Rivoluzione sociale o dittatura militare

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André Prudhommeaux
I nostri tiranni si atteggiano a liberatori. La parola «libertà» non ha dunque perduto il suo valore emotivo, nonostante le scrollate di spalle degli scettici, le vuote dichiarazioni dei retori e malgrado tutti i delitti liberticidi commessi, fino sui suoi altari in onore della dea. Gli stessi che si sono vantati di farla finita con questa «grue metafisica», di torcere il collo a questa «sgualdrina grondante sangue» o perfino di «calpestare il suo cadavere putrefatto» sono ben felici, quando l’occasione si presenta, di chiamarla alla riscossa, o per lo meno di agitare a loro volta, per i bisogni della loro cattiva causa, il suo grande nome religioso, «libertà nazionale», «libertà di Stato», «libertà di culto», «libertà di lavoro», «libertà dei mari»; «libertà» di pensare in mucchio, «libertà di sfruttare», «libertà d’opprimere», e per conseguenza «libertà» di non essere liberi (perché la bestia è schiava del gregge e il padrone è prigioniero dello schiavo)!… qual magnifico programma per un partito, per tutti i partiti, per i partiti delle libertà, che tutte si riassumono così bene nel motto: «piazza libertà» cioè «levati di là perché mi ci metta io».

Ma la nostra libertà, la libertà di essere diversi? E la vera, la grande, quella che trova nella «libertà» degli altri la sua conferma, la sua estensione, non il suo limite? Chi la difenderà?
Che fare, di fronte a questo brulichio minaccioso di «libertà» al passo di parata che si spalleggiano, si raggiungono e si organizzano a poco a poco in un formidabile strumento di dittatura militare?… Senza dubbio, costruire un altro apparato equivalente, fatto di «libertà» difensive e di buoni sentimenti del senso di obbedienza alla legge e di fedeltà necessaria verso il governo o il capo che è responsabile della situazione.
Questo metodo di opporre la «libertà» difensiva di uno Stato o d’un partito alla «libertà» offensiva di un altro, la buona dittatura militare alla cattiva, i buoni sentimenti ai cattivi… questo metodo, dunque – generalmente praticato dall’uno o dall’altro avversario e qualche volta simultaneamente da tutti e due – è bastato nella media dei casi a prevenire la guerra, o a mettervi fine in un modo più o meno vantaggioso per i «difensori».
Ma non è stato sufficiente nei casi «estremi», per esempio quando la sproporzione di forze è molto grande.
Ed esso ha ancora un altro inconveniente: di essere inapplicabile alla difesa di un popolo in stato di conquista delle sue libertà – in stato di rivoluzione, di preparazione rivoluzionaria od anche di ricostruzione post-rivoluzionaria della società.
Se la difesa di un popolo non fosse possibile che per la via dello Stato o per via militare, nessuna rivoluzione liberatrice sarebbe possibile. Ogni periodo di rivoluzione corrisponde, è più che evidente, ad un periodo di debolezza e d’instabilità di poteri; lo Stato è allora come un casolare mezzo demolito o costruito a metà che il popolo ha lasciato per vivere all’aperto, sotto tenda o al chiaro di luna. Se per questo popolo sono necessarie le mura della fortezza dello Stato per difendersi contro un’aggressione esterna, la partita è perduta in anticipo. Se gli sono necessarie le virtù borghesi di ordine, di ubbidienza, di puntualità, di sicurezza della proprietà e di fedeltà quasi feudali che hanno la forza del militarismo difensivo, rischia fortemente di non trovare in se stesso la sorgente di tante grandezze.
Mettiamoci, dunque, nella situazione di un popolo più avanzato degli altri sul cammino della libertà. Di un popolo troppo progredito per essere lasciato in pace. Ed ammettiamo senz’altro che il suo territorio sia invaso senza che lo Stato nazionale o le sue armate abbiano potuto, saputo e voluto offrire la resistenza necessaria. Supponiamo uno Stato di intensa lotta di classe, come accade quasi sempre nei periodi in cui «tutto si muove» e in cui il monopolio di attività del potere centrale è intaccato ed in cui le forze materiali e morali che incarnava hanno fatto ritorno verso i loro luoghi di origine: gli individui e le masse.
Le armate nemiche sono padrone dei principali centri politici; dei principali mezzi di comunicazione. Esse hanno cessato di avere per superficie il contatto dei fronti, ed il loro dispositivo è ora quello di una forza di polizia che stende la sua rete su tutto ciò che l’immensità della conquista suppone di avere d’ordine da mantenere, di sabotaggi da evitare, di trasporti da assicurare, di riposo da difendere al contatto immediato ed onnipresente del «nemico». Non c’è bisogno di dire che questa nuova situazione necessita di forze e di vigilanze tanto più grandi quanto meno esistono, di fronte all’occupante, dei poteri regolari riconosciuti dal popolo occupato responsabile della tranquillità pubblica. È, insomma, l’attività quotidiana di milioni d’uomini che bisogna sorvegliare direttamente – milioni di civili, di donne e di fanciulli stranieri dei quali la lingua, i costumi, gli antecedenti, le opinioni, lo stesso stato civile, sfuggono poco o tanto al controllo dell’armata di occupazione anche meglio attrezzata.
