Uno sguardo sull’esperienza delle “campagne”

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Cambiamenti e nuove prospettive

 

Costantino Ragusa

 

Prima che qualcuno di noi s’imbarchi in una lotta per gli animali, dovremmo prenderci del tempo per soffermarci a riflettere su cosa vogliamo ottenere ed esprimere con il nostro agire. Quello di “liberazione” è un concetto molto diverso da “diritti animali” o “benessere animale”.

L’idea di benessere si adatta perfettamente alla società in cui viviamo, dove proliferano gli amanti degli animali. Una società dove è legittimo ucciderli per ogni bisogno umano, per il cibo ad esempio, finché arrivano metodi di macellazione più “umani” o gabbie abbastanza grandi per muoversi mentre sono ancora vivi. D’altra parte “diritti animali” implica generalmente che agli animali debba essere concesso di vivere senza violenze, ma suggerisce implicitamente che dovremmo essere noi a dar loro questo diritto, attraverso il parlamento e con un atto legislativo.

Sicuramente il concetto di “liberazione” deve significare qualcosa di molto più ampio di questo; molto spesso si è parlato di “diritti animali” per convenienza, quando invece si intendeva completamente altro.

Nel movimento delle campagne soprattutto da Morini in poi sembra che le parole e i pensieri non abbiano più il loro significato originario e le troviamo sparpagliate in una gran confusione a descrivere un gran numero di pratiche che spesso hanno ben poca attinenza con queste.

Sicuramente tutte/i noi abbiamo visioni molto diverse su cosa sia la Liberazione Animale e sul come ottenerla. Può essere considerato un punto di unione semplicemente l’odio per lo sfruttamento verso gli animali? La liberazione animale non può limitarsi solo alla fine delle pellicce, del mangiare carne, della vivisezione, dei circhi con animali, della caccia… Il dominio con la sua gerarchia sociale non può che produrre sfruttamento e oppressione. Non rendersi conto di questo significa restare sulla superficie del problema, continuando a esprimere messaggi parziali che poco o niente portano alla causa che portiamo avanti.

Ai più sembra che parlare di antispecismo abbia risolto molti dei problemi che si incontrano nell’esprimere i nostri messaggi. Spesso le stesse campagne hanno preso la denominazione di antispecista per rinforzare o concentrare un contenuto che però non c’è più. Il termine antispecismo è veramente così completo e dagli ampi significati da potersi sostituire ai concetti e alle idee? O addirittura dal rappresentarle tutte? O siamo invece di fronte ad un forte riduzionismo e camuffamento della realtà? A me sembra che più si perde in contenuto e capacità di criticare l’esistente e più viene fuori la parola magica antispecismo. La cosa per altro assai preoccupante è che vorrebbe superare i limiti del “vecchio” animalismo dando alle campagne un ché di radicalità che dovrebbe distinguerle dalle grandi associazioni, ma di fatto porta a ripercorrere le stesse strade. Sotto la bandiera dell’antispecismo è talmente tutto possibile che ci troviamo pure parlamentari che non provano alcun disagio a definirsi tali. Del resto, chi si fa poi portavoce delle proposte di legge che all’unisono vengono richieste?

Nei miei brevi appunti non ho la pretesa di essere esaustivo su tutto quello che si è mosso negli ultimi anni nel contesto della liberazione animale.

Intendo soffermarmi soprattutto su quelle esperienze che secondo me hanno dato e continuano a dare particolari spunti, per avanzare delle considerazioni e delle critiche che, in molti casi, seppur in contesti diversi, avrei potuto porre anche nelle successive campagne minori. Queste rimangono comunque della massima importanza per il contributo dato, per citarne qualcuna: Shac, NoRbm, Campagna anti Pharmacia, riguardo la vivisezione; sicuramente per le pellicce la più significativa rimane Aip (attacca l’industria della pelliccia). Mi voglio soffermare soprattutto sulla campagna Per chiudere Morini per il suo ruolo storico di prima mobilitazione radicale diretta verso un obiettivo specifico e la più “recente” campagna Fermare Green Hill, che sicuramente rappresenta la mobilitazione più importante degli ultimi anni.

Poi darò uno sguardo dentro al nuovo mondo dell’animalismo che come forma di intervento attua un lavoro educativo e di denuncia portando avanti investigazioni.

