ANTIPSICHIATRIA (alcuni testi)

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LETTERA AI DIRETTORI DEI MANICOMI

Signori,
le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano. Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza, nè la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono altra cosa che un’insalata di parole?

Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito umano.

E che incarcerazione! Si sa – e ancora non lo si sa abbastanza – che gli ospedali, lungi dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla prigione, al bagno penale.

Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch’essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.

Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.

Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza.

Antonin Artaud

 

ACCERTAMENTI E TRATTAMENTI SANITARI OBBLIGATORI

(ex L. 833/78 artt. 33 e segg.) guida all’autodifesa

Io sono un mago. una magia mi ha portato qui.
Il guaio è che non ricordo più la magia per uscire
(un ricoverato)

La legge italiana (L. 833/78) sancisce la norma che i trattamenti psichiatrici sono volontari. Ciò significa che tali trattamenti vanno richiesti e accettati da chi li subisce. Non solo. Occorre anche che la persona sia informata del tipo di terapia, della natura e degli effetti che essa produce.

Chiunque sia stato (o sia) in cura presso i servizi psichiatrici sa quanto ciò sia lontano dalla realtà delle pratiche psichiatriche. Ciononostante deve essere chiaro che è nostro diritto rifiutare le terapie che ci vengono somministrate, esserne informati, essere dimessi da qualsiasi struttura in cui siamo ricoverati.

Esiste una sola possibilità in Italia per essere sottoposti contro la nostra volontà a trattamenti psichiatrici: il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.).

Possiamo essere ricoverati coattivamente solo in presenza di questo provvedimento e solo nei reparti psichiatrici istituiti presso gli ospedali generali. Non possono in nessun modo ricoverarci, senza il nostro consenso, presso altre strutture pubbliche o private (reparti psichiatrici del policlinico, comunità protette, case famiglia, cliniche private…).

Chiunque ci trattiene contro la nostra volontà all’interno di una qualsiasi struttura psichiatrica che non sia il reparto di un ospedale civile, è passibile di essere denunciato per sequestro di persona e maltrattamenti. Lo stesso vale se siamo ricoverati in un reparto psichiatrico in mancanza di un provvedimento di T.S.O. In mancanza di tale provvedimento nessuno può costringerci ad assumere o sottoporci a qualsiasi tipo di terapia psichiatrica.

Abbiamo diritto di rifiutare le visite psichiatriche. Possiamo essere sottoposti a visita contro la nostra volontà solo in presenza di un provvedimento di Accertamento Sanitario Obbligatorio (A.S.O.). Non siamo tenuti o obbligati a sottoporci a controlli psichiatrici. Se, come accade, veniamo minacciati di ricovero coatto per farci accettare le cure, il nostro consenso non è valido in quanto estorto.

La normativa che riguarda gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori si riferisce alla Legge 180 del 1978 (meglio conosciuta come legge Basaglia), poi inglobata nella legge di Riforma Sanitaria n. 833/78, art. 33 e seguenti. In atto, nonostante diversi tentativi falliti di modifica, gli articoli della L.833 regolano in Italia la possibilità di essere sottoposti a interventi psichiatrici coatti.

L’Accertamento e il Trattamento Sanitario Obbligatorio vengono disposti dal Sindaco del comune di residenza (o presso cui ci si trova). Il provvedimento deve essere firmato dal Sindaco (o da un suo delegato) entro 48 ore dalla richiesta avanzata da un medico qualsiasi e convalidata da un medico della struttura pubblica (generalmente l’Ufficiale Sanitario). I due medici di cui sopra devono visitare la persona e dichiarare che la stessa:

1. presenta alterazioni psichiche tali da necessitare interventi terapeutici urgenti;
2. rifiuta la terapia;
3. non possa essere assistita in altro modo.

Perchè la richiesta di ricovero sia valida devono sussistere tutte e tre le condizioni. Non può essere ricoverato coattamente, ad esempio, chi afferma di accettare la terapia.

Va sottolineato poi che il T.S.O. non è valido se i medici che certificano la situazione di urgenza non hanno visto, nè visitato la persona. In questi casi, oltre alla nullità del provvedimento, esistono gli estremi del reato di falso in atto pubblico.

Questa procedura illegale è più comune di quanto si creda (come ben sanno coloro che sono stati sottoposti a ricoveri coatti). E’ una comoda scorciatoia che viene seguita sia per quelle persone già note per aver subito ricoveri coatti, sia in risposta a pressioni fatte da familiari e dall’opinione pubblica su medici di famiglia e Sindaco (specie nei piccoli comuni).

Per questo e per poter attivare tutte le procedure di autotutela che la legge prevede, occorre sempre farsi notificare il provvedimento emesso dal sindaco, come è nostro diritto. In mancanza o in attesa di tale provvedimento, nessuno può costringerci a seguirlo, nessuno può praticarci alcuna terapia, nessuno può portarci al Pronto Soccorso. Vanno esclusi naturalmente i casi in cui il nostro comportamento violi norme penali e quelli in cui lo psichiatra può invocare il cosiddetto stato di necessità, disciplinato dall’art. 54 del Codice Penale (pericolo di danno grave alla persona).

In assenza del provvedimento di Accertamento o Trattamento Sanitario Obbligatorio ogni coazione della nostra volontà o limitazione della nostra libertà è illeggittima.

Una volta ottenuta la notifica del T.S.O. i nostri diritti subiscono una drastica limitazione. E’ ben poca cosa, ma la legge prevede che si debba rispettare, ove possibile, la nostra scelta circa il reparto in cui essere ricoverati. Rivendicando questo diritto si può tentare di ridurre i danni conseguenti al ricovero in un reparto in cui, per esperienza diretta o indiretta, sappiamo si applicano metodi o terapie che sentiamo intollerabilmente lesive della nostra dignità e integrità psicofisica. Dubito che esistano reparti psichiatrici in cui si possa essere felici di essere confinati, ma di fronte al T.S.O. dobbiamo cercare di ritagliarci tutti gli spazi di diritto che abbiamo a disposizione per difenderci dalla violenza a cui siamo sottoposti.

Una volta che un provvedimento di TSO, legale o illegale che sia, ci è stato notificato, non abbiamo molta scelta.

Alcuni reagiscono e si oppongono fisicamente a quello che ritengono un vero e proprio sequestro di persona. Seppure naturale, tale reazione non produce mai risultati esaltanti. Ricordiamoci infatti che generalmente abbiamo di fronte pubblici ufficiali (vigili urbani, infermieri, medici), mentre noi siamo definiti malati di mente e, quindi, incapaci di intendere e volere. Spingere un vigile urbano che ci trattiene, assestargli un pugno per cercare di scappare, ingiuriarlo, ci espone all’accusa di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Accusa che in situazioni ordinarie non avrebbe gli effetti drammatici che ha nel momento in cui siamo diagnosticati malati. Rischiamo infatti di essere prosciolti dal reato di aver offeso il pubblico ufficiale, ma di essere condotti in manicomio criminale, per un periodo minimo di 2 anni, allo scopo di essere puniti-curati di quanto abbiamo fatto. Perchè? Perchè viene ritenuto insensato tutto ciò che una persona insensata fa.

Se fossimo giudicati come persone normali potremmo rispondere dei nostri reati, assumere tutta la responsabilità e la volontarietà di aver difeso la nostra libertà e, probabilmente, essere condannati ad una pena minima col beneficio della condizionale.

Il T.S.O. è una situazione a rischio. I nostri nervi sono messi a dura prova. L’unica nostra speranza è mantenere, per quanto possibile, il nostro autocontrollo. Ogni nostra reazione produce, oltre al rischio di internamento di cui sopra, anche un attacco psicofarmacologico massiccio che, di fatto, annulla tutte le nostre possibilità di difesa durante il ricovero in ospedale.

Non suggerisco una resa incondizionata all’invasione psichiatrica della nostra esistenza. Personalmente solidarizzo con quanti difendono fino in fondo il loro diritto ad esprimersi e a vivere come desiderano, senza piegarsi o accettare compromessi con nessuno. So però che la psichiatria può diventare molto violenta con chi non si sottomette alle sue regole e so che difficilmente si troverà qualcuno disposto a crederci e a difenderci.

Molti fra coloro che hanno subito più di un T.S.O., e che magari inizialmente si erano opposti con determinazione a tale costrizione, finiscono man mano con l’accettare fatalisticamente ogni ricovero. Non dobbiamo dimenticare che il fine istituzionale della psichiatria è di piegare la nostra volontà. Per far ciò ha creato tecniche e luoghi specializzati e professionisti del lavaggio del cervello.

La lotta contro l’arbitrio psichiatrico è impari. Siamo soli di fronte ad un sistema organizzato per il controllo dei nostri comportamenti e della nostra mente e, soprattutto, non troviamo di norma nessuno disposto a riconoscere il nostro diritto ad opporci a qualsiasi intervento non richiesto nella nostra vita.

L’unico modo che vedo, per ridurre i danni derivanti dal T.S.O. e praticare una difesa possibile da esso, è mantenere dignitosamente la propria lucidità, usando tutte le norme a nostra disposizione per ribaltare i rapporti di forza fra noi e i nostri curatori.

Esistono situazioni e contesti in cui la nostra aggressività paga. Nessun medico se la sente di certificare il nostro ricovero per paura delle nostre ritorsioni, i medici del reparto ci dimettono prima perchè incontenibili, i nostri familiari non insistono per farci assumere le terapie… Il prezzo da pagare per ritagliarsi questi spazi di libertà però è altissimo: si chiama isolamento. Facendo la parte dei pazzi furiosi non allontaniamo solo medicine e medici, ma anche chiunque altro si voglia avvicinare a noi.

