einzige was man machen kann, ist sie zu ersetzen, sie gelegentlich auszuwechseln. Jedes mal, wenn die Subversiven die Separation der verschiedenen Momente des Lebens akzeptieren, und die gegebenen Verhältnisse, ausgehend von dieser Separation, verändern wollen, werden sie zu den besten Verbündeten dieser Weltordnung. Und gerade weil sie danach strebt, eine Grundbedingung des Lebens selbst zu sein, flösst die Politik überall ihren tödlichen Atem ein.

 

Politik ist die Kunst der Repräsentation. Um die dem Leben zugefügten Verstümmelungen zu regieren, zwingt sie die Individuen in die Passivität, in die verantwortungslose Delegation der eigenen Entscheidungen, in die blosse Kontemplation des Spektakels, das die eigene Unmöglichkeit zu Handeln in Szene setzt. Also, während die Individuen den Willen aufgeben sich selbst zu bestimmen und sich in blinde Anhängsel der staatlichen Maschinerie verwandeln, setzt die Politik die Gesamtheit der Fragmente in einer falschen Einheit wieder zusammen. Macht und Ideologie feiern ihre unheilvolle Vermählung. Da die Repräsentation, das ist, was den Individuen ihre Handlungsfähigkeit entreisst, bietet sie als Ausgleich die Illusion Teilnehmer zu sein und nicht bloss Zuschauer. Diese Dimension der Politik spiegelt sich überall da wieder, wo eine beliebige Organisation die Individuen verdrängt, und ein beliebiges Programm sie in ihrer Passivität gefangen hält. Sie spiegelt sich überall da wieder, wo eine Ideologie jenes vereint, was sich im Leben gegenüber steht.

Politik ist die Kunst der Mediation. Zwischen der vorausgesetzten Totalität und der Singularität, sowie zwischen den Individuen. Genauso wie der Wille Gottes seine eigenen irdischen Interpreten und Repräsentanten verlangt, so bedarf auch die Gemeinschaft ihrer eigenen Delegierten. Genauso wie in der Religion keine Beziehungen zwischen Menschen existieren, sondern zwischen Gläubigen, sind es auch nicht die Individuen, die sich in der Politik begegnen, sondern die Bürger. Die Fesseln der Zugehörigkeit verhindern die Vereinigung, denn nur durch die Verschiedenheit wird die Separation aufgehoben. Die Politik behandelt uns gleich, weil es in Knechtschaft keine Unterschiede gibt – Gleichheit vor Gott, Gleichheit vor dem Gesetz. An der Stelle des direkten Dialoges, der der Mediation entgeht und daher die Macht negiert, errichtet die Politik ihre Ideologie. Der Rassismus ist die Zugehörigkeit, die direkte Verbindungen zwischen den Individuen verhindert. Jede Politik ist partizipative Simulation. Jede Politik ist rassistisch. Nur wenn wir diese Schranken durch die Revolte zerstören, können wir einander als Singularitäten begegnen. Ich revoltiere, also sind wir. Doch wenn Wir sind, adieu Revolte.

Politik ist die Kunst des Unpersönlichen. Jede Handlung ist einmalig und besonders. Jede Gelegenheit könnte der Moment eines Funkens sein, der der Ordnung des Vagen entflieht. Die Politik ist die Verwaltung dieser Ordnung. «Welchen Sinn soll schon eine Handlung haben angesichts der Komplexität dieser Welt?» So argumentieren die Schlafenden mit der doppelten Schläfrigkeit eines Wenn nur, das niemand ist und eines Später, das niemals kommt. Die Bürokratie, treue Dienerin der Politik, verwaltet das Nichts, damit niemand mehr zu handeln vermag. Damit nie wieder jemand seine Verantwortung in der generalisierten Verantwortungslosigkeit wiedererkennt. Die Macht behauptet nicht mehr, dass alles unter Kontrolle sei, im Gegenteil, sie sagt: «Wenn es selbst mir nicht gelingt eine Lösung zu finden, dann stellt euch mal jemand anderes vor.» Die demokratische Politik basiert fortan auf der katastrophalen Ideologie der Dringlichkeit («uns oder den Faschismus, uns oder den Terrorismus, uns oder das Unbekannte»). Das Ungewisse, auch das antagonistische, ist ein abstraktes Ereignis, ein Ereignis, das nie eintrifft und das alles Gegenwärtige auflöst. Die Politik lädt jeden zur Teilnahme ein, an diesem Spektakel der Bewegung im Stillstand.

