Avviso agli studenti (Raoul Vaneigem) – Sopravvivere alla scuola (Claude Guillon) – Chiudiamo le scuole (Giovnni Papini)

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Avviso agli studenti
di Raoul Vaneigem, 1995

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Indice

Capitolo I
 
Avviso Agli Studenti
Una scuola dove la vita si annoia insegna solo le barbarie
 
Capitolo II
 
Farla finita con l’educazione carceraria e la castrazione del desiderio
Una scuola che ostacola i desideri stimola l’aggressività
Come può esserci conoscenza dove c’è oppressione?
Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare
Errore non vuol dire colpa
Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave dei sogni apriranno la scuola su una società aperta
 
Capitolo III
 
Smilitarizzare l’insegnamento
Ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso
Liberare dalla costrizione il desiderio di sapere
 
Capitolo IV
 
Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l’anticamera di una società parassitaria e mercantile
Delle nuove leve per gestire il fallimento
La fine del lavoro forzato inaugura l’era della creatività
Privilegiare la qualità
 
Capitolo V
 
Imparare l’autonomia, non la dipendenza
L’alleanza con il bambino è un’alleanza con la natura
Sull’aiuto indispensabile al rifiuto dell’assistenza permanente
Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio del denaro

 

 

Titolo originale: Avertissement aux écoliers et lycéens (1995)
Traduzione di Sergio Ghirardi.
Pubblicato da Nautilus, 1996, Torino.

–pdf Avviso_agli_studenti Raoul Vaneigem

http://www.ecn.org/nautilus/

 