La conoscenza delle norme che regolano il TSO ci permette di individuare quali e quante delle azioni che normalmente subiamo dentro un reparto psichiatrico sono, oltre che insensate, anche illegali. Considerato il fatto che le leggi che limitano la nostra libertà, limitano (in teoria) anche quella degli psichiatri; ciò ci permette di aumentare il nostro potere contrattuale all’interno delle istituzioni psichiatriche…senza spargimenti di sangue.

Ma torniamo al TSO. Con la notifica del provvedimento del Sindaco (e soltanto allora) veniamo accompagnati dai vigili urbani presso il reparto psichiatrico di diagnosi e cura che abbiamo scelto, o presso cui si è trovato posto. Contemporaneamente, e comunque entro le 48 ore successive, il Sindaco deve comunicare al Giudice Tutelare del luogo il provvedimento di TSO, affinchè questi, assunte le necessarie informazioni, lo convalidi. In mancanza di questa convalida, che deve essere effettuata entro le 48 ore successive, il provvedimento di TSO decade. Il Giudice Tutelare può anche scegliere di non convalidare il provvedimento, rendendolo così nullo.

Il TSO ha per legge la durata di 7 giorni. E’ possibile agli psichiatri del reparto sia richiederne una proroga che proporne la revoca anticipata prima della scadenza naturale. Di questo parleremo fra poco.

Dobbiamo intanto ricordare che è previsto che chiunque ne abbia interesse può proporre al Sindaco ricorso avverso al provvedimento con cui è stato disposto il TSO. Questi è tenuto a rispondere al ricorso entro 10 giorni (!), disponendo la revoca del provvedimento, ovvero rigettando il ricorso.

Questa possibilità di autotutela, in realtà, ci è generalmente preclusa. Intanto perchè i tempi di risposta superano quelli previsti dal ricovero. Poi perchè è illusorio pensare che una persona, soggetta al regime del TSO, ricoverata in un reparto, sottoposta a terapia psicofarmacologica massiva, abbia la libertà di articolare un ricorso o le si lasci la possibilità di farlo pervenire alle autorità competenti.

L’eventualità che l’azione di ricorso parta dall’esterno (ad esempio da amici, familiari, associazioni di tutela…), infine, è fortemente limitata dall’impossibilità di accedere agli atti che hanno determinato il TSO (anche se è previsto che l’internato possa delegare altri all’accesso alla propria cartella clinica e alle informazioni che lo riguardano).

Possiamo tentare di invalidare un TSO cercando di individuarne irregolarità nella forma e nel contenuto. Per quanto riguarda il contenuto di quanto viene dichiarato dai medici che propongono il TSO, del Sindaco che lo emette e del Giudice Tutelare che lo convalida, dovremmo dimostrare che non eravamo in una situazione di alterazione mentale tale da essere necessario ricoverarci, oppure che non rifiutavamo le cure o, infine, che qualunque fosse il problema, lo si poteva risolvere diversamente. La nostra parola contro quella degli psichiatri. Il buon senso qui non ha diritto di cittadinanza. Quel che conta sono le certificazioni mediche.

Per avere qualche speranza di invalidare un TSO uno psichiatra dovrebbe dichiarare che i suoi colleghi hanno sbagliato a valutare la situazione o, peggio ancora, hanno dichiarato il falso. Potrebbe bastare anche che le persone intorno si ribellino a ciò che vedono come un sorpruso e invalidino tutte le circostanze che vengono addotte dai medici come prova dell’urgenza e della necessità del ricovero. Non dimentichiamo che i TSO non rispondono mai ad un’esigenza sanitaria, ma sempre a problemi di conflittualità intrafamiliare o di ordine pubblico.

L’altra via per opporsi al TSO è riuscire a dimostrare che non sono stati rispettati tutti i passaggi formali previsti dalla legge. L’irregolarità più comune, mi ripeto, è quella di medici che certificano la necessità di TSO senza averci visto nè visitato. Cito questa fra le possibili irregolarità che portano all’annullamento del TSO perchè ogni ricoverato ha generalmente una conoscenza diretta dei fatti, piuttosto che delle procedure burocratiche, che riguardano il suo ricovero.

Le irregolarità formali riguardano anche il rispetto dei tempi previsti dalla legge e, soprattutto, l’obbligo imposto ai medici, al sindaco e al giudice tutelare di motivare il ricovero.

E’ uso comune usare moduli prestampati o indicare a motivazione della richiesta di ricovero una semplice diagnosi. Spesso manca nelle certificazioni anche la dichiarazione che sono presenti nel caso concreto tutte e tre le circostanze che giustificano il TSO.

Esiste almeno un caso di mancata convalida di TSO effettuata dal Giudice Tutelare di Torino per difetto di motivazione (cfr. Decreto della Pretura di Torino 20 settembre 1981 in Appendice). Ma l’assenza o l’insufficienza di motivazione è una prassi ormai consolidata ed è un’altra delle irregolarità formali più comuni a cui possiamo appellarci per chiedere l’annullamento del TSO.

Se si fa ricorso al Sindaco entro le 48 ore successive al ricovero, conviene inviarne copia al Giudice Tutelare competente, chiedendo di non convalidare il TSO e di disporne la decadenza immediata. Ciò senza aspettare la risposta del sindaco che, come abbiamo detto, potrebbe arrivare a ricovero concluso.

Una volta che il TSO è stato eseguito e convalidato dal Giudice Tutelare, e il Sindaco ha rigettato il nostro ricorso, possiamo avanzare richiesta di revoca al Tribunale. In questo caso va richiesta la revoca immediata del TSO e si può scegliere di delegare qualcuno a rappresentarci in giudizio quando la nostra richiesta sarà discussa in Tribunale.

Tutte le possibilità di autotutela che la legge prevede, si scontrano con la realtà che ai ricoverati psichiatrici (non importa se volontari o coatti) non viene generalmente fornita alcuna informazione sui loro diritti, così come sugli atti che li riguardano.

La loro libertà di movimento, così come la possibilità di comunicare, sono ridotte al minimo. Anzi la costrizione e il sotterfugio sono considerate strategie terapeutiche. Non è raro sentire uno psichiatra consigliare di versare di nascosto tranquillanti nel latte o contrabbandare una fiala di serenase per un disintossicante. Salvo poi provocare la reazione violenta in chi si accorge del trucco e la sua chiusura a qualsiasi intervento sanitario (anche quando questo non ha a che fare con le cure psichiatriche). In questo come in altri casi, è l’intervento psichiatrico a provocare i comportamenti che dice di voler controllare.

L’opinione circa la necessità e l’opportunità di tener nascosto ai ricoverati psichiatrici ciò che viene loro fatto, è diffusa e condivisa anche al di fuori del mondo psichiatrico. Tanto che, pur esistendo una normativa chiara in materia, esiste una impunità di fatto per le violazioni e gli abusi commessi dagli psichiatri ai danni dei loro utenti volontari e involontari.

Bisogna sempre avere chiaro che il potere della psichiatria non sta tanto (o solo) nelle leggi, ma soprattutto nel consenso implicito o esplicito che noi diamo alle sue pratiche. C’è un legame inquietante fra la nostra paura della follia e ciò che abbiamo permesso di fare agli psichiatri; fra i nostri pregiudizi e l’impunità di cui essi godono.

Dal primo momento di ricovero noi dobbiamo chiedere di essere informati su tempi, modalità, tipologie delle terapie che ci verranno somministrate. Il fatto di essere sottoposti ad un trattamento sanitario obbligatorio non inficia il nostro diritto a conoscere il tipo di intervento a cui siamo sottoposti e il fine che intende raggiungere. Non solo. Se non abbiamo la possibilità di rifiutare le terapie, ci rimane il diritto di poter scegliere fra un ventaglio di proposte terapeutiche differenziate. La dichiarazione di accettazione della terapia e l’indicazione del tipo di cura che si ritiene necessaria, fanno venire meno uno dei presupposti che motivano il TSO e permettono di opporsi all’imposizione di terapie che riteniamo troppo invasive (come per esempio quelle psicofarmacologiche). La dichiarazione, possibilmente scritta, da consegnare al Primario del reparto e far pervenire al Giudice Tutelare, deve contenere il nostro impegno ad accettare le terapie, l’indicazione di quali terapie riteniamo più idonee e quali dannose alla nostra integrità psicofisica, la diffida ai sanitari di praticare contro la nostra volontà questi interventi, specificando che li riterremo responsabili di qualsiasi danno esse possano arrecarci. (cfr facsimile in Appendici).

Se non abbiamo avuto modo prima, dobbiamo subito chiedere di conoscere gli estremi del provvedimento di TSO che ci riguarda (motivazioni, certificazioni mediche, provvedimento del Sindaco, convalida del Giudice Tutelare…) e, ove si ravvisi un abuso, chiedere di poter comunicare con il Giudice Tutelare competente per territorio (quello operante nel Comune il cui sindaco ha disposto il TSO).

E’ importante aver chiaro che non possono rifiutarsi di metterci in contatto con il Giudice Tutelare, così come non possono impedirci di comunicare con chi riteniamo opportuno.

Il diritto alla comunicazione è nostro. Spesso accade che gli operatori del reaparto decidano, per esigenze terapeutiche, di impedire l’accesso al reparto a persone che vogliamo vedere, consentendolo ad altre che non gradiamo. Questo perchè, durante il ricovero, esiste una determinazione costante a piegare la nostra volontà e renderci disponibili alle cure. Questa esigenza terapeutica cozza chiaramente con il sostegno e/o l’aiuto che potremmo ricevere da parenti e amici che riconoscono le nostre ragioni. Il diritto alla comunicazione è indisponibile ad altri. La legge prevede espressamente che, seppur coatti, noi manteniamo integro tale diritto. Anzi, è posto fra le possibilità di autotutela che abbiamo a disposizione per difenderci da eventuali abusi connessi al ricovero coatto.

Il problema, qui come altrove, è stabilire che margini concreti abbiamo di gestire tale diritto.

