Si, ma cosa volete in fondo? (2004) it/es/fr/de

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Questo numero di Adesso sarà diverso dagli altri. Tenteremo di rispondere a una domanda che ci viene rivolta spesso: “Sì, ma cosa volete in fondo?”. Più d’uno si stupirà forse di un taglio così generale proprio in questo momento, con la repressione che incalza, con gli ultimi arresti di anarchici a Trento e gli altri in tutta Italia. Certo le cose da dire su tutto ciò non ci mancano, e le diremo al più presto. Ormai anche i ciechi dovrebbero essersi accorti di come il potere stia colpendo in modo sempre più aperto ogni forma di dissenso.

Eppure la repressione non deve mozzarci il fiato, costringendoci a seguire solo i suoi tempi. Né ci piace il ruolo delle eterne cassandre. Forse proprio per questo abbiamo sentito l’esigenza – perché ora?, non è facile dirlo – di scrivere qualche riga sulla vita per cui ci battiamo, al di là delle lotte e degli episodi specifici, e a dispetto di poliziotti, procuratori, giornalisti e secondini. I problemi che solleviamo – ad esempio quello di una società senza carcere – li sfioriamo appena, si può dire. Ci vorrebbe al riguardo ben altro che un numero di Adesso. Eppure avevamo voglia di provarci, sia pure nei limiti angusti del nostro foglio di critica sociale. Ma da dove partire?

Sappiamo che non è possibile andare al fondo dei nostri desideri, letteralmente senza fondo. Allo stesso tempo non troviamo difficoltà ad ammettere che abbiamo un ideale. Per noi un ideale è un modo quotidiano di vivere e allo stesso tempo la prefigurazione del mondo in cui vorremmo abitare. Idea, ideale sono concetti che rinviano, etimologicamente, alla capacità visiva, alla visione. Si tratta di una facoltà immaginativa, di prefigurazione, appunto.

Prefigurare non significa costruire minuziose architetture di mondi alternativi, mappe dettagliate della terra di Utopia. Oltre che impossibile, ciò ricalcherebbe un’idea di società opposta a quella che vogliamo: una società pianificata da pochi con l’intento di “migliorare l’umanità”, anche contro… il suo volere.

La prefigurazione è per noi un’immagine che balena nella mente, un’immagine in cui l’esperienza si mescola con la tensione e la speranza, in cui le possibilità del passato incontrano la rottura col presente. Quest’immagine si nutre di lotte e di valori, di tecniche e di saperi, di spazi e di tempi. Ecco di cosa parleremo in questo numero, consapevoli che ciò che vogliamo non può che “portare il panico alla superficie delle cose”.

COME SASSI NELL’ACQUA

Individui innanzitutto. Le definizioni, quando non sono gabbie, sono come dei sassi lanciati nell’acqua: creano cerchi sempre più ampi, ma nessuno di questi riesce a contenere completamente la nostra individualità. Coscienti di questo, le parole non ci fanno paura. Perché siamo anarchici?

Perché vogliamo un mondo basato sulla reciprocità e sul mutuo appoggio, non sul dominio e sullo sfruttamento. Un mondo senza Stato e senza denaro.

Riconosciamo la necessità di accordi – o, se si preferisce, di regole – per vivere assieme; ma gli unici accordi degni di questo nome sono per noi quelli liberamente e reciprocamente creati e definiti, non quelli imposti unilateralmente da chi ha il potere di fare le leggi e la forza militare per farle rispettare. Regole e leggi per noi non sono affatto sinonimi. La legge è un modo ben particolare – basato sulla coercizione – di concepire la regola. Nei limiti delle possibilità, cerchiamo fin d’ora di vivere in base al libero accordo, non accettando autorità che decidano per noi.

Siamo per il mutuo appoggio perché sappiamo che l’equità non basta se non è accompagnata da un sentimento di solidarietà cosciente e volontaria. Contrariamente al modello liberale che vede nell’altrui libertà un limite alla propria, sentiamo che la nostra libertà si estende all’infinito attraverso la libertà degli altri. Contrariamente al comunismo autoritario, sappiamo che l’uguaglianza è sorella del dispotismo se non è lo spazio in cui esprimere le differenze individuali.

