L’urgenza dell’attacco -Nicola Gai (luglio 2013) it/en/es

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Pubblichiamo un interessante documento di Nicola Gai apparso sull’ultimo numero di “Terra Selvaggia” a luglio 2013.

Il testo pone molti problemi (i freni imposti ed auto-imposti all’azione, l’urgenza di colpire il nemico, i rapporti tra compagni nelle lotte e nelle assemblee, ecc.) a cui sarebbe auspicabile trovare al più presto rimedio, al fine di trovare nuovi e sempre più incisivi sbocchi pratici nell’attacco distruttivo contro il dominio.

Il fatto che viviamo in un mondo di merda dove stato e capitale ci impongono, sostanzialmente indisturbati, ogni sorta di mostruosità è ormai assodato. Pure è una certezza che solamente un’infima minoranza della popolazione cerca di opporsi, in maniera più o meno cosciente, alla soppressione di ogni spazio di autonomia e libertà che renda la vita degna di essere vissuta. Parte di questa piccola minoranza, noi anarchici, consapevoli dell’urgenza di distruggere quanto ci opprime: perché non siamo più determinati ed incisivi?

Uno dei freni più grandi e seri alla nostra azione è sicuramente la paura di mettere realmente in gioco la nostra vita. Questo è un aspetto centrale della lotta rivoluzionaria, molto spesso non affrontato a sufficienza, perché ci costringe a fare i conti con noi stessi e con le nostre debolezze. Esaltiamo le cosiddette “piccole azioni”, facilmente riproducibili, che sicuramente non spaventano la “gente” e anche se siamo consapevoli dell’urgenza e della necessità dell’attacco distruttivo al sistema autoritario-tecnologico siamo restii a metterci in gioco fino in fondo, a considerarci in guerra ed agire di conseguenza. Sicuramente è più facile trovarsi insieme a centinaia/migliaia di persone a difendere un territorio minacciato da qualche eco-mostruosità, che soli ad aspettarne il progettista sotto casa. Non sto parlando di coraggio, ognuno di noi ha paura e attua le sue strategie per controllarla e gestirla; anche chi partecipa a una cosiddetta “lotta sociale” rischia il carcere o di essere ferito (sono centinaia gli esempi in questo senso), ritengo non sia questo il discrimine, ma qualcosa di più complicato e cioè la decisione di intraprendere pratiche di lotta che non prevedono alcuna possibilità di mediazione con il potere, che esprimono il completo rifiuto dell’esistente. Partecipiamo ad assemblee in cui ci illudiamo di contribuire a prendere qualche decisione, anche se di solito ci adeguiamo a quanto suggerito dai compagni dotati di maggiore carisma; inevitabilmente il compromesso è sempre al ribasso d’altronde bisogna crescere tutti insieme (ogni volta) e non spaventare nessuno. Ci illudiamo di contribuire ad un progetto collettivo anche se troppo spesso non è il nostro; il fatto di trovarci “in mezzo alla gente” ci da l’illusione di lavorare concretamente per l’insurrezione prossima ventura. Possiamo dividere le nostre responsabilità con altri e sperare di non restare soli se le cose si mettono male. Non ci rendiamo conto di quanta parte della nostra libertà individuale perdiamo, anzi siamo rassicurati dai limiti imposti dall’assemblea, possiamo nascondere la nostra indecisione dietro il rischio che la nostra impazienza nuoccia al progetto comune. Però solamente quando decidiamo di mettere in gioco totalmente la nostra vita e, individualmente o con i nostri affini, colpiamo il potere dove più possiamo nuocergli, solo allora, ne abbiamo il reale controllo e possiamo affermare, con gioia e serenità, di stare facendo la nostra rivoluzione. Attuare una prospettiva di attacco diretto ci libera dalle pastoie di lotte difensive, ci consente prospettive infinite di azione e libertà. Non sto facendo la semplice esaltazione estetica dell’atto individuale, sono consapevole che l’insurrezione è un fatto collettivo, che scoppierà quando gli oppressi in armi si solleveranno, ma il punto e il metodo con cui contribuire a provocarla, la nostra vita è breve e l’opera di demolizione troppo grande e necessaria perché sia possibile aspettare che tutti siano pronti. Anzi sono convinto che solo soffiando sul fuoco e con l’esempio dell’azione possiamo avvicinare tale momento.