Sopravvivere alla scuola

Il testo che segue è stato pubblicato da Claude Guillon nel 1995, sotto forma sia di volantino che di giornale murale, in risposta all’Avviso agli studenti (Avertissement aux écoliers et lycéens) di Raoul Vaneigem; opuscolo, quest’ultimo, che aveva incontrato uno spettacolare successo commerciale e mediatico, in Francia.
Raoul Vaneigem è noto per aver pubblicato, nel 1967, un “Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni“; un libro, bello e sovversivo, come scrivevano Guy Debord e Gianfranco Sanguinetti nel 1970. Dopo di che, Vaneigem si è reso celebre per aver abbandonato Parigi il 18 maggio del 1968, in piena agitazione rivoluzionaria, per raggiungere il luogo delle sue vacanze sulla costa mediterranea – vacanze senza dubbio ben guadagnate e, in ogni caso, programmate da tempo – tutto questo dopo aver apposto la sua firma in calce ad un proclama che chiamava all’azione immediata. Commentando quest’episodio, Debord e Sanguinetti, i suoi vecchi compagni dell’Internazionale Situazionista, assicuravano di non dubitare né del suo coraggio, né del suo amore per la rivoluzione, ma …
« A parte la sua opposizione, ben documentata ed una volta per tutte, alla merce, allo Stato, alla gerarchia, all’alienazione e alla sopravvivenza, Vaneigem, molto chiaramente, non si è mai opposto a niente nella sua vita, al suo ambiente, alle sue frequentazioni – ivi comprese la sua frequentazione dell’I.S.»
Questi particolari non compaiono affatto nella “biografia di Raoul Vaneigem” che è messa in appendice al suo “Avviso agli Studenti” (edizioni Mille et une nuits, agosto 1995). Non sarebbero stati inutili, messi nelle sue memorie, dal momento che possono spiegare il successo mediatico di questo piccolo libro e del suo incredibile contenuto. Propagandata come un “curriculum vitæ“, la suddetta “biografia” riesce nondimeno ad illuminare il percorso dell’autore. Le sue attività rivoluzionarie, ribattezzate « partecipazione all’Internazionale situazionista », vengono menzionate accanto ad altri lavori e diplomi ( posto di insegnante in una scuola normale, da una parte, collaborazione all’Enciclopedia del mondo attuale, dall’altra) che giustificherebbero ampliamente il fatto che sia stato commissionato a Vaneigem, da parte del Ministero dell’Educazione, un “Rapporto sulla possibilità della Scuola di sfuggire alla rabbia delle sue vittime“.
L’unico errore tattico imputabile al vecchio rivoluzionario, è quello di aver pubblicato il suo Rapporto prima di aver ottenuto i suoi crediti.
Incapace, nel 1968, di riconoscere la rivoluzione – che era davanti ai suoi occhi  e che aveva descritto così bene un anno prima nel suo Trattato, oggi Vaneigem descrive – in uno stile molto più imbarazzato – un’ «evoluzione dei costumi» del tutto fantomatica.
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Avete letto bene: Raoul Vaneigem, ex-situazionista, raccomanda alla scuola di ispirarsi alla famiglia; pardon, alla “comunità familiare“! Si sente in quest’ultimo termine un’influenza ideologica del tipo “SOS Racisme”, in un contesto generale che non sfigurerebbe sulle colone di “Enfants” o di “Le Monde de l’Éducation“. Oltre al carattere visibilmente delirante – per chiunque si dia un’occhiata intorno, in una piazza o su una spiaggia, o che faccia semplicemente delle letture un po’ più variegate di quelle relative alla nostra laurea in Filologia romanza – quel che colpisce in questa sfilza di affermazioni, è il fatto che esse poggiano sul niente. Non una sola volta che l’autore si abbassi a citare un esempio che faccia da sostegno alle sue affermazioni (l’unico riferimento è quello ad un articolo che parla di frode fiscale!). Si accontenta di essere positivo, come seguendo così le raccomandazioni di una catena di ipermercati.