Un modo diverso di concepire le regole determina anche una diversa maniera di affrontare i conflitti. Innanzitutto, ciascuno risponde per noi solo della violazione di regole che ha egli stesso definito e condiviso – e non di leggi che altri hanno stabilito in nome suo; in secondo luogo, gli stessi conflitti vanno affrontati in modo non repressivo, come segnalatori di accordi inadeguati, come sperimentazione di nuovi rapporti. In ogni caso la soluzione dei contrasti non deve istituzionalizzarsi in organi repressivi – carceri e segregazioni in genere –, i quali non farebbero altro che ricreare quel potere oppressivo e arbitrario di cui conosciamo tutti la natura e le conseguenze. Insomma, la “giustizia” non deve mai separarsi dalla comunità che la esprime in apparati specializzati che tenderebbero prima di tutto a riprodurre se stessi e i propri privilegi. Nessuna ricetta, ovviamente, solo una sensibilità antiautoritaria da affinare sulle rovine di ogni prigione.

Per poter decidere insieme senza un potere accentratore è necessario poter dialogare in modo diretto e orizzontale. La società per cui ci battiamo è una società del faccia a faccia. Una civiltà di massa, come quella industriale, specializza estremamente i compiti, crea gerarchie ovunque e rende gli individui incapaci di capire il prodotto delle loro relazioni sociali. Poiché il pensiero è unito all’azione solo nell’individuo – le forze sociali sono sempre cieche –, è necessario che l’attività svolta sia diretta, controllata e capita dagli individui stessi. Il lavoro salariato si basa invece sull’esatto contrario: pochi dirigenti organizzano, mentre la massa esegue, incapace di padroneggiare e di riparare le macchine – di cui diventa così una mera appendice –, nonché di comprendere il prodotto della propria attività.

Solo nelle menti autoritarie l’universale e il locale si oppongono, per cui non ci sarebbe via d’uscita, in una simile visione, dal gigantismo delle città e degli apparati produttivi. In realtà, o riusciremo a reinventare una vita sociale su basi più piccole – dal piccolo al grande, attraverso unioni orizzontali –, su tecniche più semplici, oppure ci dirigeremo sempre più verso la disintegrazione di ogni autonomia individuale e verso il collasso ecologico. È urgente dissolvere i legami massificati – fonte di conformismo, di inquinamento e di angoscia esistenziale – per sperimentarne altri più adatti ai bisogni e ai desideri di ciascuno.

Contrariamente alla visione del progresso che ci viene imposta, per cui la storia è una sorta di linea retta dalle caverne al Fondo Monetario Internazionale, l’umanità ha vissuto per millenni in società senza Stato e senza potere centralizzato. Ora, non si tratta certo di sognare il ritorno a una mitica Età dell’oro, bensì di scorgere nel passato quei rapporti e quelle tecniche che possono aiutarci a trasformare il presente. La riscoperta di una nuova autonomia (alimentare, energetica, medica, eccetera) è per noi inscindibile da un processo rivoluzionario di distruzione dello Stato e di smantellamento della società industriale. Reinventare il rapporto tra la solitudine e l’incontro, fra il bosco e il villaggio, fra la campagna e il borgo non è solo una tensione etica: è una necessità vitale. Il capitalismo sta attaccando le fonti stesse della vita – il cibo, l’aria, l’acqua – trasformandole in merce. Pensare di ritagliarsi qualche riserva in questo gigantesco supermercato è per noi illusorio. Allargare gli spazi di autonomia – sperimentando forme di vita e rapporti altri – e sovvertire il presente ordine delle cose sono, lo ripetiamo, aspetti inseparabili.

Contrariamente alla propaganda tecnologica, per cui tutto ciò che è tecnicamente efficace è anche socialmente positivo, riteniamo che le tecniche vadano sempre sottoposte a considerazioni etiche e sociali, e che si debba tornare indietro quando una pretesa efficienza tecnica è ottenuta grazie ad una maggiore specializzazione, ad un maggiore potere o a un complessivo impoverimento dei rapporti umani.

“E QUINDI?”

Alcune di queste riflessioni sono comuni ormai a parecchie persone, rivoluzionarie o anche soltanto critiche. Ciò che ci caratterizza in quanto anarchici, è che consideriamo i fini inseparabili dai mezzi, poiché nei metodi di lotta intravediamo già la vita per cui ci battiamo. Abbiamo imparato con dovizia di esempi storici dove ha portato la logica dell’opportunismo, delle eccezioni tattiche e strategiche, della “transizione al comunismo” (che mai transita, ma che tutto giustifica). A dittature spietate o a socialdemocrazie assassine.

Qualcuno diceva che non si può combattere l’alienazione in forme alienate. Non si possono riprodurre nei propri rapporti e nelle proprie pratiche le stesse dinamiche del dominio che si combatte. In questo senso, siamo per l’autorganizzazione delle lotte, cioè per l’autonomia da tutte le forze partitiche e sindacali, per la conflittualità permanente con il potere, le sue strutture, i suoi uomini, le sue ideologie. Così come rifiutiamo l’imbroglio elettorale – con cui si occulta la dittatura del capitale –, allo stesso modo rifiutiamo i leader, le gerarchie, i comitati centrali, i portavoce mediatici (cioè i futuri capi politici).