 

ChiudereMorini

Affrontare il presente delle lotte di liberazione animale con uno sguardo rivolto verso il passato, al “come eravamo”, porta con sé degli elementi sicuramente importanti, da un punto di vista della “memoria delle lotte”.

Questo sguardo può, contemporaneamente, correre il rischio di divenire forse anche un poco controproducente se non si ricollega e intreccia poi con la situazione attuale.

Negli ultimi tempi, tra chi continua ad interessarsi alle questioni legate alla liberazione animale è emersa la scarsità dei momenti di riflessione. Ci siamo resi conto di come tante fasi, momenti, a nostro avviso molto importanti, che hanno caratterizzato le lotte negli ultimi anni, siano andati perdendosi e, in certi casi, “nuove necessità” hanno portato anche ad una sorta di mistificazione di certi eventi e contenuti.

L’obiettivo di questo scritto è quello di ri-guardare e tentare di ri-leggere l’esperienza della campagna ChiudereMorini. Uno sguardo, un tentativo di colmare qualche vuoto, anche nella speranza che questi iniziali spunti incoraggino ulteriori approfondimenti. Affronteremo questi passaggi e momenti non per riproporli oggi tali e quali, ma come spunti di riflessione per comprendere la situazione attuale che si presenta completamente diversa dai contesti in cui negli anni addietro fu possibile intraprendere quelle specifiche progettualità.

Per anni la scena animalista, in Italia, è stata monopolio di tutta una serie di associazioni, organizzazioni e gruppi filoistituzionali. Con tanti attivisti volenterosi alla base che riducevano e imbrigliavano il loro agire e le loro possibilità per stare dietro alle direttive di staff nazionali impegnati coi bilanci economici dell’associazione più che a quello che questa avrebbe potuto fare, magari in campagne decisamente scomode come era allora quella sulla vivisezione. Cosa avrebbe attirato più sostegno tra un lavoro sul randagismo, sui maltrattamenti, sul vegetarianesimo o un lavoro assai più complesso e spinoso, visto gli interessi toccati, come quello sulla vivisezione e quindi sulla ricerca scientifica che prevedeva il “modello animale” da protocollo? La risposta va da sé. Perché? Forse per tutta una serie di accurate riflessioni che puntano al maggior risultato (consenso, tesserati, finanziamenti…) con il minore sforzo possibile. Per sforzo qui si intende prendere una posizione, fare propria una responsabilità per quello che succede: dire chiaramente che qualsiasi cambiamento o concessione all’interno di un sistema specista e ecocida diventa collaborazionismo con questo stato di cose.

Qualcosa ha cominciato decisamente a cambiare con la nascita, nel 2002, del Coordinamento Chiudere Morini, il quale ha dato il via alla prima campagna con obiettivi specifici per chiudere l’allevamento Stefano Morini di S.Polo d’Enza. Alla nascita della campagna, erano quasi già trent’anni che questo allevamento vendeva cani, topi e porcellini d’India ai laboratori di vivisezione di tutta Italia. Oltre ad essere il più importante in Italia rappresentava anche un simbolo: notissimo e odiato, per i suoi decenni incontrastati di arrogante attività e per il suo alone di “intoccabilità”, da chiunque portava avanti lotte animaliste. Chiunque citasse questo allevamento esprimeva spesso la frustrazione di non poter fare nulla per chiuderlo o almeno per creare seri problemi alla sua attività. Gli unici “contrasti” erano i soliti inutili comunicati stampa delle grandi associazioni che, ogni tanto, si ricordavano di Morini magari portando qualche corona di fiori in memoria degli animali massacrati, sia all’interno dell’allevamento che successivamente nei vari laboratori. Queste iniziative volevano essere molto simboliche, ma di fatto non facevano altro che creare un clima di frustrazione, di chi sa di non aver “alcun potere”, alla mercé degli sfruttatori. Questo tipo di “memoria” non portava coscienza o consapevolezza sulla necessità di agire, ma solo una muta accettazione della situazione. Le successive corone di fiori, mandate anonimamente, saranno dirette esclusivamente ai titolari dell’azienda: non più per commemorare animali morti, ma per pensare a quelli vivi che al più presto dovevano uscire da quel lager.