In alcuni reparti esistono telefoni pubblici. Nella maggior parte dei casi, la possibilità di comunicare con l’esterno passa attraverso gli operatori. Questi esercitano, com’è prevedibile, a piene mani sia il controllo che il diritto di veto su quello quello che possiamo dire e a chi.

Dobbiamo aver chiaro che non è loro consentito limitare la nostra libertà di espressione di comunicazione. Ogni limitazione è un abuso che va comunicato, in qualche modo, al Giudice Tutelare che vigila sul nostro ricovero coatto. Come? O direttamente, tramite le associazioni di tutela, oppure attivando amici e familiari disponibili. Chiunque ha subito (o rischia di subire) ricoveri coatti, deve tessere una rete di protezione preventiva per poter far fronte a possibili futuri abusi. Un suggerimento potrebbe essere, ad esempio, quello di andare a conoscere e farsi conoscere dal Giudice Tutelare, fornendogli informazioni e comunicandogli le proprie volontà.

Altra azione preventiva, proposta dallo psichiatra Thomas Szasz, è quella della stipula di una sorta di testamento psichiatrico. Szasz suggerisce di sottoscrivere, e depositare presso un legale, una dichiarazione in cui si afferma di essere contrari al proprio ricovero coatto e, in ogni caso, si chiariscono le proprie volontà rispetto a ciò che vogliamo ci venga fatto o risparmiato durante il ricovero. Qualcosa di simile è la procura elaborata dal Telefono Viola di Roma. Dopo l’enunciazione del proprio rifiuto motivato ad acconsentire alle cure psichiatriche non richieste, la persona delega i legali dell’associazione e i suoi soci a rappresentarlo e tutelarlo di fronte alle autorità psichiatriche. (cfr. Testamento Psichiatrico e Procura in Appendici)

Nessuno dei due atti legali impedisce di per sè il nostro ricovero coatto in psichiatria. Essi però permettono di attivare forme di tutela effettiva al momento del ricovero. Atti preventivi necessari anche in considerazione del fatto che le nostre possibilità di scelta saranno forzatamente limitate (o annullate) dopo il ricovero. Sottoscrivere un atto in cui preventivamente si afferma che, nell’eventualità di TSO, autorizziamo l’associazione o la persona X a prendere visione della documentazione che ci riguarda, permette, ad esempio, di poter praticare nella concretezza le possibilità di tutela previste dalla legge.

Una variazione importante sul tema che propongo è quella di integrare le due formule (enunciazione delle proprie volontà e procura ai legali) e di depositare, o comunque portare a conoscenza del Giudice Tutelare, la nostra dichiarazione. Si ottengono così tre risultati: 1. esprimere in modo compiuto le proprie volontà circa le cure psichiatriche a cui si viene sottoposti; 2. delegare preventivamente legali o associazioni della nostra assistenza e tutela durante il ricovero; 3. attivare automaticamente, in caso di ricovero coatto, l’azione di controllo del Giudice Tutelare (che troppo spesso si limita ad una verifica solo formale del provvedimentio inviatogli dal Sindaco).

Una dichiarazione così congegnata permette ad altri, da noi scelti, di attivarsi in nostra difesa anche se noi non riusciamo più a spiccicare una sola parola a causa della terapia, siamo legati al letto o ci impediscono di telefonare. E’ un lasciapassare importante che permette di rompere l’isolamento e la zona franca in cui la psichiatria è solita operare.

Mentre siamo ricoverati può capitare che, ad ogni nostro accenno di ribellione o di rifiuto, ci si risponda con violenza verbale o fisica, magari legandoci al letto per punizione. Tale pratica, ancora molto diffusa seppure sia stata sostituita dall’uso massiccio degli psicofarmaci, è un residuo delle pratiche manicomiali. Pratica mai dichiarata fuori legge, come del resto nessuna legge ha mai dichiarato illegale la lobotomia o il coma insulinico.Ciò che in qualsiasi altro contesto non sarebbe tollerato e sarebbe definito maltrattemento o violenza, viene trasformato, durante un ricovero psichiatrico, in un intervento terapeutico.

I mezzi di contenzione, così come vengono chiamati i metodi più o meno rudi di immobilizzare un essere umano, non sono stati mai aboliti dalla legge. Gli psichiatri possono legalmente disporre, in situazioni in cui ravvisano gli estremi di uno stato di necessità (con pericolo grave per l’incolumità della persona loro affidata), che essa venga contenuta. Ma tale azione va motivata e limitata nel tempo.

Qualsiasi sia la motivazione addotta, non è plausibile che si rimanga legati per ore o giorni ad un letto. In questi casi va avanzata denuncia per maltrattamenti e violenze.

A volte la contenzione viene giustificata con la necessità di consentire agli infermieri di praticare una terapia iniettiva (flebo) che, a causa del rifiuto della persona, sarebbe impossibile realizzare. Anche in questo caso, e posto che durante il TSO esiste la possibilità di obbligarci a cure che non accettiamo, la contenzione può essere denunciata come reato se si protrae oltre il tempo strettamente necessario alla somministrazione della terapia.

Tutti coloro che hanno provato sulla loro pelle la contenzione sono concordi nell’affermare il suo carattere prettamente punitivo, aldilà delle buone intenzioni addotte dal personale psichiatrico. A volte ci si trova legati per evitare il pericolo di cadere e farci male per la confusione e la mancanza d’equilibrio causata dagli psicofarmaci. Paradossalmente subiamo unulteriore violenza per difenderci dagli effetti negativi di una terapia che rifiutiamo. Il più delle volte si viene contenuti per impedirci di dare fastidio o di scappare, per difendersi e punirci per la nostra resistenza attiva, per piegare la nostra volontà… In ognuno di questi casi l’uso della contenzione è illegale e va denunciato.

Ricordiamoci però che ciò che è ovvio nel mondo degli esseri umani, non sempre lo è in quello della psichiatria. Dimostrare che ci sia stata violenza nel modo in cui ci hanno trattato in un reparto psichiatrico è cosa molto ardua. Innanzitutto perchè chi è considerato un malato di mente smette di essere creduto come persona. Poi perchè ci è naturale pensare che dai matti occorra difenderci e renderli innocui perchè pericolosi. E’ possibile allora che qualcuno venga picchiato o di lui si abusi sessualmente, senza che questi abbia la possibilità di denunciare i fatti e far punire i colpevoli.

Chi è disposto a credere ad un pazzo? La sua parola contro quella di onesti cittadini, sani di mente, che tentano di guarirlo. La storia ha dimostrato da che parte sta la follia e la violenza, nonostante questo gli internati psichiatrici continuano ad aver meno credito di chi ha praticato per decenni la costrizione, la distruzione sistematica dei corpi, dei cervelli e delle menti di persone loro affidate.

Due consigli pratici per potere impostare un’azione legale contro gli abusi di contenzione fisica subiti in un reparto:

1. presentare al primario del reparto una memoria scritta in cui si denunciano gli abusi subiti, chiedendo che venga inserita in cartella clinica. La legge regionale siciliana sulla tutela dei pazienti dei servizi sanitari prevede, in tal senso, che un cittadino possa dettare note circa il suo stato di salute e quant’altro ritiene necessario da trascrivere nella propria cartella clinica. Questa possibilità va usata anche per dichiarare le proprie allergie agli psicofarmaci, la mancanza di informazioni sulle terapie somministrate, nonchè tutto ciò che si ritiene lesivo della propria salute psichica e fisica;

2. annotare i nomi degli operatori responsabili degli abusi che si intende denunciare e le generalità dei ricoverati presenti in reparto. Se è facile invalidare la parola di un matto, diventa difficile invalidare la testimonianza di più matti.

E’ esperienza comune a quanti abbiano richiesto la cartella clinica del proprio ricovero psichiatrico, trovarvi inesattezze e omissioni anche consistenti. Le pratiche di contenzione subite spesso scompaiono. Non c’è traccia di tutte le nostre richieste e denunce. Quando si accenna al nostro rifiuto delle cure e alle nostre richieste di dimissione, queste vengono inserite come sintomi della nostra situazione patologica. Molte delle affermazioni degli psichiatri si basano su quanto riferito dai nostri familiari. La nostra credibilità viene sempre messa in dubbio, contribuendo a togliere peso a quanto possiamo denunciare in seguito.

La cartella clinica è l’unico documento ufficiale del nostro ricovero. E’ importante che in essa compaia il nostro punto di vista, se vogliamo che le nostre denunce vengano prese in considerazione.

Una copia di quanto si consegna al primario va conservata. E’ importante fare arrivare copia di quanto consegnato al Giudice Tutelare. Ciò è più facile se ci si è preventivamente tutelati appoggiandosi ad un’associazione per i diritti umani. In ogni caso si può delegare un amico o anche un compagno di prigionia, liberato prima di noi, a far pervenire al Giudice Tutelare la nostra memoria. In ogni caso ricordiamo che abbiamo diritto di comunicare con lui in qualsiasi momento.

Il TSO, come abbiamo detto, ha la durata di sette giorni. Scaduto questo periodo esistono tre possibilità:

1. si viene dimessi;

2. si rimane ricoverati ma in regime di ricovero volontario;
3. si proroga il TSO.

In tutti e tre i casi, la decisione va comunicata al Sindaco che ha disposto il TSO. Nel caso in cui non viene rinnovato, possiamo scegliere se rimanere in reparto o essere dimessi. Abbiamo diritto di sapere se il TSO è stato prorogato e di avere notificato il provvedimento di proroga del Sindaco.

Fra i poteri del responsabile del reparto c’è anche quello di revocare anticipatamente il TSO.

La proroga avviene con le stesse procedure che abbiamo descritto per il TSO. Il Sindaco firma il provvedimento sulla base delle certificazioni mediche fornite dai sanitari dell’ospedale e invia il tutto al Giudice Tutelare per la convalida. Anche se non si è fatta alcuna azione di ricorso al TSO, si può avanzare richiesta di revoca all’eventuale proroga (o proroghe) a cui siamo sottoposti. Revoca e ricorsi al Sindaco e al Tribunale, vanno fatti secondo le modalità di cui abbiamo parlato per quanto riguarda il TSO.