Politik ist die Kunst der Vertagung. Da ihre Zeit stets die Zukunft ist, hält sie uns alle in einer mieserablen Gegenwart gefangen. Alle zusammen, aber Morgen. Doch derjenige, der sagt: «Ich und jetzt» ruiniert, mit dieser Ungeduld, dieser Überschwenglichkeit an Begierde, die Ordnung des Wartens. Warten auf Irgendetwas, das aus dieser Verdammung des Partikulären führt. Warten auf eine Gruppe, in der man nicht seine eigenen Entscheidungen in Gefahr bringt, in der man seine eigene Verantwortung verstecken kann. Warten auf ein angemessenes quantitatives Wachstum. Warten auf messbare Resultate. Warten auf den Tod. Die Politik ist der permanente Versuch, das Abenteuer in die Zukunft zu versetzen. Doch nur wenn «Ich und jetzt» entscheidet, kann es ein Wir geben, das der gegenseitigen Verleugnung keinen Platz einräumt, jener Lüge, die den einen zum Kontrolleur des Anderen macht. Wer unmittelbar handeln will, wird immer gleich als verdächtig betrachtet. Wenn das kein Provokateur ist, sagt man, so sieht er zumindest so aus. Doch es ist der Moment einer Handlung, die unaufschiebbare Freude, die uns zum nächsten Morgen trägt. Ohne fixierten Blick auf die Zeiger der Uhr.

Politik ist die Kunst des Kompromisses. Jeden Tag darauf wartend, dass die Verhältnisse günstig sind, endet man eines Tages in Allianz mit den Wächtern des Wartens. Schlussendlich bietet der Verstand, das Instrument der Aufteilung und Vertagung, jeden Tag eine gute Rechtfertigung um sich zu einigen, um den Schaden zu limitieren, um einige Details eines Ganzen zu retten, das man verachtet. Der politische Verstand hat durchdringende Augen, wenn es darum geht Allianzen aufzuspüren. Man kann nicht alles auf dieselbe Ebene setzen, sagt man uns. Rifondazione Comunista ist bestimmt nicht wie diese kriecherische und gefährliche Rechte (Wir wählen sie zwar nicht – wir enthalten uns doch bei Wahlen –, aber die Bürgerkomitees, die Initiativen auf der Strasse, das ist etwas Anderes). Das staatliche Gesundheitswesen ist noch immer besser als private Versorgung. Ein garantierter Minimallohn ist noch immer der Arbeitslosigkeit vorzuziehen. Die Politik ist die Welt des weniger Schlimmen. Und während man sich mit dem geringeren Übel abfindet, akzeptiert man Stück für Stück das Ganze, in einer Umgebung, die uns nur noch Vorlieben gewährt. Derjenige dagegen, der von diesem geringeren Übel nichts wissen will, ist ein Abenteurer. Oder ein Aristokrat.

Politik ist die Kunst der Berechnung. Damit die Allianzen profitabel sind, ist es nötig, sich die Geheimnisse seiner Verbündeten anzueignen. Die politische Berechnung ist das erste der Geheimnisse. Man muss wissen, worauf man sich einlässt. Man erstellt detaillierte Listen der Anstrengungen und der erreichten Resultate. Und durch unermüdliches Bemessen dessen was man hat, hat man schluss­endlich alles erreicht, ausser dem Willen, dies aufs Spiel zu setzen und zu verlieren. Man ist sparsam, aufmerksam und bereit, die Rechnung zu präsentieren. Das Auge stehts auf das fixiert, was uns umgibt, vergisst man niemals sich selbst. Wachsam wie Polizisten.
Wenn die Liebe zu sich selbst überläuft, drängt sie danach verbreitet zu werden. Und diese Überfülle an Leben macht, dass wir uns vergessen, dass wir das Rechnen verlieren, in der Spannung der Eigendynamik. Doch sich selbst zu vergessen, ist das Verlangen nach einer Welt, wo es die Mühe wert ist, sich selbst zu verlieren, einer Welt, die unser Vergessen verdient. Aus diesem Grund muss diese Welt, so wie sie ist, verwaltet von Wärtern und Buchhaltern, zerstört werden – Damit wir uns ausgeben können, ohne zu berechnen. Denn hier beginnt der Aufstand. Die Berechnung hinter sich lassen, doch nicht durch den Verzicht (wie es derjenige Humanitarismus rät, der doch immer wieder damit endet, mit den Henkern im Bunde zu gehen), sondern durch den Exzess. Denn hier endet die Politik.