Presto o tardi incominciano le difficoltà. Bisogna vivere sul paese, farlo produrre, sfruttarlo economicamente.
Bisogna difenderlo. Sì, bisogna difendere il territorio malconquistato contro l’intervento di potenze «conservatrici» che giustamente si allarmano per la rottura dell’equilibrio mondiale e che non si daranno pace finché l’equilibrio non sarà ristabilito ed anche contro l’intervento di potenze di «avanguardia» che non si lascerebbero sfuggire un’occasione per reclamare la «loro parte» e per servirsi, se è il caso, senza preavviso.
Tutti questi elementi agiscono ora contro il vincitore. E se ci sono parecchi vincitori, le loro controversie assorbono tante forze quanto ne richiederebbero le misure di precauzione di un solo «vincitore» contro parecchi «vinti».
Ma tutto ciò è niente in confronto alle difficoltà «d’ordine interno» causate dai nuovi governati.
Anche limitandosi ad una non-cooperazione puramente passiva, questi milioni di uomini il cui pensiero è incontrollabile occupano l’occupante in un modo molto più assorbente, più demoralizzante per lui di quello di un’armata pronta per la battaglia. E se il minimo sintomo di rivolta aperta si produce, la sovraeccitazione delle due parti condurrà rapidamente ad uno stato di lotta civile, di vendetta permanente, di «guerra al coltello» che alimenterà tutte le cattive passioni: la paura, la collera, l’avarizia, l’invidia, l’orgoglio, la lussuria e la ingordigia. (Si sa che le cattive passioni sono particolarmente più potenti dei buoni sentimenti). Nessuna armata, nessuna disciplina, nessun sistema di governo potrebbero resistere alla lunga a questo scatenamento di forze cieche, né soprattutto all’esplosione di disperazione e di disgusto che esse provocano alla fine.
Tutto ciò si produrrà presto o tardi, ma sempre a una condizione, che il popolo occupato non sia neutralizzato dal rispetto dell’autorità nazionale, interposto tra se stesso e l’avversario; che non sia diviso dai privilegi di cui questa autorità sarebbe la custode; che non sia corrotto in parte dall’unione dei proprietari indigeni con gli occupanti stranieri nel comune interesse di mantenere l’ordine!
Una tale «unanimità» del popolo, bisogna confessarlo, è difficilmente realizzabile nella società borghese. Nel seno di una popolazione interamente composta da contadini poveri, operai agricoli, o proletariato industriale, le prove comuni e l’impronta dell’ambiente sociale creano più facilmente la perfetta coesione degli interessi. Ma non c’è una esperienza collettiva il cui valore domini su tutte le altre e possa essere realizzata sotto tutti i climi?
Questa esperienza non è la «terra bruciata» opposta dai contadini russi e spagnoli alle invasioni napoleoniche, non è neppure lo sciopero generale totale dei proletari della Ruhr, né la rottura delle dighe come in Olanda, né l’insurrezione vandeana organizzata da un governo di emigrati. È la totale dimissione, volontaria e forzata, dell’apparato governativo, senza armistizi, quindi «senza pace e senza guerra»; senza zone libere che dividano il paese in due, senza consegna d’archivi, né trasferimenti di forze di polizia (non bruciando le terre, bruceremo le uniformi e le carte).
Che cosa si proponeva Bakunin nel suo opuscolo Dittatura militare o Rivoluzione sociale? Semplicemente questo. Di dimostrare con la parola (dopo aver tentato di dimostrarlo con i fatti) che il solo programma applicabile alla difesa del popolo e del territorio francese in balìa dell’invasione dopo il crollo delle armate e del regime di Napoleone III, è un programma di «anarchia rivoluzionaria».
Senza governo! Per qualcuno significherebbe dare all’avversario un ostaggio ed ai francesi un’occasione per rifugiarsi nell’irresponsabilità…
Senza armata regolare e professionale! Quanto rimane di sano dopo la sconfitta ed il tradimento dei bonapartisti, deve raggiungere le milizie del popolo, la guerilla dei franchi tiratori e dei partigiani!
Senza garanzie legali della proprietà! I borghesi francesi, dice Bakunin, sono pronti a patteggiare con il conquistatore per assicurare la sicurezza dei loro beni; bisogna togliere loro in anticipo questa occasione di peccare; bisogna annientare le basi legali del privilegio economico che fa di una classe l’arbitra dei destini del paese; bisogna scalzare alla radice le profonde «ragioni di essere» dello Stato, arbitro dei privilegi. Lo Stato non è fallito nella sua parte di protettore della comunità nazionale e bisogna ancora mantenerlo per il solo piacere di conservare al capitale il suo vecchio cane da guardia?
