Contributo a una lettura critica de L’unico

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Alfredo M. Bonanno

 

Si potrebbe trascrivere agevolmente un piccolo trattato dell’individualismo anarchico limitandosi alle citazioni tratte da L’unico e la sua proprietà. Sarebbe di certo opera vana, ed è questo che in alcuni casi non pochi studiosi di Stirner si sono limitati a fare. Faccenda discutibile, per persone chiamate ad approfondire tematiche e problemi, ma anche dolorosa, per le conseguenze pratiche negative, quando la stessa cosa, in sostanza, viene fatta da rivoluzionari entusiasti e superficiali.

Tutto il lavoro di Stirner si presta a stiracchiamenti di questo tipo, e quindi può venire utilizzato per accontentare palati facili e spiriti bisognosi di tutela. Ora, la cosa non deve apparire strana, visto che questi lettori, e l’immagine che gli stessi amano proiettare di sé, sembrano lontani dal prototipo umano bisognoso d’aiuto. L’individualista stirneriano ama gridare ai quattro venti di collocare in se stesso, e nella propria forza, il proprio diritto alla vita e alla gioia. Si compiace di affermare che ogni “causa” esterna al proprio io gli è estranea, e quindi la rinnega, identificando soltanto in ciò che è suo la propria causa, insomma una causa “unica”, come è unico il suo “io”.

L’appello alla rivolta ha affascinato tanti anarchici, e non poteva essere altrimenti. Ha affascinato, e continua ad affascinare chi scrive, in quanto anarchico e in quanto uomo che ha dedicato la propria vita alla rivoluzione, ma il fascino di qualcosa non può ottundere le capacità critiche, in caso contrario ogni dichiarazione di principio cade sotto il rasoio che lo stesso Stirner, insieme ad altri filosofi, ha approntato. Rasoio tagliente quanto altri mai. Ogni sacralizzazione è un fantasma che mi porta lontano da me stesso, e quindi risulta, in definitiva, qualcosa di contrario a me stesso. E se questa sacralizzazione fosse quella del proprio stesso io? Se fosse la sacralizzazione del nulla?

Qui voglio proporre una critica a questa tesi fondamentale contenuta ne L’unico, ma principalmente voglio affrontare il problema della rivolta fine a stessa, equivoco tanto più grave, quanto più difficile diventa un suo possibile smascheramento. L’occasione fornita da Stirner è molto importante, infatti nel suo lavoro fondamentale si trovano tutti gli elementi che covano, spesso in maniera irriflessa, modelli di vita che proiettano in avanti istinti di rivolta, desideri di conquista del mondo, stimoli al piacere, utilizzo degli altri, impadronimento dei mezzi di cui il mondo è sovraccarico, e così via, in un montaggio variopinto, gradevole agli spiriti aggressivi. Dopo tutto, la vita non va centellinata, è sempre meglio strapparne grossi pezzi e gustarla anche a costo di sporcarsi le mani.

Il bisogno di un fondamento. Dietro tutta l’opera di Stirner, non solo dietro il suo libro fondamentale, ci sta il bisogno di un fondamento, una base da cui partire. L’elencazione di tutte le basi “false”, come per esempio “Dio”, l’ “uomo”, la “libertà”, la “verità”, ecc., corrisponde a un’altra elencazione di basi “vere”: cioè il “nulla”, l’ “io”, l’ “autoliberazione”, la “proprietà”. Naturalmente questi due elenchi, esattamente corrispondenti, si possono allungare considerevolmente, e nello schema triadico della dialettica hegeliana hanno il proprio “superamento” nella terza fase, quella della sintesi, in cui emerge e si consolida l’ “egoista”, l’ “individualista”.

Tutto il lavoro di Stirner è diretto a costruire questo fondamento e ad allargarlo, passando dall’egoista alla società degli egoisti, sviluppando analisi di grande interesse che hanno costituito e costituiranno anche in futuro l’eterna fortuna di questo filosofo.

Qui voglio dire soltanto una cosa, che svilupperò a partire da questo punto. Come ogni fondamento, anche l’egoista soggiace alle considerazioni critiche di Stirner. Se non si ammette la possibilità che una volta costituitosi questo fondamento, una volta intrapresa la strada della rivolta contro ogni istituzione mondana e divina, una volta trovato l’individualista nei suoi aspetti vitali più intimi, non ci si possa indirizzare verso un’ulteriore visione critica, procedendo oltre, verso altre prospettive, sempre più lontane e sempre più arrischiate, proprio perché prive di fondamento, se non si ammette tutto ciò, l’egoista sarà un “ossesso” anche lui, un ulteriore “fantasma”. È Stirner che ci fornisce il mezzo per arrivare a questa conclusione che lui, comunque, evita accuratamente di proporre in quanto la cosa avrebbe rotto il meccanismo sigillatore della dialettica triadica.

