per Horst Fantazzini

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Horst Fantazzini, 1999

 

“…e nell’89 sono uscito per la prima licenza. Al momento il mio fine pena era il 2010 con… diciamo nell’89 avevo 21 anni scontati circa e altri 21 da scontare. Ho avuto la mia prima licenza, la prima volta sono rientrato, ho avuto la seconda, la seconda sono rientrato, e le cose, diciamo così, si stavano mettendo a posto, avevo richiesto il lavoro, per l’articolo 21… non l’articolo 21, la semilibertà proprio… queste cose qua. Però quando sono stato in licenza ho trovato dei compagni che erano in carcere con me all’epoca, durante il periodo delle lotte, e in questo periodo, quando ero fuori, erano in semilibertà – di giorno erano fuori, lavoravano, e la sera tornavano in carcere. E mi fecero un’impressione penosa, cioè pensai: “noi che abbiamo passato una vita a cercare di distruggere le carceri, di uscire dalle carceri, e ora suoniamo il campanello per entrare”. E ho avuto, come dire, questa crisi personale e ho deciso di non rientrare. Mi sembrava una contraddizione, dico: “vada come vada, questo, la scelta di essere io a diventare il mio carceriere, non la posso fare”. E non sono rientrato.”

PER HORST

Horst non è “un ingenuo che non è stato capace di essere generoso con se stesso” come una compagna ha affermato. L’ingenuità è uno stato di incoscienza che non è mai appartenuto al bagaglio ideale ed alla coerenza del suo essere anarchico, tutt’altro. Tanti possono definirlo poeta, scrittore, pittore, io penso che è semplicemente un’intelligenza viva che riesce ad avere una visione critica, costruttiva, comunicativa, come pochi altri possono permettersi; in lui tutto è naturale, spontaneo, umano, ricco di quella ricchezza interiore che lascia stupiti tutti.

Personalmente ho avuto il piacere ed il privilegio di conoscerlo nel 1974. Lui arrivava dal carcere di Sulmona dopo una tentata evasione che gli aveva procurato una frattura, per cui fu trasferito al centro clinico del carcere di Perugia dove ci conoscemmo.

Sull’ingessatura che immobilizzava la sua gamba aveva scritto: “free…free…free….I want to be free” la cosa mi colpì molto e non avendo nozioni di lingua inglese gli domandai il senso di quella scritta e da allora tutti i giorni andavo a fargli compagnia,in quelle occasioni conobbi anche Libero(suo papà). L’opportunità non andò per le lunghe,in conseguenza di una  protesta fui trasferito a San Gimignano, persi quasi del tutto i contatti con Horst,qualche cartolina per salutarci,le nostre strade si divisero ed ognuno visse il dramma delle carceri di rigore e dei manicomi giudiziari. Nonostante la brevità di tempo, quest’uomo che ingenuo non era,fu capace di imprimere con il confronto quotidiano,il seme dell’Anarchia nella mia coscienza ideale. Un patrimonio prezioso che ancora oggi conservo con cura,aldilà delle contraddizioni che in certi momenti vivo.

Non intendevo parlare di me,ma ho dovuto accennare a degli episodi per spiegare meglio la conoscenza del carissimo compagno Horst.

Umanità e coscienza politica non si possono scindere altrimenti è un fallimento ideale ed umano dell’individuo. Aldilà della retorica posso affermare,senza paura di essere smentito,che Horst appartiene a quella schiera di uomini coraggiosi,intrepidi,sensibili,idealisti,coerenti e coscienti della propria forza, delle proprie ragioni e principalmente delle proprie azioni,anche sapendo di dover pagare un prezzo troppo alto,è stato indomito,mai un cedimento,mai un compromesso ed io per questo lo ammiro e gli dedico un mio pensiero.

La vita è un gioco, giochiamoci la vita.

Ognuno gioca la sua partita nel modo che ritiene più opportuno. Tanti per paura di perdere quello che “hanno” rinunciano al gioco ed inermi assistono in modo passivo, altri con molta cautela giocano cercando d’ imitare l’ avversario per farselo “amico” ed emulare le loro nefandezze, pochi giocano d’azzardo con la coscienza di sapere anche di poter perdere. Perdere non vuol dire uscire sconfitto dalla contesa, non dipende dalla volontà o incapacità soggettiva.

Il gioco è duro, l’ avversario è spietato, crudele, baro, bisogna stare molto attenti per prevenire ed evitare il bluff! In ogni modo vale la pena di rischiare, in gioco c’è  l’ essenza della propria dignità esistenziale racchiusa nella convinzione ideale del concetto di libertà e del profondo senso umano di fraterna solidarietà.

Giocare d’azzardo vuol dire essere vivi, palpitanti, partecipi anche se contro corrente in questa società prevaricante, oppressiva, discriminante, assassina, che  vuole tutti allineati, ubbidienti, sottomessi al potere di pochi criminali che si arrogano il presunto diritto di voler governare gli altri; il loro unico scopo è la salvaguardia dei privilegi acquisiti con il terrore, la meschina potenza delle armi, il  dominio psicologico delle menti. Il rischio dell’azzardo nasconde subdole e striscianti insidie, quasi sempre si paga un prezzo troppo alto, ciò è prevedibile, nonostante tutto, qualcosa dentro di te ti da quell’energia necessaria, quella convinzione profonda di difendere i tuoi diritti “costi quel che costi”.

L’azzardo è quel senso di responsabilità verso se stessi, quella sicurezza della convinzione che si irradia investendo tutto quello che ti circonda, è la coscienza dell’ essere di quello che si vuole, con la forza ed il coraggio di spendere  tutte le tue energie per la realizzazione del fine preposto.

Unico, vero uomo con il coraggio della consapevolezza di restare bambino per una società diversa, tutta colorata, irradiando il mondo con un sorriso e le tue mani tese….           

Sabatino

 

Per Horst

“ormai è fatta”, davvero…
per tutta la libertà che ti hanno negato
per quella che non siamo riusciti a darti
per quella che non hai riconosciuto….
senza rimorsi e rimpianti…..
il mio cuore
vola alto come un falco quando ti penso…


Valeria Vecchi

 

Ricordando Horst Fantazzini

Avevo sperato di conoscerlo, finalmente, il giorno in cui a Bologna uscì “Ormai è fatta”, il film tratto dal suo libro autobiografico. Ma ancora una volta, l’ennesima, per Horst Fantazzini non si volle concedere ciò che per altri sarebbe stato normale: neppure quel paio d’ore pomeridiane da trascorrere in una sala cinematografica, godendosi almeno una soddisfazione in un’intera vita agra.
Enzo Monteleone decise di girarlo dopo aver trovato il libro “per caso” (ma esiste il “caso”?) su una bancarella dell’usato o dell’invenduto… E lui, come anche Stefano Accorsi, aveva conosciuto Horst andando a trovarlo in carcere per discutere dei mille dettagli del film in progettazione, e me ne parlò come di un uomo di profonda dolcezza e istintiva simpatia, con cui si era instaurata una collaborazione immediata, schietta, amichevole.
Io, invece, “Ormai è fatta” l’avevo letto praticamente appena era stato pubblicato, e anche qui per i “casi della vita” (sempre pensando che forse il “caso” non esiste), lo leggevo nello stesso periodo in cui conoscevo suo padre Libero, quando mi trasferii a Bologna e presi a frequentare il Cassero di Porta Santo Stefano, dove il “vecchio” Fantazzini era una presenza costante assieme alla compagna Maria, coppia che ai miei occhi di ventenne ancora colmo di entusiastici propositi, appariva a dir poco “leggendaria”… Ricordo però che Libero non parlava volentieri di Horst, e quando lo faceva camuffava l’amarezza e la malinconia con qualche frase un po’ burbera, lui che era sempre così bonario e disponibile con chiunque e in qualunque situazione… Horst, ai suoi occhi di ottantenne che aveva afferrato la vita per le corna senza rassegnarsi a nessun destino che non fosse quello da lui scelto, faticava non poco ad accettare il “destino” di un figlio finito sulle prime pagine come “rapinatore gentile” quanto scalognato, e sicuramente al vecchio partigiano, al combattente anarchico che andava fiero del proprio passato e lottava contro un presente saccheggiato dai cialtroni di sempre, bruciava troppo quel tono patetico con cui certa stampa dipingeva il figlio a cui non ne andava bene una, e che continuava a tentare evasioni impossibili ottenendo soltanto un accanimento feroce e ottuso, comunque spietato e violento come Horst non era e non sarebbe mai stato. Da vecchio padre, poi, chissà che strette al cuore ogni volta che vedeva quella copertina di “Ormai è fatta”, con Horst crivellato di pallottole e coperto di sangue dopo la fallita fuga da Fossano…
L’uscita del film fu l’occasione per una iniziativa di solidarietà all’uomo divenuto l’emblema di un caso giudiziario abnorme e abominevole: persino i pluriomicidi non trascorrono più di trent’anni in carcere, e quella sera Stefano Accorsi, che ha interpretato il giovane Horst, e Francesco Guccini, nel fugace ruolo del padre Libero, parteciparono non come attori del film ma come cittadini indignati contro quell’accanimento di una giustizia ingiusta. Ma, come si leggeva nel retro di copertina del suo racconto autobiografico, la domanda è se “una società ingiusta può emettere condanne giuste”…
Alla fine (e non immaginavo fossimo così vicini alla “fine” di questa storia), Horst l’ho potuto abbracciare soltanto pochi mesi fa, quando aveva ottenuto la semicarcerazione (perché passare la notte in galera non è “semilibertà”, la libertà o è tale o non è, non ci sono modi per spezzettarla e frammentarla), e in poche ore mi ha confermato ciò che già immaginavo: avevo di fronte un uomo che era riuscito straordinariamente a mantenere intatta la dolcezza d’animo, malgrado trentaquattro anni di prigionia, di sogni calpestati, di folli imprese al limite del suicidio, di rivolte disarmate e pestaggi vigliacchi, di mille ingiustizie enormi o piccolissime, ma non per questo meno brucianti, compresa quella che gli aveva impedito di vedere il “suo” film, fosse stato anche con gli schiavettoni ai polsi e due guardie ai lati…
Quando è tornato dentro per l’ultima – mancata – impresa sgangherata, con l’umiliazione di apparire più patetica che criminosa, la categoria di cinici e superficiali che vanno comunemente sotto la definizione di “benpensanti” hanno malpensato: “Visto? Era e resta irrecuperabile…”. Ma chi potrebbe mai giudicare il gesto di un uomo che ha subìto trentaquattro anni di non-vita senza aver mai tolto la vita a nessuno?
E adesso che il cuore di Horst si è fermato, penso che i cuori dei ribelli, chissà, forse continuano a battere nei cuori degli altri ribelli che restano e dei ribelli che verranno… Perché nessuno muore mai del tutto finché c’è qualcuno che lo ricorda, finché resta viva la memoria di quei battiti affidati magari a un libro, a un film, ma soprattutto a quel sorriso dolce e un po’ venato d’amarezza, il sorriso di chi non si rassegna e sogna ancora, malgrado tutto, malgrado il mondo che ci ritroviamo attorno…


Pino Cacucci

 

Mercoledì 19 dicembre alle 13…

vengono arrestati 2 individui nei pressi di una banca di Bologna, con l’accusa di tentata rapina aggravata.
Pare che i due siano stati fermati a bordo di due biciclette e che fossero in possesso di due taglierini, guanti di lattice e un paio di collant.