Un altro freno che vedo alle possibilità di attacco degli anarchici è il modo in cui molti compagni si approcciano al sociale, alle cosiddette “lotte sociali”. A mio avviso spesso si parte da una considerazione sbagliata, ci si sente altro rispetto alla gente, questo porta a vedere il sociale come qualcosa su cui lavorare, a cui avvicinarsi con cautela per non spaventarlo e piano piano portarlo su posizioni più avanzate finché, una volta pronto, ci si troverà insieme sulle barricate dell’insurrezione.

Io, sono convinto che gli anarchici siano parte del sociale e debbano rapportarsi alla pari con gli “altri”, combattendo tutti quegli atteggiamenti “paternalistici” che inevitabilmente sfociano nella politica. Gli anarchici devono colpire ed attaccare con tutte le loro forze, altri con tensioni simili prenderanno esempio dal nostro agire, troveremo nuovi complici e quando, finalmente, anche tutti gli altri sfruttati decideranno di sollevarsi scoppierà l’insurrezione. Dobbiamo essere noi a dettare scadenze e momenti di lotta, più saremo incisivi ed in grado di colpire nei punti giusti, maggiori possibilità avremo che si diffondano pratiche di attacco diretto. Questo non vuol dire che non si debba partecipare alle lotte che nascono spontaneamente, ma lo dobbiamo fare con i nostri metodi: il sabotaggio e l’azione diretta. Se in una certa località le persone scendono in piazza per opporsi ad una nocività non è necessario che cerchiamo di conoscerle una ad una, che prepariamo la polenta con loro e un passetto per volta cerchiamo di fargli alzare di qualche centimetro la barricata che hanno costruito. Questo non avvicinerà la prospettiva insurrezionale, anzi fiaccherà le nostre forze, dobbiamo colpire l’azienda che la costruisce, chi la progetta, chi la finanzia: dobbiamo rendere evidente che chiunque può prendere in mano la propria vita e distruggere ciò che lo distrugge. Dobbiamo scontrarci con la polizia, non solo quando tenta di sgomberare il presidio di turno, ma provocarla ed attaccarla, far vedere che è possibile, che si può/si deve colpire per primi chi ci opprime. Qualcuno potrebbe affermare che il mio modo di vedere le cose ed intendere l’agire possa covare i germi dell’autoritarismo o dell’avanguardismo.

