La conquista dei municipi

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Se noi non ci inganniamo (e saremmo lieti di essere smentiti), tutti i giornali repubblicani intransigenti — quelli cioè che sfuggirono all’insidia del suffragio universale — stanno per cader vittima di una nuova insidia, la riforma amministrativa.
La scalata al Comune, la conquista del Municipio, ecco una formula ambigua, da esser messa accanto a quella della dittatura rivoluzionaria, della quale avremo quanto prima da occuparci.
Il Comune, il Municipio — dicono i repubblicani transigenti e intransigenti, gli pseudosocialisti e gli operai politicanti — è il centro naturale della vita popolare. Esso è come la casa del popolo. Impossessandoci del Comune, saremo in grado d’intimar la resa alla Borghesia e al Governo e debellarli.
È vero che il Comune si può riguardare come la casa dell’operaio. Non quello di oggi, beninteso, ma piuttosto quello di ieri e quello di domani.
Il Comune d’oggi è un anello della catena dello Stato, circondato da istituzioni autoritarie, sorvegliato da tribunali, poliziotti e Governo, oppresso da leggi e regolamenti e obbligato a muoversi in una data direzione, anzi trascinato dal meccanismo politico generale. Esso è come una di mille ruote ingrassata in una macchina colossale: attaccandovi ad esso, riuscirete a farvi trasportare dalla forza del motore meccanico, non a spezzare la macchina che è lo Stato.
Non è possibile trasformare questo Comune frammentario d’oggi nel Comune tipico d’un nuovo ordinamento sociale. Il Governo preme su di esso: dentro di esso, attorno ad esso si svolgono le influenze perniciose del proprietario, del grande elettore politico, dell’appaltatore, dell’affarista. Questi circonderanno il Comune e lo terranno allacciato: essi, o i loro rappresentanti, ne saranno i dominatori. Quelli che il popolo vi manderà a patrocinare i suoi interessi, vi resteranno a patrocinare gl’interessi dei ricchi, gl’interessi degli affaristi, che saranno gl’interessi loro propri. Imperocchè bisogna ficcarsi bene in mente che, almeno per il gran numero, l’interesse è la molla della condotta: gli eroi si contano ad unità.
Tutto sommato — ignoranza, corruttibilità, ambizione di elettori e di eletti, ingerenza governativa e mezzi di corruzione di cui dispone un Governo, intrighi e gare di partito, ecc. ecc. — è follia pura per il popolo che possa avere ai Comuni uomini non di altro solleciti che per il bene pubblico. Se un miracolo si dovesse aspettare, sarebbe più facile che avvenisse su cinquecento del Parlamento che sulle migliaia e migliaia di Consigli Comunali e provinciali. E fossero anche tutti i consiglieri comunali d’Italia socialisti convinti e anelanti di liberare il popolo dalla miseria e dalla schìavìtù e fossero pure tutti d’accordo e pronti a un’azione comune, che potrebbero fare senza andare contro le leggi dello Stato? Avrebbero essi la forza pubblica? Avrebbero almeno con sé i tribunali? Avrebbero le casse dello Stato?
No, tutti questi poteri effettivi non sono dati per elezione, ma sono riservati alla classe dominante. Il popolo si persuada che ad esso si permette soltanto di scegliere quelli che devono esercitare il potere delle chiacchiere, per suo svago.
Ora dunque a mille e mille consiglieri comunali rivoluzionari, che noi per colmo di assurdità supponiamo, non resterebbe che uscire dai Consigli comunali e combattere da semplici soldati della Rivoluzione. La loro posizione di consiglieri comunali non gioverebbe punto ad essi, anzi li scoprirebbe. Essi si sarebbero andati a costituire prigionieri dello Stato.
Ma via, non facciamo supposizioni assurde! I consiglieri d’un Comune diventano, pel fatto solo d’esser Consiglieri, conservatori almeno del Comune. Gli innovatori che si imbattono in essi, li trovano schierati dall’altra patte.
La rivoluzione nel Comune deve essere fatta non da quelli che vi si sono stabiliti, che vi si trovano comodamente alloggiati. La rivoluzione procede di fuori in dentro, e non di dentro in fuori.
Noi potremmo citare più d’un caso in cui repubblicani o socialisti sol perchè consiglieri effettivi o aspiranti hanno preso parte, di persona o nei giornali, contro il popolo levatosi a sommossa.
Così è e così dev’essere. La rivoluzione non è, come se la figurano taluni, una commedia a parti distribuite precedentemente fra vari artisti, imparata a memoria e poi recitata all’ora e secondo l’ordine prefissati. La rivoluzione non è nemmeno, come taluni ci vogliono dare a credere, l’ultimo termine d’una lunga catena d’ambizioni compiacentemente soddisfatte.
[La Questione Sociale, Firenze, anno II, n. 9 del 22 luglio 1888]