Attaccare il potere invece di riprodurlo, disertarne le istituzioni invece di mendicarne le sovvenzioni sono metodi che, nell’immediato, possono sembrare poco efficaci e accompagnati da un certo isolamento (ben preparato dal costante linciaggio mediatico). A ciò si può rispondere che il senso di quello che si fa va afferrato nell’attività stessa, e non con il metro dei risultati quantitativi; anche perché le forze sociali sono imprevedibili, non si misurano coi censimenti, e in fondo ciò che vediamo sono solo i primi cerchi formati dai sassi che lanciamo. D’altra parte, la ricerca della coerenza è la forza che contiene tutte le forze, e questo non per adesione sacrificale a una dottrina, ma per il piacere che proviene da un animo concorde con se stesso. Nell’unione di pensiero e azione si rinnova, diceva Simone Weil, il patto dello spirito con l’universo.

Per questo ciò che può sembrare “purismo” (come dicono spregiativamente i realisti) è invece un modo ben concreto di palpare l’esistenza, “nel piacere fiero della battaglia sociale”. Non crediamo ai soli dell’avvenire che sorgono mentre si calcola nei retrobottega. Inoltre, non collaborando con le istituzioni, nessuno potrà mai rinfacciarci di aver mangiato dalla stesso piatto – e anche questo conta.

L’autorganizzazione di cui parliamo non è un nostro moto dello spirito. È una realtà che esiste nel mondo, sia come pratica sociale durante le esplosioni insurrezionali (pensiamo solo alle assemblee di quartiere in Argentina o agli aarch in Algeria), sia come metodo di lotta in conflitti più specifici (pensiamo, di recente, ai blocchi dei pulitori ferroviari, di Scanzano Jonico, della Campania, o agli scioperi selvaggi dei ferrotranvieri). L’azione diretta è sperimentata da migliaia di sfruttati non per ideologia, ma perché è l’unico modo per strappare qualche miglioramento reale ai padroni. Quella critica anticapitalista che gli intellettuali trovano astrusa, superata o criminale, molti sfruttati la verificano nelle loro lotte perché sperimentano il capitalismo sulla loro pelle. E noi, in tutto ciò?

Non avendo alcuna mentalità avanguardista, diamo semplicemente il nostro contributo, ovunque riusciamo, per favorire pratiche di autorganizzazione e di azione diretta. Quando possibile, proponendo in prima persona situazioni di lotta sociale, altrimenti intervenendo, sulle nostre basi, in conflitti determinati da altri. Non essendo degli specialisti, non abbiamo campi di intervento esclusivi, anche perché questa società ha ormai raggiunto un tale grado di interdipendenza fra le sue parti che non è possibile modificare profondamente alcun aspetto significativo senza mettere in discussione tutto. Persino la richiesta di un cibo non inquinato – come ha scritto qualcuno – ha bisogno, per essere soddisfatta, dello smantellamento dell’intero sistema di produzione, di scambio e di trasporto esistente. Dal problema della devastazione ambientale a quello della guerra, quando la critica vuole andare a fondo si trova di fronte l’intera società con i suoi cani da guardia. Certo, alcune questioni ci stanno più a cuore di altre, anche perché le riteniamo meno recuperabili – cioè neutralizzabili – dal dominio. Se è concepibile un potere che faccia a meno degli inceneritori o di certe tecnologie altamente inquinanti, non è concepibile un potere che faccia a meno del carcere, così come non sono mai esistiti affossatori di rivoluzioni che non abbiano ricostruito delle prigioni. Eppure, a ben guardare, lo stesso problema del carcere rinvia a quello dell’autonomia nelle decisioni e del possesso di ciò di cui si ha bisogno per vivere. Finché non impareremo a preferire il libero accordo all’imposizione, la solidarietà all’avvilente competizione, la logica del castigo ricostruirà le sue gabbie e i suoi orrori.

Siamo per la rottura rivoluzionaria perché sappiamo che le mentalità servili hanno bisogno di uno scossone al pari delle istituzioni sociali, ma sappiamo anche che un’insurrezione è solo l’inizio di un cambiamento possibile e non una panacea. Pronti ad unirci a chiunque voglia davvero abbattere l’attuale dominio, difenderemo con le unghie e con i denti la nostra possibilità di vivere senza imporre né ricevere ordini da un’autorità, da un partito, da un comitato centrale. L’esperienza storica ci ha insegnato che i peggiori oppressori possono indossare l’abito del rivoluzionario, e non vogliamo certo annullarci in alleanze con gli strangolatori di ogni spontaneità sovversiva e di ogni libertà. Per noi l’unica violenza accettabile è quella che libera e non soggioga, quella che distrugge il potere e non lo riproduce, quella che difende la possibilità di ciascuno di vivere a modo suo. Imporre la libertà è un controsenso. Se per vincere occorresse erigere le forche, diceva Malatesta, allora preferiremmo perdere.