È per questo motivo che spesso l’uomo forzuto, il coraggioso vincitore di mille battaglie, anche con se stesso, il vaticinatore di prospettive di liberazione, conchiude la propria vita nella miseria di una ribellione fittizia, destinata ad accasarsi nell’àmbito della propria immagine, tristemente riflessa nello specchio deformante della vita quotidiana, garantita da meccanismi tutt’altro che individualisti.

Di quale “superamento” parliamo? Interessante domanda. Purtroppo penso che il superamento di Stirner, diretto a costruire l’egoista, sia destinato a cadere nella trappola del fondamento. L’egoista o si costituisce in quanto tale e nel momento che lo fa al primo risultato ottenuto si chiude nel proprio egoismo, sigillandosi in un mondo sia pure unico ma comunque chiuso, o si muove verso l’egoismo, quindi si ribella e acquisisce, si appropria, usa e tutto il resto, non soltanto in vista della costituzione del proprio egoismo, ma per fare qualcosa di questo stesso egoismo, cioè per godere di se stesso, per vivere la propria vita realmente.

Stirner si è posto questo problema, e lo ha risolto affermando che lo scopo deve restare all’interno dell’io egoista. Quindi l’individualista, per non diventare la causa degli altri, cioè non sua, deve essere esso stesso il proprio scopo, cioè deve semplicemente vivere meglio che può. Ma non si tratta di una risoluzione radicale, in quanto il superamento alla fase individualista definita, in modo chiaro, non prende in considerazione il fatto che non si può godere se non di qualcosa che si conosce, e non si può possedere se non qualcosa che si conosce. Lo stesso Stirner afferma che il possesso involontario, come il godimento involontario, non sono che momenti inferiori della vita. Ma, come è facile capire, il conoscere, anticamera indispensabile di ogni godere e di ogni vivere, non può essere chiuso in un fondamento definitivo, ma deve essere continuamente posto in gioco. Non c’è un momento in cui la conoscenza può essere considerata conchiusa, quindi non c’è un momento in cui il proprio godimento può dirsi individualisticamente perfetto.

Un altro modo di considerare il “superamento”. La filosofia di questo secolo ha raccolto l’eredità niciana e ha proposto un differente concetto di superamento, differente da quello hegeliano che presuppone il meccanismo dialettico, l’Aufhebung, che è inevitabile ritrovare anche nella costituzione dell’egoista così come viene proposta da Stirner.

Questo nuovo concetto consiste nel non lasciarsi nulla alle spalle, nel superare partendo dalla propria stessa condizione di bisogno, che altrimenti il superamento sarebbe privo di senso. Questa Überwindung, ripresa in pochi passi della sua opera da Martin Heidegger, è certamente da ricondurre a Friedrich Nietzsche. Se l’egoista è l’uomo nuovo ha bisogno di un superamento che riassuma in sé le forze vecchie, distruggendole nella sintesi che appunto produce il nuovo. Ma a ben riflettere possiamo diventare nuovi? È l’egoista un uomo nuovo? Secondo la stessa analisi di Stirner egli non lo è, non può esserlo. Ma se non può esserlo, se può essere solo quello che è, e solo a condizione di non sacralizzare scopi al di fuori di se stesso, non può nemmeno diventare “nuovo”. Ma l’Aufhebung hegeliana produceva realmente una cosa nuova, faceva scomparire il vecchio. L’egoista distrugge il vecchio uomo, distrugge ogni residuo di verità passata, egli soltanto è la verità. Ma questa distruzione, se portata fino in fondo, distrugge anche se stessa, avendo bisogno per essere reale proprio di un fondamento, e questo viene fornito dall’individualismo, che ben presto, in un modo o nell’altro, nella società degli egoisti o nella ferocia singolare del solitario, trova quiete.