I due sono Carlo Tesseri e Horst Fantazzini.

Poche ore dopo, gli sbirri perquisiscono le case in base all’articolo 352, applicato in casi di flagranza di reato e sequestrano libri, riviste, volantini, adesivi ed altro materiale di propaganda anarchica, oltre a lettere personali, agende, un computer e denaro in contanti.

Dopo 32 anni di galera, Horst, aveva ottenuto da qualche mese la semi-libertà, con fine pena nel 2022.

Carlo era stato liberato nel mese di luglio dopo 7 anni di carcere. Compagni anarchici che vivono una vita all’insegna della ribellione e della passione per l’anarchia, all’inseguimento di una vera libertà.

Ultimamente i media si erano interessati -piuttosto miserabilmente, come al solito – alla storia di Horst trasformandola in una storiella di cronaca rosa e facendone un film.

Davanti al gip che ha confermato gli arresti, i due compagni si erano avvalsi della facoltà di non rispondere. Horst e Carlo non hanno potuto ancora avere colloqui.

I pochi giornali che hanno parlato dell’arresto lo hanno fatto secondo il solito odioso e miserabile copione dell’ ‘anarchico romantico’ arrestato durante l’ennesimo colpo.
Nessuna parola sulla persecuzione che aveva subito e men che meno su Carlo (tra l’altro entrambi inquisiti dal pm Antonio Marini nella maxi inchiesta e susseguente maxiprocesso per banda armata ai contro una settantina di persone).

IERI, domenica 24 dicembre, ci arriva per telefono la notizia che Horst è morto.

 

Per Horst

Horst Fantazzini ha cessato di esistere. La notizia è di
qualche giorno fa, arrivata per telefono o per mail, e
circolata tra tutti noi, compagni anarchici e non,
antagonisti e refrattari.
In questo momento non ci interessa in modo particolare
soffermarci sulle ipotesi o voci di un possibile o
probabile pestaggio di cui sarebbe stato oggetto Horst e
che ne avrebbe determinato la morte.
In questo momento ci interessa manifestare la nostra
solidarietà a Carlo Tesseri (arrestato il 19 Dicembre
insieme ad Horst), ancora una volta e solo dopo pochi mesi
dalla sua scarcerazione ultima, rinchiuso in un infame
galera di stato;
in questo momento ci interessa ricordare Horst come
refrattario, ribelle, anarchico, uomo alla ricerca della
libertà. Costi quel che costi
Non dobbiamo rivendicare nulla di particolare. Horst ha
fatto le sue scelte, molte delle quali sostenute a caro
prezzo e al di là di qualsiasi becera illusione ipotetica
di una giustizia democratica dal volto umano.
Saluti a Horst solidarietà a Carlo! Lo Stato, ancor più
oggi nella modernità democratica e atroce delle
necrotecnologie e necroscienze, non può accettare che i
suoi pilastri e le sue regole vengano messi in
discussione.
Dalla diffamazione alle fandonie, dalle infamie ai
pestaggi, dal controllo elettronico e mass-mediatico alla
repressione brutale e generalizzata sino all’esercizio del
diritto-arroganza di sopprimere anche fisicamente, se
necessario, qualsiasi tentativo di ribellione e atto di
dignità.
La società-stato e la società-carcere sono l’espressione
devastante e terribile di un mondo già reso propriamente
invivibile. L’opzione unica e irrinunciabile che può
alludere alla libertà, necessaria e urgente più che mai
adesso, ancora una volta è e rimane la rivolta: aperta,
diffusa, generalizzata. La rivolta che si chiama azione
diretta oltre qualsiasi soglia o barriera illusoria e
dissuasoria di tutte le opzioni nefaste e nefande sul
buon governo dell’umanità!

Per l’anarchia!

NO CARCERE – NO STATO – NO CAPITALISMO

Coordinamento Anarchico Genovese
Comitato Anarchico di Difesa e Solidarietà

 

HORST, UNA VITA PER L’ANARCHIA

In queste ore di rabbia e di angoscia per la morte del
compagno Horst Fantazzini, molte domande non trovano
ancora risposte. Ci hanno detto che Horst è morto per
arresto cardiaco. Ma qual è la causa di quest’infarto?
Soprattutto chi ha fermato il suo cuore?
I suoi figli hanno notato dei lividi sul corpo. È
stato un pestaggio o lo stesso ritorno in carcere a
provocare la sua morte?
L’unica certezza che abbiamo è che la morte di Horst
non è altro che l’ennesimo assassinio di Stato
perpetrato contro un anarchico che ha inteso vivere
lottando senza sosta contro il capitale, contro le
prigioni nelle quali ha vissuto metà della sua
esistenza e contro qualsiasi forma di autorità.
Per Horst era già stata pianificata la morte in
carcere, visto che la sua condanna sarebbe terminata
nel 2022, ma avevano già tentato di eliminarlo in
passato, crivellandolo di colpi durante un tentativo
di fuga. Il 24 dicembre ’01, dopo 32 anni di carcere,
il nostro compagno è morto nelle loro mani,
sequestrato nelle galere di stato!
Riteniamo diretti responsabili di questa morte i p.m.
bolognesi Orso e Pescatore, nonché il direttore e
tutti gli infami che lavorano all’interno del carcere
della Dozza.
ASSASSINI DI IERI E DI OGGI, NON VI DIMENTICHEREMO.
Il nostro pensiero adesso è anche rivolto al nostro
compagno Carlo Tesseri, anch’egli sequestrato nel
carcere della Dozza, amico e compagno da sempre di
Horst, arrestato insieme a lui il 19 dicembre, a cui
sono tuttora negati i colloqui con i familiari. La sua
compagna ha già chiesto al p.m. Orso un colloquio
urgente che le è stato negato più volte. Stamattina
(25/12) si è recata dal vicedirettore della Dozza,
Candiano, il quale si è rifiutato di farle incontrare
Carlo, rispondendo che la morte di Horst non era un
motivo sufficientemente grave per concederle il
colloquio.
Riteniamo sia importante stringerci intorno a Carlo,
perché senta il nostro affetto e la nostra
solidarietà.
LIBERTA’ PER CARLO.
LIBERI TUTTI.
FUOCO ALLE GALERE.

Croce Nera Anarchica
Gruppo Anarchico per l’Azione Diretta Globale

 

NEL FRATTEMPO NON DIMENTICHIAMOCI DI CARLO: E’ RINCHIUSO NEL CARCERE DI BOLOGNA.

SCRIVETEGLI.

CARLO TESSERI, casa circondariale Dozza, Via del Gomito 2, 40136, Bologna.

 

Horst… senza perder tempo…

ci conoscevamo da troppo poco tempo io e horst…
il tempo sembra sempre troppo poco quando non se ne ha
piu…
di perso ne vedo alle spalle gia troppo per passarne
altro a compiangere…
…ne staró qui a raccontare la storia di horst perché
la conosco frammentariamente e c’é chi l’ha vissuta
cosi a fondo insieme a lui che raccontarla gli é
naturale quanto la propria.
E probabilmente gli sará impossibile farlo senza
ammiccare quel dolcissimo sorriso che ogni volta che
li ho visti insieme volava dalle labbra di una e
affiorava su quelle dell’altro…

…horst picchiava sodo quando scherzava
manescamente… lo faceva spesso quando siamo stati
assieme, mi sono sempre detto che fosse perché aveva
una gran voglia di contatto fisico con le persone…
piu o meno ingenuamente (non lo so) associavo questi
modi al fatto che 30 anni e passa di carcere
probabilmente generano bisogni spontanei di una
emotivitá che io non ho mai conosciuto. Ma mi piaceva
perché il primo pugno sullo sterno che m’ha rifilato
poco dopo averlo appena conosciuto mi ha messo subito
a mio agio.
E perché, scontato a dirlo parlando di horst, era
tutta vitalitá… quella stessa che portano con se
le/i ribelli di tutta una vita quando, a questa
rognosa e mortifera societá, decidono di fare la
festa.
La stessa che non s’ammazza, non si reprime, non si
tortura… la stessa che non si puó rinchiudere dietro
le sbarre di qualche porca galera di Stato.
Se trent’anni di carcere non bastano a spezzare un
uomo, allora vuol proprio dire che non ci sono ne
sbarre ne sbirri che tengano, la libertá spacca tutto,
da la forza a un uomo di non tirarsi indietro, di non
arrendersi, di non commiserarsi, di non martirizzarsi
ne lasciarsi martirizzare, di non sentirsi sconfitto
mai… la dignitá tiene forte e non cede,
ricominciando tutto daccapo con la tenacia di tutta
una vita ancora da vivere, di tutto un mondo di
galere, controllo, autoritá e gerarchie ancora da
distruggere… fino alle estreme consequenze…
giusto per iniziare.
Quelle/i come horst non muoiono con le pantofole,
addormentati davanti a un televisore rincoglioniti da
una vita di rimbecillimento mass-mediatico,
competizione e ipocrisia.
Non ne hanno il tempo. Piuttosto escono di casa in
pantofole e bussano senza mazzi di fiori alla mano a
uno dei fortini del capitale e, distraendo per un
attimo gli automi affaccendati a difendere chi li
sfrutta (scellerati, questi si, carnefici della
propria dignitá) dalla pietosa e piatta vita che
conducono, tornano e torneranno a batter cassa e a
riprendersi quel che é di tutte/i noi. Non tanto
soldi, ne tantomeno potere, ne nulla del genere…
Ma la vita stessa che dentro quei forzieri si tiene
sequestrata, la vita di milioni di sfruttate/i
ostaggio del capitale, la vita di milioni di morti in
guerre che i proprietari di quei forzieri hanno
manovrato e sui cui armamenti continuano schifosamente
a lucrare.
Storia di morte, di sangue, di genocidi. Di controllo
di immensi territori, ricchezze e risorse.
Lo sapeva horst, lo sanno ad esempio decine di
migliaia di argentine/i che in questi giorni hanno
bruciato le banche e il culo a parecchia di questa
gentaglia, che pretende maldestramente di tener sotto
controllo ció che invece gli sta palesemente sfuggendo
di mano. NOI.
Le banche non le alleggeriscono i romantici. Non le
bruciano gli innocenti, i candidi della
“via”democratica, non le sabotano gli sconfitti della
rivoluzione ne i terzomondisti ne tantomeno i profeti
dell’ “attesa”o “del recupero”dell’altrui rivolta
verso il dialogo e la conciliazione tra sfruttati e
sfruttatori… purché ognuno al suo posto. Le banche
le bruciano, le alleggeriscono, le sabotano, le
rivoltano i/le rabbiosi/e, le/i colleriche/ci, gli/le
impazienti, i/le ribelli. A bologna come in spagna, in
bolivia, in argentina, in brasile, in grecia, in
albania, in algeria, ecc…
Non é questione di attaccare i simboli del potere e
del capitale come a qualcuno fa comodo farci credere.
Riducendo tutto su un piano strettamente
spettacolare… una mera questione di democratici
antagonismi a suon di simboli in cui basta solo
premere il tasto del telecomando per votare chi ha
ragione e chi torto.
Se le banche che simboleggiano ricchezza e peccano di
troppa opulenza o gli sfasciatori che simboleggiano
poco piú che un malcontento diffuso se non una
semplice combriccola di morti di fame.
É questione di danneggiare, sabotare, truffare,
espropriare concretamente in prima persona ció che non
é un mero simbolo ma un luogo concreto dove la
rovesciante normalitá di una vita in gabbia
trascorrerebbe altrimenti solita, ridicola parodia di
esistenze degne d’essere vissute mentre
l’imperturbabile scandire di operazioni contabili
internazionali tiene in ostaggio un mondo intero.