Si noti come il passaggio che riguarda le scuole materne raggiunga l’apice della cecità, o della scelleratezza. E’ vero che il punto di vista, secondo il quale questi luoghi di lavaggio del cervello – dove si preferisce generalmente la manipolazione psicologica agli schiaffi – sarebbero l’esempio da seguire per tutto il sistema educativo, è ampiamente diffuso presso tutta la feccia di sinistra. Scommetto che non c’è da cercare più lontano per le “fonti d’informazione” dello sfortunato Vaneigem.
E’ solo nell’atteggiamento verso i bambini che è percettibile un cambiamento positivo, ci assicura Vaneigem, probabilmente abbonato al Nouvel Observateur:
« Non si vede forse, col favore di una reazione etica, qualche magistrato coraggioso spezzare l’impunità che garantiva l’arroganza finanziaria? Tassare le grandi fortune (l’1% dei francesi possiede il 25%  della ricchezza nazionale e il 10% ne detiene il 55%), tassare gli introiti incassati dagli uomini d’affari  […]. » (p. 73)
Il successo mediatico dell’Avviso (“Tutti i liceali dovrebbero leggerlo” – è stato detto su Canal-Plus) riposa sul fatto di essere la Buona Novella per quanto concerne la scuola:
« Essa detiene la chiave dei sogni in una società senza sogno. » (p. 14)
Certamente, questa rivelazione è una sorpresa divina per gli insegnanti e per i cosiddetti “genitori degli allievi“, i quali non avrebbero mai osato formulare una cosa del genere. Ma può ancora sorprendere alcuni giovani lettori, anche quelli che hanno poca familiarità con il passato glorioso dell’autore. Bisogna perciò evocare pubblicamente una domanda imbarazzante, ed ai suoi occhi del tutto anacronistica: non si dovrebbe distruggere la scuola? Ho usato “evocare”, e non “porre”. Questa domanda non si pone, c’è troppo vento nella testa di Raoul.
« Bisogna distruggerla? Domanda doppiamente assurda. Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che insegnano e studiano – e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi – professori e allievi non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo pedagogico che fa acqua da tutte le parti? » (p. 13)
« In secondo luogo, perché l’istinto di annientamento si iscrive nella logica di morte di una società mercantile la cui necessità lucrativa esaurisce la parte viva degli esseri e delle cose, la degrada, la inquina, la uccide. » (p. 14)
Prima bugia: insegnanti ed allievi sarebbero già impegnati di comune accordo in un’operazione di sabotaggio dell’ordine stabilito! Dove? Come? Dei nomi!
Andiamo a vedere meglio cosa intende, l’enciclopedista del mondo, per “detenere la chiave dei sogni“!  Perché fermarsi a questo? Perché non dichiarare domani che padroni e operai sono occupati di già a sabotare, di comune accordo, il vecchio sistema salariale? Vaneigem l’ha sognato, Sony lo realizzerà.
Ma dopo la bugia, ecco che arriva l’ammonizione, distruggere – ha detto – significa partecipare della società. Considerate piuttosto:
« Accentuare la rovina non dà profitti solo agli avvoltoi dell’immobiliare, agli ideologi della paura e della sicurezza, ai partiti dell’odio, dell’esclusione, dell’ignoranza, dà anche garanzie a quell’immobilismo che non cessa di cambiare abiti nuovi e maschera la sua nullità dietro a riforme tanto spettacolari quanto effimere. » (p. 14)