Nietzsche ha notato che definendo il nuovo come il superamento della novità precedente considerata superata – e questo processo critico nell’egoista è garantito dalla riduzione alla sua essenziale proprietà al di fuori di ogni rifiuto sacralizzante l’esterno – si innesta un processo inarrestabile di dissoluzione, il quale impedisce una reale novità, una posizione effettivamente diversa. Ogni processo di Aufklärung, ogni percorso ermeneutico, ogni itinerario critico, selezione dei mezzi utilizzabili dall’individualista nella prospettiva di vivere la propria vita e di goderla, riassume in sé tutto quello che precede, non chiude un periodo e getta via la chiave. Nessuna ribellione risolve problemi, né costruisce definitivamente ribelli. Sono io che mi ribello – e qui ritorna costante l’insegnamento di Stirner – e non la ribellione che mi garantisce la mia individualità. Non diventerò mai un professionista garantito della ribellione. Se faccio della mia ribellione un mestiere, o sia pure uno sport – come purtroppo è il caso di molti compagni che conosco – sarò sempre lo strumento della ribellione, e questa non sarà la mia ribellione, ma io il suo ribelle.

Nietzsche radicalizza il superamento, affermando che nulla può essere effettivamente superato in modo definitivo. L’egoista non può mettere da parte, o tra parentesi, il mondo che ha superato, almeno non può metterlo da parte per sempre. Nessun coraggioso è garantito in maniera assoluta contro la vigliaccheria. Tutte le volte che la vita gli propone un’occasione di vivere il proprio coraggio, egli è questo stesso coraggio, con tutte le sfumature che quest’ultimo comporta. Non è il coraggio in assoluto, il modello del coraggio che si è cristallizzato per sempre nel coraggioso. Nessun essere è perfettamente egoista, neanche l’unico stirneriano, tanto che nella sua assoluta unicità, logicamente solo teorica, per concretizzarsi, per rendersi egoista fino in fondo, ha bisogno degli altri egoisti, ha bisogno dell’unione degli egoisti, e questa condizione di bisogno lascia intendere che appunto la Not sta agendo in lui, e dal bisogno non è possibile altro superamento che quello indicato da Nietzsche e sviluppato dalla filosofia successiva, non quello suggerito per primo da Hegel.

Dall’assenza del fondamento alla diminuzione d’importanza dell’origine. In un passo di Aurora [1881], Nietzsche dice: «Con la piena conoscenza dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine». (Opere complete, tr. it., vol. V, Milano 1964, p. 44). Solo riconoscendo come tale l’estensione del fondamento (Grund), si vede che quest’ultimo non è qualcosa da costruire, su cui poi vivere, ma qualcosa che attraversa tutta la nostra vita, anche quella inautentica, per dirla con Stirner, e anche di quella inautenticità di vita abbiamo bisogno, perché anche quella è nostra proprietà, ci appartiene e, sia pure in controluce, concorre a completare la nostra vita attuale, ogni singolo momento di questa vita che viviamo e che non vogliamo venga smarrita nell’inautenticità.

Così, proprio nel momento in cui il fondamento si allarga anche al passato, scade la sua importanza. Non più un risultato da conquistare, non più norma nuova da instaurare, solo per noi, solo da noi e solo in noi, non più tutto questo, ma patrimonio comune da utilizzare, più intensamente nell’affinità, meno intensamente in tutti gli altri casi.

Non è più quindi il contenuto di questo Grund che adesso ha importanza, non un decalogo nuovo da sostituire al vecchio, come sembra a volte minacciare qualche lettura di Stirner, non una diversa violenza da impiantare nel corpo dell’antica violenza, non una più grande forza con cui sconfiggere una forza meno grande, ma l’assenza stessa della pretesa del fondamento di costituire una garanzia alla vita. E noi non abbiamo in fondo da custodire nessun catalogo, perché non abbiamo nessun luogo sacro dei rituali definitivi, nessun libro sacro, meno che mai Der Einzige.

La bellezza dei colori dell’unicità. In un’epoca in cui la filosofia è stata costretta a trascrivere i dati di una realtà priva di senso, riappare il senso della mancanza di realtà. Almeno intendendo come realtà qualcosa di definitivo, di fondamentalmente definitivo. La base solida su cui Immanuel Kant si illudeva di rendere possibile ogni futura costruzione logica si è rivelata per quello che era, il giardino delle torture. La ragione ha messo a nudo i meccanismi terribili che la regolano. La verità si è scoperta ancella dell’oppressione e mezzana dell’imbroglio.

La condizione dell’unico è quindi particolarmente vivida, estremamente mossa. Non è fissa in maniera irrevocabile. In essa alberga, come altrove, la possibilità del contrario, l’improvviso cedere alla molteplicità del bisogno, agli aspetti deteriori della vita. Per poi riconquistare quello che si è smarrito, in modo radicale, non per paura di perderlo, ma semplicemente per assenza di fondamento certo, una volta per tutte.