Il primo blitz notturno per liberare gli animali non aveva avuto grande fortuna: con l’arresto degli attivisti dopo un inseguimento dove i carabinieri spararono alcuni colpi d’arma da fuoco per essere più convincenti. Sembrava veramente che niente potesse essere fatto e che, come da “tradizione”, la ditta sarebbe passata alla gestione delle figlie per continuare ancora anni di torture. Ma la pensavano diversamente un pugno di attivisti provenienti da esperienze molto diverse fra loro che, con il Coordinamento ChiudereMorini, si posero un unico obiettivo non negoziabile: la chiusura dell’allevamento. L’obiettivo è stato raggiunto dopo anni di intensa attività, sia da parte del Coordinamento con una presenza costante sul territorio, sia da chi, con il favore della notte, ha messo in campo decine di incursioni nell’allevamento: liberando animali, sabotando, incendiando e sottraendo importanti documenti dall’interno dell’azienda.

ChiudereMorini era un coordinamento di attivisti del tutto autonomo con una pratica informale priva di qualsiasi accentramento: un modello organizzativo che rappresentava l’antitesi delle grandi associazioni nazionali. Per la prima volta in Italia da parte di un gruppo informale verrà usato anche il web per chiamare alla mobilitazione e alla protesta. Il coordinamento porterà avanti una forte campagna che si esplicherà attraverso continue azioni di disturbo come email, telefonate, occupazioni, presidi, manifestazioni nazionali e internazionali, direttamente contro l’allevamento, i suoi clienti e i suoi fornitori. Per tutto il periodo della campagna il coordinamento, per diffondere i propri messaggi e iniziative, ha realizzato un sito internet e vari bollettini mantenendo una presenza costante in radio e giornali d’area. Questi strumenti utilizzati dal coordinamento hanno inoltre permesso di abbattere la censura intorno alle numerosissime azioni dirette compiute contro l’allevamento che ormai non erano più solo locali ma interessavano il territorio nazionale. Un’incursione da parte dell’ALF nel novembre 2002 portò alla liberazione di 99 beagles, tra cuccioli e fattrici. Sarà il coordinamento che, ricevuta la rivendicazione dell’ALF, la diffonderà insieme a dei filmati. Lo stesso si realizzò a seguito dell’attacco incendiario all’auto della titolare dell’allevamento fatto passare, dai media tradizionali, come effetto di un cortocircuito.

Via via, sempre più contesti e persone incominciarono a interessarsi alle questioni legate alla liberazione animale. Se il primo stimolo era stato dato dal caso di Morini, successivamente e spontaneamente sorsero situazioni interessate a portare avanti un proprio lavoro locale uscendo dalle gabbie burocratiche delle grandi associazioni.

Ben presto la campagna si estese a livello nazionale. La questione era molto semplice: Morini riforniva animali in tutta Italia in una rete di clienti, fornitori e sostenitori che gli garantiva il suo proficuo mercato. Anche la campagna allora avrebbe dovuto agire a livello nazionale e così è stato sviluppando una pressione verso società, ditte, università… che, una dopo l’altra, abbandonarono Morini per non aver problemi con attivisti sempre più arrabbiati e un’immagine negativa che si produceva dall’essere complici dello stesso Morini. La pratica della pressione, mai usata fin allora in Italia, diede grossi risultati. Il forte stimolo arrivava da altre fortunate campagne del movimento radicale inglese che, con l’adozione di questa strategia, avevano già portato alla chiusura di numerosi allevamenti di animali da laboratorio fino a quando si sono trovati davanti a colossi come le multinazionali Harlan e Charles River.

La campagna per chiudere Morini ha rappresentato decisamente una svolta: se si è potuto iniziare a parlare di movimento è probabilmente soltanto dopo questa accesa fase di lotte la quale ha coinvolto tantissime persone. L’associazionismo istituzionale, quando non ha contrastato apertamente la campagna, ha avuto sempre un forte sospetto per questa agitazione così spontanea e, allo stesso tempo, così ferma negli obiettivi da raggiungere. Dopo la liberazione dei cani da Morini, l’Ente Nazionale Protezione Animali offrì una taglia a chi avesse dato informazioni ai carabinieri per il loro recupero, questo per ripristinare la legalità infranta dagli ecoterroristi dell’ALF. Quella stessa legalità che permetteva e permette quotidianamente il perpetuarsi dello sfruttamento degli altri animali e della Terra, e di cui associazioni come l’ENPA e simili si fanno ottimi protettori e garanti. Significativo che l’unico altro caso in cui pubblicamente sono state messe taglie per avere informazioni per far incriminare attivisti siano arrivate dall’Associazione Italiana Allevatori di Visone, per opera del suo presidente Boccù che aveva già subito liberazioni e sabotaggi al suo allevamento di visoni a Capralba.