Al contrario ritengo che contenga in se stesso l’antidoto a questi due mali che affliggono l’azione rivoluzionaria. Non si camuffano i propri desideri, si dice chiaramente chi si è e cosa si vuole e, soprattutto, in un rapporto paritario con gli altri, si dimostra che armando le proprie passioni chiunque può opporsi concretamente a questo stato di cose. La politica a mio avviso si annida proprio nel limitarsi per stare al passo con tutti gli altri, nel mettere da parte determinati discorsi per non “spaventare” persone che non si ritengono pronte a capirli. Deve essere chiaro che gli anarchici cercano complici con cui insorgere e non un opinione pubblica moderatamente favorevole a vaghi discorsi sulla libertà e l’autogestione. Un’altra critica che spesso viene rivolta a chi pratica l’attacco contro Stato e capitale, in maniera più o meno intelligente, più o meno velata, è quella di avvitarsi in un vortice di azione/repressione con gli apparati del potere senza fare passi avanti sulla via dell’insurrezione. Certamente è difficile negare che più rappresenteremo un pericolo per il potere più questo si accanirà per reprimerci, ma ciò, purtroppo, è naturale e tale concatenazione di causa-effetto si interromperà solamente quando il moltiplicarsi e il diffondersi degli attacchi provocherà la rottura insurrezionale. Pensare che la rivoluzione sarà solo il frutto della presa di coscienza degli sfruttati, dopo decenni di “addestramento” nella palestra delle lotte intermedie, guidati da una minoranza di illuminati che li tengono per mano, facendo un passo appena avanti a loro, e procrastinando continuamente il momento dello scontro armato è pura illusione. Tale tattica è perdente due volte perché rinunciando all’azione diretta rinunciamo a vivere pienamente la nostra vita, a fare qui ed ora la nostra rivoluzione. In secondo luogo è perdente perché lascia intendere che lo Stato darà il tempo agli oppressi di rendersi conto della propria condizione, di conoscersi, di organizzarsi e poi, magari, di insorgere, prima di schiacciarli. Un piccolo esempio potrebbe essere la Libera Repubblica della Maddalena: spazzata via prima che chiunque potesse illudersi di rappresentare un reale pericolo per l’autorità statale. Inoltre, lo Stato, forse ancora più potente della forza militare dispone di un’arma efficientissima: il recupero. Un esempio, quando il problema della casa si fa pressante, lotte ed occupazioni si moltiplicano e gli sgomberi non risolvono il problema il potere può giocarsi la carta della legalizzazione. Una volta con un tetto sulla testa lo sfruttato con cui abbiamo lottato fianco a fianco cosa farà? Forse chiederà di più, continuerà a ribellarsi, ma più facilmente si accontenterà e noi saremo costretti a tuffarci a capofitto nella prossima lotta sperando che questa volta ci vada meglio… Solamente quando il nostro agire non prevede possibilità di mediazioni, quando la nostra lotta è volta a distruggere quanto ci opprime lo Stato non può fregarci con il recupero: o ha la forza di schiacciarci o deve soccombere. Se avremo la capacità di provare a diffondere la pratica dell’attacco e dell’azione diretta, se sapremo gettare benzina sul fuoco delle tensioni sociali, inasprendole e cercando di impedirne la ricomposizione, forse riusciremo realmente ad incendiare la prateria. Prima di concludere vorrei soffermarmi su un altro elemento che a volte sembra essere un freno alla nostra azione: l’analisi degli effetti e delle trasformazioni del dominio. Troppo spesso sembra che questa non serva a darci maggiori capacità di incidere sulla realtà, ma ad alimentare paure e senso di impotenza di fronte alla vastità della sfida ed alla mostruosità delle nocività da affrontare. Più analizziamo gli aspetti totalitari e deleteri della tecnologia, più denunciamo i progetti autoritari del potere e meno affiliamo le nostre armi. Terrorizziamo chi vorrebbe agire con più o meno approfondite ricerche sugli ultimi ritrovati del controllo. Non sto sostenendo che non servano analisi ed approfondimenti, ma che non debbano diventare fini a se stessi, esercizi di capacità intellettuali disgiunti dall’azione diretta. Cosa serve pubblicare interminabili elenchi di aziende responsabili della distruzione della natura se nessuno le attacca? Già da sole la vastità e l’imponenza degli apparati statali e economici, spesso ci fanno dubitare della possibilità di colpirli efficacemente. Disastri ambientali come la marea di petrolio nel Golfo del Messico o Fukushima sembrano dire che non è possibile fare niente per fermare la guerra della società industriale contro l’uomo e la natura. Nonostante tutto non siamo inermi, minimi strumenti di analisi, l’azione diretta e la decisione di pochi possono dimostrare che non siamo tutti rassegnati ad accettare passivamente ed allo stesso tempo indicare agli altri sfruttati che è ancora possibile opporsi. Ad esempio l’azione dei compagni del Nucleo Olga della FAI/FRI ci dice come sia possibile solidarizzare con chi subisce la catastrofe nucleare, anche dall’altra parte del mondo, e colpire concretamente l’industria dell’atomo.

Spero che le mie riflessioni possano servire ad avviare un dibattito fra i compagni volto a mettere in luce e scrollarsi di dosso tutto ciò che ci limita nell’azione anarchica. Coraggio e forza per i compagni che praticano l’azione anonima, coraggio e forza per coloro che danno un nome alla propria rabbia, coraggio e forza per coloro che con le loro azioni danno vita alla FAI/FRI: c’è un intero mondo da demolire.

Nicola Gai

(prigioniero anarchico accusato

del ferimento del manager dell’atomo Roberto Adinolfi)

per scrivergli:

Nicola Gai

Casa Circondariale Via Arginone 327

44122 Ferrara

L’urgenza dell’attacco

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Italy – ‘The urgency of the attack’ by anarchist prisoner comrade Nicola Gai

From Anarchici Ferraresi
Translated by act for freedom now/B.pd
We are publishing an interesting document written by Nicola Gai, also
published in the latest issue of Terra Selvaggia in July 2013.

The text raises many issues (imposed and self-imposed obstacles to
anarchist action, the urgent need to strike the enemy, relations between
comrades in struggles and at meetings, etc), which we hope will be
addressed as soon as possible, so as to find new and more effective
practical ways in the destructive attack on dominion.