Attaccare il particolare nella sua concretezza, nella
sua evidente vulnerabilitá… non rincorrere una
inesistente e fantomatica centralitá del capitale e
del controllo, sparlandosi addosso su come inutile o
addirittura controproducente puó essere NON aspettare
di poter colpire (insieme a fantomatiche masse di
“proletari”) il cervello globale stesso (il palazzo
d’inverno da assediare) di questa miseria organizzata
che é l’esistente… aspettando il momento strategico
in pantofole davanti le immagini televisive di un
susseguirsi incomprensibile (e pure un pó fastidioso)
di rivolte particolari, locali, a volte individuali…
venduteci per attacchi di follia piú o meno
generalizzata, “impure”, sporche di violenza che ci
raccontano come indiscriminata…
fermi… in pantofole… tutt’al piú scagliandosi
contro la mancanza di rispetto dei diritti umani,
delle regole democratiche e delle “libertá
individuali”.
Una banca non simboleggia nulla piú che un
supermercato, una vetrina, una galleria del treno ad
alta velocitá, un ripetitore assassino, la macchina di
un secondino (o il secondino stesso), la casa di un
giudice (o il giudice stesso), un blindato dei
caribinieri (o un carabiniere ste”s”so), gli uffici o
i negozi di un impresa che lucra sul lavoro dei
detenuti e delle detenute, un traliccio dove prima
c’era preziosa macchia mediterranea, un manager della
novartis, un vivisettore, il cantiere per un
inceneritore, un campo transgenico, un ministro o un
ministero, un prete o una chiesa, un commissariato,
una sede di partito, un seggio elettorale, una
concessionaria o quel che a ciascuna/o meglio gli
pare.
Si tratta di colpire le nocivitá. Ció che ci controlla
avvelena e reprime. Provocando danni, perdite.
Dimostrando quanto tutto sia estremamente
riproducibile e incontrollabile. Quanto piu
diffusamente e anonimamente siamo capaci.
Strategie, momenti, risorse differenti. Ognuno
colpendo quel che piú non tollera e non sopporta.
Ognuna/o scegliendo i propri. Questo fa paura, questo
getta nel panico sbirri, economisti, sociologi e
pennivendoli. Perché questo non é can-can
mass-mediatico. Non é rumore. É storia. la storia di
chi si ribella, la storia di chi si rivolta, la storia
di chi non lascia dormire in pace una societá di
cadaveri. E la storia non finisce.
La storia di horst e di tanti/e altri/e.

Horst non l’hanno spezzato con trent’anni di carcere.
Non s’é arreso, non s’é fermato. Horst l’hanno dovuto
ammazzare. Con l’ennesimo arresto, sbattendolo
nell’ennesima cella, per l’ennesima volta. Non so se
sia morto davvero di infarto, se lo abbiano soccorso o
quant’altro… non cambia nulla.
Horst lo ha ammazzato lo Stato. Lo hanno ammazzato
quelli che per trent’anni lo chiudevano a chiave
dietro una porta blindata, non solo carcerieri…
psicologi, assistenti sociali, medici, volontari,
fornitori dei penitenziari, manutentori, esattamente
come sbirri, politici e giudici… persone… esseri
in carne ed ossa. Tutte direttamente responsabili
dell’esistenza fisica stessa del carcere. E di questo
schifo di societá.
Assai piú vulnerabili e minacciabili delle solide
“democratiche” mura che ci rinchiudono.
Tutte/i fuori e dentro le galere.

Non finisce qui.
Ciao horst ti prometto che non perderó piu tempo.

un anonimo anarchico “dall’altra parte del mondo”.

 

 

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una vecchia intervista a Horst e una lettera della sua compagna,
per saperne di più su di lui

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A colloquio con Horst Fantazzini, una vita in carcere: fine pena 2022

 

D. Qual è al momento la tua situazione giudiziaria e quando prevedi di poter uscire dal carcere almeno in semilibertà?

R. Al momento la mia scarcerazione dovrebbe verificarsi nel 2022, anno più o meno. Nella classificazione delle tipologie penso d’essere stato inserito nella categoria “dinosauri e tartarughe“. Credo che, più che di comitati di liberazione dell’area anarchica, di me dovrebbe interessarsi il WWF, sezione “specie in via d’estinzione...”. Questa situazione assurda é venuta a determinarsi tramite l’applicazione, in modo restrittivo, del cosiddetto “cumulo giudico”, che funziona così: sono computate e sommate tutte le condanne e se il risultato é superiore ai 30 anni, che è la pena considerata massima, la condanna complessiva viene fissata in 30 anni.
Nel mio caso, già a partire da cumuli precedenti fatti d’ufficio, i 30 anni venivano fatti decorrere dalla data dell’ultimo reato commesso. Così è stato anche per l’ultimo cumulo, fatto dopo il mio ultimo arresto nel `91. I 30 anni sono stati fatti decorrere dal 1990 e la mia scarcerazione fissata nel 2020. La successiva applicazione della “continuazione dei reati”, chiesta dal mio avvocato, migliorò leggermente la situazione. Poi, sono divenuti definitivi alcuni processi (rapina, detenzione d’armi, documenti falsi, ecc.) e la situazione, oggi, dovrebbe appunto essere quella di una scarcerazione ipotizzata nel 2022-24.
Appena sarà terminato il processo romano agli “anarchici cattivi” nel quale figuro imputato (presto ci saranno le ultime udienze), l’avvocato provvederà a chiedere l’applicazione di una ridefinizione complessiva della continuazione di tutte le mie condanne. Il risultato dipenderà dall’umore del giudice, dalla sua buona o cattiva digestione, dal comportamento della sua amante, dalle congiunzioni astrali e da altri fattori incontrollabili. Razionalità e buonsenso sono tassativamente esclusi dai luoghi in cui si riuniscono gli “ermellini da guardia” per decidere sulla vita ed il futuro degli uomini. Per quanto riguarda la semilibertà o altri “benefici”, teoricamente potrei usufruirne a partire dal 3 aprile di quest’anno, cioè quando scadrà il mio ultimo periodo “d’osservazione trattamentale”.

D. Molte compagne e compagni ci hanno chiesto se ti consideravi anarchico anche prima di venire arrestato.

R. Questa é una bella domanda. Tu eri amica di Libero, mio padre, e mi hai incontrato fisicamente circa undici anni fa. È indubbio che io mi sia sempre definito anarchico e come tale mi sono rivendicato e mi rivendico processualmente.
Ma questo non basta. L’essere anarchico comporta la capacità di conciliare il .proprio ideale con la propria vita e questo non e stato sempre il mio caso, specialmente quand’ero molto giovane. Mi definisco un anarchico individualista, un ribelle cosciente che spesso ha agito incoscientemente. All’età di quattordici anni ero già iscritto all’USI, che non so se ancora esiste. Nel 1965 ero presente al convegno preparatorio del congresso che si svolse a Bologna e tra i partecipanti c’era Armando Borghi, che tra penose polemiche fu estromesso dalla direzione d’Umanità Nova. In quel periodo, con altri giovani, stavo per dare vita ad una Federazione Anarchica Giovanile, ma poi la mia vita si è quasi interamente annodata in carcere.
In circa trent’anni di carcere credo d’essermi sempre comportato coerentemente con un modo d’essere e sentirmi esistenzialmente anarchico. Le mie amicizie e i miei amori hanno il DNA anarchico. I miei corrispondenti sono per la quasi totalità anarchici e spaziano tra un mitico ottantenne mantovano e una sbarbina anarchica bergamasca di diciotto anni (che tratto con affetto fraterno). Io sono irrimediabilmente e fieramente anarchico.

D. Puoi parlare delle tue lotte durante la lunga detenzione? Nel film questo aspetto viene eluso.

R. Parlare di lotte in carcere oggi è come riesumare dolcemente ricordi da un sarcofago, tanto è il cambiamento verificatosi, negli ultimi quindici anni, del luogo e dei suoi disperati abitanti.
Dal sarcofago emergono i ritratti d’uomini ch’erano vivi ed orgogliosi ma che sono stati piegati, spezzati, dispersi. Uomini che rivendicavano con passione la loro dignità e cercavano senza mediazioni la loro libertà. Uomini che sono morti sui tetti durante le rivolte e che nessuno ricorda più. Uomini che, nell’incontro con i primi compagni incarcerati, avevano scoperto che la vita e la lotta possono avere significati più alti dei loro piccoli desideri ed egoismi. La fine degli anni sessanta e tutti gli anni settanta sono stati stagioni di lotte che non si ripeteranno più. Carceri distrutte e gallerie verso la libertà.
Personalmente ho partecipato a decine di lotte piccole e grandi. Ho visto la distruzione della sezione speciale dell’Asinara, di quella di Nuoro e di quella di Trani e quelle lotte mi sono costate un “bonus” di oltre vent’anni in più da scontare. Oggi il carcere è “pacificato” e l’aria che vi si respira è di pesante rassegnazione. La “popolazione” è mutata radicalmente e la quasi totalità è data da tossicodipendenti e piccoli e medi spacciatori. Il loro problema prioritario è quello di continuare a trovare o continuare a spacciare le loro dosi quotidiane.
Non vi sono quasi più compagni. Ad Alessandria ne ho lasciati tre. Qui non ve ne è nessuno. I mafiosi sono sotto la cappa del 41/bis, una riedizione di quello che per noi, anni fa, era l’art. 90, cioè un regolamento interno restrittivo all’interno d’un regolamento di per sé già stretto. Oggi sono quasi tutti giovani e giovanissimi e il carcere non è altro che l’enorme contenitore di un disagio sociale che nessuno vuole o sa risolvere.
Non mi sono mai sentito così “straniero” in carcere. Resisto cercando d’estraniarmi da tutto quanto mi circonda, rifugiandomi nei miei libri e parlando con il mio computer. Mi danno forza i rapporti con l’esterno e l’amore che ne ricevo. A’ da passà a nuttata, diceva il caro Eduardo. Ecco, cari compagni, non posso fare altro che cercare di resistere, nell’attesa che si decida ad arrivare Godot. Qualcuno sa dove s’è incagliato?