Non la pensavano allo stesso modo tanti attivisti delle basi delle associazioni che hanno capito subito cosa era e come era fatta quella agitazione e, numerosi, hanno dato il loro sostegno alla campagna con modalità che ritenevano opportune al proprio percorso. Tanto che in non pochi casi è stata proprio la base delle associazioni a premere sugli uffici nazionali affinché si occupassero della questione. La vera spinta per le associazioni è arrivata anche dal sempre più diffuso interesse che i media davano per la vicenda di Morini. Diventava controproducente additare sempre la campagna di estremismo quando era evidente che erano gli unici a indire iniziative e a chiamare alla mobilitazione. Gli animalisti cominciavano a chiedersi: se la campagna è dipinta come estremista e in mano ad anarchici, cosa stavano facendo le associazioni per chiudere l’allevamento?

Ancora una volta, chi non era proprio miope o accecato dall’abitudine della delega, vedeva in questa autogestione delle lotte la risposta che cercava: solo una mobilitazione dal basso avrebbe fatto la differenza.

Nonostante questa crescente risonanza nazionale e mediatica della campagna, contemporaneamente la stessa era arrivata ad un punto in cui, sicuramente il metodo della pressione continuava a rivelarsi efficace, ma contemporaneamente si intravedevano alcuni limiti o punti di fragilità legati a diversi fattori. Ad esempio, un divieto di fare un presidio o un allontanamento di chilometri poteva mettere in crisi un’intera campagna.

Inoltre, tutta una serie di restrizioni messe in campo dalla questura hanno creato una situazione di logoramento durante la quale si attendeva che l’allevamento chiudesse senza però essere in grado di fermarsi a capire e far fronte all’evoluzione del contesto. Di fatto, è sempre a S. Polo d’Enza che la repressione nei confronti di una campagna prese forma: si sperimentò e acuì la propria intensità come quando, nel novembre del 2004, la manifestazione internazionale all’allevamento verrà caricata pesantemente dalla polizia facendo decine di feriti. Il tutto per giustificare, successivamente, un inasprimento delle restrizioni che, di fatto, portarono ad allontanare le proteste, che erano le più significative, dall’allevamento.

La repressione che per parecchio era stata a guardare, o quasi, cominciava a colpire senza sosta la campagna con parecchie modalità diverse, studiate evidentemente nei momenti di “ferma”. Ci fu anche la richiesta alla Procura di arrestare due attivisti con l’accusa di associazione sovversiva con finalità di terrorismo per aver fatto nascere il coordinamento, ma nessuno poi firmò l’atto. Tra gli scopi della pressione repressiva c’era anche quello di allontanare più attivisti possibili dalla campagna, soprattutto spezzando quel contorno di sostegno e solidarietà che arrivava e si sviluppava dai contesti più diversi e che rendeva possibile un’agitazione tanto capillare.

Con la lotta contro Morini si può iniziare a parlare di movimento, ma una vera e propria progettualità è stata lontana dallo svilupparsi. Il grosso delle energie è sempre stato concentrato verso gli immediati risultati della campagna.

A volte la campagna per chiudere Morini è stata definita come un uragano. Come tutti questi fenomeni, si ha un gran concentramento di forza ed energia ma anche un’impossibilità di poter durare nel tempo. La critica maggiore che verrebbe da fare non riguarda tanto la fase in cui la campagna era presente e viva, ma sul come in seguito non sia riuscita a dare e produrre una continuità alla lotta, sviluppando idee e analisi per gettare le basi di un movimento di liberazione animale più consapevole del proprio portato e del proprio agire. In un certo senso, anche in questo caso, il “vero lavoro” della campagna iniziava dopo, ma avrebbe necessitato di una preparazione precedente. È vero che, fin dall’inizio, la campagna ha cercato di esprimere una visione più ampia, ma lasciando che questa si esprimesse e si componesse “sul fare”. Involontariamente le analisi della campagna sono state risucchiate da un pragmatismo imperante e non sono riuscite ad andare oltre all’evidenziare i “sintomi” di una società fondata sulla gerarchia e lo sfruttamento degli animali quanto degli animali-umani e della Terra.