Che il coro delle intelligenze asservite ripeta che una rivoluzione è impossibile non ci impressiona né stupisce. Non è forse quello che i Trenta tiranni ripetevano ai democratici ateniesi, gli aristocratici ai borghesi, i latifondisti ai contadini messicani, i democratici agli anarchici spagnoli, i burocrati stalinisti agli insorti ungheresi, i sociologi ai “lupi mannari” (come li definì la Pravda) del Maggio francese? “Coloro che fanno le rivoluzioni a metà non fanno che scavarsi la fossa”, diceva qualcuno. Ed è l’unico suggerimento che vogliamo trarre da chi ci ha preceduto sulla strada di una rivoluzione anarchica.

Considerandoci sfruttati al fianco di altri sfruttati, pensiamo che anche la nostra impazienza, la nostra determinazione ad attaccare qui e subito facciano parte dello scontro di classe. Non ammettiamo gerarchie fondate sui rischi previsti dal codice penale: un volantino ha la stessa dignità di un sabotaggio, perché l’azione diretta non si oppone per noi alla diffusione delle idee.

Gli anni a venire saranno carichi di conflitti, alcuni difficili da decifrare, altri chiari perché netti come le barricate. L’autorganizzazione tornerà con forza a bussare alle porte della guerra sociale.

Complici nostri sono e saranno tutti gli individui disposti a battersi per conquistare la libertà assieme agli altri, anche a rischio di giocarsi la propria.

Carcere di Trento, 23 luglio 2004.

FIGURA DI MERDA

Sarà a breve disponibile un dossier sull’arresto dei sei anarchici a Trento, in cui si svela al pubblico la figura di merda di fascisti infami e bugiardi, di carabinieri maneggioni e maldestri, di pubblici ministeri in cerca di carriera, di giornalisti costretti a servire troppi padroni. Un libretto sull’inquisizione democratica e sulla solidarietà che non si arresta. Per richieste scrivere al nostro indirizzo.

« Non chiederci la formula
che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba
e secca come un ramo.
Codesto solo oggi
possiamo dirti,
ciò che non siamo
ciò che non vogliamo.
 »
Eugenio Montale

« In ogni uomo,
in ogni grido,
In ogni grido
di bambino
quando urla
spaventato
In ogni voce,
in ogni divieto,
Io sento rumori
di manette dalla
Mente forgiate.
 »
William Blake

(estratto dal giornale Anarchico ADESSO) 2004

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Vale, pero al final, ¿qué quieren?

Traducción (aproximativa) desde el francés del texto “Oui, mais au fond, qu’est-ce que vous voulez”, extraído del libro “A couteaux tirés avec l’Existant, ses défenseurs et ses faux critiques”, compilación de textos italianos editada por Mutines Séditions.

 

Este número de Adesso sera diferente de los otros. Intenteremos contestar una pregunta que a menudo nos hacen : “Vale, pero al final, ¿que quieren?”. Algunxs se asombrarán tal vez de tanta general elección, en un periodo cuando la represión se calienta, con las últimas encarcelaciones de anarquistas en Trento y en el resto de Italia. Sin duda alguna las cosas que decir sobre todo esto no faltan, y las diremos lo antes posible. En adelante, incluso lxs más ciegxs tendrían que darse cuenta de que el poder golpea de manera siempre más abierta cualquier forma de disension. Sin embargo, la represión no debe dejarnos sin aliento forzandonos a seguir unicamente sus vencimientos. El papel de Casandra eterna no nos gusta. Tal vez es por eso que sentímos la exigencia -¿porque ahora?, no es fácil de decir- de escribir unas cuantas lineas sobre la vida por la cual luchamos, más allá de las luchas y de los episodios particulares, y a pesar de lxs picoletxs, de lxs fiscalxs, de lxs periodistxs y de lxs matonxs. Los problemas que ponemos de relieve -como por ejemplo el de una sociedad sin carcél- casí a penas se rozarán. Para eso necesitariamos mucho más que un número de Adesso. Por lo tanto nos apetece intentarlo, incluso dentro de los estrechos límites de nuestro papel de critica social. ¿Pero de dónde salir?