D. Durante queste lotte hai dovuto scontrarti non solo con il potere carcerario ma anche con il “contropotere”. Vuoi raccontarci come è andata ?

R. Tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, le carceri erano piene di compagni. Le carceri speciali erano una decina: Cuneo, Novara, Fossombrone, Trani, Termini Imerese, Favignana, Pianosa, l’Asinara e Nuoro. Voghera per le compagne.
Poi c’erano sezioni speciali in quasi tutte le altre carceri. Per una decina d’anni, noi detenuti “differenziati” non abbiamo più avuto rapporti con gli altri detenuti. Era prassi tenerci in carceri il più possibile lontane da casa, per rendere estremamente difficoltosi i colloqui, che comunque venivano effettuati con vetri divisori e citofoni. La corrispondenza era sottoposta a censura. Non potevamo ricevere pacchi di viveri dall’esterno, era consentita solo la ricezione di libri ed indumenti.
Non tutte le carceri speciali erano “specializzate” allo stesso modo: alcune, come Fossombrone e Cuneo, erano più “morbide” dell’Asinara o Novara. Credo che allora noi fossimo trattati come cavie sulle quali si studiavano i comportamenti e le reazioni rispetto alle gradualità del “trattamento”, che spaziava dalle ore di socialità (spazi ed attività da convivere insieme durante alcune ore della giornata) all’isolamento duro e crudo dell’Asinara (due o tre per cella, sempre gli stessi, con periodiche rotazioni decise dal monarca dell’epoca, direttore Cardullo).
Chiaramente, compagni inventati e ribelli venduti, vivevano in mezzo a noi, per un controllo più efficace, fatto di cui acquisimmo certezza più tardi. Belushi diceva che quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare. Ed è vero. È incredibile la creatività che l’uomo riesce a sprigionare nei momenti difficili. Il trattamento duro cementa il gruppo e dilata la solidarietà. Eravamo tutti uniti contro di “loro” ed inventavamo canali di comunicazioni incredibili per rompere l’isolamento fisico.
All’Asinara, per mesi, gli occupanti di una cella non riuscivano a vedere gli occupanti delle celle adiacenti, ma tutte le celle comunicavano tra di loro. Ci sarebbe da scrivere un libro su tutti gli accorgimenti da noi inventati per superare l’isolamento cui eravamo sottoposti, ma l’argomento, ora, è un altro. Per preparare le lotte ed un’eventuale evasione era necessario darsi una rigida compartimentazione, nacquero così i CUC (Comitati Unitari di Campo). All’Asinara erano in maggioranza i brigatisti così i comitati, all’inizio espressione delle necessità e della situazione di noi tutti, divennero un organismo politico improntato al “centralismo democratico”, bisticcio lessicale tanto caro a nonno Lenin.
Dissi ai brigatisti che non avevo nulla in contrario a forme organizzative compartimentate e ristrette purché provvisorie e funzionali all’ottenimento di un risultato, ma se questi CUC divenivano organismi politici permanenti, non volevo farne parte. Avrei partecipato a tutte le lotte ma non alla loro gestione politica.
La prima lotta (distruzione dei citofoni ai colloqui e rifiuto di tutti i prigionieri di rientrare nelle loro celle) si concluse con il massacro di una settantina di noi. Io finii in coma e portato in elicottero all’ospedale dì Sassari. Il mio ricovero fu tenuto segreto e dopo due giorni fui riportato all’Asinara. La mia compagna di allora riuscì a sapere e divulgò la notizia ed il terzo giorno rimbalzò su tutti i mezzi d’informazione. Venne una delegazione dì parlamentari che poté constatare il massacro. Fu aperta un’inchiesta e la direzione dell’Asinara si trovò in grande difficoltà. Una settimana dopo distruggemmo le due sezioni speciali senza che le guardie osassero intervenire. Rese inagibili le sezioni, fummo provvisoriamente dislocati nelle varie diramazioni “normali” dell’isola, in attesa d’essere trasferiti altrove. Pochi giorni dopo queste lotte, riuscii a consegnare alla mia compagna un resoconto che fu tempestivamente pubblicato in un opuscolo dalle edizioni di “Anarchismo”.
Questo mandò su tutte le furie i brigatisti ed i più beceri si divertivano a ricordare a noi anarchici Kronstadt e Barcellona.
Una mia “lettera aperta ai compagni esterni” fu pubblicata su tutti i giornali del movimento, che allora, nel 1978, era ancora vivo e vegeto.
La polemica rimbalzò in tutte le carceri speciali dove, complessivamente, i brigatisti erano in minoranza e la maggioranza dei prigionieri si schierò dalla mia parte.
Questa polemica, sommata ad una ormai evidente debolezza politica dei brigatisti (ricordate lo slogan del movimento “Né con le Brigate Rosse né con lo Stato!“?), sancì la fine dei CUC ed al suo posto nacquero i CUB (Comitati Unitari di Base) organismo “aperto” che per un po’ rappresentò tutti i prigionieri. Anche “A rivista anarchica” pubblicò la mia lettera insieme ad una risposta di Curcio sotto il titolo “Anarchici e stalinisti“. Fui contattato da varie parti politiche ed anche da organismi dello stato perché, partendo dalla polemica che mi aveva coinvolto, qualcuno intendeva usarmi per creare ulteriori divisioni tra i prigionieri.
Ma non mi prestai a questo gioco. Appena l’Asinara fu ristrutturata, unico compagno tra quelli che parteciparono alla rivolta, vi fui rispedito da Palmi. Poi, dopo alcuni scontri con gli sbirri di là, finii a Nuoro, partecipando alla rivolta che anche là distrusse le sezioni speciali. Ma ormai si era all’epilogo. La debolezza esterna dei compagni si ripercosse all’interno delle carceri. Iniziò la stagione dei “pentimenti” e delle “dissociazioni” di massa.
Gli intellettuali che avevano giocato alla guerra, nuovi figliol prodighi, ritornarono nel loro elitario Habitat. Diffidare sempre degli intellettuali professionisti! Tessono ragnatele pesanti come catene sui sogni degli uomini liberi. E dal tempo degli antichi scriba egizi, di deflorazione in deflorazione, riescono sempre a ricostruire la loro verginità. Una quindicina d’anni fa, per costoro, scrissi quest’epitaffio:

“La miseria esistenziale dell’intellettuale è il suo essere dilaniato dalla contraddizione tra l’universalità del suo sapere ed il particolarismo della classe dominante di cui è il prodotto. E così si dibatte incarnando l’hegeliana “coscienza infelice” tra referenti da abbandonare e da conquistare… E con questa cattiva coscienza, sorgente del suo malessere, s’allinea ora con il proletariato, ora con i marginali, ora con il terzo mondo, cercando punti fermi sui quali rifondare le proprie rovine, riproponendosi sempre come soggetto attivo, come intellighentia che, rispetto ai fenomeni sviscerati e sezionati col microscopio del sapere, si autopropone come avanguardia esterna dall’alto di quel sapere rubato ai suoi antichi padroni. Tra alterne sorti si dibatte nella disperazione d’essere un eterno orfano. Orfano dei padroni abbandonati senza rifiutarne i privilegi. Orfano del proletariato che sempre lo ha istintivamente rigettato come corpo estraneo. Orfano del terzo mondo che non ha tempo per sintonizzarsi su intelligenti analisi dovendo risolvere, giorno dopo giorno, i suoi urgenti problemi di sopravvivenza. D’esclusione in esclusione, d’elisione in elisione, d’erosione in erosione, s’è ritrovato con altri in un unico ghetto. Allora, spaventati e coinvolti dalle variabili impazzite uscite dalle loro teorizzazioni, hanno incominciato a negoziare la resa sulla pelle di tutti: per reintegrare la loro iniziale posizione di intellighentia. Miserie nella miseria, plagianti plagiati, ma privilegiati che da sempre trovano il nido caldo del figliol prodigo che ritorna alle sue origini… “

Costoro col pentimento o la dissociazione oppure coi benefici dello stato che intendevano combattere “senza tregua!”, ora sono quasi tutti fuori.
Ne è rimasto in carcere un pugno. Meno di una decina di questi, in carcere da decenni, si sono chiusi in un dignitoso silenzio.
Non chiedono nulla, rifiutano “benefici” dello stato che, se richiesti, ne determinerebbero l’immediata libertà. Altri, rifugiati all’estero, attendono l’amnistia o la “soluzione politica” per rientrare.
E le carceri, ora governate con la carota ed il bastone, sono più floride che mai e traboccano di disperati. Bene, credo che basti.

D. Senza voler essere invadente: è stata più volte rilevata la trasparenza e la serenità del personaggio di Anna nel raccontare quello che era il vostro rapporto prima e dopo i tuoi arresti. Hai voglia di parlarne?

R. Con l’ultima domanda mi metti in crisi. Pochi giorni fa mi ha intervistato una giornalista per conto della trasmissione Frontiere di RAI 2. Tra le altre domande, ad un certo punto mi ha chiesto se mi sento pentito.
Puntualizzando sulla parola pentimento, le ho risposto che non mi sento pentito né per le banche rapinate né per il resto, però, se avessi la possibilità di rivivere la mia esistenza, non farei le stesse cose. Non perché ritenga immorale, in questa società, rapinare banche, ma perché ritengo stupido buttare via così la propria vita.
Poi, le ho detto che se la mia attuale situazione è, bene o male, il frutto di una iniziale scelta, essa ha finito per coinvolgere anche persone che questa scelta non condividevano ma che ne hanno ricavato sofferenza per il solo fatto di volermi bene. I miei genitori, mia moglie, i miei figli, compagne e compagni che mi hanno voluto o che mi vogliono bene. Questo è un peso che porto ed è il più pesante di tutti. Anna è la persona che più ho amato in vita mia. Ancora oggi, quando penso a lei, mi sento invadere da una tenerezza ed una tristezza infinite. È la persona che mi ha dato di più, ricevendone in cambio solo dolori ed umiliazioni. Mi è stata vicina nei momenti più difficili poi, quando con le carceri speciali la situazione s’è fatta pesantissima, di comune accordo abbiamo deciso di lasciarci. Razionalmente, senza astio né rancori, rimanendo amici. Oggi, dopo una vita donata agli altri, è una donna serena.
Spero, un giorno di poterla rivedere per fare insieme due carezze a Jacopo, il nuovissimo Fantazzini che recentemente ci ha resi entrambi nonni.

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(29 novembre 2000)

Carissime compagne e compagni, finalmente dopo tante vicissitudini la lunga storia carceraria di Horst Fantazzini sembra volgere al termine.