DIRITTI DELLA FOLLIA

IL DIRITTO ALLA FOLLIA

…finchè il medico le chiese se ritenesse di essere stata aiutata.

Paziente: No, non lo penso.
Medico: Che tipo di trattamento ha ricevuto qui?
Paziente: Lobotomia e terapia di shock.
Medico: Pensa che le siano state d’aiuto oppure che abbiano rappresentato soltanto una tortura?
Paziente: Penso che siano state una tortura.(…) Farei molto meglio se l’ospedale mi liberasse.
Medico: Cosa intende quando dice mi liberasse?.
Paziente: Beh,(…) Non sei mai veramente libera.
Medico: Ma se lei rimanesse qui con una posizione di lavoro, sarebbe libera di andare e venire secondo gli orari. Sarebbe esattamente come un lavoro.
Paziente: No. Voi continuereste a controllarmi, se rimanessi qui.
Medico: Intende dire che noi qui controlliamo la sua mente?
Paziente: Voi potete non controllare la mia mente, ma io in realtà non possiedo una mente mia.
Medico: Cosa direbbe se le offrissimo una posizione di lavoro a….? Sarebbe libera in quel caso? E’ un posto molto lontano da qui.
Paziente: Qualunque posto avrebbe la stessa struttura di questo. Non sei mai veramente libera; sei sempre una paziente e chiunque sia, che lavori con te, ne è al corrente. E’ difficile sfuggire al controllo dell’ospedale.
Medico: Questa è la dichiarazione più paranoica che abbia mai sentito.

Ovviamente, la paziente non fu dimessa .

(Judy Chamberlin)

Gli accertamenti e i trattamenti psichiatrici sono di norma volontari. Cosa significa ciò? Essenzialmente che nessuno psichiatra può diagnosticare o trattare una persona come un malato di mente senza il suo espresso consenso. Questo è ciò che la legge stabilisce come norma nei rapporti fra cittadini e psichiatria.

Abbiamo già visto che esiste la possibilità di essere obbligati alla diagnosi e alle cure psichiatriche, tramite il T.S.O., ma esso va considerato un’eccezione, limitata a casi specifici e definita per legge.

Di norma:

1. è nostro diritto rifiutare la visita psichiatrica;
2. è nostro diritto rifiutare le terapie psichiatriche;
3. è nostro diritto essere debitamente informati sul tipo di terapia che ci viene somministrata, sulla sua natura e sui suoi effetti;
4. è nostro diritto interrompere la terapia;
5. è nostro diritto scegliere il tipo di terapia a cui essere sottoposti;
6. è nostro diritto essere dimessi da qualsiasi struttura psichiatrica su nostra richiesta;
7. è nostro diritto comunicare con chi riteniamo opportuno;
8. è nostro diritto il rispetto della nostra integrità psico-fisica (non possiamo essere legati, nè essere oggetto di violenza fisica o verbale da parte del personale psichiatrico);
9. è nostro diritto conoscere ogni atto che ci riguarda (le certificazioni relative al nostro stato di salute, ad esempio, non possono essere consegnate ad altri che a noi o a persone da noi delegate);
10. è nostro diritto il rispetto della privacy (e obbligo degli operatori il rispetto del segreto professionale);
11. è nostro diritto conoscere il nome e la qualifica degli operatori con cui veniamo in contatto (è loro obbligo indossare cartellini di riconoscimento);
12. è nostro diritto gestire i nostri soldi (a meno che non siamo interdetti legalmente);
13. è nostro diritto disporre come meglio crediamo di ciò che ci appartiene;
14. è nostro diritto scegliere dove e con chi abitare;
15. è nostro diritto muoverci e viaggiare liberamente;
16. è nostro diritto frequentare gruppi, associazioni e scegliere le compagnie che preferiamo;
17. è nostro diritto non essere usati come cavie inconsapevolidi sperimentazioni di farmaci o trattamenti;
18. è nostro diritto non essere usati come materiale di studio per studenti;
19. è nostro diritto esprimere liberamente le nostre opinioni;
20. ………………………………………………………………………….

In altri termini, pur se diagnosticati malati di mente, conserviamo, salvo i casi espressamente previsti dalla legge (T.S.O., interdizione …), gli stessi diritti e doveri di qualsiasi altro cittadino. In assenza di una sentenza di interdizione, di un provvedimento di T.S.O. e di altro provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, la nostra volontà e il nostro consenso sono gli unici elementi che decidono se una pratica psichiatrica debba essere considerata una terapia o piuttosto un reato. Tutto quello che ci viene imposto al di fuori della nostra volontà configura gli estremi di reati come il sequestro di persona, i maltrattamenti, le lesioni ….

OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

brevi istruzioni

Non tutti siamo uguali di fronte alla legge. Alcuni di noi, se definiti malati di mente, hanno seri problemi ad essere riconosciuti responsabili delle loro azioni, sia per quanto riguarda gli atti di rilevanza civile che penale. L’istituto dell’interdizione legale una volta attivato produce la morte civile dell’interdetto. I suoi atti non avranno più alcuna validità e la gestione della sua vita passerà interamente in mano ad altri.

“La pronuncia dell’interdizione incide integralmente, infatti, sulla capacità giuridica del soggetto, nel senso che essa crea preclusione rispetto a tutte le attività giuridicamente rilevanti. L’interdetto non può far pressochè nulla: tutti gli atti da lui compiuti sono colpiti da invalidità (art. 427, 1° comma, c.c.). Accanto alla disciplina generale dell’istituto si rinvengono poi, nel codice civile, specifiche norme che – in relazione alle diverse situazioni – talora sanciscono l’impugnabilità degli atti posti in essere dall’interdetto (contratto, art. 1425 c.c.; matrimonio, art. 119 c.c.; riconoscimento del figlio naturale, art. 266 c.c.; testamento, art. 591 c.c.), talvolta precludono in via preventiva all’interdetto la possibilità di compiere tali operazioni (matrimonio, art. 85 c.c.; testamento pubblico, art. 591, comma 1°, n. 3 c.c.; donazione, art. 744 c.c.; incapacità di stare in giudizio, art. 75 c.p.c.), ovvero dispongono l’automatico scioglimento dei rapporti giuridici costituiti dall’interdetto… ”
(P.Cendon, A.Venchiarutti in AA.VV. 1987, Psichiatria, tossicodipendenze, perizie, pag. 158)

Come si vede la pronuncia di una sentenza di interdizione toglie agli individui ogni possibilità di scelta o di iniziativa.

Questo non è il solo campo in cui la legge interviene pesantemente per creare un percorso giuridico particolare per chi viene definito malato di mente. Ciò accade anche nel campo dell’accertamento della responsabilità penale.

Il codice penale infatti prevede che

“Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere” (art. 85 c.p.).

E ancora

“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere” (art. 88 c.p.)

Queste norme aprono le porte dell’ospedale psichiatrico giudiziario, già manicomio criminale, a quanti vengano riconosciuti da un’apposita perizia psichiatrica incapaci di intendere e volere durante un processo penale.

Tranne rare eccezioni, viene operata una correlazione automatica fra giudizio dello psichiatra, non imputabilità e reato. Raramente si accertano i fatti e l’eventuale responsabilità dell’in-imputato. Generalmente si dà per scontato che abbia compiuto il reato di cui è accusato e che lo abbia fatto perchè fuori di sè in quel momento. In alcuni casi può non esserci il fatto, ma esso viene solo presunto.

Anna, ad esempio, ha fatto due anni di manicomio criminale accusata di aver bruciato casa. Il fatto è che casa sua è andata in fumo. Che ciò sia successo per sua scelta è solo un’ipotesi, ma viene considerata come se fosse un fatto. Del resto ci troviamo di fronte ad una teoria che ritiene che i nostri comportamenti siano sintomi di una malattia e che la malattia si manifesta attraverso i nostri comportamenti. Anna è sicuramente in-colpevole dell’incendio di casa sua perchè ci si può aspettare di tutto da lei. Non importa se l’ha fatto: ciò che conta è che avrebbe potuto farlo.

Mi chiedo cosa sarebbe successo se non fosse stata già un’utente psichiatrica. Si sarebbe verificato accuratamente se l’incendio era doloso o meno, e, se lo fosse stato, si sarebbero indagate le motivazioni e cercati i colpevoli, che non si sarebbe presunto fosse la persona che la abitava.

Forse Anna ha dato fuoco alla sua casa. Se ciò fosse stato appurato, forse avrebbe potuto dare una sua spiegazione. Probabilmente avrebbe detto ciò che ci si aspetta dica chi compie un atto del genere: che voleva chiudere con il suo passato, distruggere definitivamente quel luogo di ricordi penosi, liberarsene per sempre… Che era insomma in sè ed era questo quello che voleva.

Spesso la perizia psichiatrica viene richiesta dal giudice alle prime battute del processo, prima che ci sia qualsiasi possibilità di approfondire e valutare i fatti. Al perito viene posto un quesito in teoria sensato, ma in pratica irrazionale. Definire se la persona al momento in cui ha commesso il fatto era o meno capace di intendere e di volere e se può in atto essere considerata socialmente pericolosa.

In altri termini si definisce a priori che il fatto sussiste e che la persona abbia commesso il fatto, e si chiede al perito di indagarne le motivazioni. Come valuterà il perito le risposte di chi non ha commesso i fatti di cui è accusato? Essendo uno psichiatra probabilmente tradurrà il tutto in diagnosi psichiatriche, dirà che la consapevolezza della persona e il suo senso della realtà è totalmente viziato, arrivando alla conclusione che la persona era totalmente incapace di intendere e di volere al momento dei fatti e, vista l’assenza di ogni critica, che è socialmente pericolosa.

