intervista a Horst Fantazzini (2001)

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Intervista a cura di Tiziana – del 2001

D. Qual è al momento la tua situazione giudiziaria e quando prevedi di poter uscire dal carcere almeno in semilibertà?

R. Al momento la mia scarcerazione dovrebbe verificarsi nel 2022, anno più o meno. Nella classificazione delle tipologie penso d’essere stato inserito nella categoria “dinosauri e tartarughe”. Credo che, più che di comitati di liberazione dell’area anarchica, di me dovrebbe interessarsi il WWF, sezione “specie in via d’estinzione… “.

Questa situazione assurda é venuta a determinarsi tramite l’applicazione, in modo restrittivo, del cosiddetto “cumulo giudico”, che funziona così: sono computate e sommate tutte le condanne e se il risultato é superiore ai 30 anni, che è la pena considerata massima, la condanna complessiva viene fissata in 30 anni. Nel mio caso, già a partire da cumuli precedenti fatti d’ufficio, i 30 anni venivano fatti decorrere dalla data dell’ultimo reato commesso. Così è stato anche per l’ultimo cumulo, fatto dopo il mio ultimo arresto nel `91. I 30 anni sono stati fatti decorrere dal 1990 e la mia scarcerazione fissata nel 2020. La successiva applicazione della “continuazione dei reati”, chiesta dal mio avvocato, migliorò leggermente la situazione. Poi, sono divenuti definitivi alcuni processi (rapina, detenzione d’armi, documenti falsi, ecc.) e la situazione, oggi, dovrebbe appunto essere quella di una scarcerazione ipotizzata nel 2022-24.

Appena sarà terminato il processo romano agli “anarchici cattivi” nel quale figuro imputato (presto ci saranno le ultime udienze), l’avvocato provvederà a chiedere l’applicazione di una ridefinizione complessiva della continuazione di tutte le mie condanne. Il risultato dipenderà dall’umore del giudice, dalla sua buona o cattiva digestione, dal comportamento della sua amante, dalle congiunzioni astrali e da altri fattori incontrollabili. Razionalità e buonsenso sono tassativamente esclusi dai luoghi in cui si riuniscono gli “ermellini da guardia” per decidere sulla vita ed il futuro degli uomini.

Per quanto riguarda la semilibertà o altri “benefici”, teoricamente potrei usufruirne a partire dal 3 aprile di quest’anno, cioè quando scadrà il mio ultimo periodo “d’osservazione trattamentale”.

D. Molte compagne e compagni ci hanno chiesto se ti consideravi anarchico anche prima di venire arrestato.

R. Questa é una bella domanda. Tu eri amica di Libero, mio padre, e mi hai incontrato fisicamente circa undici anni fa. È indubbio che io mi sia sempre definito anarchico e come tale mi sono rivendicato e mi rivendico processualmente. Ma questo non basta. L’essere anarchico comporta la capacità di conciliare il .proprio ideale con la propria vita e questo non e stato sempre il mio caso, specialmente quand’ero molto giovane. Mi definisco un anarchico individualista, un ribelle cosciente che spesso ha agito incoscientemente. All’età di quattordici anni ero già iscritto all’USI, che non so se ancora esiste. Nel 1965 ero presente al convegno preparatorio del congresso che si svolse a Bologna e tra i partecipanti c’era Armando Borghi, che tra penose polemiche fu estromesso dalla direzione d’Umanità Nova.

In quel periodo, con altri giovani, stavo per dare vita ad una Federazione Anarchica Giovanile, ma poi la mia vita si è quasi interamente annodata in carcere.

In circa trent’anni di carcere credo d’essermi sempre comportato coerentemente con un modo d’essere e sentirmi esistenzialmente anarchico.

Le mie amicizie e i miei amori hanno il DNA anarchico. I miei corrispondenti sono per la quasi totalità anarchici e spaziano tra un mitico ottantenne mantovano e una sbarbina anarchica bergamasca di diciotto anni (che tratto con affetto fraterno).

IO SONO IRRIMEDIABILMENTE E FIERAMENTE ANARCHICO.

D. Puoi parlare delle tue lotte durante la lunga detenzione? Nel film questo aspetto viene eluso.

R. Parlare di lotte in carcere oggi è come riesumare dolcemente ricordi da un sarcofago, tanto è il cambiamento verificatosi, negli ultimi quindici anni, del luogo e dei suoi disperati abitanti.

