Per la critica del lavoro

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Günther Anders

 

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Per proletariato s’intendeva, cent’anni fa, quella massa di persone che dovevano vendere il loro tempo di lavoro e la loro forza di lavoro, e che non erano proprietari dei loro mezzi di produzione e della maggioranza dei loro prodotti. Oggi noi (anche quando, come salariati o stipendiati, possediamo un’automobile, un frigorifero, ecc.) siamo non proprietari in un senso molto più pauroso. Poiché non siamo proprietari dello scopo del nostro lavoro e degli effetti del nostro lavoro. Con ciò non voglio dire soltanto che, nel nostro lavoro, non vediamo davanti a noi il prodotto finito, la sua finalità e il suo impiego; ma che essi non possono e non devono interessarci in alcun modo.

Che si lavori in una fabbrica di dentifrici o in campo di sterminio o in un cantiere per l’installazione di missili atomici (in Turchia, a Okinawa, in Italia o a Cuba), è sempre proibito, o passa addirittura per ridicolo chiedersi se ciò che si è prodotto sia approvabile o riprovevole, e non ci viene più nemmeno in mente di chiedercelo. Poiché la grandezza delle industrie e la divisione del lavoro fanno sì che il prodotto finito e il suo impiego non balenino più nemmeno per un istante agli occhi dei lavoratori. Questa circostanza ci toglie perfino la libertà di chiedere. Lasciamo sempre la morale nel guardaroba della fabbrica, per indossarla di nuovo nel dopo lavoro. Che cosa significa questo?
Risposta: è lo scandalo più terribile della nostra vita odierna. Significa che c’è un settore, nella nostra vita odierna, che è universalmente considerato come “moralmente neutro”, come “terra di nessuna morale”, e, per dirla con le parole di Nietzsche, come “al di là del bene e del male”, e che anche noi abbiamo riconosciuto questo settore (chiamato lavoro) come “al di là del bene e del male”.
Ora è chiaro che noi lavorando, per esempio alla costruzione di missili, nello stesso tempo agiamo, operiamo, e che con questo nostro agire produciamo effetti e che questo vale per ogni lavoro. Eppure, eccezion fatta per alcuni medici e alcuni fisici, nessuno di noi si rende conto, nessuno è consapevole che il suo agire chiamato “lavoro” dovrebbe sottostare alla morale allo stesso modo in cui vi sottostanno i suoi rapporti coi vicini, anzi ancora di più, poiché il nostro lavoro può produrre conseguenze infinitamente più grandi e più terribili della nostra condotta quotidiana nell’ambito privato. Eppure (o, piuttosto, proprio per questo, perché siamo tentati di occuparcene) il lavoro è considerato come qualcosa che non olet, che non puzza in nessuna circostanza; che non puzza nemmeno quando rappresenta un contributo allo sterminio dell’umanità. C’è un motto forgiato in origine contro la nobiltà: “Il lavoro non disonora”. Il significato di questo motto è stato pervertito nel modo più pauroso poiché oggi serve a giustificare il lavoro in ciò che ha di più infame. E questo lavoro disonora di certo; e più che il furto di posate d’argento. Ma la vera infamia consiste nel fatto che la morale è relegata nella riserva della vita privata, nell’interesse di coloro che sono interessati alla produzione di prodotti moralmente inammissibili.
La nostra situazione è tanto più fatale in quanto oggi quasi ogni specie di attività umana può essere assimilata al genere di azione che si chiama “lavoro”. Anche l’assassinio ci può essere assegnato come lavoro, anche la liquidazione di bambini ci può essere imposta come un lavoro di sgombero delle immondizie. Anche voi sapete che gli impiegati nei campi di sterminio di Hitler si appellavano, con la miglior coscienza del mondo, al fatto che si erano limitati a lavorare, e a lavorare coscienziosamente; producevano cadaveri di massa, e perché questa produzione fosse necessaria e a che cosa servisse, chiedersi una cosa simile avrebbe significato (il lavoro moderno essendo fondato sulla divisione del lavoro) immischiarsi in un settore di competenza altrui, un’ingerenza che essi si guardavano bene dal compiere come “immorale”. Ma non dovete credere che questo caso sia un caso eccezionale e isolato. Ancora oggi la squadra che partecipò al bombardamento di Hiroshima definisce la sua azione come un job; e perfino Eatherly, l’uomo che ha capito che cosa gli hanno fatto fare, perché e a che scopo ci si è serviti di lui, ha adoperato ripetutamente quest’espressione, e io stesso l’ho udito parlare del suo job: tanto è divenuto normale, ormai, esprimere ogni e qualunque azione nella terminologia del lavoro. E nulla sarebbe più ingenuo che credere che Eichmann abbia rappresentato nel nostro tempo una mostruosa eccezione. Anzi, è vero il contrario: egli è stato il simbolo di tutti noi. E dal momento che siamo pronti a seguire in buona coscienza e coscienziosamente qualunque cosa, purché ci venga assegnata come “lavoro”, siamo tutti degli Eichmann; e siamo tenuti a essere degli Eichmann, poiché lo esige la morale attuale, che pretende da noi che riconosciamo il lavoro come qualcosa di “moralmente neutro”.