Sabemos que es imposible el ir hasta el fondo de nuestros sueños, cuales son literalmente sin fondo. A la vez, no nos cuesta nada admitir que tenemos un ideal. Para nosotrxs, un ideal es un modo cotidiano de vivir y a la vez la prefiguración del mundo en el que nos gustaría habitar. Idea, ideal son conceptos que remiten, etymologicamente, a la capacidad visual, a la visión. Se trata de una facultad imaginativa, de prefiguración, precisamente.

Prefigurar no significa construir arquitecturas minuciosas de mundos alternativos, mapas detallados de la tierra de Utopía. Además de que es imposible, eso remitiría a una idea de sociedad opuesta a la que queremos : una sociedad que planifica unxs cuantxs con la intención de “mejorar la humanidad”, incluso en contra de… su propia voluntad.

Para nosotrxs, la prefiguración es una imagen que traspasa la mente, una imagen en la cual la experiencia se mezcla con la tensión y la esperanza en la cual las posibilidades del pasado se encuentran con la ruptura del presente. Esta imagen se alimenta de luchas y valores, de técnicas y de saberes, de espacios y de tiempos. De eso se tratará en este número, concientes de que lo que queremos unicamente puede “llevar el pánico a la superficie de las cosas”.

COMO PIEDRAS A LA SUPERFICIE DEL AGUA

Ante todo somos individuxs. Las definiciones, cuando no son jaulas, son como piedras tiradas a la superficie del agua : crean círculos siempre más anchos, sin que ninguno de ellos logre contener totalmente nuestra individualidad. Concientxs de ello, las palabras no nos asustan. ¿Porqué somos anarquistxs?

Porque queremos un mondo basado en la reciprocidad y el apoyo mutuo, y no en la dominación y la explotación. Un mundo sin Estado y sin dinero.

Reconocemos la necisidad de acuerdos – o sea, de reglas – para vivir juntxs ; pero, para nosotrxs, los únicos acuerdos válidos son aquellos creados y definidos con libertad y reciprocidad, y no aquellos que se imponen de forma unilateral por lxs que tienen el poder de hacer las leyes y la fuerza militar para que se respecten. Reglas y leyes no son sinónimos para nada. La ley es un modo muy particular – basado en la coercición – de concebir la regla. Hasta ahora, y con el límite de nuestras posibilidades, hemos buscado vivir con la base del libre acuerdo, negandonos a que una autoridad decida para nosotrxs.

Somos partidarixs del apoyo mutuo, porque sabemos que la equidad no basta si no está acompañada de un sentimiento de solidaridad conciente y voluntario. Al contrario del modelo liberal que ve la libertad delx otrx como un límite a la suya, sentimos que nuestra libertad se esparce al infinito a través de la libertad de lxs demás. Al contrario del comunismo autoritario, sabemos que la igualdad es hermana del despotismo si no es el espacio dónde expresar las diferencias individuales.

Un modo diferente de concebir las reglas determine también una otra forma de enfrentarse a los conflictos. En primer lugar, para nosotrxs cada unx responde únicamente de la violación de reglas que ellx mismx ha definido y compartido – y no de leyes que otrxs han establecido en su nombre ; en segundo lugar, los mismos conflictos se enfrentan en un modo no represivo, como señales de acuerdos inadecuados, como la experimentación de uevas relaciones. En todos los casos, la solución a las discrepancias no debe ser institucionalizada en órganos represivos – como las cárceles o la segregaciones de todos tipos – que no harían más que recrear este poder opresivo y arbitrario, del cual conocemos todxs la naturaleza y las consecuencias. En resumidas cuentas, la “justicia” no debe separarse de la comunidad que la expresa, encarnandose en los órganos especializados que tendran a reproducirse, juntos con sus privilegios. Ninguna receta, por supuesto, únicamente una sensibilidad anti-autoritaria que se afinará encima de las ruinas de todas las cárceles.

A fin de poder decidir juntxs sin poder centralizador, es necesario poder dialogar de forma directa y horizontal. La sociedad por la cual luchamos es una sociedad del cara a cara; Una civilización de masa, como la civilización industrial, especializa al extremo las tareas, crea jerarquías por todas partes y vuelve lxs individuxs incapaces de entender el producto de sus relaciones sociales. Porque el pensamiento solo se une a la acción en lx individux – las fuerzas sociales siempre son ciegas –, es necesario que la actividad realizada sea directa, controlada y entendida por lxs mismxs individuxs. A cambio el trabajo asalariado se basa en el exacto contrario : unxs dirigentes organizan mientras la masa ejecuta, incapaz de dominar y reparar las máquinas – de la cual nos volvemos un simple apéndice –, tampoco de entender el producto de su propia actividad.