Potrà sembrare paradossale, ma in oltre 10 anni che bazzico in queste storie di ordinaria follia non ho mai assistito ad un processo penale costruito sul confronto fra accusa e difesa, indipendentemente dalla gravità del reato commesso. Al contrario, se, di fronte ai crimini più gravi, l’attenzione dell’opinione pubblica impone un certo approfondimento, in quelli numerosi di lieve entità la scure della giustizia sommaria si abbatte a volte con cecità inaudita.

Non affermo che dentro i manicomi criminali ci siano solo persone penalmente innocenti. Anche se ciò non deve essere taciuto. Affermo che tutte le persone lì rinchiuse sono responsabili delle loro azioni.

La gran parte degli avvocati che ho conosciuto condividono il pregiudizio circa la malattia del loro assistito. Per cui lo difendono dal carcere appoggiando la richiesta di proscioglimento per infermità mentale e non opponendosi al suo invio in ospedale psichiatrico giudiziario (OPG). I giudici, gli avvocati, i familiari, e ogni altra persona sensata coinvolta in un processo penale a carico di un paziente psichiatrico, sono concordi nel pensare che egli vada curato e che il ricovero in OPG sia un atto non punitivo, ma terapeutico. Del resto psichiatria e privazione della libertà sono sempre andati a braccetto, tanto da confondersi spesso l’una nell’altra.

L’esigenza di prosciogliere qualcuno da un reato, dichiarandolo non imputabile, può sembrare un’esigenza di tutela. In realtà, nel campo della cosiddetta infermità mentale, l’esigenza prioritaria è negare senso alle azioni del folle ed evitare ancora una volta di confrontarvisi. Come per il trattamento sanitario obbligatorio, anche qui l’elemento che trasforma una violenza in un fatto terapeutico è il preventivo giudizio di insensatezza delle azioni, dei pensieri e del discorso dell’altro. Quando chiediamo di prosciogliere qualcuno, affermiamo implicitamente che non è colpevole delle sue azioni. Il che equivale a dire che noi non siamo colpevoli delle nostre reazioni. Se leghiamo qualcuno al letto perchè ha divelto le finestre del reparto per scappare, lui non è colpevole e quella non è una punizione: l’unico colpevole è la malattia e quella è la sua cura. Per questo nessuno di noi è colpevole per le lobotomie, l’elettroshock, l’internamento a vita…

Se dichiariamo qualcuno non imputabile non è certo per fargli un regalo. Al contrario. Se egli evita il carcere, ha buone probabilità di incorrere in una misura di sicurezza e finire rinchiuso in OPG per un minimo di 2, 5 o 10 anni, a seconda del reato contestatogli. Il lasciapassare per l’inferno manicomiale è dato dal giudizio di pericolosità sociale che il giudice può ricavare dalla perizia psichiatrica disposta o dalla valutazione dei fatti e delle circostanze inerenti il reato, compresa la previsione che la persona possa porre in essere altri reati.

Il proscioglimento per infermità mentale non provoca automaticamente l’internamento in OPG. Esso deve essere perfezionato dal giudizio di pericolosità sociale. Se, pur prosciolti dal reato, si dimostra di non essere persone socialmente pericolose, in teoria si può tornare liberi senza che ci venga comminata alcuna pena o misura di sicurezza.

Questo passaggio è molto importante per cercare di costruire ipotesi di difesa dall’internamento. Così come è importante impostare una linea difensiva che rifiuti la perizia psichiatrica e porti ad una verifica dei fatti in sede giudiziaria. Dobbiamo chiedere in altre parole di essere giudicati per ciò che abbiamo fatto e non per quello di cui siamo accusati, anche se questo ci espone al rischio di finire in galera.

Ciò per una serie di motivi. Primo fra tutti il fatto che l’ospedale psichiatrico giudiziario è, nei fatti, una prigione. La sua gestione dipende dall’amministrazione penitenziaria e il suo regolamneto è quello delle carceri. Secondariamente perchè alla misura afflittiva propria del carcere esso somma la coartazione tipica degli ospedali psichiatrici. Infine perchè, a differenza di ciò che appare a prima vista, l’internamento in OPG può trasformarsi in una condanna all’ergastolo, indipendentemente dal reato commesso o di cui si è accusati.

Provo a spiegare quest’ultimo punto.

Una persona che minaccia il medico che ha richiesto il suo trattamento sanitario obbligatorio, può essere prosciolto dal reato contestatogli, visto che non troviamo sensato manifestare un sentimento di ingratitudine verso chi ha permesso il nostro internamento. Egli, poi, sarà facilmente riconosciuto socialmente pericoloso poichè è presumibile che torni a minacciare il medico, che è presumibile che torni a minacciarlo con un ulteriore TSO. Non verrà quindi giudicato ma costretto alle cure presso un OPG per un periodo di almeno di 2 anni. Quella che gli viene comminata si chiama in termini giuridici misura di sicurezza. In pratica è una pena senza limiti di durata. La legge stabilisce infatti solo la durata minima dell’internamento. A conclusione di questo periodo viene fatto un riesame della pericolosità e se gli operatori che ci custodiscono, ci puniscono e ci curano, ritengono che siamo ancora socialmente pericolosi, ci viene comminato un ulteriore proroga della misura di sicurezza (in genere 6 mesi).

Si può entrare in un manicomio criminale per aver minacciato o reagito ad un operatore o un vigile urbano in risposta ad un loro atto di autorità e prevaricazione nei nostri confronti e rischiare di non uscirne più. Ciò indipendentemente dalla nostra buona condotta. Vantando funzioni di cura e di risocializzazione, l’elemento che ha più peso nel riesame di pericolosità è la risposta alla domanda C’è qualcuno, da qualche parte, disposto a riaccoglierlo e a garantire per lui? Se non si trova un riscontro positivo a questa domanda, la persona resta dentro ad infinitum.

Tutto ciò ci sembra sensato, perchè riteniamo che gli internati in OPG abbiano compiuto reati contro la loro volontà e, quindi, crediamo che vadano controllati costantamente, se non in carcere, a casa, agli arresti domiciliari psichiatrici o al confino forzato in qualche comunità psichiatrica. Entrati in OPG difficilmente si esce se qualcuno non ci reclama, difficilmente si torna ad essere persone libere.

Sono d’accordo con lo psichiatra A. Manacorda quando afferma che è

“…maturo il momento di cominciare a pensare alla persona con disturbo psichico come ad una persona che, analogamente ad ogni altra, può e deve essere ritenuta nella debita misura titolare dei suoi atti, e quindi in grado di risponderne, se del caso anche di fronte all’istanza penale” (A. Manacorda 1988, Folli e reclusi, pag. 29)

Sono d’accordo nel proporre l’abolizione delle norme sul proscioglimento per infermità di mente, come l’unica strada concreta di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Non solo. Ritengo che a giudicare secondo le leggi vigenti, molte delle persone in atto rinchiuse in OPG potrebbero essere già libere e altrettante non sarebbero mai state recluse.

Spesso da più parti si afferma che abolire il proscioglimento per infermità mentale coincide con il rischio concreto, per le persone dichiarate folli, di finire in galera. Tale sensibilità, che dovrebbe valere per ciascuno di noi, finge di non vedere e di non sapere che l’ospedale psichiatrico giudiziario è, nei fatti, un carcere. Non solo con il proscioglimento non si evita la pena, ma ci si impedisce anche di difenderci e di far valere le nostre ragioni.

“Se riconosciamo alla persona con delirio di persecuzione lo status soggettivo di persona perseguitata, non vi è alcun motivo di considerarla non imputabile. Ritenerla tale vuol dire infatti non poterla chiamare a rispondere penalmente dei suoi atti. E’ come se dichiarassimo che, siccome è delirante di persecuzione, ogni gesto che faccia, ogni scelta che compia, è sotto il profilo giuridico automaticamente invalidato dalla sua condizione psicopatologica. Se invece teniamo ferma la sua condizione soggettiva, una volta che lo si sarà considerato comunque imputabile, egli potrà essere giudicato – e se del caso sanzionato – alla stregua di chiunque altro.

Non sarà quindi perseguibile per calunnia, se abbia denunciato il presunto persecutore: egli infatti, in tal caso, lungi dall’incolpare di un reato taluno che egli sa innocente (art. 368 c.p.), si rivolge in modo putativamente motivato e soggettivamente legittimo all’autorità, perchè tuteli nelle forme di legge quegli interessi che egli avverte lesi. Se avrà ingiurato, minacciato o percosso il presunto persecutore, si esaminerà la fattispecie tenendo sempre conto della condizione soggettiva dell’autore del reato. Se infine lo avrà ucciso, sarà responsabile di un omicidio alla stessa stregua di chiunque uccida chi realmente lo perseguita: ed il fatto di essere stato (o di essersi sentito) perseguitato potrà, a seconda dei casi, essere ritenuto una circostanza attenuante (per esempio per aver agito in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, cosidetta provocazione, art. 62, 2, c.p.); o invece aggravante (ad esempio, per aver agito per motivi abietti o futili, art. 61, 1, c.p.). Se poi la persona con delirio di persecuzione abbia ucciso il presunto persecutore perchè, ad esempio, a causa di un’allucinazione lo vedeva in quell’istante armato contro di lui e concretamente pronto ad ucciderlo, allora potrà, come chiunque altro in circostanze analoghe, essere assolta per aver agito in stato di legittima difesa putativa .” (A. Manacorda 1988, Folli e reclusi, pag. 26)

Ciò che viene definito delirio di persecuzione dagli psichiatri è la convinzione soggettiva che altri voglia farci del male, anche se questi lo nega e nessuno è d’accordo con noi. Un’idea di tale natura, come ho cercato di mostrare in questo libro, non può essere considerata sintomo di nessuna malattia. Come ogni altra idea sulla natura dei nostri rapporti con gli altri può essere giusta o errata, dimostrabile o meno, condivisa o rifiutata, ma a rigor di logica non può essere annullata.