Cari amici, è cento anni che parliamo, e senza dubbio a ragione, del fatto che i mezzi di produzione non sono proprietà dei lavoratori. Ma il disinteresse che ci viene imposto per gli effetti del nostro lavoro è anch’esso una forma di espropriazione; poiché, essendo privati dell’interesse di sapere che cosa accade in seguito al nostro operare, siamo anche privati della nostra responsabilità e della nostra coscienza; queste non sono più nostre proprietà. E in questo senso siamo proletari.
Una critica del lavoro, oggi, non può limitarsi, come cento anni fa, a criticare come immorali i rapporti di proprietà e i profitti. Marx poteva ben farlo, perché all’epoca in cui viveva non aveva motivo e occasione di mettere in dubbio il valore dei mezzi di produzione come tali o il valore dei prodotti come tali. La situazione si è completamente trasformata. Ciò che oggi va soprattutto criticato (e che Marx criticherebbe di certo) è l’immoralità dei prodotti stessi. Poiché questi non hanno più nulla a che fare con la soddisfazione dei bisogni (e quindi con la libertà dalla miseria); ma anzi minacciano nel modo più terribile (indipendentemente dai rapporti di proprietà sotto cui vengono fabbricati) l’umanità intera. È inutile precisare da chi e a vantaggio di chi questi prodotti sono stati fabbricati e impiegati per la prima volta. Qui e per il momento ciò che importa è qualcosa d’altro: e cioè che noi, oggi, non dobbiamo limitarci a chiedere come e per chi e in quali condizioni di lavoro e di proprietà di debba fabbricare e produrre, ma se certi prodotti si debbano fabbricare, se sia lecito, a noi o ad altri, produrre certi prodotti. La critica marxiana, che si riferiva ai rapporti di proprietà dei mezzi di produzione, deve essere ampliata: ciò di cui abbiamo bisogno è una critica radicale di prodotti.
Ora, naturalmente, in un senso molto limitato, esiste già una critica dei prodotti. Ogni industriale che voglia reggere sul mercato, si chiede se il suo prodotto sia remunerativo. In molti Paesi esistono anche associazioni di compratori che esercitano questa critica per proteggere il consumatore dalla merce scadente. Ma questa critica non è mai radicale. A essere criticata è sempre e solo la qualità o la sorta del prodotto, ma non mai la sua esistenza. Questa critica radicale è il compito di coloro che hanno il coraggio di opporre resistenza: e questa, naturalmente, deve cominciare di fronte ai prodotti del terrore. Mentre i tecnici ingenuamente presi nella fede del progresso si chiedono: “Come dobbiamo fare per rendere ancora migliori, ancora più distruttivi i mezzi che garantiscono fin d’ora la distruzione totale?” (si parla già di over kill capacity), noi ci chiediamo nell’interesse del miglioramento dell’uomo: “Questi prodotti – buoni, migliori o cattivi – sono leciti, sono permessi?”.
E la risposta è no. E il suo no può realizzarsi solo come sciopero. Certo, è un tipo completamente nuovo di sciopero che si tratta di inventare. Poiché in questo sciopero – ripeto – non si tratta già di migliori salari o di migliori condizioni o della socializzazione dei mezzi di produzione, per quanto importanti possano essere queste tre esigenze. Ma si tratterebbe – e sarebbe la prima volta nella storia – di impedire la produzione di determinati prodotti. Ed è evidente che questo sciopero sarebbe insieme uno sciopero per il nostro risanamento morale; poiché con esso daremmo a noi stessi la prova che siamo tornati a capire che “lavorare” è “agire” e che ci rifiutiamo di avallare, sotto la copertura della parola “lavoro”, azioni immorali che, se non fossero travestite in questo modo, non ci sogneremmo mai di poter approvare o condividere.
Quei fisici che si sono rifiutati di partecipare alla preparazione scientifica delle armi atomiche, ci hanno preceduto col loro buon esempio. Sono entrati in sciopero, hanno capito che gli effetti del loro lavoro sono effetti di cui devono assumersi la responsabilità. In questo senso dobbiamo scioperare anche noi. Mostriamo che sappiamo fare lo stesso, e che noi che abbiamo già appreso la solidarietà possiamo scioperare con maggiore unità e concordia. Perché ci resti il futuro. Non solo il nostro futuro. E non solo il futuro dei nostri figli. Ma anche il futuro di coloro che oggi sono così ciechi da tentare di diffamarci come pericolosi perché ci opponiamo alla loro minaccia.
Cari amici! La Resistenza non avrebbe più compiti? I nostri compiti cominciano solo ora.

 

(Estratto da “Siamo tutti come Eichmann?”, gennaio 1963)