It is now an established fact that we live in a world of shit where the
State and capital, basically undisturbed, impose all sorts of
monstrosities on us. It is also certain that only a tiny minority of the
population is trying to oppose the suppression of spaces of autonomy and
freedom that make life worth living, in a more or less conscious way. As a
part of this tiny minority, we anarchists are aware of the urgent need to
destroy what oppresses us: why are we not more determined and acute?

Without doubt one of the greatest and most serious obstacles to action is
the fear of really putting our lives at stake. This is a crucial point of
the revolutionary struggle, which is often not sufficiently addressed
because it forces us to come to terms with ourselves and our weaknesses.
We praise so-called easily reproducible ‘small actions’, which certainly
don’t frighten the ‘people’; and even if we are aware of the urgency and
necessity of destructive attack on the authoritarian-technological system
we are reluctant to get involved to the end, to consider ourselves at war
and act consequently.

Certainly it is much easier to find oneself along with hundreds/thousands
of people defending a territory threatened by some eco-monstrosity than to
find oneself on one’s own waiting for the planner [of the monstrosity]
outside his house. I’m not talking about bravery. Everyone is afraid and
implements his/her strategies in order to control and manage this. Even
those who take part in so-called ‘social struggle’ risk ending up in
prison or being wounded (there are hundred examples of this). I don’t
think this is the distinction; it is something more complex, i.e. the
determination to engage in struggle practices that don’t foresee any
possibility of negotiation with power, and express total refusal of the
existent.

We take part in meetings where we deceive ourselves by thinking we are
contributing to making decisions, even if we usually adapt ourselves to
what comrades with more charisma have suggested. Inevitably compromise is
always downwards if we say we all have to grow up together (every time)
without scaring anyone. We deceive ourselves into thinking we are
contributing to some collective project, while it is often not our own.
The fact that we find ourselves ‘among the people’ gives us the illusion
we really are working for imminent insurrection. We can share our
responsibilities with others and hope we won’t be alone when things take a
bad turn. We don’t realize how much of our individual freedom we are
losing, on the contrary we feel reassured by the limits imposed by
meetings where we can hide our indecision behind the risk that our
impatience could undermine the common project.

But it is only when we decide to put our lives totally at stake, when
individually or with our comrades in affinity, we strike power right where
we can do more harm, only then do we have total control of our lives and
are able to say with joy and serenity that we are making our revolution.
By realizing a perspective of direct attack we are freeing ourselves from
the obstruction of defensive struggles and opening infinite possibilities
of action and freedom. I’m not making a mere aesthetic exaltation of
individual action, I’m aware that insurrection is a collective event which
will break out when the oppressed rise up in arms, but I’m making a point
about the method to contribute to provoke it [insurrection]. Life is short
and the work of demolition is too great and necessary to wait for
everybody to be ready. On the contrary I’m convinced that only by fanning
the flames with the example of action can we make that moment come closer.

I think another obstacle to anarchists’ possibilities of attack is the way
many comrades approach so-called ‘social struggles’. In my opinion we
often start from a wrong consideration: we feel different from the people
and this leads us to seeing the social sphere as something inn which we
have to work and approach with caution in order not to create fear, slowly
bringing it to more advanced positions so that, once it is ready, we can
all be together on the barricades of insurrection.

I’m convinced that anarchists are part of the social sphere and have to
relate with the ‘others’ without all those ‘paternalistic’ attitudes which
inevitably lead to politics. Anarchists must strike and attack with all
their power, and others who have similar tensions will follow the example
of our actions. We’ll find new accomplices and finally, when all the other
exploited decide to rise up, insurrection will break out. It is us who
have to dictate deadlines and times for struggle. The more we are sharp
and able to strike in the right places the more we create possibilities
for practices of direct attack to spread. This doesn’t mean that we don’t
have to take part in struggles that arise spontaneously, but we have to do
it with our methods: sabotage and direct action.

If in a certain place people take to the streets to oppose something
harmful it is not necessary for us to get to know these people one by one,
that we cook polenta [typical northern Italy dish] with them and try to
make the barricade they have erected advance a few centimetres. This won’t
bring the insurrectional perspective any closer, on the contrary it will
weaken our strength. We have to strike the company responsible for the
construction of the toxicity, those who plan it, those who finance it: we
have to make it clear that anyone can take their lives in their hands and
destroy what destroys them. We have to clash with the police, not only
when they try to disperse the demo in question; we have to provoke and
attack them, let people see that it is possible, that they can/must strike
first those who oppress them. Some might say that my way of seeing things
and understanding action can harbour the germs of authoritarianism and
vanguardism.