Brevemente – è venuto il momento di realizzare tra francesi quella uguaglianza patriottica che farà di loro (come contadini spagnoli o russi durante le guerre napoleoniche) una «massa» socialmente omogenea alla resistenza all’invasore!
— E basta?
— No. Bisogna ancora «animare» questa massa di una volontà e d’una speranza positive; interessare alla lotta l’ultimo dei contadini o degli operai francesi dandogli in pasto, nella misura della sua audacia e della sua iniziativa, il possesso immediato – garantito dalle sole sue forze e da quelle dei suoi pari – di una particella della ricchezza, e della potenza nazionale – un’arma, del pane, della terra…
A queste condizioni soltanto la potenza reazionaria dell’armata e dello Stato prussiano sarà spezzata, e la Germania, liberata a sua volta dei suoi Junker e dei suoi fabbricanti di cannoni cesserà d’essere un pericolo.
Che resterà, infatti, del militarismo caro ai Krupp ed agli Holenzollern? Una massa disorientata di contadini e di operai disgregata dalla morte dei suoi ufficiali e gendarmi spinta verso la terra natale e che si porta dietro i germi della rivoluzione agraria, associata questa volta alla rivoluzione proletaria.
Il servizio reso da Bismarck alla Francia sbarazzandola di Napoleone, il Piccolo, sarà così contraccambiato, conclude Bakunin.
Questa idea di trasformare una guerra «fratricida» in liberazione reciproca non l’aveva abbandonato dopo il colpo di tuono del dispaccio di Hems.
All’indomani di Sedan, Bakunin scriveva in francese un frammento di proclama, La speranza dei Popoli, di cui ecco il principio:
«I tedeschi hanno reso un immenso servizio ai Francesi. Hanno distrutto la sua armata.
L’armata francese! Questo strumento così terribile del dispotismo imperiale, quest’unica ragione d’essere dei Bonaparte! Finché esisteva, con le sue baionette fratricide, non c’era salvezza per il popolo francese. Avrebbero potuto esserci in Francia dei pronunciamenti come in Spagna – delle rivoluzioni militari – ma mai la Libertà. Parigi, Lione ed altre città della Francia lo sanno bene.
Oggi, quest’immensa armata, con la sua formidabile organizzazione, non esiste più. La Francia può essere libera. Essa lo sarà grazie ai nostri fratelli tedeschi.
Ma, buonazione per buonazione, ora spetta al popolo francese rendere lo stesso servizio al popolo di Germania. Poveri tedeschi, se le loro armate ritornassero trionfanti in Germania! Perderebbero ogni speranza di progresso e di libertà, almeno per cinquanta anni. Immaginiamo questa orda di schiavi, disciplinati e condotti da baroni pomeraniani!…».
Questo era diretto, bisogna notare, agli operai francesi e in piena guerra. D’altra parte lo spirito che vive in queste poche linee si riconosce bene. Non contiene né sciovinismo, né disfattismo. È lo spirito della Comune di Parigi.
Un rivoluzionario non poteva accontentarsi nel 1870-71 di scegliere tra Bazaine e Bismarck. Tuttavia lo storiografo e discepolo di Bakunin, Max Nettlau, non vedeva nel patriottismo anarchico e antimilitarista del «ribelle indiavolato» nei giorni neri del 1870 che uno sforzo personale inefficace. Sarebbe una soluzione esclusivamente soggettiva tendente a conciliare le passioni «contraddittorie» che si scatenavano nell’anima di Bakunin. O piuttosto a rivestire la sua parzialità istintiva per la Francia, con un poco d’ideale socialista.
«In realtà» dice Nettlau,«Bakunin non poteva che fare l’una o l’altra cosa: tentativi di rivoluzione o reclutamento patriottico per la guerra, sotto qualsiasi nome».
Tutta l’autorità morale e scientifica di Nettlau non saprebbe qui convincerci. L’attività di Bakunin nel 1870-71, come più tardi quella di un Makhno e di un Durruti, sfugge al contrario vittoriosamente al dilemma «guerra o rivoluzione» secondo cui ogni rivoluzione è praticamente condannata allo schiacciamento senza resistenza, ed ogni guerra difensiva è mantenuta sul terreno dello status quo sociale e della dittatura militare.
La storia delle insurrezioni comunaliste francesi (di cui Bakunin resta il grande ispiratore), quella della Makhnovicina ukrainiana e quella della recente guerilla spagnola, ci pare che mostrino precisamente che la tattica «anarchica», che vede nei metodi insurrezionali i migliori atout della guerra difensiva e nella liberazione sociale il suo prezioso contenuto, costituisce una conquista di valore dell’internazionalismo rivoluzionario.
[1941]
http://www.finimondo.org/node/1352