Non dimentichiamo che con questa etichetta sono tacciati da decenni coloro che semplicemente rifiutano di essere aiutati dalla psichiatria e definiscono questo aiuto come una violenza nei confronti della loro mente, del loro corpo e della loro vita. I reati commessi da persone etichettate malate di mente non sono qualitativamente diversi da quelli commessi da persone ritenute, a torto o a ragione, sensate.

L’esempio di MANACORDA citato dimostra quale scenario possibile di analisi e di confronto potrebbe aprirsi se accettiamo di riconoscere verità soggettiva alle nostre opinioni e ai motivi che ci spingono ad agire. Non c’è infatti alcuna valida ragione che può farci giudicare sensato l’omicidio commesso da un uomo geloso tradito dalla moglie e insensato quello commesso da un uomo geloso che riteniamo non abbia motivo di esserlo. Il fatto di valutare in maniera errata una situazione, infatti, non ci rende meno responsabili di quello che facciamo.

Credo che spesso scegliamo di agire in modo inaccettabile agli altri. Altre volte siamo costretti a farlo. Sempre siamo coscienti di ciò che stiamo facendo anche se non sempre sappiamo prevederne i risultati. In ogni caso ne siamo in tutto o in parte responsabili. In ogni caso la responsabilità è un fatto che riguarda noi e le nostre relazioni con gli altri. Nessuna malattia può essere responsabile delle nostre azioni.

CONTRO GLI AB/USI PSICHIATRICI

breve guida all’auto-organizzazione

 

La possibilità di difenderci dalla psichiatria è anche questione di organizzazione. Una volta aver chiarito a noi stessi il ruolo, la natura e i mezzi della sua violenza, dobbiamo in qualche modo organizzare una resistenza attiva alle sue pratiche e rilanciare la possibilità di un suo superamento.

Il confronto con la psichiatria va aperto a tutti i livelli in cui opera. Quando pensiamo ad organizzarci dobbiamo pensare a costituire delle realtà capaci di impedire (o rendere ardui) i ricoveri coatti, ma anche di smascherare l’inconsistenza scientifica e il valore metaforico delle malattie e delle terapie psichiatriche. Realtà che assistano legalmente quanti si vogliano opporre alla loro interdizione legale, ma che servano anche da punto di riferimento e di auto-organizzazione per quanti vivono una guerra quotidiana, personale e iniqua con la psichiatria.

L’organizzazione di gruppi antipsichiatrici ha un duplice valore. Permette di avere (e di mettere) a disposizione risorse per quanti vogliano concretamente liberarsi dalla coazione psichiatrica. Incrina il potere psichiatrico che si fonda sull’assunto della diversità ontologica dei suoi pazienti e sull’impossibilità di dar loro credito. Costituire gruppi che credono a quanto i pazienti dicono e cercano di realizzare e comunicare ciò che pensano, aldilà della loro consistenza numerica, è un modo efficace di mettere in crisi la leggittimità dell’intervento psichiatrico. Sembra ovvio, ma nessuno di noi può essere sottratto alla sua vita se è (e rimane) significativo per qualcuno, se è riconosciuto e apprezzato per quello che fa e dice, se è appoggiato, se qualcuno condivide o rispetta i suoi punti di vista. Se grido da solo in una piazza sono un matto, se lo facciamo in tanti è una manifestazione di libero pensiero. Torneremo su questo.

Adesso mi preme puntualizzare l’ambiguità implicita in ogni nostra azione a favore, per o con i cosiddetti pazienti psichiatrici. In genere giochiamo con lo stesso mazzo di carte con cui gioca la psichiatria, credendo di poterne ribaltare il significato. Ma il mazzo è truccato e noi spesso abbiamo riaffermato in pratica ciò che, in teoria, negavamo.

E’ la storia dell’esperienza basagliana in Italia, ridotta oggi a gestire il nuovo sistema di controllo psichiatrico delle nostre emozioni e dei nostri comportamenti. Ma anche la storia di quanti, fra chi ha scelto di fare a meno della psichiatria, si sono lasciati tentare dalla possibilità di costruire luoghi per rispondere a domande mai poste o di organizzare scuole di pensiero, competenze, specialismi.

Il pregiudizio che si abbia che fare con una categoria di persone caratterizzata dalla presenza nel loro modo di essere, pensare o comportarsi di qualcosa di irriducibile alla normalità, che hanno bisogno perciò di relazioni, persone o luoghi specifici adatti a loro, attraversa la storia del nostro rapporto con le esperienze e le persone non ordinarie. Nessuno ne è esente, pochi ne sono consapevoli.

Non si spiegherebbe se no la sincera veemenza con cui gli psichiatri alternativi lottano contro la riapertura dei manicomi, pur avendone riprodotto la logica e i fini. Oppure certe affermazioni e pratiche “antipsichiatriche” che propongono terapie alternative e luoghi terapeutici adatti per intraprendere il viaggio interiore dentro se stessi.

Sento di lottare ogni giorno contro questo pregiudizio, evitando di pensare e di agire come se veramente esistesse un noi e un loro. Intanto perchè non riesco a identificarmi con coloro che condividono la mia percezione della realtà (ivi compresi gli psichiatri), poi perchè non riesco a intravedere alcuna somiglianza o identità sostanziale nel modo di pensare, di essere o di percepire di coloro che hanno subito il giudizio psichiatrico. Non esiste una categoria di persone che abbia come caratteristica la normalità, così come non esiste una categoria di persone che incarni l’antinorma.

La malattia mentale non è una condizione ma una carriera sociale. Due pazienti psichiatrici non sono più simili fra di loro di quanto lo siano due psichiatri. Le somiglianze nel loro modo di agire e reagire derivano dalle norme sociali che regolano la loro posizione e i loro rapporti con la realtà sociale in cui vivono. Alcuni fatti che ci sembrano caratteristici della malattia mentale, sono in realtà caratteristici del tipo di risposta istituzionale che diamo ai conflitti interumani e alla peculiarità della teoria e pratica psichiatrica. Quando, ad esempio, ironizziamo che è tipico dei matti negare di esserlo, ciò può voler dire che c’è qualcosa di sbagliato in questo giudizio. Non è sensato saltare alla conclusione che l’essere in disaccordo con il proprio psichiatra o la propria famiglia sia segno di malattia mentale. Diciamo che è tipico o caratteristico degli esseri umani che non condividono la nostra visione delle cose imputare ciò a qualcosa di diverso dalla nostra volontà e dalla nostra libera scelta. Non possiamo credere che le persone pensino davvero quello che dicono, non possiamo accettarlo e, per evitare il penoso compito di negarlo, neghiamo che abbiano potuto dirlo o pensarlo liberamente.

Rifiutare la diagnosi psichiatrica non è una caratteristica tipica dei malati di mente, ma un istinto di sopravvivenza innato in ogni essere umano. Paradossalmente sarebbe patologico il contrario.

Credo che dovremmo liberarci dalla necessità di elaborare una teoria omnicomprensiva del modo di sentire e di essere degli esseri umani. Innanzitutto perchè ciò è probabilmente impossibile, poi perchè, nel definirli, i sentimenti diventano cose e le persone smettono di essere tali.

Il nostro fine potrebbe essere solo quello di rendere possibili le persone. Astenerci dal definirle, proteggerle, spiegarle o usarle come prova della nostra normalità. Accettare e riconoscere la leggittimità del loro modo di pensare e di essere. Cosa fare? Cosa evitare? E come?

Le reti nonpsichiatriche

Uno dei sentimenti più comuni che ci assale di fronte alle immagini dei luoghi psichiatrici, con la loro violenza e il loro squallore, è che occorra ospitare quegli uomini e quelle donne in luoghi più umani e decenti. Ci sembra rivoluzionario, ma è lo stesso motivo che mosse gli psichiatri a costruire i manicomi, per strappare i malati di mente dai lebbrosari, dai carceri e dalla strada. Come in un gioco di scatole cinesi, liberati da una scatola, ci troviamo prigionieri di un’altra scatola. Luoghi e spazi sempre più ristretti fino a che il nostro corpo coinciderà con le pareti della scatola. Fino a che saremo solo scatole vuote riempite dalle idee, dalle scelte, dalle emozioni altrui.

L’idea di creare case particolari dove ospitare le persone, luoghi ad hoc dove permettere che si divertano, cooperative speciali per farle lavorare… non è una conseguenza di una qualche diversità propria di quelle persone, ma il tentativo di creare per loro uno statuto speciale per giustificare l’esistenza degli specialisti che se ne occupano. Passa l’idea che un matto non possa abitare una casa ordinaria, sostenere i ritmi di un lavoro normale, divertirsi con ciò che usualmente le persone comuni usano a questo scopo. Il che equivale a dire che chi non sa (o non vuole) abitare una casa, sostenere il lavoro o divertirsi in maniera ordinaria, può a tutti gli effetti essere definito un matto.

Credo che le nostre organizzazioni nonpsichiatriche debbano evitare di creare luoghi. Evitare in qualunque modo di duplicare gli spazi di vita individuale e collettiva in cui normalmente viviamo. L’idea è quella di usare e trasformare la realtà, non di subirne o doppiarne la violenza.

Per fare questo occorre che spostiamo la nostra attenzione dalle vittime ai mandanti, dalla follia alla normalità, da loro a noi. Nella realtà c’è già tutto quello che ci serve: dobbiamo solo accettare di usarlo.

Non penso a gruppi che si sostituiscano alla psichiatria nell’ascolto o nella interpretazione di quanto le persone dicono. O, peggio ancora, che sostituiscano le persone che abbiamo accanto, cercando di essere la nostra famiglia, il nostro datore di lavoro, il nostro amico… Che ciò accada è altra cosa. Ha a che fare con la nostra natura umana.