On the contrary I believe that my way contains the antidote to the two
evils that plague revolutionary action. One doesn’t disguise one’s
desires, one says clearly who one is and what one wants, and above all in
an equal relationship with others one demonstrates that anyone can
concretely oppose the status quo by arming their passions.

In my opinion politics lies exactly in the way one limits oneself in order
to keep pace with all the others, in the way one puts some discourses
aside in order not to ‘frighten’ people who are not ready to understand
them. It must be clear that anarchists look for accomplices with whom to
rise up and not public opinion in favour of vague speeches on freedom and
self-management.

Another critique often addressed in a more or less intelligent or veiled
way to those who practice attack on the State and capital is the risk of
getting stuck in a vortex of action/repression with the apparatuses of
power, without advancing on the road of insurrection. Of course it cannot
be denied that the more we represent a danger for power the more the
latter will harass and repress us. But unfortunately this is natural, and
this concatenation of cause and effect will stop only when the spreading
of attacks provokes an insurrectional rupture. To think that revolution
will only be the fruit of the awareness of the exploited, after decades of
‘training’ in the gymnasiums of intermediate struggles, led by a minority
of enlightened ones who hold their hands [of the exploited] and take a
step a little ahead of them by continuously putting off the moment of
armed conflict is pure illusion.

This tactic is a looser twice over: first because by renouncing direct
action we renounce living our lives fully and making our revolution here
and now; and secondly because it suggests that the State will give the
oppressed time to become aware of their condition, to know each other,
organize themselves and maybe rise up, before crushing them. A simple
example could be that of the Free Republic of the Maddalena: swept away
before anyone could deceive themselves and think they represented a real
danger for the State authority.

Moreover the State has a very efficient weapon, perhaps more powerful than
military force: recuperation. For example, when the housing problem
becomes urgent and struggles and squatting multiply, when evictions don’t
sort the problem out, power can play the card of legalization. Once they
have a roof over their heads, what will the exploited with whom we have
struggled side by side do? Perhaps they will demand more and continue to
rebel, but it is more likely that they will be happy, while we will be
compelled to dive headlong into the next struggle hoping we’ll be luckier
this time… Only when our action doesn’t contemplate possibilities for
negotiation, when our struggle aims at the destruction of what oppresses
us, will the State not be able to trick us with recuperation: either it
has the strength to crush us or it must succumb. If we have the ability to
try and spread the practice of attack and direct action, if we are able to
throw petrol on the fire of social tensions, by exacerbating them and
trying to prevent them from recomposing themselves, perhaps we will really
be able to set the prairie on fire.

Before I conclude I would like to dwell on another aspect that seems to be
an obstacle to our action: the analysis of the effects and transformations
of dominion. Far too often it seems that this analysis is useless and
doesn’t give us the ability to affect reality; on the contrary it feeds
fear and sense of impotence in the face of the magnitude of the challenge
and the monstrosity of the harmfulness to be opposed. The more we analyze
the authoritarian and deleterious aspects of technology and denounce the
authoritarian projects of power, the less we sharpen our weapons. With
more or less developed research on the latest breakthrough of control we
terrorize those who would like to act. I’m not saying that we don’t need
analyses but that they don’t have to become an end in themselves,
exercises of intellectual skill detached from direct action. What’s the
use of publishing endless lists of companies responsible for the
destruction of nature if nobody attacks them? Already the magnitude and
awfulness of the State and economic apparatuses themselves often make us
doubt our chances to strike them effectively. Eco-disasters such as the
sea of petrol in the Gulf of Mexico or Fukushima seem to suggest that it
is not possible to stop the war that industrial society is waging on man
and nature.

In spite of everything we are not helpless. Bare instruments of analysis,
direct action and the determination of the few can demonstrate that we are
not all resigned to accept passively and at the same time they show to the
other exploited that it is still possible to fight back. For example, the
action of the comrades of the Olga Nucleus of the FAI/FRI tells us that it
is possible to express solidarity with those who suffer nuclear
catastrophe, even on the other side of the word, and strike the nuclear
power industry effectively.