Sono passati tantissimi anni, Horst era rinchiuso dagli anni ’60, per la precisione dal 1968 (anche se precedentemente, cioè dal 1960, si era già fatto alcuni anni di galera), ma con la prospettiva di rimanerci ancora fino al 2017 e dintorni.
Secondo alcuni calcoli, fino al 2021 o anche 2024, dato che ancora le condanne si sommavano e in fila indiana davano un risultato fantascientifico. Le calcolatrici del potere si erano divertite a sommare, fino a raggiungere il primo posto nel “guinness dei primati” di ogni detenzione qui in Europa e forse nell’intero pianeta.
Ma, anziché vergognarsene, lo tenevano in naftalina, trasferendolo di tanto in tanto da un carcere all’altro e nel frattempo Horst cercava sempre di scappare e qualche volta ci riusciva ma per poco; intanto le condanne crescevano e il “fine pena” lievitava…

Sono passati tantissimi anni e la pellaccia di Horst ha passato il confine tra la vita e la morte almeno due volte in carcere ed un’altra da latitante; ha conosciuto le catene delle prigioni francesi, l’isolamento, la tortura, i pestaggi delle carceri speciali in Sardegna, un quasi plotone d’esecuzione a Fossano; ed ancora il dolore per non poter essere presente nemmeno ai funerali dei suoi genitori, Bertha e Libero; e poi in tempi più “morbidi” (ma non più di tanto) la normalità di un carcere che vorrebbe apparire umano, ma che umano non è, è sempre un carcere di merda.
Ma qualcosa nell’animo di Horst – l’Abate Faria, come a volte si definiva scherzosamente – ha sempre resistito, lui ha sempre sperato che le cose cambiassero, che potesse riacquistare la tanto amata Libertà. E la speranza ha avuto il volto dei suoi familiari, di suo padre Libero, della compagna di Libero, Maria Zazzi, dei suoi figli Loris e Luigino, della sua ex-moglie Anna, delle sue compagne che l’hanno seguito e dei suoi amici dentro e soprattutto fuori del carcere che in tutto questo tempo l’hanno sostenuto ed aiutato.
Un mondo straordinario di gente emarginata, sfigata, ma bellissima. Dal bellissimo libro “Ormai è fatta!” edito dal bravo Giorgio Bertani, che tutti ci stanno chiedendo ma che Horst per motivi personali non ha intenzione di ripubblicare, è stato tratto un film diretto da Enzo Monteleone del quale molto si è parlato e che recentemente è stato trasmesso su Tele+. Una cosa tira l’altra, sono venuti molti articoli su giornali, recensioni, interviste televisive. Il film, che ha avuto una pessima distribuzione, ha ricevuto ottimi premi per le interpretazioni di Stefano Accorsi, di Emilio Solfrizzi e Giovanni Esposito. In realtà quella era solo una delle tante “finestre” sulla vita di Horst così sfortunata ma anche ricchissima a livello umano.
Ora Horst non vuole più tornare sul passato, tanto si è detto sulla “primula rossa” ricercata in mezza Europa o del “bandito gentile” che mandava le rose alle cassiere; e non vuole più parlare di carcere, in realtà ne ha parlato pochissimo anche prima, perché il suo mondo, la sua vita, sono sempre stati fuori, altrove.
Ora che gli vengono concessi i primi permessi-premio e che gli verrà concessa la semilibertà, insieme con me che sono diventata sua moglie e che non ho mai smesso di sostenerlo in questi ultimi quattro anni, stiamo sistemando la casa bolognese che fu di Libero e di Maria che diventerà anche il nostro “Archivio Fantazzini”, e stiamo progettando la nostra vita futura, E, alla faccia di chi ci vuole male, facciamo l’amore tutto il giorno!
Sono tantissime le cose che ci uniscono, ora che finalmente possiamo assaporare la vita in comune; la nostra felicità sta proprio nella scoperta di quello che il carcere ci aveva tolto, separandoci l’uno dall’altra e rendendoci persino reciprocamente odiosi.
Sono strani e contorti i meccanismi che il carcere mette in moto, riuscendo a distruggere persino gli affetti più consolidati. Si affonda nella diffidenza e nell’incomprensione. L’amore può facilmente diventare odio. Bisogna avere una grande forza per resistere al logoramento prodotto da queste dinamiche infernali.
Ogni volta che andavo a colloquio mi sembrava l’ultima volta, ma quando vedevo il muso sorridente di Horst, magari nervoso, ma sempre contento di vedermi, non potevo dire “basta”, mi si sarebbe spezzato il cuore.
Può sembrare strano che un uomo a 61 anni abbia voglia di costruire la sua vita da zero con l’entusiasmo e la fantasia di un ragazzino, la maggior parte degli uomini a quest’età va a giocare a carte in qualche circolo o si “gratta la prostata” davanti al televisore come direbbe – per scherzo – mia madre, ma la storia di Horst è stata tutta incredibile, lui ha una forza e una dolcezza fuori dell’ordinario. La mia più grande gioia è di vederlo felice e sorridente in mezzo alle persone che ama, accanto a suo figlio Loris che è come un grande orsetto pieno di amore per suo padre.
(…) Ma la nostra gioia più grande sarà quando non resterà più neanche un compagno e una compagna in carcere. Fino ad allora non si potrà mai smettere di lottare

LIBERO FANTAZZINI! LIBERI TUTTI!

Patrizia “Pralina” Diamante e Horst Fantazzini

estratti dal sito: http://www.ecn.org/filiarmonici/fantazzini.html

 

29 novembre 2000

Carissime compagne e compagni,
finalmente dopo tante vicissitudini la lunga storia carceraria di Horst Fantazzini sembra volgere al termine. Sono passati tantissimi anni, Horst era rinchiuso dagli anni ’60, per la precisione dal 1968 (anche se precedentemente, cioè dal 1960, si era già fatto alcuni anni di galera), ma con la prospettiva di rimanerci ancora fino al 2017 e dintorni. Secondo alcuni calcoli, fino al 2021 o anche 2024, dato che ancora le condanne si sommavano e in fila indiana davano un risultato fantascientifico. Le calcolatrici del potere si erano divertite a sommare, fino a raggiungere il primo posto nel “guinness dei primati” di ogni detenzione qui in Europa e forse nell’intero pianeta. Ma, anziché vergognarsene, lo tenevano in naftalina, trasferendolo di tanto in tanto da un carcere all’altro e nel frattempo Horst cercava sempre di scappare e qualche volta ci riusciva ma per poco; intanto le condanne crescevano e il “fine pena” lievitava…
Sono passati tantissimi anni e la pellaccia di Horst ha passato il confine tra la vita e la morte almeno due volte in carcere ed un’altra da latitante; ha conosciuto le catene delle prigioni francesi, l’isolamento, la tortura, i pestaggi delle carceri speciali in Sardegna, un quasi plotone d’esecuzione a Fossano; ed ancora il dolore per non poter essere presente nemmeno ai funerali dei suoi genitori, Bertha e Libero; e poi in tempi più “morbidi” (ma non più di tanto) la normalità di un carcere che vorrebbe apparire umano, ma che umano non è, è sempre un carcere di merda. Ma qualcosa nell’animo di Horst – l’Abate Faria, come a volte si definiva scherzosamente – ha sempre resistito, lui ha sempre sperato che le cose cambiassero, che potesse riacquistare la tanto amata Libertà. E la speranza ha avuto il volto dei suoi familiari, di suo padre Libero, della compagna di Libero, Maria Zazzi, dei suoi figli Loris e Luigino, della sua ex-moglie Anna, delle sue compagne che l’hanno seguito e dei suoi amici dentro e soprattutto fuori del carcere che in tutto questo tempo l’hanno sostenuto ed aiutato. Un mondo straordinario di gente emarginata, sfigata, ma bellissima. Dal bellissimo libro “Ormai è fatta!” edito dal bravo Giorgio Bertani, che tutti ci stanno chiedendo ma che Horst per motivi personali non ha intenzione di ripubblicare, è stato tratto un film diretto da Enzo Monteleone del quale molto si è parlato e che recentemente è stato trasmesso su Tele+. Una cosa tira l’altra, sono venuti molti articoli su giornali, recensioni, interviste televisive. Il film, che ha avuto una pessima distribuzione, ha ricevuto ottimi premi per le interpretazioni di Stefano Accorsi, di Emilio Solfrizzi e Giovanni Esposito. In realtà quella era solo una delle tante “finestre” sulla vita di Horst così sfortunata ma anche ricchissima a livello umano. Ora Horst non vuole più tornare sul passato, tanto si è detto sulla “primula rossa” ricercata in mezza Europa o del “bandito gentile” che mandava le rose alle cassiere; e non vuole più parlare di carcere, in realtà ne ha parlato pochissimo anche prima, perché il suo mondo, la sua vita, sono sempre stati fuori, altrove. Ora che gli vengono concessi i primi permessi-premio e che gli verrà concessa la semilibertà, insieme con me che sono diventata sua moglie e che non ho mai smesso di sostenerlo in questi ultimi quattro anni, stiamo sistemando la casa bolognese che fu di Libero e di Maria che diventerà anche il nostro “Archivio Fantazzini”, e stiamo progettando la nostra vita futura, E, alla faccia di chi ci vuole male, facciamo l’amore tutto il giorno! Sono tantissime le cose che ci uniscono, ora che finalmente possiamo assaporare la vita in comune; la nostra felicità sta proprio nella scoperta di quello che il carcere ci aveva tolto, separandoci l’uno dall’altra e rendendoci persino reciprocamente odiosi. Sono strani e contorti i meccanismi che il carcere mette in moto, riuscendo a distruggere persino gli affetti più consolidati.
Si affonda nella diffidenza e nell’incomprensione. L’amore può facilmente diventare odio. Bisogna avere una grande forza per resistere al logoramento prodotto da queste dinamiche infernali. Ogni volta che andavo a colloquio mi sembrava l’ultima volta, ma quando vedevo il muso sorridente di Horst, magari nervoso, ma sempre contento di vedermi, non potevo dire “basta”, mi si sarebbe spezzato il cuore.
Può sembrare strano che un uomo a 61 anni abbia voglia di costruire la sua vita da zero con l’entusiasmo e la fantasia di un ragazzino, la maggior parte degli uomini a quest’età va a giocare a carte in qualche circolo o si “gratta la prostata” davanti al televisore come direbbe – per scherzo – mia madre, ma la storia di Horst è stata tutta incredibile, lui ha una forza e una dolcezza fuori dell’ordinario. La mia più grande gioia è di vederlo felice e sorridente in mezzo alle persone che ama, accanto a suo figlio Loris che è come un grande orsetto pieno di amore per suo padre. E qui ringrazio tutti i compagni e le compagne che hanno organizzato iniziative – alcune delle quali riuscite oltre ogni aspettativa – da Bassano del Grappa a Lecce, ringrazio un po’ meno quelli che si sono divertiti a mandargli lettere anonime con insulti e bugie offensive su di me, per tormentarlo e rendergli ancora più penosa la detenzione in un momento particolarmente difficile. Ma sono solo una caccola in un mare di luce. In realtà il movimento anarchico ha dimostrato spontaneamente il suo affetto e la sua solidarietà in molti modi, con la proiezione del film e del video con l’intervista, l’incontro con i protagonisti del film, il presidio sotto la prefettura di Alessandria, le mostre delle sue opere grafiche al computer , le serate per Horst, il giornalino con la sua intervista, la rinnovata attenzione sulla nostra stampa, i concerti di sottoscrizione (1.500.000 per le spese del comitato), i ponti radio, i telegrammi, i libri regalati con dedica, le numerose lettere con i saluti e le firme di tutti, ecc. A tutte/i GRAZIE!
Ma la nostra gioia più grande sarà quando non resterà più neanche un compagno e una compagna in carcere. Fino ad allora non si potrà mai smettere di lottare.
LIBERO FANTAZZINI! LIBERI TUTTI!