Penso ad un gruppo nonpsichiatrico come una rete di persone e occasioni ordinarie che permettano di muoversi e comunicare senza fare (o aver) paura. Un gruppo di persone che pratica il confronto attivo con i comportamenti e le esperienze straordinarie e testimonia la possibilità di uno scambio, di una tolleranza e di una dialettica fra i possibili mondi della percezione umana.

La possibilità di creare reti di questo tipo non è collegata solo all’assunzione di una posizione critica rispetto alla psichiatria e neanche all’accettazione della sfida antipsichiatrica. Le reti nonpsichiatriche sono organismi viventi, fatte di persone con una loro storia, uno status e una carriera sociale. La possibilità che esse funzionino da ripetitori o amplificatori delle ragioni della follia, deriva in gran parte dal ruolo e dalla posizione che le persone che le compongono hanno nel contesto umano e sociale in cui vivono.

Chi non ama il luogo in cui vive e le persone con cui condivide la quotidianità, difficilmente riuscirà a trasmettere alcunchè di se stesso o di altri. Nessuna emozione passerà attraverso di lui. Il suo stare dalla parte di chi rischia un ricovero psichiatrico sarà solo un altro elemento che riguarda il suo modo di essere e il ruolo che ha scelto (o a cui l’hanno obbligato). Il suo impegno sarà solo un pretesto per rivendicare la sua diversità.

Se prendiamo il caso dell’uomo che urla. Non sempre egli viene lasciato da solo. A volte scatta il riconoscimento, la solidarietà, la condivisione, aldilà della sensatezza di ciò che egli dice, fa o vuole. Un gruppo nonpsichiatrico è un modo di allargare la normale alleanza che scatta fra le persone, anche in aree e rispetto ad esperienze che sono state scacciate fuori dall’ordinaria visione del mondo.

Lì dove la psichiatria impone il silenzio, il gruppo svela, rivela, scopre, realizza il delirio come una forma di conoscenza del mondo e di sè, come un valore, una verità, anche quando sofferta, inquietante, impensabile o divina.

Per far ciò la sola cosa che ci serve è il nostro corpo e la nostra mente. Tutto il resto sta già nella realtà quotidiana: basta usarlo.

Di fronte ad Ivan che abita in un albergo in costruzione, privo di mezzi di sussistenza, così come da ordini dei suoi superiori non umani, possiamo offrirgli di ospitarlo, chiedere al comune di fornirgli un alloggio, cercarlo noi stessi, fare colletta, attivare la mensa scolastica o procurargli dei buoni pasto… trattare con lui come con chiunque si trovi in quella situazione precaria. Anche l’indifferenza è un sentimento ordinario accettabile, rispetto a chi interpreta questa sua scelta come frutto di malattia e ritiene, a priori, che il suo bisogno sia quello di smettere di sentire e di obbedire agli ordini degli esseri con cui comunica, di lasciare la casa in costruzione ed essere ricoverato in un luogo adatto al suo caso.

Un’azione nonpsichiatrica non sindaca sulle ragioni di Ivan. Propone risposte concrete a domande esplicite. Se Ivan non accetta di usare le nostre case e il nostro cibo, se non accetta cioè di sedare le nostre ansie e le nostre paure, rispettiamo le sue ragioni e cerchiamo con lui il modo migliore per realizzare il suo compito, rivendicando il suo diritto a pensarla come vuole e a fare di sè e della sua vita ciò che crede più opportuno. Certo può sbagliare e pentirsi di quello che oggi sta scegliendo, ma chi è immune all’errore e chi non obbedisce ad alcun ordine?

Se Ivan se ne sta al freddo fuori dal nostro controllo e dalla nostra pietà, ci impone un confronto fra la nostra visione delle cose e la sua. Non uno scontro. Non c’è in Ivan neanche la lontana parvenza di quella idea ossessiva che sembra muovere noi. Lui non vuole imporre il suo punto di vista, nè vuole che noi abbandoniamo le nostre sicure e segrete case. Vuole solo poter vivere secondo ciò che sente, crede o sceglie.

Un gruppo nonpsichiatrico non solo è una rete che gli permette di sopravvivere in una realtà che, escludendo la sua mente, esclude anche il suo corpo. Un matto si ha paura di servirlo, farlo entrare in un bar, ospitarlo in pensione, affittargli una casa, dargli in sposa una figlia, assumerlo per un lavoro, invitarlo ad una festa, sedervisi accanto sul treno, stringergli una mano… Ivan rischia di essere distrutto a meno che non accetti le cure. Se si cura avrà anche il cibo, qualcuno gli affitterà una casa e gli offrirà forse anche un lavoro. Deve solo smettere di obbedire alle sue voci e imparare ad obbedire ai medici. Un gruppo nonpsichiatrico è anche un gruppo di persone che difende con lui la sua scelta e il suo diritto all’esistenza.

Ho già detto, e non lo ripeterò mai abbastanza, che uno degli strumenti più efficaci che ha la psichiatria per obbligare le persone alle sue cure è il consenso e la delega che noi le concediamo. Nessuno potrebbe essere diagnosticato o ricoverato contro la sua volontà se non ci fossero mandanti. Nessuno psichiatra si occuperebbe di Ivan se nessuno di noi si sentisse disturbato dal suo comportamento, inquietato dal suo modo di vivere, impaurito da ciò che può fare. Se affrontassimo questa impasse così come comunemente affrontiamo i conflitti e le divergenze che nascono fra di noi, non ci sarebbe spazio per la psichiatria. Se dessimo valore, pur non condividendolo, a ciò che Ivan fa, se ci confrontassimo con lui e gli chiedessimo di spiegare o ci spiegassimo, probabilmente non ne avremmo più paura e considereremmo sensata la sua scelta (almeno quanto riteniamo sensato abitare un casa o obbedire alle leggi penali).

Nella mia esperienza (cfr. G.Bucalo 1993, Dietro ogni scemo c’è un villaggio. Itinerari per fare a meno della psichiatria) il superamento della psichiatria è sempre nato da un farne a meno unilaterale e senza condizioni. Se non si è disposti ad ascoltare Ivan, non si potrà evitare di ascoltare noi. Il nostro prendere posizione, non solo rispetto all’eventualità di curare Ivan contro la sua volontà, ma anche rispetto a come considerare quello che dice, fa o pensa, riporta Ivan ad essere e rimanere un essere reale, la cui volontà e libertà di scelta non può essere azzerata o aggirata.

Il problema allora non sarà più come convincere Ivan a curarsi, ma come si convive e si interagisce con lui e le sue scelte.

Le soluzioni a questo quesito sono infinite e riguardano le persone coinvolte. Trovarle non riguarda il gruppo. Ripeto: l’unica nostra finalità è rendere possibile ciò.

Il Telefono Viola

Da alcuni anni il movimento nonpsichiatrico si è dotato di questo strumento di tutela dei diritti degli utenti dei servizi psichiatrici. Una linea telefonica che mira a raccogliere le denunce di abusi psichiatrici e sostenere quanti vogliano intraprendere un’azione legale contro di essi.

L’idea non è originale. Ricalca esperienze analoghe che si sono radicate nel tessuto civile rappresentando validi strumenti di autotutela collettiva. In campo psichiatrico, tale iniziativa ha però una valenza culturale rivoluzionaria. Affermare, infatti, che gli utenti psichiatrici abbiano dei diritti, significa esplicitamente affermare che essi hanno volontà, soggettività e capacità di scelta.

Non parlo di un’opinione, ma di un fatto giuridicamente sancito. Da quasi 20 anni esiste una normativa che dice che gli accertamenti e i trattamenti psichiatrici sono volontari, riconoscendo così il diritto ai cittadini di scegliere se diventare pazienti psichiatrici e se accettare di essere trattati come tali.

Il Telefono Viola nasce per tutelare questi diritti e praticare queste norme.

Per organizzare un telefono viola occorre:

1. costituire il gruppo degli operatori. Si può scegliere di costituire un’associazione legale ma ciò non è strettamente necessario. Uno statuto legale permette di accedere a finanziamenti pubblici, ma in quanto a rappresentatività non vi è alcuna differenza con un’associazione di fatto, fondata cioè su un libero accordo dei soci (cfr. Libero accesso a chiunque nel manicomio di Bisceglie, in Appendici)
2. reperire tutti i riferimenti legislativi che regolano il settore psichiatrico e quello dei diritti degli utenti dei servizi sanitari, sia nazionale che regionale, sia in campo penale che civile;
3. reperire una sede, meglio se autofinanziata, e installare la linea telefonica con annessa segreteria;
4. contattare e prendere accordi con uno o più avvocati per consulenze legali. Meglio se questi sono motivati e organici al telefono, magari con un giorno di presenza fisso presso la sede. Il grande luminare del foro può essere di lustro all’iniziativa, ma ha poco effetto pratico. Consiglio avvocati anche di poca esperienza ma disponibili ad attivarsi nella ricerca di fonti e norme che possano esserci utili nella difesa legale dagli abusi psichiatrici;
5. contattare il Giudice Tutelare del territorio in cui si ha sede. Con lui si avrà a che fare spesso. Egli va informato di ogni atto o richiesta che elaboriamo in favore o per conto dei ricoverati coatti;
6. contattare il Sindaco del Comune in cui si ha sede e concordare con lui (o chi per lui) la possibilità di accedere alle informazioni riguardanti i T.S.O. da lui firmati. Si può proporre che essi ci vengano notificati contestualmente alla notifica obbligatoria al Giudice Tutelare;
7. concordare con le autorità sanitarie le modalità di accesso presso i reparti psichiatrici e le strutture private convenzionate. Non dobbiamo chiedere (nè abbiamo bisogno di) alcuna autorizzazione. Come cittadini noi siamo già autorizzati ad entrare nelle strutture sanitarie secondo i tempi e le modalità previste per le visite. Dobbiamo solo concordare i giorni della nostra presenza e organizzarci per garantire all’interno dei reparti una presenza stabile;
8. elaborare insieme ai legali strumenti di tutela preventivi (Procura, Testamento Psichiatrico…) avendo cura di coinvolgere o comunque informare il Giudice Tutelare;
9. organizzare dei turni di ascolto diretto e apertura della sede sociale per ricevere segnalazioni e denunce e funzionare da punto di riferimento per chi ci contatta;
10. organizzare una pubblicizzazione adeguata e costante dell’iniziativa privilegiando il contatto diretto con gli utenti nei luoghi di cura (ambulatori psichiatrici, case famiglia, reparti…);
Questi solo alcuni dei suggerimenti pratici che mi sento di dare.