Dal sarcofago emergono i ritratti d’uomini ch’erano vivi ed orgogliosi ma che sono stati piegati, spezzati, dispersi. Uomini che rivendicavano con passione la loro dignità e cercavano senza mediazioni la loro libertà. Uomini che sono morti sui tetti durante le rivolte e che nessuno ricorda più. Uomini che, nell’incontro con i primi compagni incarcerati, avevano scoperto che la vita e la lotta possono avere significati più alti dei loro piccoli desideri ed egoismi.

La fine degli anni sessanta e tutti gli anni settanta sono stati stagioni di lotte che non si ripeteranno più. Carceri distrutte e gallerie verso la libertà.

Personalmente ho partecipato a decine di lotte piccole e grandi. Ho visto la distruzione della sezione speciale dell’Asinara, di quella di Nuoro e di quella di Trani e quelle lotte mi sono costate un “bonus” di oltre vent’anni in più da scontare.

Oggi il carcere è “pacificato” e l’aria che vi si respira è di pesante rassegnazione.

La “popolazione” è mutata radicalmente e la quasi totalità è data da tossicodipendenti e piccoli e medi spacciatori. Il loro problema prioritario è quello di continuare a trovare o continuare a spacciare le loro dosi quotidiane. Non vi sono quasi più compagni. Ad Alessandria ne ho lasciati tre. Qui non ve ne è nessuno. I mafiosi sono sotto la cappa del 41/bis, una riedizione di quello che per noi, anni fa, era l’art. 90, cioè un regolamento interno restrittivo all’interno d’un regolamento di per sé già stretto.

Oggi sono quasi tutti giovani e giovanissimi e il carcere non è altro che l’enorme contenitore di un disagio sociale che nessuno vuole o sa risolvere.

Non mi sono mai sentito così “straniero” in carcere. Resisto cercando d’estraniarmi da tutto quanto mi circonda, rifugiandomi nei miei libri e parlando con il mio computer.

Mi danno forza i rapporti con l’esterno e l’amore che ne ricevo. A’ da passà a nuttata, diceva il caro Eduardo.

Ecco, cari compagni, non posso fare altro che cercare di resistere, nell’attesa che si decida ad arrivare Godot. Qualcuno sa dove s’è incagliato?

D. Durante queste lotte hai dovuto scontrarti non solo con il potere carcerario ma anche con il “contropotere”. Vuoi raccontarci come è andata ?

R. Tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, le carceri erano piene di compagni. Le carceri speciali erano una decina: Cuneo, Novara, Fossombrone, Trani, Termini Imerese, Favignana, Pianosa, l’Asinara e Nuoro. Voghera per le compagne.

Poi c’erano sezioni speciali in quasi tutte le altre carceri. Per una decina d’anni, noi detenuti “differenziati” non abbiamo più avuto rapporti con gli altri detenuti. Era prassi tenerci in carceri il più possibile lontane da casa, per rendere estremamente difficoltosi i colloqui, che comunque venivano effettuati con vetri divisori e citofoni. La corrispondenza era sottoposta a censura. Non potevamo ricevere pacchi di viveri dall’esterno, era consentita solo la ricezione di libri ed indumenti. Non tutte le carceri speciali erano “specializzate” allo stesso modo: alcune, come Fossombrone e Cuneo, erano più “morbide” dell’Asinara o Novara.

Credo che allora noi fossimo trattati come cavie sulle quali si studiavano i comportamenti e le reazioni rispetto alle gradualità del “trattamento”, che spaziava dalle ore di socialità (spazi ed attività da convivere insieme durante alcune ore della giornata) all’isolamento duro e crudo dell’Asinara (due o tre per cella, sempre gli stessi, con periodiche rotazioni decise dal monarca dell’epoca, direttore Cardullo). Chiaramente, compagni inventati e ribelli venduti, vivevano in mezzo a noi, per un controllo più efficace, fatto di cui acquisimmo certezza più tardi.

Belushi diceva che quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare. Ed è vero.

È incredibile la creatività che l’uomo riesce a sprigionare nei momenti difficili. Il trattamento duro cementa il gruppo e dilata la solidarietà. Eravamo tutti uniti contro di “loro” ed inventavamo canali di comunicazioni incredibili per rompere l’isolamento fisico. All’Asinara, per mesi, gli occupanti di una cella non riuscivano a vedere gli occupanti delle celle adiacenti, ma tutte le celle comunicavano tra di loro.