Le campagne immediatamente successive o nate durante quella di Morini non sono riuscite ad andare tanto lontano. Più che per gli eventuali risultati, per il contributo teorico portato. Ancora una volta leggendo acriticamente altre esperienze ci si è soffermati esclusivamente sulle pratiche, senza rendersi conto che un altro contesto può cambiare la situazione anche radicalmente.

Le esperienze passate sono molto importanti e nei progetti fanno la differenza, ma andrebbero guardate e contestualizzate nella situazione in cui si opera. Una volta affinata l’arma della critica il progetto può prendere forma e intraprendere il proprio cammino. L’esperienza della campagna per chiudere l’allevamento Morini non dovrebbe essere lo spauracchio per chi propone “l’azione senza parole” o per chi confonde il messaggio radicale di una campagna con il legiferare del parlamento. Con tutto il suo portato positivo quell’esperienza resta, ancora oggi, vitale, per restare tale però sarebbe necessario evidenziarne i limiti teorici e pratici. Se si diceva che la campagna contro Morini rappresentava l’azione e non le parole è ora forse di ricominciare dalle parole per far sì che tornino presto a trasformarsi nuovamente in azione.

 

Green Hill

L’attesa che l’allevamento Morini chiudesse definitivamente è stata piuttosto lunga, soprattutto considerando che ogni attività era già cessata da molto tempo. In un certo senso, nonostante l’allevamento fosse fermo, il fatto che non fosse chiuso non dava quella soluzione che una campagna con un obiettivo specifico attendeva.

Nel mentre è stato subito evidente come un altro allevamento di cani Beagles destinati alla vivisezione vicino Brescia di nome Green Hill, si stesse ampliando e si apprestasse ad assorbire tutto il mercato della tratta dei cani venuto a mancare con il fermo permanente dell’attività di Morini.

Sembrerebbe l’ovvia conseguenza delle strategie di mercato della domanda e dell’offerta: un fornitore seppur del calibro di Morini era sostituibile e così è avvenuto. Eppure la situazione era sicuramente più complessa o per lo meno sarebbe toccato a noi renderla tale, interrogando e interrogandoci sulla realtà che ci si poneva di fronte. La soluzione al nuovo problema si è trovata soltanto dirigendo l’attenzione verso il nuovo allevamento creando una nuova campagna, nonostante mancasse una un’elaborazione collettiva di quella che era stata l’esperienza Morini. Ovviamente la realtà che si poneva con il nuovo allevamento era molto mutata dai tempi della campagna Morini. Pensare di adottare le stesse efficaci modalità di mobilitazione anche contro Green Hill sarebbe stato improponibile. Che la campagna contro GH fosse una novità è stato evidente fin dall’inizio. Per cominciare l’obiettivo non era più chiudere l’allevamento, ma fermarne l’allargamento. Quindi un obiettivo limitato che si supponeva raggiungibile con una campagna. Forse non proprio niente è stato elaborato dall’esperienza di Morini, il timore di un possibile “imbottigliamento” di una campagna contro un obiettivo specifico che non chiude, ha fatto usare una certa prudenza.

Il vero cambiamento è stato nella modalità e nella pratica con cui la campagna si è sviluppata. Se ChiudereMorini ha usato anche il Web per chiamare alla mobilitazione, la campagna Fermare GH si è quasi trasferita sul Web, usando le più aggiornate tecniche di comunicazione e i social network. Con GH si può dire che l’attivismo si è “virtualizzato”. Ogni energia è stata concentrata a raggiungere un numero il più ampio possibile di persone. L’obiettivo è stato pienamente raggiunto e alcune manifestazioni hanno raggiunto numeri molto elevati.

Non più una mobilitazione conflittuale e una lotta diretta verso l’allevamento, si è passati da un “Chiudiamo gli allevamenti” a “Aiutateci a fermare Green Hill”, non è un passaggio da poco a mio avviso.