Esiste invece una serie di questioni aperte che val la pena affrontare. Prima fra tutte il problema se usare o meno degli psichiatri come consulenti. Esistono una serie di situazioni, in cui ci si viene a trovare gestendo un’attività di tutela, che suggeriscono la possibilità di usare psichiatri per tentare di mitigare o superare una situazione di coazione psichiatrica. Situazioni in cui non abbiamo alcun appiglio legale per agire. Un esempio per tutti. Gigi si reca al pronto soccorso perchè sente che il suo stomaco sta per esplodere. I medici che lo accolgono decidono che non si può credere a quello che dice, che è confuso, delirante e, quindi, malato di mente. Chiamano una consulenza psichiatrica e Gigi viene ricoverato in T.S.O. presso un reparto psichiatrico. Immaginiamo che, da un punto di vista formale, tutti i passaggi siano stati rispettati (i medici hanno certificato e motivato la loro proposta, il Sindaco ha emesso il provvedimento e il Giudice Tutelare l’ha convalidato). Gigi non ha nessuna possibilità di sottrarsi alle cure se non dimostrare che non era in condizioni di alterazione tali da essere necessario ricoverarlo. Chi può accertare questo? Solo un altro psichiatra. Accade così che, nella nostra urgenza di salvare Gigi, usiamo la scienza psichiatrica per tentare di invalidare se stessa. E invece molto probabilmente la rafforziamo.

Non possiamo sperare di agire in questo campo senza sporcarci le mani con dei compromessi, ma possiamo evitare di rafforzare il mostro che diciamo di voler neutralizzare. Come? Nell’esempio che ho fatto, facendo sottoscrivere a Gigi una dichiarazione di accettazione delle cure, magari esplicitando quali fra le terapie psichiatriche egli ritenga più consone a lui. E’ un compromesso, ma fa venir meno uno dei presupposti fondanti il trattamento sanitario obbligatorio.

Accettare le cure è un compromesso ma soprattutto è un atto di sopravvivenza individuale. Accettare la consulenza tecnica di uno psichiatra è, al contrario, un rafforzarne, sulle spalle della persona, il potere e il diritto di decidere della sua esistenza. Nel primo caso la resa è un’accusa della natura violenta e inumana della psichiatria. Nell’altro si rafforza l’idea che ci sia una psichiatria buona e una cattiva, una che diagnostica per rinchiudere e una per liberare.

Il pericolo sempre in agguato è che possiamo essere noi a scegliere il compromesso per il bene altrui. Non siamo delegati per prendere iniziativa sulla pelle degli altri. Dobbiamo rispettare la loro testarda ostinazione a considerarsi esseri umani e a pretendere di essere trattati come persone, sempre.

Ci sono un’infinità di altre situazioni in cui la mediazione psichiatrica ci permetterebbe, forse, di evitare danni ulteriori. Si pensi al proscioglimento per infermità di mente e al manicomio criminale o all’interdizione civile. Ma in ogni caso credo si debba cercare di trovare strategie che evitino di confermare la natura del potere psichiatrico. In questo consiste del resto la nostra sfida, nel trovare strade per fare a meno della psichiatria.

Possono giungerci richieste di aiuto non in linea con quanto pensiamo. Alberto ci può contattare, ad esempio, dicendo che non vuole assumere farmaci via endovena, ma che li preferisce in pillole, chiedendo di far valere il suo diritto di scelta nei riguardi dei medici del reparto. Credo che in questi, come in altri casi, noi dobbiamo tutelare il principio che sia la persona a scegliere ciò che vuole o non vuole fare o assumere. Uscire dalla logica psichiatrica vuol dire anche smettere di pensare che una scelta consapevole è solo quella che coincide con le nostre. Non dobbiamo misconoscere che l’essere in terapia psichiatrica comprime in maniera evidente la libertà di movimento e di pensiero delle persone, ma non possiamo usare questo fatto per invalidare tutte le opinioni psichiatriche che gli utenti esprimono.

Il lavoro di tutela si nutre di paradossi di questo genere. Solo il confronto, la ricerca, la verifica degli errori possono man mano portarci a trovare una via d’uscita all’inferno che abbiamo creato.
Uno dei paradossi più tipici in cui ci troviamo quando cerchiamo di praticare il diritto delle persone di non essere ricoverate contro la loro volontà o di essere dimesse se lo chiedono, è quello del ragazzo internato per aver picchiato qualcuno o aver danneggiato beni propri o altrui. Come si fa a dimetterlo, si argomenta, e mandarlo a casa dove l’aspetta una madre minuta e gracile che subisce le sue angherie? Dobbiamo rispettare la sua volontà?

Io credo di sì. Credo anzi che chi voglia tentare di costituire un Telefono Viola o un gruppo di tutela legale, deve scegliere a priori di far valere i diritti sanciti dalla legge di chiunque, indipendentemente dalla valutazione morale, dal grado di condivisione, dalla simpatia che ci ispira la persona e il suo comportamento. Esistono tali e tanti pregiudizi, paure, luoghi comuni, che finiremmo per condividere con gli psichiatri la necessità di tenere sotto controllo le persone. Nella maggiorparte dei casi, gli psichiatri non abusano dei loro utenti per puro sadismo. Essi praticano e propagano in buona fede tutta una serie di giudizi e pregiudizi che poi confermano la necessità di quello che fanno.

Accettare questo a priori è la sola difesa che abbiamo dalla nostra normalità. Non dobbiamo mai pensare di essere diversi dagli psichiatri. Non dobbiamno mai pensare di non poterlo diventare. L’unico vaccino che conosco è il rispetto ad oltranza del mondo altrui. Il che non vuol dire necessariamente condividerlo, ma semplicemente considerarlo reale, come reali sono le parole, i pensieri, le visioni e i comportamenti che ha.

La difesa legale dei matti è cosa controversa, perchè a differenza di altri soggetti considerati deboli, su di loro pesa anche il pregiudizio di essere pericolosi per se stessi e per gli altri. Questa ambiguità rende ogni nostra azione di denuncia precaria, se non dal punto di vista legale, sicuramente da quello culturale che influenza notevolmente le scelte di chi (autorità giudiziaria, giudice tutelare…) deve decidere della fondatezza dell’abuso subito e della necessità di punirne i colpevoli.

Molti abusi vengono giustificati dal fatto che gli operatori hanno agito in stato di necessità, altri sono invalidati perchè non esistono parametri certi circa ciò che sia la malattia mentale e cosa possa essere definita una cura, altri vengono coperti dalla constazione che l’irregolarità ha permesso comunque di assicurare alle cure un soggetto potenzialmente pericoloso… La stragrande maggioranza delle denunce viene archiviata perchè il paziente psichiatrico non ha alcuna credibilità.

La presenza in reparto, così come la promozione di campagne specifiche su singole strutture o singole pratiche, serve appunto per creare riscontri che sostengano le ragioni della vittima. Aspettare in sede le denunce non permette quasi mai, riferendosi spesso a abusi già consumati, di poter attivare alcuna forma di tutela legale. Occorre prevenire la possibilità di essere coartati ed essere presenti lì e quando ciò accade.

Nessuna denucia è inutile. Raccogliendo una serie di segnalazioni riguardanti abusi subiti in certi servizi e da certi operatori, si può comunque aprire un’azione legale basandosi sulle testimonianze multiple raccolte. Se non è una prova certa, sicuramente una denuncia collettiva ha un suo peso nell’attivare una verifica giudiziaria dei fatti. (cfr. A. Papuzzi 1977, Portami su quello che canta. Processo a uno psichiatra)

In atto sono operanti in Italia le seguenti sedi del Telefono Viola o di gruppi di tutela:

Telefono Viola Roma
c/o Libreria Anomalia, via dei Campani 73
06-4467375

Telefono Viola Bologna
piazza di Porta S.Stefano 1
051-342000

Telefono Viola Napoli
via Pasquale Scura 77
081-5510674

Telefono Viola Catania
c/o VI Consiglio di Quartiere, via Sardo 1
095-455060

Telefono Viola Genova
p.zza Embriaci 5 int. 13
010-255797

Telefono Viola Milano
c/o Ambulatorio medico popolare, via dei Transiti 28
02-2846009

Gruppo d’iniziativa nonpsichiatrica Tradate (VA)
c/o Centro Sociale Kinesis ,via Carducci 3
0331-811662

Telefono CCDU Milano
via Bizet 11 Pioltello
02-92140561

Telefono CCDU Catania
095-317495

I gruppi che hanno dato vita a queste esperienze sono molto etereogenei. Li unisce il tentativo di pensare e praticare il superamento delle pratiche psichiatriche. Esistono contraddizioni e differenze anche sostanziali nelle strategie dei gruppi. Essi rappresentano in ogni caso quanto di più avanzato esista in atto sul terreno del riconoscimento dei diritti della follia e del diritto alla follia. (cfr. anche G.Antonucci, A. Coppola 1995, Il Telefono Viola contro i metodi della psichiatria, e N.Bermani, appendice allo stesso libro) .

(testi presi da “http://www.ecn.org/antipsichiatria/home.html)