Solo dentro de mentes autoritarias se oponen el universal y el local. En tal visión no hubiera salida al gigantismo de las ciudades y de los aparatos productivos. En realidad, o conseguiremos reinventar una vida social en bases más simples – del pequeño al grande a través de uniones horizontales –, en técnicas más sencillas, o nos dirigiremos siempre más hacia la desintegración de cualquier autonomía individual y hacia el caos ecológico. Es urgente disolver los vínculos masificados – fuentes de conformismo, contaminación y angustia existencial – para experimentar otros, mejor adaptados a las necesidades y a los deseos de cadx unx.

Al contrario de la visión del progreso que nos imponen, en la cual la historia se parece a una linea recta que va de las cuevas al Fondo Monetario Internacional, la humanidad vivió durante miles de años en comunidades sin Estado y sin poder centralizado. Hoy en día, no se trata de soñar con una mítica “edad de oro”, sino de descubrir de nuevo en el pasado qué relaciones y qué técnicas pueden ayudarnos a transformar el presente. Para nosotrxs, el redescubrimiento de una nueva autonomía (alimentaria, energética, en la salud, etc.) no se puede separa de un proceso revolucionario de destrucción del Estado y del desmantelamiento de la sociedad industrial. Reinventar una relación entre la soledad y el encuentro, el bosque y el pueblo, el campo y el burgo, no es solamente una tensión ética : es una necesida vital. El capitalismo ataca las fuentes primas de la vida – la comida, el aire, el agua – al transformarlas en mercancías. Para nosotrxs es ilusorio pensar retirarnos en cualquiera reserva de este gigantesco supermercado. Ensanchar los espacios de autonomía – experimentando otras formas de vivir y de relacionarse – y subvertir el presente orden de las cosas, lo repitamos, son aspectos inseparables.

Al contrario de la propaganda tecnológica, por la cual todo lo que es tecnicamente eficaz se vuelve socialmente positivo, creemos que las técnicas solo valen cuando se someten a consideraciones éticas y sociales, y que se debe hacer marcha atrás cuando una supuesta eficacidad técnica se obtiene gracias a una especialización más grande, un poder más potente o un empobrecimiento general de las relaciones humanas.

“¿Y ENTONCES QUE ?”

Algunas de estas reflexiones son en adelante banales para la mayoría de las personas, revolucionarias o solamente críticas. Lo que nos caracteriza como anarquistxs, es que consideramos inseparables los fines y los medios, porque los métodos de lucha ya dejan entrever la vida por la cual peleamos. A pesar del maquiavelismo dominante, sabemos que negandonos a emplear ciertos medios rechazamos también ciertos fines, precisamente porque estos últimos siempre estan contenidos en los primeros. Sabemos, y no faltan los ejemplos históricos, donde llevó la lógica del oportunismo, de las excepciones tácticas y estratégicas, de la “transición hacia el comunismo” (que nunca termina pero que lo justifica todo). A dictaduras despiadadas o a social-democracias asesinas.

Alguien decía que no se puede luchar contra al alienación con formas alienadas. No se puede reproducir en nuestras propias relaciones y prácticas las mismas dinámicas que las de la dominación contra la cual luchamos. Así pues, somos a favor de la auto-organización de las luchas, es decir por una autonomía frente a todas las fuerzas partidarias y sindicales, por la conflictualidad permanente con el poder, sus estructuras, sus mujeres y hombres, y sus ideologías. Así, igual que rechazamos el imbroglio electoral – por lo cual la dictadura del capital permanece oculta – rechazamos a la vez lxs líderes, las jerarquías, los comités centrales, lxs portavoces mediáticxs (o sea lxs futurxs jefxs políticxs).

Atacar el poder en vez de reproducirlo, desertar sus instituciones en vez de mendigar sus subvenciones, son métodos que, por ahora, pueden parecer poco eficaces y llevar a un aislamiento relativo (bien preparado por el linchamiento mediático permanente). A eso, se puede contestar que el sentido de lo que se hace se capta en la actividad misma, y no midiendo resultados quantitativos ; no se pueden medir las fuerzas sociales haciendo censos, en particular porque son imprevisibles : lo que percibimos, al final, solo son los primeros círculos formados por las piedras que tiramos. Por otra parte, la búsqueda de la coherencia es la fuerza que contiene todas las otras, y eso no por adhesión sacrificial a una doctrina, sino por el placer proporcionado cuando la mente esta en acuerdo consiguo misma. Es en la unión del pensamiento y de la acción, decía Simone Weil, que se renueva el pacto del espíritu con el universo.