Il grosso delle iniziative pubbliche è stato spostato verso le istituzioni conniventi in qualche modo con l’allevamento: dall’Asl, regione, comune, ministero fino ad arrivare ovviamente in parlamento. I vari passaggi della campagna sono diventati dunque quelli di chiedere un primo aiuto e un sostegno alle persone con richieste di presenza agli eventi e attraverso la firma di petizioni, per passare ad una seconda richiesta di aiuto, questa volta più concreta (visto che la prima è funzionale alla seconda) diretta al Parlamento perché legiferi in favore degli animali.

Che cosa si intende per raggiungere il maggior numero possibile di persone? Per la campagna ha voluto dire azzerare ogni tipo di contenuto che non fosse di mero pietismo o benessere per l’animale, visto che le circostanze hanno portato a parlare solo dei cagnolini di GH. Certo i “cani avrebbero fatto da ariete per sfondare un sacco di altre porte”, verso la tanto sognata rivoluzione antispecista?

Non ancora, per il momento le porte sono state aperte e con tanto di saluti, perché chi bussava era di casa. Una terza delega alle due precedenti esercitate consisteva nelle manovre dell’antispecista ministro Brambilla che tra un presidio solidale e l’altro al suo guru ingessato, trasportava in Parlamento le istanze animaliste con nuove proposte di legge per i cuccioli di GH.

Per parlare di questa campagna mi ritrovo esclusivamente a parlare di pratiche, non vi è traccia di un contenuto che non sia parte di qualche strategia da mettere in campo.

Le novità di questi giorni riportano un GH vuoto di animali e impossibilitato ad aprire per nuove leggi, per altro tutte da decifrare con i loro intrighi e subordini.

Come era successo con Morini che si era visto prendere il mercato dal concorrente GH, i vivisettori di adesso dovranno ricorrere ad animali provenienti dall’estero per continuare le loro torture. Non trovo che queste siano ragioni per dire che il lavoro delle campagne specifiche sia stato inutile, anzi il contrario; se si guarda alle logiche del mercato tantissime cose vanno in questo modo e pongono le stesse caratteristiche, trovo però importante fare delle riflessioni.

L’Inghilterra, che ha avuto il maggior numero di centri chiusi grazie alle campagne di pressione, fa i conti con un aumento degli animali usati nei laboratori, evidentemente di provenienza estera. Altre campagne contro per esempio gli OGM sempre in Inghilterra hanno portato alla chiusura di tutti i circa cinquanta campi sperimentali esistenti dopo continue azioni di sabotaggio e proteste. Probabilmente gli OGM entreranno da altri paesi con opposizioni ecologiste meno forti o con legislazioni più favorevoli.

Non abbiamo bisogno degli analisti per renderci conto delle ramificazioni e enormità di certi colossi che combattiamo, ma sicuramente non si può parlare di una lotta inutile o di percorsi che non valeva la pena di intraprendere.

Sicuramente ogni contesto ha le sue caratteristiche, ma lascerei da parte per un po’ le strategie e comincerei a interrogarci invece su quello che siamo in grado di esprimere e di dire, se siamo in grado di mettere in piedi delle progettualità che travalichino e sappiano durare oltre l’urgenza di turno. Viviamo in tempi dove le crisi e le emergenze anche quelle repressive sono sistemiche, conviene imparare a convivere anche con questa situazione se non vogliamo sempre farci trovare impreparati.

 

Investigando cosa?

Una pratica molto recente perlomeno qui in Italia è quella delle investigazioni nei luoghi dello sfruttamento animale. In queste forme di intervento, oltre a perdersi un contenuto, entrano anche nuovi fattori che fanno parte delle modalità degli attivisti.

Di fatto vengono portate avanti accurate indagini soprattutto filmate (l’onere della prova) ovunque si attui sfruttamento verso gli animali. Usando modalità insite anche nella campagna contro GH, i media assumono un ruolo, non solo importante, ma fondamentale nel proprio agire.

Non si può parlare più di una ricerca di senso nel corso del proprio percorso. La realtà viene ri-costituita interamente da dosate immagini che vanno dal messaggio più pietistico a quello più truculento, con scene raccapriccianti per essere poi postate sui propri strumenti informativi, ma il vero scopo è raggiungere e interessare i grandi media con cui si instaura una relazione di fiducia.

In alcuni casi le riprese e la denuncia assumono le caratteristiche di una liberazione, e lo è a tutti gli effetti visto che qualche animale viene salvato, sempre in numero ridottissimo.