Patrizia “Pralina” Diamante e Horst Fantazzini

Fonte: lettera aperta datata 29.11.2000 indirizzata “a tutti coloro che hanno organizzato iniziative per Horst”.

 

Testo letto da Pralina al funerale di Horst.
29/12/2001

Queste sono poche righe davanti alla vita straordinaria di un uomo che non si è mai risparmiato, che non ha mai fatto calcoli, che non ha mai avuto paura davanti agli sbirri neanche quando gli sparavano addosso per ucciderlo, e non riuscendovi cercavano di seppellirlo in carcere, di disgregare i suoi affetti e la sua vita con mille ricatti e mille metodi coercitivi, ricatti affettivi squallidi… Horst non si è mai piegato davanti al potere, ha soltanto mostrato il suo lato tenero, il suo lato di bambino indifeso che urlava “IL RE È NUDO!!” e per questo suo lato l’ho amato disperatamente e noi tutti gli abbiamo voluto bene. Pur conoscendo la sua vita e la sua storia e non essendo sempre d’accordo con le sue scelte. Negli ultimi tempi, Horst aveva una voglia incredibile di avere una vita “normale”, la vita “normale” non è quella vita insulsa vuota da ogni tensione esistenziale, ma una vita che rendesse giustizia anche al bambino che era in lui, anche all’artista che era in lui, che usciva dopo 40 anni di carcere, e anche a me, che avevo subito tante pesanti umiliazioni ma non per questo piegata o doma, e che per questo potevo comprendere più di tutti la condizione di disgregazione familiare e di carcerazione umana che va ben al di là dell’istituzione carcere.
Questi 5 anni per noi sono stati certamente difficili, ma belli, pieni di tensioni; il rapporto con Horst era di assoluta sincerità, come diceva lui “tu sei la persona più pulita che io abbia mai conosciuto ed io ti voglio bene come un padre, perché per me sei proprio come una bimba”; il rapporto con Horst era di grandissima sensualità, di erotismo, di gioco, di pazzia, di progetti da realizzare, di amicizie da vivere, noi avevamo una bellissima casa immersa nel verde e ultimamente anche un cane, ma nessun lusso né agio, la nostra bella casa costruita per lui da Libero che lui chiamava “il nostro nido” aveva problemi urgenti e costanti di essere sistemata e questo lo sanno solo quelli che ci frequentavano, quei pochi che ci davano una mano per renderla vivibile. Per la mancanza di soldi i lavori procedevano a rilento e alcune volte “riciclavamo” i mobili dall’immondizia, ma noi eravamo felici. Eppure, con mille problemi, qualche piccolo lusso ce lo concedevamo senza chiedere niente a nessuno. Niente di più e niente di meno di qualche pranzo o qualche cena, Horst era stanco di mangiare la sbobba schifosa del carcere…
Siamo stati dignitosi in tutto, e ci siamo voluti un bene immenso, un bene vero, che non si può neanche quantificare. Questo era sicuramente il nostro momento più difficile: Horst usciva dal carcere alle 6 del mattino per andare a lavorare con il buio e con il freddo; lavorava in magazzino con la giacca addosso per ripararsi dal freddo, aveva dei problemi di salute abbastanza seri che non aveva raccontato a nessuno (poiché quando un semilibero sta male… deve tornare in carcere), tornava a casa per trascorrervi appena tre ore, tornava in carcere rigorosamente per le 10 di sera con qualsiasi tempo, dormiva appena due o tre ore per notte, perché nelle sezioni semiliberi ci sono molti problemi. Era molto stanco, sofferto, dimagrito, e soprattutto dormiva pochissimo.
Eppure, anche in questa condizione (che alla maggior parte dei compagni era oscura), c’era un po’ di spazio per noi. Allora le piccole cose quotidiane, preparargli un caffè, cuocergli un piatto di tagliatelle con il ragù fatto in casa, acquistavano il significato di casa vera, di vera famiglia.
Gli dicevo, ora che abbiamo lottato tanto per farti avere la semilibertà e che stiamo aspettando la grazia, se tu facessi qualche altra stupidaggine non solo butteresti nella merda le poche persone che hanno creduto in te, ma rovineresti tutto.
Ma evidentemente la tensione per la libertà in lui era troppo forte, e un giorno senza farmene partecipe mi ha messo davanti al fatto compiuto. La telefonata del suo avvocato, una bastonata sul collo mentre tornavo in treno a casa con un assegno in tasca. Avevo appena venduto due ritratti, ero felice perché lui mi spronava a disegnare, ma anche perché dietro quella commissione c’erano speranze concrete per entrambi…
Io non giudico lui e il suo gesto fragile e in fondo ridicolo ma questo sistema di merda che non ha saputo offrirgli altro che un duro lavoro in magazzino alla sua età (62) e ancora tanti anni di carcere davanti.
Il dolore che sto provando, davanti a una fine così ingiusta, così assurda, ma così “normale”: dato che in carcere ci vanno soltanto i poveracci…non potete neanche immaginarla.
Restano piccole e grandi umiliazioni, mai perdonate e mai dimenticate, che un giorno renderò veramente pubbliche.
Horst, il mio dolce e buffo Horst, è volato via per sempre e non tornerà mai più in nessun carcere. Ti porterò per sempre nel mio cuore e onorerò per sempre la tua memoria, il tuo coraggio, le cose che hai scritto, quelle che hai detto, la voglia che io diventi una grande artista. E insieme la memoria di mamma Bertha, di Maria, di Libero, con amore. Grazie Anna 1 e 2, grazie Loris, grazie Luigi, ti voglio bene Jacopo. Grazie avvocati che avete creduto in noi e che ci siete stati amici. Grazie a tutti gli amici e amiche che ci sono stati vicini. Liberi tutti!. Viva l’Anarchia!!
Ciao topolino!!

La tua Pralina Fantazzini

 

Da “Umanità Nova” n. 1 del 13 gennaio 2002

Ricordando…Horst Fantazzini

LIBERI TUTTI. Con questo striscione che ne precedeva il carro funebre, Horst Fantazzini ha lasciato i compagni, le compagne, amici e parenti.

Si é svolto sabato 29 dicembre il funerale in forma a-religiosa. Presso il cimitero della Certosa di Bologna si sono riunite oltre 200 persone, in massima parte compagne e compagni anarchici. Nella sala del Pantheon si é svolta la cerimonia di commiato dove hanno preso la parola Patrizia, Chiara, Giorgio, Sabatino, Salvatore, Laura e Walter, ognuna ed ognuno con un ricordo di Horst. Si é poi formato un piccolo corteo che ha accompagnato per un breve tratto il carro funebre, con le note di “Addio Lugano bella” prodotte dalla fisarmonica di Gloria e dalla tromba di Giorgio e lo striscione “Liberi tutti” che apriva il corteo. C’era anche lo striscione dei compagni del Movimento Anarchico Fiorentino “né stati, né religioni, né servi, né padroni”. C’erano tante bandiere ed ovviamente anche quella della Federazione Anarchica Bolognese che suo padre, Alfonso “Libero”, aveva lasciato ai compagni.

Horst é morto il 24 dicembre intorno alle 20 a causa di un aneurisma addominale. La morte lo aveva colpito nel carcere della Dozza dove dimorava ormai da due anni. Ma la sua condizione di detenuto era cambiata. Dopo un breve periodo di semilibertà, di vita seminormale, da alcuni giorni era tornato ad essere un detenuto a tempo pieno, un rapinatore “gentile”, un bandito dalla società. Il 19 dicembre, infatti, era stato arrestato assieme a Carlo Tesseri, in fondo a via Mascarella con l’accusa di aver tentato una rapina alla Banca Agricola Mantovana.

Al diffondersi della notizia della morte di Horst si sono diffuse le voci più varie, anche quelle di una sua morte “incidentale”. L’autopsia che si é svolta alla presenza di un medico di parte nominata dai figli Luigi e Loris e le testimonianze di alcuni reclusi, hanno fugato ogni dubbio e preoccupazione. Horst é stato subito soccorso e rianimato ma un secondo, fatale attacco, lo ha stroncato. Una morte banale ma una fine dignitosa di una vita in cui la dignità con la quale ha affrontato mille traversie é stato il tratto caratteristico della sua figura.

 

È nota, soprattutto ai lettori di Umanità Nova, la sua vicenda umana. Giovane operaio alla fine degli anni sessanta mise in pratica le considerazioni di Bertold Brecht “é più criminale fondare una banca che svaligiarla”. Ma, contrariamente alle cronache rosa-nere che lo hanno reso famoso non fu mai un uomo della “mala”. Agiva sempre da solo o con pochi amici. Rispondeva sempre in prima persona del suo operato, non incitava altri ad emularne le gesta, non usava armi da fuoco e prendeva ciò che riteneva “strettamente necessario”.

La sua lunga detenzione é iniziata nel 1973 dopo il suo tentativo di evasione dal carcere di Fossano culminato con il suo linciaggio da parte dei carabinieri del generale Dalla Chiesa. Questo fatto era stato da lui raccontato nel libro “Ormai é fatta” dal quale é stato tratto l’omonimo film proiettato in pochissime sale cinematografiche nell’estate del 1999. Aveva conosciuto le galere europee già diverse volte negli anni precedenti. Ma ha fatto 16 anni di carcere continuativo e senza permessi, fatto talmente raro da averne fatto un caso giudiziario. Aveva infatti ottenuto un permesso nell’inverno del 1989 e ne aveva approfittato per riprendersi un po’ della sua vita. Era stato nuovamente arrestato nell’estate del 1991 in un’operazione che aveva dato il via alle montature antianarchiche degli anni ’90. Da questo episodio la sua nomea di “terrorista” che ha portato molti giornali ad accomunarlo o addirittura ad affiliarlo alle Brigate Rosse. Proprio lui che, attivo partecipe di tutte le rivolte carcerarie, aveva combattuto non solo il potere dei secondini “di stato” ma anche quello dei secondini del “potere rosso” e, per questo, era stato oggetto di percosse da parte di detenuti istigati dal “fronte delle carceri”.

Un uomo libero, indomito fino alla fine. Una vita vissuta con dignità, una dignità che, alla fine, gli hanno dovuto riconoscere anche i forcaioli ed i borghesi. Se qualche ombra resterà sulla sua vita, questa sarà determinata esclusivamente dalla sua grande generosità.

