un esercizio di gratitudine.

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Stig Dagerman

Un “esercizio di gratitudine” a Dagerman tratto dal n.8 del mensile anarchico Invece.

I miei motivi per essere grato a Stig Dagerman non sono facili a dirsi. Un giovane che tale é voluto rimanere non solo nell’età anagrafica, ma nello spirito e nella sofferta allergia a tutti i compromessi, parlando a quei giovani che non hanno ancora messo il loro dio nella carriera e nei riconoscimenti della società. Dagerman é stato uno scrittore precoce e di successo, autore di numerosi romanzi acclamati dalla critica, ma questi sono dettagli che toccano soltanto le mura esterne della sua vita.

E’ stato anche un militante anarchico fin da quando non era ancora adulto, ma non ho bisogno di aver letto gli articoli politici che scriveva per sentirlo quanto mai vicino alle tensioni che animano la mia decisione di lottare, a quel che mi balena in testa quando parlo di anarchia. Più che uno scrittore, Dagerman è stato un uomo che usa la parola per scavare crepe, come un’arma attraverso cui scandagliare con lucidità spietata le sue e le tue debolezze, ma soprattutto infonderti con immagini vivide una promessa di felicità e di liberazione. Benché sembri strano non si occupa di letteratura e tantomeno fa dell’accademia, non ne aveva il tempo. I suoi libri non sono lo spunto utile per un astratto esercizio intellettuale, nonostante la densità anche filosofica di certe sue pagine…invece preferisce parlare per impressioni, suggestioni e se si vuole sentimenti, con una forza d’urto immediata ed un’intensità che colpisce nel modo più diretto. <Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che sorgono dal mio cervello. Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi da in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che mi importa dei soldi, che mi importa di rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che mi importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo.>. Questi libri affrontano, fra tutti “Il nostro bisogno di consolazione“, prima di tutto la coscienza di un’inadeguatezza e di una mancanza. Quella dell’aspirazione alla libertà sempre inappagata in un mondo organizzato per soffocarla, quella dell’individuo che si vuole unità autonoma laddove incontra soltanto funzioni che lo schiacciano, catene e dipendenze. Le forme irrigidite della società, il fardello delle prestazioni che da lui si pretendono, rendono l’individuo estraneo al mondo in cui si muove, intruso in tutti gli elementi più di qualsiasi altra specie. Senza neanche più una foresta in cui il Walden di Thoreau poteva trovare riparo. Pensando un attimo all’ambiente di vita alienante in cui ogni giorno dobbiamo muoverci, a quanto concorra nel consolidare e dare corpo alla nostra oppressione, viene facile capire intuitivamente di cosa si parla.

La speranza della liberazione è dunque un cammino doloroso e strenuo, un tormento continuo per sottrarsi alla false consolazioni, ai cedimenti e all’angoscia, a tutti i compromessi che fanno dileguare l’opportunità di prendere la propria vita in mano, di percorrere una possibilità sempre sfuggente e minacciata che dura il tempo di un adesso. La consolazione che traluce in queste pagine non è un giro di parole, una retorica per giustificare le proprie azioni e debolezze, per adeguarsi alla propria condizione, ma piuttosto un duello, una sfida contro le forze avverse che imprigionano la varietà del possibile, la promessa del riscatto. Un ” viaggio pieno di imprevisti tra luoghi inesistenti”, quello che  Stig Dagerman interpreta, una consolazione necessaria al sentirsi fuori luogo in questo mondo che deve al contempo illuminare subito una condotta di vita, uno sforzo di opporre la propria coscienza all’arroganza di chi costruisce prigioni.<(…) Il ricordo del miracolo della liberazione mi sostiene come un’ala verso una meta vertiginosa: una consolazione più bella di una consolazione e più grande di una filosofia, vale a dire una ragione di vita>. Nelle pagine di questo autore posso leggere distintamente un invito alla rivolta, a smettere di servire volontariamente, di alimentare il potere con la propria passività, accettando di sottoporre le proprie azioni alla tirannia del misurabile, al principio delle prestazioni utili e alla costrizione di ruoli innaturali. A porre finalmente in se stessi il proprio fine. E’ di questo che mi parlano le sue righe ispirate: delle piccole concessioni quotidiane con cui troppo spesso si tradiscono le proprie aspirazioni, dell’infedeltà ai propri desideri e delle soddisfazioni accessorie su cui si storna la propria impazienza. Ma, dice Dagerman, è indifferente che io incontri la bellezza per un istante o per cent’anni, e solo se la metto sul “patibolo del tempo” la mia vita deve produrre qualcosa, dei risultati quantificabili. Mi viene in mente Benjamin e quella vecchia storia degli orologi che si fermano, dell’arresto del tempo che accompagna sempre le rivoluzioni autentiche. Se la svincolo da punti di appoggio tanto fragili come quelli eretti a valori da un modo modellato sulla scala di fabbriche e carceri, se la faccio tendere a qualcosa di altro da un esistente che mi circonda a guisa di recinto, la mia vita non si misura e non da prestazioni. E su questa coscienza non si puo’ riposare pacificamente, è una base solida da cui partire ma non un porto e neanche un approdo definitivo. L’esperienza di questa liberazione è momentanea e precaria, Dagerman non lo nasconde neanche per un attimo. Per esprimerla utilizza l’immagine del mare, che permane in se stesso, sorregge certo flotte e delfini, senza pero esaurirsi in un compito o trovare il suo senso in un ruolo. Ma non si puo’ tenere all’infinito lo sguardo rivolto al mare, la mente impegnata in un’immagine ideale di libertà da cui trarre conforto e rassicurazione. Bisogna serbarne il ricordo, usarne la forza per affrontare gli ostacoli reali che impediscono di dare sostanza a questa immagine.<Verrà il tempo in dovrò volgermi verso la terra e affrontare gli organizzatori della mia oppressione>.

Ecco allora il mio motivo di gratitudine per Stig Dagerman…l’aver opposto le sue parole al mondo, per evocare, con chiarezza illuminante, quell’inquietudine illogica che spinge a   ribellarsi. E’ raro  che qualcuno getti luce sulle ragioni che muovono le tue stesse scelte. Non lo dimenticherò troppo spesso.