Así pues, lo que puede parecer “purismo” (lo que dicen de forma depreciativa lxs realistxs) no es más que un modo muy concreto de palpar la existencia, “en el tremendo placer de la pelea social”. No creemos en los soles radiantes del porvenir que surgen de los cálculos hechos en las trastendias. El mundo en el cual quisieramos habitar debe de ser contenido en sus propias relaciones y comportamientos lo más posible. Al fin y al cabo, si no colaboramos con las instituciones, nunca nadie podrá hecharnos a la cara que “escupimos en la sopa” – y esto también cuenta.

La auto-organización de la cual hablamos no es solo teoría pura. Es una experiencia humana que existe desde los más antiguos tiempos, un gran arsenal teórico y práctico que el pasado transmite al presente. Muchas de las llamadas teorías las sugerieron la realidad de las luchas, las experimentaciones comunitarias, tal como las revueltas atrevidas y solitarias de lxs que tuvieron la determinación de desafiar el poder, los costumbres y los prejuicios de su época, de lxs que atrayeron en ellxs los rayos de todxs lxs jueces antiguxs y modernxs. Desde la Edad Media hasta hoy, los ejmeplos de comunidades que abolieron la propriedad privada y el Estado, en una tentativa apasionada de realizar en la Tierra la felicidad que las religiones siempre encerraron en el reino de los cielos, son innumerables. Pero no necesitamos un pasado donde buscaríamos justificaciones a nuestros deseos. La auto-organización es una realidad que existe en el mundo actual, sea como práctica social durante explosiones insurreccionales (pensemos en las asambleas de barrio en argentina o en los aarch en algeria), o como método de lucha durante conflictos más específicos (pensemos en los recientes blocus de lxs limiadorxs de trén, el de Scansano Jonio o de la Campania, a las huelgas salvajes de lxs conductorxs de tranvías y de buses). Miles de empleadxs experimentan de la acción directa no por ideología, sino porque es el único modo de arrancar a lxs patronxs unas mejoradas reales. Esta crítica anticapitalista que lxs intelectualxs servilxs ven vana, pasado de moda o criminal, numerosxs explotadxs la ponen en práctica en sus luchas porque experimentan el capitalismo en su propia piel. ¿Y que de nosotrxs, en medio de esto?

No tenemos ninguna mentalidad vanguardista, y sencillamente aportamos nuestra contribución, por todas partes donde lo logramos, para favorecer las prácticas de auto-organización y de acción directa. Cuando es posible, iniciamos en nuestro nombre situaciones de lucha social, sino intervenimos, en nuestras bases, en luchas llevadas por otrxs. No somos especialistas, y no tenemos ningún campo de acción exclusivo, particularmente porque esta sociedad ya alcanzó tanto grado de interdependencia entre sus sectores que no es posible modificar profundamente ninguno de sus aspectos significativos sin volver a poner el conjunto en tela de juicio. Incluso el requerimiento de una alimentación no envenenada significa para satisfacerse – como ya alguien lo escribió – el desmantelamiento del conjunto del sistema de producción, de intercambio y de transporte existente. Desde el problema de la destrucción del medio ambiente hasta el de la guerra, la crítica se enfrenta a la sociedad entera y a sus perros de guardia cuando quiere ir al fondo del tema. Por supuesto, algunos temas nos animan más que otros, particuliarmente porque creemos que es más difícil para la dominación recuperarlos – es decir neutralizarlos – que otros. Si se puede concebir un poder que produzca menos incineradores o otras tecnologías sumamente dañosas, no se puede concebir un poder que produzca menos cárceles, igual que nunca existieron sepulturerxs de revoluciones que no hayan reconstruido algunas. Sin embargo, si se mira bien, el problema de la cárcel remite al de la autonomía de las decisiones y de lo que unx necesita para vivir. Mientras no aprendamos a preferir el libre acuerdo a la imposición, la solidaridad a la competencia envilezadora, la lógica del castigo reconstruirá sus jaulas y sus horrores. Somos a favor de la ruptura revolucionaria porque sabemos que la mentalidades serviles necesitan una sacudida violenta, igual que las instituciones sociales, pero sabemos también que una insurrección es solo el principio de un posible cambio y no una panacea. Listxs para unirnos a cualquiera que desee realmente derribar la dominación actual, defenderemos también con mucho valor nuestra posibilidad de vivir sin imponer ni recibir órdenes de cualquier autoridad, partido o comité central. La experiencia histórica nos aprendió que lxs peorxs opresorxs pueden travestirse de revolucionarixs, y por supuesto no queremos encontrarnos aliados con ahogadorxs de toda espontáneidad subversiva y de toda libertad. Para nosotrxs, la única violencia acceptable es la que libera y no pone en esclavitud, la que destruye el poder y no lo reproduce, la que defiende para cada unx la posibilidad de vivir como quiere. Imponer la libertad es un contrasentido. Tendría que levantar el cadalso para vencer, decía Malatesta, entonces preferiría perder.