 

Per chi volesse approfondire le tematiche consultare la lunga intervista pubblicata su Umanità Nova nel numero 3 del 30 gennaio 2000 ed ora sul sito www.ecn.org/contropotere .

Sul numero 19 di U.N. del 30 maggio 1999, commentando l’uscita nelle sale cinematografiche del film “Ormai é fatta” scrivevamo: “Un giorno o l’altro vi tedierò con la loro storia. Così come della storia di Horst né il libro né il film dicono tutto quel che c’è da sapere ma, Ormai é fatta.” Per ora, gli eventi ci hanno impedito di entrare più diffusamente sulla questione ma, rinnoviamo l’impegno e, per altro, segnaliamo l’attività del Dizionario Biografico degli anarchici italiani sulle cui pagine é prossima la pubblicazione della scheda su Alfonso “Libero” Fantazzini e dove, ormai, sarà presto curata anche una scheda su Horst, suo figlio, che “libero” lo é stato per brevi periodi.

redb

Da “Umanità Nova” n.19 del 30 maggio 1999

Ormai é fatta
Un film sulla vicenda del compagno Horst Fantazzini

Ormai é fatta é il titolo del film in proiezione in questi giorni, nelle prime visioni delle città italiane. Tratto dall’omonimo “romanzo autobiografico” edito dal veronese Bertani nel 1974, il film racconta del tentativo di evasione intrapreso da Horst il 23 luglio del 1973 dal carcere di Fossano, della tragedia umana, oltre che sociale e politica della detenzione che ieri come oggi segna il confine del dominio e dello sfruttamento e del tragico epilogo di quella giornata che voleva essere di libertà.

Per chi non conosce la vicenda, il film richiama alla memoria la vicenda di quest’uomo, di questo nostro compagno, che si era ribellato alla società dello sfruttamento e che per questo, per la sua irriducibile sete di giustizia sociale e per la dignità con la quale aveva affrontato magistrati, poliziotti e secondini era divenuto un pericoloso criminale.

In realtà, come il film racconta e come il regista (Enzo Monteleone) richiama nei titoli di coda, quest’uomo non ha mai ucciso nessuno, eppure é in carcere da 30 anni e dovrebbe rimanervi, secondo la magistratura italiana fino al 2024. Cinquantaquattro anni di carcere perché Horst, poco più che ventenne, dopo diversi anni di lavoro in fabbrica aveva pensato di rispondere ai suoi bisogni sociali parafrasando Bertold Brecht e affermando praticamente che …”é più criminale fondare una banca che rapinarla”. Horst aveva compiuto una serie di rapine in giro per le banche del nord Italia e si era conquistato gli onori della cronaca come “bandito cortese” e “ladro gentiluomo”. Sì perché Horst non aveva né la stoffa, né la testa del criminale incallito così come vogliono gli stereotipi borghesi e benpensanti. Si presentava in una banca con una pistola giocattolo, chiedeva gentilmente che gli fossero consegnati i contanti che stavano nel cassetto e se ne andava senza spargere né terrore né violenza. Horst aborriva la violenza perché considerava gli atti violenti come atti autoritari, di disprezzo e sopraffazione nei confronti di altri lavoratori come lui che, date le circostanza, stavano semplicemente dall’altra parte del banco.

Chi non conosce la vicenda si chiederà a questo punto come mai, per delitti contro il patrimonio, una persona per quanto disgraziata ed invisa ai potenti debba farsi 50 e più anni di carcere. Il fatto é che Horst quando fu preso (e tutte le volte che fu arrestato non ebbe mai gesti di resistenza per non dover ingenerare situazioni violente) non recitò la parte contrita del condannato ma anzi denunciò a gran voce la natura di classe della giustizia statale, il suo carattere fascista ed autoritario tanto da beccarsi già nella prima sentenza una aggravante per oltraggio alla corte. Da allora la lunga collezione di condanne fu determinata dal fatto che Horst non si rassegnava a passare la sua vita in carcere, non voleva sottostare ai tempi ed ai riti della giustizia statale e borghese. Prima dei fatti raccontati in Ormai é fatta, aveva portato a termine 2 evasioni. Nel luglio del ’73 era agli sgoccioli della sua pena detentiva eppure quando gli si presentò l’occasione tentò nuovamente la fuga. Il film richiama sommariamente il clima ed il contesto nel quale i fatti si svolsero e questa mia ricostruzione, lungi dal voler essere reducistica, serve a tagliare l’oblio con il quale la storiografia ufficiale ha voluto nascondere quegli anni di sovversione e speranze rivoluzionarie. Nelle carceri della Repubblica si manifestavano spesso sommosse contro la detenzione, il regime carcerario e la società autoritaria. Horst era uno dei protagonisti. Nelle scuole, nelle fabbriche e nei quartieri la sovversione sociale sembrava allo stesso potere incontenibile. Horst ebbe la disgrazia di imbattersi nel famigerato generale Dalla Chiesa e nelle sue costituende bande di assassini e divenne la vittima sacrificale da immolare sull’altare della supremazia dello stato. Come il film, in parte ricostruisce, la ferocia dei carabinieri fu al di sopra di ogni concepibile atrocità che i militari possano commettere. Solo il caso (e forse il rimorso del magistrato per essere stato complice della bravata di Dalla Chiesa) fece sì che Horst potesse salvare la pelle non senza una difficilissima e dolorosissima serie di operazioni chirurgiche. Ancora oggi porta nel suo corpo schegge del piombo sparatogli dai carabinieri dei corpi speciali.

Dal luglio del ’73 quando oltrepassò il cancello del carcere per pochi istanti, Horst tornò fuori solo verso la fine del 1988, in licenza per prendere visione di una possibile collocazione lavorativa in regime di semilibertà. Fu allora che ebbi il piacere di incontrarlo in una cena fra compagni bolognesi alla trattoria da Vito. Anche allora, ad un passo dall’uscita dal portone del carcere dopo l’espiazione della pena, Horst decise che la sua libertà era più importante di tutte le convenzioni e di tutte le convenienze e si diede “alla macchia”. Lo arrestarono circa un anno dopo a Roma con titoloni sulla stampa perché, a detta delle veline questurinesche, era stato catturato un pericoloso latitante all’interno di un covo di una pericolosa organizzazione terroristica anarchica. Da allora 10 anni sono passati e per Horst ancora é la galera la condizione della normalità di questa società.

Per la libertà di Horst Fantazzini si sono espresse molte petizioni, si sono realizzate molte manifestazioni. Anche la visione di questo film é, in qualche modo, un gesto di solidarietà nei suoi confronti ed una manifestazione di protesta contro il sistema carcerario. Il mio é quindi un invito ad andarlo a vedere, a fare sì che rimanga nelle sale cinematografiche, sulle locandine pubblicitarie, nelle recensioni giornalistiche il più a lungo possibile.

Una visione che per molti potrà sembrare banale ed in parte lo é così come improbabile é la macchietta di Alfonso (Libero) Fantazzini disegnata da Francesco Guccini che ne interpreta un’apparizione intempestiva quanto ridicola. Alfonso Fantazzini, padre di Horst, assieme alla Maria Zazzi, madre putativa di Horst, sono state fra le più limpide, determinate e lucide figure dell’anarchismo bolognese del ‘900. Un giorno o l’altro vi tedierò con la loro storia. Così come della storia di Horst né il libro né il film dicono tutto quel che c’è da sapere ma, Ormai é fatta.

 

Nato ad Altenkessel (regione della Saar, Germania) il 4 marzo 1939, da Alfonso “Libero” Fantazzini, partigiano anarchico bolognese, muratore, e Bertha Heinz, operaia.

Horst significa “rifugio” e questo nome è scelto dal padre, rifugiato politico.

Il padre Libero riesce ad occuparsi a malapena della sua famiglia, costretto in una condizione di eterno latitante, ricercato delle polizie fasciste di mezza Europa, Gestapo compresa.

Trascorre i primi anni della sua vita nella Germania martoriata dalla guerra, nel 1945 il suo ritorno in Italia. Bologna è stata distrutta dai bombardamenti. Porterà sempre dentro di sé il ricordo della distruzione.

Tenta un riscatto nel pugilato, e nel ciclismo che pratica con ottimi risultati, vincendo gare regionali.

A causa delle condizioni difficili che attraversa la sua famiglia, abbandona gli studi per lavorare giovanissimo, come fattorino, operaio, impiegato. Ma la misera paga non lo convince.

A 18 anni si sposa con Anna, che è incinta del primo figlio, per garantire alla sua giovane famigliola condizioni dignitose, compie la sua prima rapina con una pistola giocattolo all’ufficio postale di Corticella. Viene arrestato sull’automobile rubata, gli vengono inflitti 5 anni di carcere. E’ il 1960.

Nel 1965 durante una licenza concepisce il secondo figlio, ma a causa delle avverse condizioni, Anna che soffre di grave esaurimento nervoso lo lascia per tornare nella sua città, Napoli, dove viene ricoverata per cure.

Horst di nuovo in libertà definitiva lavora per qualche tempo come pizzaiolo e barista, ma torna a rapinare le banche: è la volta di una banca di Genova. Non riesce, perché viene arrestato prima di compiere il colpo.

Trascorre qualche mese in galera, durante i quali apprende che la madre è morta per infarto, ma non gli consentono di andare al suo funerale. Horst decide di evadere per la prima volta usando il più classico dei modi: lenzuola annodate.

E’ il 1967, resosi latitante, compie numerosi colpi nel nord Italia durante uno dei quali per una galanteria alla cassiera svenuta (gli inviò un mazzo di rose) diventa “il bandito gentile”; poi decide di espatriare rifugiandosi dai parenti in Germania.

Tra il 1967 e il 1968 scrive lettere di scherno alla polizia italiana, è “la primula rossa”. Risiede a Mannheim in una lussuosa villa con la sua giovane compagna, dandy raffinato, elegantissimo, alla guida di macchine sportive, fa la spola tra Francia, Germania e Italia incassando parecchi milioni che porta con sé nei voli in prima classe.

Nel 1968 è di nuovo arrestato, mentre cerca di rapinare una banca di Saint Tropez, trascorre alcuni anni torturato e vessato nelle galere francesi (dove vige ancora la pena di morte in alcuni casi per sedare le rivolte più violente), tentando ancora di evadere persino con le catene ai polsi. Da allora le porte della gabbia si chiudono definitivamente: da quel momento non avrà mai più la libertà definitiva.

Horst continua a sfottere i giudici “gli ermellini da guardia” durante le udienze, e per questo aggiunge altri anni alla sua carcerazione.

Nel 1972 per interessamento dell’avvocato Leone viene estradato in Italia ritrovando Anna e i suoi figli, nel 1973 tenta di evadere dal carcere di Fossano (Cuneo) ferendo tre guardie e tenendone sotto tiro altre due, ma è un bluff: in realtà ha soltanto una Mauser di piccolo calibro, con pochissimi colpi in canna dei quali solo due rimasti dopo il ferimento degli sbirri. Invece per lui si scatena l’inferno: uscendo dal carcere con gli ostaggi, prima di riuscire a salire sull’agognata Giulietta che lo porterà fuori dalle mura, viene aggredito dai cani lupo e ferito quasi mortalmente con il fuoco dei tiratori scelti, si salva per miracolo. Rimane sordo dall’orecchio destro, e probabilmente con micro-lesioni tali da causare l’aneurisma che gli risulterà fatale.