Questa attività vuole contribuire a denunciare particolari situazioni di sfruttamento verso gli animali e allo stesso tempo si propone come un lavoro educativo e quindi di sensibilizzazione. L’educazione di cui si parla non è altro che un lavoro culturale che si spera porti ad una nuova consapevolezza della situazione degli animali in questa società. Gli unici strumenti a disposizione per questa trasformazione sono i video girati dagli attivisti e mostrati ad un grande pubblico dai media. Ci si aspetta quindi che si abbia una maggiore presa di coscienza a partire da come le galline vengono tenute in allevamenti in batteria, dagli allevamenti intensivi delle mucche o da come vengono tenuti e uccisi i visoni prima di essere trasformati in pellicce. Se si parla di una trasformazione culturale dove sono gli strumenti per attuarla? Ma soprattutto, come è possibile crearseli, a partire da che basi? Con questo tipo di modalità a mio avviso siamo arrivati ad un riduzionismo radicale. Altro che critica alla causa singola, qui non c’è più nessuna causa complessiva, ma tanti piccoli tassellini che si spera un giorno riescano a formare qualcosa.

Questo tipo di attività porta ad impiegare grandi risorse per ottenere questi filmati sempre più muti. Un’attività che per forza di cose, per altro, non può essere infinita, se bastasse avere dei “campioni” per ogni aspetto dello sfruttamento. Infatti spesso allo spettacolo degli animali si aggiunge quello degli attivisti, che interagiscono con essi nei video aprendo qualche gabbia in pose accattivanti. Da immagini che volutamente volevano far paura agli sfruttatori, basti pensare ai passamontagna, esibizione di attrezzi e tute mimetiche si è passati a trasmettere solo pietà, colpendo l’emotività con immagini dal forte impatto.

Personalmente penso che ci siano altre vie ancora, altre possibilità per esprimere qualcosa, per criticare e agire in questo esistente. La mia non vuole essere la solita critica trita e ritrita sull’uso dei media. Qui siamo di fronte ad altro. Non siamo di fronte all’intervista dopo il corteo dove forse c’è ancora la parola, ma ad un nuovo modo di concepire una lotta, come essa sia stata trasferita in toto in un mondo virtuale. Vengono usati tutti i peggiori ingredienti comunicativi di questa società impregnata di sfruttamento sperando di modificarne qualche aspetto con il tempo, magari incrementando il numero dei vegani. Di filmati prelevati durante incursioni negli allevamenti o nei laboratori di vivisezione ne esistono parecchi, basterebbe guardare sulle polverose scaffalature delle grandi associazioni, queste li hanno sempre mostrati sui grandi media, senza scordarsi prima di denunciarne gli autori originali come estremisti. Ovviamente si parla di un altro contesto, che a guardare quello di adesso sembra di parlare veramente di un’altra epoca, dove gli eventuali video, quando c’erano, erano solo una piccola parte tra gli scopi principali delle azioni degli attivisti, che erano la liberazione di tutti gli animali rinchiusi o il sabotaggio degli strumenti di tortura.

 

Quale liberazione?

Penso che la prima cosa da fare dovrebbe essere quella di de-virtualizzare i contesti dove con impegno e passione lavorano tanti attivisti. Tornare a parlare e a discutere delle questioni, tra noi ma anche con chi abbiamo intorno, uscendo da logiche di cricca e gruppetto ristretto che impedisce di areare i propri pensieri. Non dovremmo separare le parole dalle azioni, queste dovrebbero andare sempre insieme per non trovarci in mano un progetto parziale e privo di efficacia.

Sarebbe bello pensare di andare tutti uniti, ma non sarà semplice e a volte la chiarezza dei propri intenti non è solo importante ma fondamentale. Dovremmo anche chiarirci cosa si intende come movimento di liberazione animale. Quasi tutte le situazioni che agiscono adesso sono concentrate sulla crescita di se stesse più che verso un lavoro più ampio di costruzione e condivisione. La crescita e il cambiamento potranno fare grandi passi in avanti se sapremo guardarci intorno e capire altri movimenti e contesti come quello anti.tav di cui la lotta decennale tra queste valli contro l’alta velocità è un grande esempio di resistenza.

 

Per l’incontro di Liberazione animale 2013