Politik ist die Kunst der Kontrolle. Damit sich die menschliche Aktivität nicht der Fesseln von Arbeit und Pflicht entledigt, und ihr ganzes Potenzial entfaltet. Damit die Arbeiter sich nicht als Indivi-duen begegnen und sich ihrer Ausbeutung nicht widersetzen. Damit die Studenten nicht die Schulen niederreissen, um selbst zu wählen, wie, wann und was sie lernen wollen. Damit die Familienmitglieder sich nicht ineinander verlieben, und nicht aufhöhren die kleinen Diener eines kleinen Staates zu sein. Damit die Kinder nichts anderes als eine unvollständige Kopie der Erwachsenen sind. Damit man die Unterscheidung zwischen guten (Anarchisten) und bösen (Anarchisten) nicht aufhebt. Damit die Beziehungen nicht zwischen den Individuen entstehen, sondern zwischen Waren. Damit man sich der Authorität nicht entzieht. Damit man, falls irgendjemand die staatlichen Strukturen angreift, sich beeilt zu sagen: «Das ist nicht das Werk unserer Leute.» Damit die Banken, Gerichte und Kasernen nicht in die Luft fliegen. In einem Wort: damit das Leben nicht stattfindet.

Politik ist die Kunst der Rekuperation. Die effizienteste Methode um jegliche Rebellion, jeglichen Wunsch nach wirklicher Veränderung zu entmutigen, ist den Staatsmann als Subversiven auszugeben, oder noch besser, den Subversiven in einen Staatsman zu verwandeln. Nicht alle Staatsmänner sind von der Regierung bezahlt. Es existieren Funktio­näre, die nicht im Parlament sitzen und noch weniger in dessen Nebenzimmern; im Gegenteil, sie besuchen die sozialen Zentren und kennen insgeheim die revolutionären Hauptthesen. Sie berichten ausführlich über das befreiende Potential der Technologie, sie theoretisieren nicht-staatliche Sphären der Öffentlichkeit und die Überwindung des Subjekts. Die Realität – das wissen sie gut – ist immer komplexer als irgendwelche Aktion. Wenn sie also eine totale Theorie entwerfen, ist das nur, um sie im Alltag völlig zu vergessen. Die Macht benötigt sie – wie sie es selbst uns beibringen –, denn wenn keine Kritik an der Macht ausgeübt wird, wird die Macht als solche kritisiert.

Politik ist die Kunst der Repression. Gegen jene, die ihr Leben nicht in verschiedene Momente aufteilen, und die gegebenen Verhältnisse verändern wollen, aufgrund der Gesamtheit ihrer eigenen Träume. Gegen jene, die die Passivität durchbrechen wollen, die Kontemplation und die Delegation. Gegen jene, die sich weder irgendeiner Organisation unterwerfen, noch sich blockieren lassen durch irgend ein Programm. Gegen jene, die unmittelbaren Austausch zwischen den Individuen wollen, und die Differenz als den Raum für die Gleichheit behandeln. Gegen jene, die kein Wir besitzen, auf das sie schwören. Gegen jene, die die Ordnung des Wartens angreifen und sich jetzt widersetzen wollen, nicht Morgen oder Übermorgen. Gegen jene, die sich hingeben, ohne Gegenleistung, und sich im Exzess verlieren. Gegen jene, die ihre Gefährten verteidigen mit Liebe und Bestimmtheit. Gegen jene, die den Rekuperateuren nur eine Möglichkeit lassen: Die des Verschwindens. Gegen jene, die sich weigern Platz zu nehmen in dem Gewimmel von Betrügern und Schlafenden. Gegen jene, die weder Regieren noch Kontrollieren wollen. Gegen jene, die die Zukunft in ein faszinierendes Abenteuer verwandeln wollen.

Übersetzt aus Il Pugnale, anarchistische Zeitschrift in einmaliger Ausgabe, Italien, Mai 1996