I hope my consideration will serve to start off a debate among comrades,
with the aim of highlighting and eliminating anything that limits our
anarchist action. Courage and strength to the comrades who practice
anonymous action, courage and strength to those who give a name to their
anger, courage and strength to those who give birth to the FAI/FRI with
their actions: there is an entire world to be demolished.

Nicola Gai

Nicola is an anarchist prisoner accused of the wounding of nuclear power
manager Roberto Adinolfi.

To write to him:

Nicola Gai
C.C. Via Arginone 327
44122 Ferrara
Italy

http://actforfree.nostate.net/?p=15111

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Prisiones italianas: “La urgencia del ataque”, por Nicola Gai

El hecho de que vivimos en un mundo de mierda donde el Estado y el Capital nos imponen, básicamente sin problemas, todo tipo de monstruosidades está más que claro. También es cierto que sólo una pequeña minoría de la población intenta oponerse, de forma más o menos consciente, a la supresión de todos los espacios de autonomía y libertad que hacen que valga la pena vivr la vida. Como parte de esta pequeña minoría, nosotrxs lxs anarquistas, conscientes de la necesidad de destruir lo que nos oprime: ¿por qué no somos más determinadxs e incisivxs?.

Uno de los frenos más grandes y serios a nuestra acción es, seguramente, el miedo a poner, realmente, nuestras vidas en juego. Muy a menudo, este es un aspecto central de la lucha revolucionaria que no se aborda lo suficiente, porque nos obliga a sacar cuentas con nosotrxs mismxs y con nuestras debilidades. Exaltamos a las llamadas “pequeñas acciones”, fácilmente reproducibles, que seguramente no asustan a la “gente” y, aunque seamos conscientes de la urgencia y la necesidad del ataque destructivo al sistema autoritario-tecnológico, somos reacixs a involucrarnos hasta el fondo, a considerarnos en guerra y actuar en consecuencia.

Seguramente, es más fácil encontrarse junto a cientos/miles de personas para defender un territorio amenazado por alguna ecomonstruosidad que esperar solxs a su diseñador por fuera de casa. No hablo de valor, todxs y cada unx de nosotrxs tiene miedo y pone en práctica sus estrategias para controlarlo y gestionarlo; incluso lxs que participan en una llamada “lucha social” están arriesgando la cárcel o resultar heridxs (hay cientos de ejemplos en este sentido), no considero que sea esta la distinción, sino algo más complicado, o sea, la decisión de emprender prácticas de lucha que no contemplan ninguna posibilidad de mediación con el Poder, que expresan el completo rechazo a lo existente.

Participamos en asambleas en las que nos hacemos ilusiones de contribuir a tomar alguna decisión aunque, por lo general, nos ajustamos a lo que sugieren lxs compañerxs dotadxs de más carisma; inevitablemente, el compromiso es siempre hacia abajo, después de todo, tenemos que crecer todxs juntxs (siempre) y no asustar a nadie. Nos hacemos ilusiones con contribuir a un proyecto colectivo, aunque muy a menudo no sea el nuestro; el hecho de que estemos “entre la gente” nos crea la ilusión de estar trabajando concretamente por la insurrección, la próxima aventura.

Podemos compartir nuestras responsabilidades con lxs demás y confiar en no quedarnos solos si las cosas se ponen feas. No nos damos cuenta de cuánto de nuestra libertad individual perdemos, es más, nos sentimos segurxs por los límites impuestos por la asamblea, podemos esconder nuestra indecisión detrás del riesgo de que nuestra impaciencia sea perjudicial para el proyecto común.

Pero sólo cuando decidimos poner totalmente en juego nuestra vida e, individualmente o con nuestros afines, golpeamos el Poder donde más le pueda doler, sólo entonces, tendríamos el control real y podríamos afirmar con alegría y serenidad que estamos haciendo nuestra revolución. Poner en práctica una perspectiva de ataque directo nos libera de los grilletes de las luchas defensivas, nos permite infinitas perspectivas de acción y libertad.

No estoy haciendo la simple exaltación estética del acto individual, soy consciente de que la insurrección es un hecho colectivo, que estallará cuando lxs oprimidxs se levanten en armas, pero el tema es el método con el que contribuir a provocarla, nuestra vida es demasiado breve y el trabajo de demolición, demasiado grande y necesario como para que se pueda esperar hasta que todxs estén preparadxs. Es más, estoy convencido de que sólo soplando el fuego y con el ejemplo de la acción, nos podremos acercar a tal momento.