Ci sarebbe da scrivere un libro su tutti gli accorgimenti da noi inventati per superare l’isolamento cui eravamo sottoposti, ma l’argomento, ora, è un altro.

Per preparare le lotte ed un’eventuale evasione era necessario darsi una rigida compartimentazione, nacquero così i CUC (Comitati Unitari di Campo). All’Asinara erano in maggioranza i brigatisti così i comitati, all’inizio espressione delle necessità e della situazione di noi tutti, divennero un organismo politico improntato al “centralismo democratico”, bisticcio lessicale tanto caro a nonno Lenin.

Dissi ai brigatisti che non avevo nulla in contrario a forme organizzative compartimentate e ristrette purché provvisorie e funzionali all’ottenimento di un risultato, ma se questi CUC divenivano organismi politici permanenti, non volevo farne parte. Avrei partecipato a tutte le lotte ma non alla loro gestione politica.

La prima lotta (distruzione dei citofoni ai colloqui e rifiuto di tutti i prigionieri di rientrare nelle loro celle) si concluse con il massacro di una settantina di noi. Io finii in coma e portato in elicottero all’ospedale dì Sassari. Il mio ricovero fu tenuto segreto e dopo due giorni fui riportato all’Asinara. La mia compagna di allora riuscì a sapere e divulgò la notizia ed il terzo giorno rimbalzò su tutti i mezzi d’informazione. Venne una delegazione dì parlamentari che poté constatare il massacro. Fu aperta un’inchiesta e la direzione dell’Asinara si trovò in grande difficoltà. Una settimana dopo distruggemmo le due sezioni speciali senza che le guardie osassero intervenire. Rese inagibili le sezioni, fummo provvisoriamente dislocati nelle varie diramazioni “normali” dell’isola, in attesa d’essere trasferiti altrove. Pochi giorni dopo queste lotte, riuscii a consegnare alla mia compagna un resoconto che fu tempestivamente pubblicato in un opuscolo dalle edizioni di “Anarchismo”. Questo mandò su tutte le furie i brigatisti ed i più beceri si divertivano a ricordare a noi anarchici Kronstadt e Barcellona.

Una mia “lettera aperta ai compagni esterni” fu pubblicata su tutti i giornali del movimento, che allora, nel 1978, era ancora vivo e vegeto. La polemica rimbalzò in tutte le carceri speciali dove, complessivamente, i brigatisti erano in minoranza e la maggioranza dei prigionieri si schierò dalla mia parte. Questa polemica, sommata ad una ormai evidente debolezza politica dei brigatisti (ricordate lo slogan del movimento “Né con le Brigate Rosse né con lo Stato!”?), sancì la fine dei CUC ed al suo posto nacquero i CUB (Comitati Unitari di Base) organismo “aperto” che per un po’ rappresentò tutti i prigionieri.

Anche “A rivista anarchica” pubblicò la mia lettera insieme ad una risposta di Curcio sotto il titolo “Anarchici e stalinisti”.

Fui contattato da varie parti politiche ed anche da organismi dello stato perché, partendo dalla polemica che mi aveva coinvolto, qualcuno intendeva usarmi per creare ulteriori divisioni tra i prigionieri. Ma non mi prestai a questo gioco. Appena l’Asinara fu ristrutturata, unico compagno tra quelli che parteciparono alla rivolta, vi fui rispedito da Palmi. Poi, dopo alcuni scontri con gli sbirri di là, finii a Nuoro, partecipando alla rivolta che anche là distrusse le sezioni speciali.

Ma ormai si era all’epilogo. La debolezza esterna dei compagni si ripercosse all’interno delle carceri. Iniziò la stagione dei “pentimenti” e delle “dissociazioni” di massa. Gli intellettuali che avevano giocato alla guerra, nuovi figliol prodighi, ritornarono nel loro elitario Habitat. Diffidare sempre degli intellettuali professionisti! Tessono ragnatele pesanti come catene sui sogni degli uomini liberi. E dal tempo degli antichi scriba egizi, di deflorazione in deflorazione, riescono sempre a ricostruire la loro verginità.