Viene operato, ma non gli estraggono tutti i proiettili, che si porterà in corpo per molti anni in una miriade di schegge e scheggine. Inizia un calvario fra i penitenziari di tutta Italia, Horst viene tenuto in infermerie poi dimesso e spedito in un altro penitenziario, poi in un altro ancora, senza cure adeguate.

Un anno dopo a Sulmona, tenta di evadere di nuovo. Salta il muro di cinta di cinque metri, coi piedi fratturati si trascina nella chiesa più vicina sequestrando il prete, per chiedere in cambio di essere operato.

Nel 1975 Giorgio Bertani pubblica “Ormai è fatta”, cronaca di un’evasione (recentemente ripubblicato da El Paso – Nautilus) resoconto minuzioso e lucidissimo di quel 23 luglio 1973 a Fossano.

Libero Fantazzini occupa la Torre degli Asinelli per protestare contro lo Stato che imprigiona i compagni.

Sono anni intensi, di solidarietà coi prigionieri, gli anarchici si mobilitano per Fantazzini. La sua compagna di allora Valeria Vecchi viene condannata a 7 anni di carcere per avere tentato di farlo evadere. Anche la tennista anarchica Monica Giorgi è al centro di una feroce repressione, accusata di far parte di Azione Rivoluzionaria.

A metà degli anni ’70 grazie al generale Dalla Chiesa inaugura il bunker Fornelli dell’Asinara, dove vengono spediti tutti i ribelli, comunisti e anarchici. Inizia una collaborazione con tutti i compagni anche delle Brigate Rosse e di Prima Linea, basata sulla solidarietà di prigionieri nella situazione contingente, che vede le rivolte contro il regime inumano all’ordine del giorno. La leggenda poi riportata dai giornali, che Horst sarebbe stato simpatizzante delle Brigate Rosse è falsa: si avvicinò ai suoi militanti come uomo, mai sposò la loro causa, ritenendosi sempre anarchico individualista.

Nel 1978 dopo il feroce pestaggio della polizia che lo ridusse quasi in coma, fa uscire clandestinamente e contro il parere delle Brigate Rosse il documento sulla rivolta dell’Asinara, poi pubblicato dalle edizioni “Anarchismo” col titolo: “L’ipotesi armata”.

Seguono anni di carcere duro e di rivolte con le “moka esplosive” che fanno breccia nei muri, nei penitenziari di tutta Italia, da Trani a Termini Imerese, da Palmi a Varese, carcere reso più “morbido” solo nel 1985 con l’abolizione del regime speciale (simile al 41 bis odierno).

Nel 1985 suo figlio Loris viene incarcerato per quasi due anni sulla parola di un pentito, il grande vecchio Libero Fantazzini non regge il colpo e muore (la crudeltà dell’apparato repressivo non consente a Horst di andare al suo funerale); la sua compagna Maria Zazzi, anarchica piacentina combattente della guerra di Spagna, lo seguirà nel 1993.

Nel 1989 Horst che non ha mai perso il coraggio e la voglia di vivere sta per laurearsi in Letteratura presso la facoltà di Bologna, ma l’antico amore per la fuga vince quello sui libri e lo induce ad approfittare di una licenza per allontanarsi. Resterà latitante per un anno compiendo altre rapine, ripreso all’inizio del 1991 sul litorale romano (nonostante l’arresto sia avvenuto senza resistenza da parte sua, viene dipinto dai giornali come pericoloso terrorista) e trasferito nel carcere di Alessandria, qui rimarrà per dieci anni, lavorando al computer che si è guadagnato nel 1993 coi soldi del primo premio per un concorso letterario. Lavora come grafico pubblicitario per il Comune di Alessandria.

Di nuovo a Bologna, per merito di un film: “Ormai è fatta” per la regia di Enzo Monteleone, liberamente tratto dal suo libro, di cui Horst approva entusiasticamente la sceneggiatura, e di una campagna per la sua liberazione messa in atto dalla sua ultima compagna, Pralina e che coinvolge tutto il movimento anarchico. Il suo avvocato Luca Petrucci inoltra la richiesta di grazia. Ci sono due interrogazioni parlamentari. Gli vengono concesse le prime licenze. Poi la semilibertà. Abita nella casa in via Roncrio che costruì suo padre Libero. Difficile trovargli un lavoro, poiché considerato un “soggetto poco affidabile” anche dai suoi stessi compagni di fede che lo guardano con simpatia ma anche con diffidenza. Ad ogni modo nel 2001 per interessamento dei “compagni comunisti” lavora come magazziniere presso Altercoop, che si occupa di carta riciclata.

Il 19 dicembre 2001 tenta di rapinare la sua ultima banca, Agricola e Mantovana, insieme al suo complice Carlo Tesseri, suo “fratello” e amico di sempre. Viene preso prima di entrare in banca mentre tenta una disperata fuga in bicicletta, perquisita la sua abitazione, sbattuto in carcere, alla sua compagna -perché non sono sposati ufficialmente- non viene dato il permesso di raggiungerlo a colloquio.

Nonostante non sia avvenuto alcun pestaggio (i lividi sul corpo sono causati dalla sua fragilità capillare) le condizioni di salute aggravate dallo stress dell’arresto lo portano rapidamente alla morte, sopraggiunta nell’infermeria della Dozza, il 24 dicembre alle 19.20 per “aneurisma aortico addominale”.

Al suo avvocato, come sue ultime volontà, dice che vuole “lasciare la casa a Pralina”.

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BIBLIOGRAFIA, INTERVISTE e FILMOGRAFIA ESSENZIALE

“Ormai è fatta!” cronaca di un’evasione, ed. Bertani Verona, 1976.

“L’ipotesi armata”, capitolo “La settimana rossa. I prigionieri del campo di concentramento dell’Asinara”, ed. Anarchismo, 1979.

Scritti di Horst che denunciano la situazione carceraria vengono pubblicati su “Anarchismo”, “Rivista Anarchica” e i giornali di controinformazione del Centro di Documentazione di Pistoia, negli anni ’70 e ’80.

Inserto di “Liberarsi dalla necessità del carcere”: testo integrale dell’intervista a Horst Fantazzini realizzata per il Maurizio Costanzo Show, a cura del Comitato per la liberazione di Horst Fantazzini – 1999.

Interviste per il settimanale “Boxer” a cura di Geraldina Colotti, 1999.

“Vita di un ladro gentile”, articolo di Costantino Cossu, “Diario” – 1999.

Film “Ormai è fatta” regia di Enzo Monteleone, con Stefano Accorsi, distribuito dalla Columbia Italia – 1999.

Mostra di arte postale internazionale itinerante “Bandito in Bicicletta”, 108 mail-artisti di tutto il mondo dedicano un’opera in memoria di Horst Fantazzini, anarchico ciclista.

“La rapina in banca. Storia. Teoria. Pratica.” saggio sulla rapina in banca, da Bonnie & Clyde a Horst Fantazzini, a cura di Klaus Schoenberg, DeriveApprodi – 2003.

“L’ultimo colpo di Horst Fantazzini” di Patrizia “Pralina” Diamante, romanzo biografico degli ultimi anni di Horst Fantazzini (contiene anche immagini inedite e bellissimi racconti di Horst) – Stampa Alternativa, 2003.

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Citava Bertold Brecht: “E’ più criminale fondare una banca che rapinarla”.

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E John Belushi: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”.

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Ricordava l’adagio pellerossa: “Prima di giudicare un uomo, fate 5.000 miglia nei suoi mocassini”.

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Degli intellettuali diceva: “Diffidare sempre degli intellettuali professionisti: tendono ragnatele pesanti come catene, sui sogni degli uomini liberi”.

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Dei giornalisti diceva: “Mio padre ne prese a schiaffi uno in Piazza Maggiore, ma non si può essere sempre così categorici. A quei pochi coraggiosi che non raccontano bugie, io parlo volentieri”.

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Delle carceri diceva: “Esistono tante carceri, il carcere scuola, il carcere fabbrica, il carcere famiglia: sono le carceri del nostro vivere quotidiano, e tutte hanno lo scopo di plagiarci la vita, di rubarci l’esistenza”.

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Dell’agire diceva: “Distruggere è facile, può essere anche divertente. Ma costruire è mille volte più difficile, per costruire ci vuole molta più intelligenza, molta più forza”.

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Della violenza diceva: “Ho sparato una sola volta in vita mia, ho fatto bene, ma sono stato troppo male. Sparare a un essere umano, vederlo cadere in ginocchio, è il gesto autoritario per eccellenza”.

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Dell’amore diceva: “La vita senz’amore è un deserto di ghiaccio” e ancora: “Se non avessi passato la vita in carcere, l’avrei passata a fare l’amore. Forse è per questo che mi hanno rinchiuso per tutto questo tempo”.

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Dell’arte diceva: “La prima cosa che ho fatto da latitante in Francia, sono andato a vedere il Louvre. Io amo la Gioconda. Spero che tu non sia troppo gelosa”.

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Horst è anarchico per DNA, dal padre Libero, dal nonno Raffaele socialista libertario.

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Horst non ha mai parlato di odio, ma di amore. La parola odio non esisteva nel suo vocabolario.

Sempre in fondo alle lettere scriveva: “Con tutto il mio amore per la vita e per la libertà”.

E’ questo sogno di libertà che l’ha sostenuto per tutta la sua vita.

Una libertà che non si può imporre, non si può insegnare, non si può indottrinare, non si può usare come ricatto morale, ma si può solo vivere, condividendola con le persone che liberamente scelgono di non lasciarsi intrappolare.

Perciò non aveva la presunzione di porsi come avanguardia di chicchessia. Non aveva la violenza parolaia di un comiziante, non le velleità di un leader clandestino e neanche la boria di uno storico dell’anarchismo. Non amava riesumare il passato. Né frequentava teorie astratte o cervellotiche analisi politiche, lasciando la parola agli specialisti delle teorie che non vogliono scendere in campo.

Horst non giudicava nessuno. Non si sentiva un gradino più in alto degli altri.

Non conosceva la dicotomia “anarchico o sbirro”, ma valutava le persone unicamente in base ai loro comportamenti e al loro agire quotidiano. Chiamava “compagno” chi stava a sinistra, senza distinzioni e senza pudori. Era rispettoso delle persone, nelle quali riconosceva il fratello e la sorella in base all’affinità.

Al movimento anarchico rimproverava d’essersi fossilizzato “nei soliti discorsi”.

Si è sempre definito anarchico. Ma liberamente anarchico, senza definizioni.

 http://www.anarchaos.org/2008/12/24-dicembre-2001-e-morto-in-galera-horst-fantazzini/