L’unicità dell’individualista non costruisce nel deserto della vita quotidiana, ma in un luogo in cui costruire significa distruggere, in cui l’abbattimento degli ostacoli e dei limiti, tutto quello che di supremamente odioso la società ha saputo erigere nei millenni, è momento de-costruttivo, non banale esercizio di critica sia pure radicale. Se usa il martello, o la dinamite, non ha l’atteggiamento compromissorio di chi danneggia il meno possibile perché pensa di essere l’erede di quella parte che resterà in piedi. Il suo buon temperamento naturale, cui non mancava mai di far riferimento Nietzsche, la sua familiarità con l’odio verso tutto ciò che opprime e giustifica l’oppressione, lo fa agire in maniera naturale, spontanea, risparmiandogli, e risparmiandoci, la figura di colui che dopo finisce sempre per presentare il conto.

La vivezza dei colori nell’unicità non può comunque farci scordare la pregnanza di quello che ci circonda. Un oblio, sia pure momentaneo, e ci chiudiamo in una prigione costruita da noi stessi. Questo contesto malato, che pur continua a circondarci, non possiamo mai metterlo definitivamente tra parentesi, né possiamo mettere noi tra parentesi, chiamandoci fuori. Possiamo avere opinioni su tutto il resto, e convogliarle nel senso negativo dell’opposizione all’unicità, ma non possiamo cancellarlo, dobbiamo fare i conti con esso, dominarlo o farci dominare, non ci sono altre alternative.

Così, non possiamo dire che il completamento della nostra singolarità sia intensificazione assoluta di quella vivezza di colori. Né l’una né l’altra possibilità possono conchiudersi definitivamente. L’esperienza dell’unico resta viva e vivida a condizione di rimetterla in gioco in ogni istante, quindi a condizione di non considerarla “completa”.

Conclusione provvisoria. L’unico mantiene tutte le caratteristiche individualiste di cui l’anarchismo è ricco solo a condizione di non fermarsi nel suo percorso di lotta e di ribellione, a condizione di essere costantemente se stesso nel cercare non solo le condizioni della propria differenza, ma anche quelle degli altri. Di più. Queste condizioni, una volta trovate, devono essere viste nella loro possibile affinità, allo scopo di permettere l’identificazione di quel territorio delle differenze che rende possibile l’esercizio delle qualità essenziali dell’unicità, in primo luogo quella di vivere la propria vita nella maniera migliore.

Tutto ciò ha senso solo se si considera la condizione privilegiata dell’individualista come una condizione continuamente in movimento, essa stessa priva di una base solida e definitiva su cui contare in qualsiasi momento. Il rischio e il pericolo sono tali solo quando ci si sente esposti alle avversità, non quando si sa di essere sicuri in un fortilizio ben custodito. Non dimentichiamo che ogni luogo ben custodito, prima di ogni altra cosa, è una prigione.

Non possiamo usare la realtà, nel senso stirneriano dell’individualista, se non la conosciamo, e questa conoscenza è una costante rimessa in gioco, un rischio e un coinvolgimento. Non esiste vera e propria conoscenza nell’arroccamento e nella difesa del proprio territorio, per quanto quest’ultimo possa essere privilegiato.

Possiamo quindi ricondurre, o se si preferisce “rivivere”, nell’àmbito dell’unico, tutte quelle condizioni dell’assenza e del dolore che caratterizzavano la vita inautentica, ma solo quando siamo talmente forti da poterle considerare ulteriori sperimentazioni della nostra forza, esercizi del nostro dominio. Questo, che in effetti è un amplissimo problema meritevole di essere trattato adeguatamente, qui viene solo accennato. L’individualista stirneriano non può avere paura dell’eccesso, neanche dell’eccesso che ha appena lasciato la traccia della propria vita negata, ricacciata indietro e distrutta, e ciò proprio perché sa che ogni distruzione non è mai definitivo abbandono ma, al contrario, permanenza e trasformazione.

Non c’è un progresso su cui giurare e a cui affidarsi. Questa illusione tarda a morire. L’individualista non manca di considerarsi migliore di coloro che si dibattono nella quotidianità del vacuo e non si accorge che proprio questa valutazione etica appartiene a qual mondo di fantasmi su cui Stirner esercitava con tanto acume il suo sarcasmo.

Nessuno si salva dalla generale contaminazione.

 

[Pubblicato in AA.VV., Fuori dal cerchio magico. Stirner e l’anarchia, Centrolibri, Catania 1993.

Ora in Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio, Edizioni Anarchismo, Trieste 2004]