Una quindicina d’anni fa, per costoro, scrissi quest’epitaffio:

“La miseria esistenziale dell’intellettuale è il suo essere dilaniato dalla contraddizione tra l’universalità del suo sapere ed il particolarismo della classe dominante di cui è il prodotto. E così si dibatte incarnando l’hegeliana “coscienza infelice” tra referenti da abbandonare e da conquistare…

E con questa cattiva coscienza, sorgente del suo malessere, s’allinea ora con il proletariato, ora con i marginali, ora con il terzo mondo, cercando punti fermi sui quali rifondare le proprie rovine, riproponendosi sempre come soggetto attivo, come intellighentia che, rispetto ai fenomeni sviscerati e sezionati col microscopio del sapere, si autopropone come avanguardia esterna dall’alto di quel sapere rubato ai suoi antichi padroni.

Tra alterne sorti si dibatte nella disperazione d’essere un eterno orfano. Orfano dei padroni abbandonati senza rifiutarne i privilegi. Orfano del proletariato che sempre lo ha istintivamente rigettato come corpo estraneo. Orfano del terzo mondo che non ha tempo per sintonizzarsi su intelligenti analisi dovendo risolvere, giorno dopo giorno, i suoi urgenti problemi di sopravvivenza.

D’esclusione in esclusione, d’elisione in elisione, d’erosione in erosione, s’è ritrovato con altri in un unico ghetto.

Allora, spaventati e coinvolti dalle variabili impazzite uscite dalle loro teorizzazioni, hanno incominciato a negoziare la resa sulla pelle di tutti: per reintegrare la loro iniziale posizione di intellighentia.

Miserie nella miseria, plagianti plagiati, ma privilegiati che da sempre trovano il nido caldo del figliol prodigo che ritorna alle sue origini… ”

Costoro col pentimento o la dissociazione oppure coi benefici dello stato che intendevano combattere “senza tregua!”, ora sono quasi tutti fuori. Ne è rimasto in carcere un pugno.

Meno di una decina di questi, in carcere da decenni, si sono chiusi in un dignitoso silenzio. Non chiedono nulla, rifiutano “benefici” dello stato che, se richiesti, ne determinerebbero l’immediata libertà. Altri, rifugiati all’estero, attendono l’amnistia o la “soluzione politica” per rientrare.

E le carceri, ora governate con la carota ed il bastone, sono più floride che mai e traboccano di disperati. Bene, credo che basti.

D. Senza voler essere invadente: è stata più volte rilevata la trasparenza e la serenità del personaggio di Anna nel raccontare quello che era il vostro rapporto prima e dopo i tuoi arresti. Hai voglia di parlarne?

R. Con l’ultima domanda mi metti in crisi.

Pochi giorni fa mi ha intervistato una giornalista per conto della trasmissione Frontiere di RAI 2. Tra le altre domande, ad un certo punto mi ha chiesto se mi sento pentito. Puntualizzando sulla parola pentimento, le ho risposto che non mi sento pentito né per le banche rapinate né per il resto, però, se avessi la possibilità di rivivere la mia esistenza, non farei le stesse cose. Non perché ritenga immorale, in questa società, rapinare banche, ma perché ritengo stupido buttare via così la propria vita.

Poi, le ho detto che se la mia attuale situazione è, bene o male, il frutto di una iniziale scelta, essa ha finito per coinvolgere anche persone che questa scelta non condividevano ma che ne hanno ricavato sofferenza per il solo fatto di volermi bene. I miei genitori, mia moglie, i miei figli, compagne e compagni che mi hanno voluto o che mi vogliono bene. Questo è un peso che porto ed è il più pesante di tutti.

Anna è la persona che più ho amato in vita mia. Ancora oggi, quando penso a lei, mi sento invadere da una tenerezza ed una tristezza infinite. È la persona che mi ha dato di più, ricevendone in cambio solo dolori ed umiliazioni. Mi è stata vicina nei momenti più difficili poi, quando con le carceri speciali la situazione s’è fatta pesantissima, di comune accordo abbiamo deciso di lasciarci. Razionalmente, senza astio né rancori, rimanendo amici. Oggi, dopo una vita donata agli altri, è una donna serena. Spero, un giorno di poterla rivedere per fare insieme due carezze a Jacopo, il nuovissimo Fantazzini che recentemente ci ha resi entrambi nonni.