Eccolo, il “pugno del devastatore” paralizzato. Ma quello che rimane come prospettiva, davanti a lui che non osa nemmeno evocarla, neppure in termini velati, è la possibilità di disertare la scuola.
Però possiamo beccare qua e là per tutto l’Avviso una serie di raccomandazioni, teoriche e pratiche, che figurano onorevolmente nei programmi del ministro Edgar Faure, dopo il 68, dei sindacati degli insegnanti e dei partiti di sinistra.
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Florilegio:
«Che l’apertura sul mondo culturale sia anche l’apertura sulla diversità delle età!» (p. 36)
«Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione […] ? » (p. 60)
« Privilegiare la qualità. » (p. 58) (Questo è già da vent’anni lo slogan dei manager giapponesi. A quando « subversion zéro défaut » ?)
« Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio del denaro » (p. 70) (Al servizio di cosa o di cos’altro potrebbe essere il denaro? Vuol forse dire che il denaro in sé, ed anche il valore, meritano di essere salvati? Forse … sovvertiti?)
In buona misura, Vaneigem presenta come programma rivoluzionario quello che si produce più o meno in occasione di ogni movimento della gioventù scolarizzata:
« Occupate dunque gli edifici scolastici anziché lasciarvi possedere dal loro sfacelo programmato. Abbelliteli secondo il vostro gusto, ché la bellezza incita alla creazione e all’amore[…]. Trasformateli in ateliers creativi, in centri di incontro, in parchi dell’intelligenza attraente. Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere […]. Sta alle collettività di allieve e professori il compito di strappare la scuola alla glaciazione del profitto […]. » (p. 74)
Tutto quanto il problema sta evidentemente nel fatto che un simile tentativo autogestionario corporativista non ha alcuna possibilità di perdurare oltre il movimento sociale che lo porta. Ma il nostro autore trascura questa bassa questione di calendario. E poi, per quale meccanismo, per quale miracolo, scolari, liceali ed insegnanti vorranno, rinunciando – per primi – ai quei gesti che sono all’ordine del giorno nella rivolta, trasformare da un giorno all’altro le caserme in frutteti? Come affronteranno le truppe della gendarmeria? Tanti piccoli dettagli su cui l’Avvisatore non dice una parola. Come sarebbe! Gli studenti sono stati Avvisati, e questo non sarebbe sufficiente? Ricordiamo questa frase:
« Oggi, tutto si gioca su un cambiamento di mentalità, di visione, di prospettiva. » (p. 34)
Questo significa che la prospettiva rivoluzionaria e storica è diventata obsoleta e che Vaneigem si presenta come l’oculista (l’occultista?) della nuova visione del mondo, quella in cui gli studenti guardano con amore i loro carcerieri e salvaguardano i loro strumenti di lavoro e di abbrutimento in previsione del Grande Ritorno. Queste manifestazioni “new age” del riformismo utopico (che non cambia niente, ma mina le basi dell’utopia) sarebbero di trascurabile importanza, se non fosse per l’eco mediatico compiacente che incontrano. Obiettivamente, si uniscono agli altri appelli alla calma, come quello lanciato da SOS Racisme ai giovani delle banlieue per rispettare il piano Vigipirate.
Quel che importa – ed è al momento sufficiente – è che i giovani lettori sappiano che, fra la critica radicale del mondo e l’opuscolo di Vaneigem, non esiste altro rapporto che il passato dell’autore.
Per finire, diamogli ragione, contro lui stesso:
«La peggior rassegnazione è quella che veste gli abiti della rivolta.» (p. 38)