Otro freno que veo a la posibilidad de ataque de lxs anarquistas es la forma en la que muchxs compañerxs se acercan a lo social, a las llamadas “luchas sociales”. A mi entender, a menudo se parte de una consideración equivocada, se subestima a la gente, esto nos lleva a ver lo social como algo que trabajar, a lo que hay que acercarse con cautela para no asustarlo y, poco a poco, llevarlo a posiciones más avanzadas hasta que, una vez preparado, nos encontremos juntxs en las barricadas de la insurrección.

Yo estoy convencido de que lxs anarquistas forman parte de lo social y de que deben relacionarse como iguales con lxs “otrxs”, combatiendo todas estas actitudes “paternalistas” que, inevitablemente, desembocan en la política. Lxs anarquistas deben golpear y atacar con todas sus fuerzas, otrxs con tensiones similares tomarán ejemplo de nuestra acción, encontrarán nuevxs cómplices y, cuando finalmente también lxs demás explotadxs decidan levantarse, estallará la insurrección.

Debemos ser nosotrxs quienes dictemos los plazos y los momentos de lucha, cuanto más incisivxs y capaces de golpear en los puntos exactos seamos, mayores serán las posibilidades que tendremos de que se propaguen las prácticas de ataque directo. Esto no quiere decir que no hay que participar en las luchas que surgen de forma espontánea, sino que lo tenemos que hacer con nuestros métodos: el sabotaje y la acción directa.

Si en cierta localidad las personas salen a la calle para oponerse a una cierta nocividad, no es necesario que tratemos de conocerlas una por una, que preparemos comida con ellxs y, pasito a pasito, tratar de conseguir que suban algunos centímetros la barricada que han construido. Esto no acercará la prospectiva insurreccional, es más, debilitará nuestras fuerzas, debemos golpear a la empresa que la construye, a quienes la diseñan, a quienes la financian.

Debemos dejar claro que cualquiera puede tomar las riendas de su vida y destruir aquello que lx destruye. Debemos enfrentarnos a la policía, no sólo cuando intenta desalojar la concentración de turno, sino provocarla y atacarla, hacer ver que es posible, que se puede/se debe golpear primero a los que nos oprimen. Algunx podría argumentar que mi manera de ver las cosas y entender el accionar puede incubar los gérmenes del autoritarismo o del vanguardismo.

Al contrario, creo que contiene, en sí mismo, el antídoto a estos dos males que afligen a la acción revolucionaria. No se disfrazan los propios deseos, se dice claramente lo que se es y lo que se quiere y, sobre todo, en una relación de igualdad con lxs demás, se demuestra que armando las propias pasiones, cualquiera puede oponerse concretamente a este estado de cosas. La política, en mi opinión, se oculta justo en el limitarse para seguir el ritmo a lxs demás, en dejar de lado ciertos discursos para no “asustar” a las personas que no se sienten preparadas para entenderlos.

Debe quedar claro que lxs anarquistas buscan cómplices con lxs que sublevarse y no una opinión pública moderadamente favorable a vagos discursos sobre la libertad y la autogestión. Otra de las críticas que a menudo se les hace a lxs que practican el ataque contra el Estado y el Capital, de forma más o menos inteligente, más o menos acertada, es la de meterse en una espiral de acción/represión con los aparatos del Poder sin dar pasos adelante en el camino de la insurrección.

Ciertamente, es difícil negar que cuanto más representemos un peligro para el Poder, más se emperrará este en reprimirnos, pero esto, por desgracia, es natural y tal concatenación de causa-efecto solamente se detendrá cuando la multiplicación y la propagación de los ataques provoque la ruptura insurreccional.

Pensar que la revolución será sólo el resultado de la toma de conciencia de lxs explotadxs, después de décadas de “entrenamiento” en el gimnasio de las luchas intermedias, guiadxs por una minoría de iluminados que lxs llevan de la mano, yendo a penas un paso por delante de ellas, y aplazando continuamente el momento del conflicto armado, es pura ilusión.

Esta práctica es dos veces perdedora porque, renunciando a la acción directa, renunciamos a vivir plenamente nuestra vida, a hacer aquí y ahora nuestra revolución. En segundo lugar, es perdedora porque deja entender que el Estado dará tiempo a lxs oprimidxs a que se den cuenta de su condición, de conocerse, de organizarse y luego, tal vez, de sublevarse, antes de aplastarlxs.

Un pequeño ejemplo de ello sería la República libre de la Maddalena [de la lucha No Tav de Val Susa]: barrida antes de que nadie pudiese creerse que representaba un peligro real para la autoridad estatal. Además, el Estado, tal vez, más poderoso que la fuerza militar, dispone de un arma eficacísima: la recuperación. Un ejemplo, cuando el problema de la vivienda es apremiante, las luchas y okupaciones se multiplican y si los desalojos no resuelven el problema, el Poder puede jugar la carta de la legalización. ¿Qué harán lxs explotadxs con lxs que hemos luchado codo con codo una vez que tengan un techo sobre la cabeza?

Quizá pidan más, continúen rebelándose, pero se contentarán más fácilmente y nosotrxs estaremos obligadxs a tirarnos de cabeza a la próxima lucha esperando que esta vez nos vaya mejor… Solamente cuando nuestra acción no prevé la posibilidad de mediaciones, cuando nuestra lucha va directa a destruir lo que nos oprime, el Estado no nos podrá engañar con la recuperación: o tiene la fuerza para aplastarnos o deberá sucumbir.

Si tenemos la capacidad de tratar de difundir la práctica del ataque y de la acción directa, si sabemos echar gasolina al fuego de las tensiones sociales, avivándolas e intentando evitar la recomposición, tal vez, consigamos realmente incendiar el terreno. Antes de concluir, querría detenerme en otro aspecto que, a veces, parece ser un freno para nuestra acción: el análisis de los efectos y las transformaciones del dominio.

Con demasiada frecuencia, parece que esta no sirva para darnos mayor capacidad de incidir en la realidad, sino para alimentar miedos y sensación de impotencia frente a la magnitud del desafío y la monstruosidad de las nocividades que afrontar. Cuanto más analizamos los aspectos totalitarios y perjudiciales de la tecnología, más denunciamos los proyectos autoritarios del Estado y menos afilamos nuestras armas.

Aterrorizamos a lxs que les gustaría actuar con investigaciones más o menos profundas sobre los últimos descubrimientos del control. No estoy sosteniendo que no sirvan los análisis y las profundizaciones, sino que no deben convertirse en fines en sí mismos, ejercicios de capacidad intelectual separados de la acción directa. ¿Para qué sirve publicar listas interminables de empresas responsables de la destrucción de la naturaleza si nadie las ataca? Ya por sí solos, la inmensidad y lo imponente a de los aparatos estatales y económicos, a menudo, nos hacen dudar de la posibilidad de golpearles con eficacia.

Desastres ambientales como la marea de petróleo en el Golfo de México o Fukushima parecen decir que no se puede hacer nada para detener la guerra de la sociedad industrial contra el ser humano y la naturaleza. A pesar de todo, no somos indefensxs, mínimxs instrumentos de análisis, la acción directa y la decisión de unxs pocxs pueden demostrar que no todxs nos resignamos a aceptar pasivamente y, al mismo tiempo, indicar a lxs demás explotadxs que todavía es posible oponerse. Por ejemplo, la acción de lxs compañerxs del núcleo Olga de la FAI/FRI nos dice que es posible solidarizarse con lxs afectadxs por la catástrofe nuclear, también desde el otro lado del mundo, y golpear concretamente a la industria del átomo.

Espero que mis reflexiones sirvan para iniciar un debate entre compañerxs cara a aclarar y quitarse de encima todo lo que nos limita en la acción anarquista. Coraje y fuerza para lxs compañerxs que practican la acción anónima, coraje y fuerza para aquellxs que dan nombre a su propia rabia, coraje y fuerza para aquellxs que, con sus acciones, dan vida a la FAI/FRI: Hay todo un mundo por demoler.

Nicola Gai
Casa Circondariale di Ferrara
Via Arginone 327
44122 Ferrara
Italia

Fuente: Revista Terra Selvaggia/Páginas anticivilizadoras, nº 27, julio de 2013. Pág. 33

http://es.contrainfo.espiv.net/2013/08/20/prisiones-italianas-la-urgencia-del-ataque-por-nicola-gai/