–  Un sopravvissuto della scuola –

Parigi, 8 ottobre 1995

 

 

“Chiudiamo le scuole”
di Giovanni Papini
1 giugno 1914

Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l’uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine.
Vi sono sinistri magazzini di uomini cattivi – in città e in campagna e sulle rive del mare – davanti a’ quali non si passa senza terrore.
Lì son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità, all’abbrutimento, alla pazzia, migliaia e milioni di uomini che tolsero un po’ di ricchezza a’ fratelli più ricchi o diminuirono d’improvviso il numero di questa non rimpiangibile umanità. Non m’intenerisco sopra questi uomini ma soffro se penso troppo alla loro vita – e alla qualità e al diritto de’ loro giudici e carcerieri. Ma per costoro c’è almeno la ragione della difesa contro la possibilità di ritorni offensivi verso qualcun di noialtri.
Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? Gli altri potete chiamarli – con morali e codici in mano – delinquenti ma quest’altri sono, anche per voi, puri e innocenti come usciron dall’utero delle vostre spose e figliuole. Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell’età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?
Non venite fuori colla grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l’educazione dello spirito, l’avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano.
Sappiamo ugualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali.
Soltanto per caso e per semplice coincidenza – raccoglie tanta di quella gente! – la scuola può essere il laboratorio di nuove verità.
Essa non è, per sua natura, una creazione, un’opera spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure a quest’ultimo ufficio – perché le trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori.
Le scuole, dunque, non son altro che reclusori per minorenni istruiti per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi.
Quali?
Per i genitori, nei primi anni, sono il mezzo più decente per levarsi di casa i figliuoli che danno noia. Più tardi entra in ballo il pensiero dominante della “posizione” e della “carriera”.
Per i maestri c’è soprattutto la ragione di guadagnarsi pane, carne e vestiti con una professione ritenuta “nobile” e che offre, in più, tre mesi di vacanza l’anno e qualche piccola beneficiata di vanità. Aggiungete poi a questo la sadica voluttà di potere annoiare, intimorire e tormentare impunemente, in capo alla vita, qualche migliaio di bambini o di giovani.
Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le vogliono e perché lui stesso, avendo bisogno tutti gli anni di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo suo e sceglierli sulla fede di certificati da lui concessi senza noie supplementari di vagliature più faticose.
Aggiungete che sulle scuole ci mangiano ispettori, presidi, bidelli, preparatori, assistenti, editori, librai, cartolai e avrete la trama completa degli interessi tessuti attorno alle comunali e regie e pareggiate case di pena.
Nessuno – fuorché a discorsi – pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli.
Le scuole ci sono, fanno comodo, menano a qualche guadagno: ficchiamoci maschi e femmine e non ci pensiamo più.
L’uomo, nelle tre mezze dozzine d’anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà.
Libertà per rafforzare il corpo e conservarsi la salute, libertà all’aria aperta: nelle scuole si rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici possono maledire giustamente le scuole e chi l’ha inventate!)
Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi.
Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s’impara nulla di importante dalle lezioni ma soltanto dai grandi libri e dal contatto personale colla realtà. Nella quale ognuno s’inserisce a modo suo e sceglie quel che gli è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme ch’è l’insegnamento.
Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati – l’immobilità fisica più antinaturale – l’immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare – lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili – e l’annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, bambinaie e istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d’ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.
Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po’ d’igienica anarchia!
L’unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c’è abbastanza concordia fra gli spiriti più illuminati. La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione.
Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé.
Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuol poi una bella fatica a liberarsene – e non tutti ci arrivano.
Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati.
Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico.
Insegna (pretende d’insegnare) quel che nessuno potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la musica nei conservatori.
Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc.
Non si può insegnare a più d’uno. Non s’impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che insegna si adatta alla natura dell’altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non detta il suo verbo dall’alto.
Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo o non sono mai andati a scuola o ne sono scappati presto o sono stati “cattivi” scolari. (I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i “primi” della classe).
La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha più bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare tutto quel che s’è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo.
Vorrei che i nostri dottori della legge, per i quali la scuola è il tempio delle nuove generazioni e i manuali approvati sono i sacri testamenti della religion pedantesca, leggessero almeno una volta il saggio di Hazlitt sull’Ignoranza delle persone istruite, che comincia così: “La razza di gente che ha meno idee è formata da quelli che non son altro che autori o lettori. È meglio non saper né leggere né scrivere che saper leggere e scrivere, e non essere capaci d’altro”.
E più giù: “Chiunque è passato per tutti i gradi regolari d’una educazione classica e non è diventato stupido, può vantarsi d’averla scappata bella”.
Credo che pochissimi potrebbero – se sapessero giudicarsi da sé – vantarsi di una tal resistenza. E basta guardarsi un momento attorno e vedere quale sia la media intelligenza de’ nostri impiegati, dirigenti, professionisti e governanti per convincersi che Hazlitt ha centomila ragioni. Se c’è ancora un po’ d’intelligenza nel mondo bisogna cercarla fra gli autodidatti o fra gli analfabeti.
La scuola è così essenzialmente antigeniale che non ristupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio – e non è dir poco.
Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuotati, seccati, angariati, scoraggiati che muovon le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di aver qualche lira di più tutti i mesi!
Si parla dell’educazione morale delle scuole. Gli unici risultati della convivenza tra maestri e scolari è questa: servilità apparente e ipocrisia dei secondi verso i primi e corruzione reciproca tra compagni e compagni.
L’unico testo di sincerità nelle scuole è la parete delle latrine.
Bisogna chiuder le scuole – tutte le scuole. Dalla prima all’ultima. Asili e giardini d’infanzia; collegi e convitti; scuole primarie e secondarie; ginnasi e licei; scuole tecniche e istituti tecnici; università e accademie; scuole di commercio e scuole di guerra; istituti superiori e scuole d’applicazione; politecnici e magisteri. Dappertutto dove un uomo pretende d’insegnare ad altri uomini bisogna chiuder bottega. Non bisogna dar retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento. Tutto s’accomoderà e si quieterà col tempo. Si troverà il modo di sapere (e di saper meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i più begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative.
Ci saranno più uomini intelligenti e più uomini geniali; la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la caverà da sé e la civiltà non rallenterà neppure un secondo. Ci sarà più libertà, più salute e più gioia.
L’anima umana innanzi tutto. È la cosa più preziosa che ognuno di noi possegga. La vogliamo salvare almeno quando sta mettendo le ali. Daremo pensioni vitalizie a tutti i maestri, istitutori, prefetti, presidi, professori, liberi docenti e bidelli purché lascino andare i giovani fuor dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato. Ne abbiamo abbastanza dopo tanti secoli.
Chi è contro la libertà e la gioventù lavora per l’imbecillità e per la morte.

–pdf – chiudiamo_le_scuole Giovanni Papini