No nos impresiona ni nos sorprende que el coro de las inteligencias sometidas repita que una revolución es imposible. ¿No es lo que los treinta tiranos repetían a lxs democratxs atenexs, lxs aristocratxs a lxs burguesxs, lxs latifundistxs a lxs campesinxs mejicanxs, lxs democratxs a lxs anarquistxs espagnolxs, lxs burocratxs de staline a lxs sublevadxs húngarxs, lxs sociólogxs a lxs rabiosxs del mes de Mayo? “Quien hace a mitad la revolución cava su propia tumba”. Es la única enseñanza que queremos aprovechar de lxs que nos precedaron por el camino a una revolución anarquista.

Nos consideramos como explotadxs a lado de lxs otrxs explotadxs, y creemos que nuestra impaciencia, nuestra determinación en atacar aquí y ahora forman parte del conflicto de clase. No admitimos ninguna jerarquía basada en los riesgos previstos por el código penal : un follete es igual de digno que un sabotaje, porque para nosotrxs la acción directa no se opone a la difusión de las ideas.

Los años por venir se llenaran de conflictos, algunos dificiles de descifrar, otros claros porque puros como barricadas. El terreno del asentamiento y de la sumisión se fisura, numérosos señales de insatisfacción se revelan. La auto-organización volverá a golpear con fuerza en la puerta de la guerra social.

Nuestros complices son y seran todxs lxs individuxs dispuestxs a pelearse para conquistar la libertad con lxs demás, y también listxs para arriesgar la suya.

Cárcel de Trento, 23 de julio de 2004

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Oui, mais au fond, qu’est-ce que vous voulez ?

Ces quelques lignes ont été écrites en juillet
2004 par un anarchiste italien. Frappé par la
répression comme d’autres compagnons à
travers tout le pays, il se trouvait alors incarcéré
à la prison de Trento.
C’est au cours de ce séjour qu’il en a profité
pour jeter sur le papier ces brèves réflexions,
destinées à donner une première réponse à
tous ceux qui, inlassablement, finissent par
demander « Oui, mais au fond, qu’est-ce que
vous voulez ? ». Elles ont ensuite été publiées
dans une feuille de critique sociale du coin,
Adesso.

Ni bréviaire du petit anarchiste contemporain
comme se plaisent à en imprimer quelques
éditeurs (un marché s’est semble-t-il réouvert
depuis les émeutes de Gênes en juillet 2001),
ni guide à conserver chez soi entre deux
auteurs très 19e siècle comme on les aime
dans certaines organisations, il s’agit au
contraire d’un texte qui, tout en se revendiquant
d’une éthique anarchiste, cherche à
poser en quelques lignes la vie pour laquelle
nous nous battons, « conscient que ce que
nous voulons ne peut que “porter la panique à
la superficie des choses”
 ».

Comme des pierres jetées sur l’eau et dont les
cercles s’agrandiraient à l’infini.

Traduit de l’italien. Adesso, feuille de critique sociale – Rovereto, 6 septembre 2004, numéro 19.

“Oui, mais au fond, qu’est-ce que vous voulez ?”

Ce numéro d’Adesso sera différent des autres. Nous tenterons de répondre à une question qui nous est souvent posée : “oui, mais au fond, qu’est-ce que vous voulez ?”. Certains s’étonneront peut-être du choix d’un sujet aussi général en cette période où la répression s’échauffe, avec les dernières incarcérations d’anarchistes à Trento et dans le reste de l’Italie. Les choses à dire sur tout cela ne manquent certes pas, et nous les dirons au plus vite. Désormais, même les aveugles devraient se rendre compte que le pouvoir frappe de façon toujours plus ouverte toute forme de dissensus. Cependant, la répression ne doit pas nous couper le souffle en nous forçant à ne suivre que ses temporalités. Le rôle des éternels Cassandre ne nous plaît pas. C’est peut-être pour cela que nous avons senti l’exigence -pourquoi maintenant ?, ce n’est pas facile à dire- d’écrire quelques lignes sur la vie pour laquelle nous nous battons, au-delà des luttes et des épisodes particuliers, et en dépit des policiers, des procureurs, des journalistes et des matons. Les problèmes que nous soulevons -comme par exemple celui d’une société sans prison- seront pour ainsi dire à peine effleurés. Il nous faudrait pour cela bien autre chose qu’un numéro d’Adesso. Nous avons pourtant envie d’essayer, même dans les limites étroites de notre feuille de critique sociale. Mais d’où partir ?

Nous savons qu’il est impossible d’aller au fond de nos désirs, qui sont littéralement sans fond. En même temps, nous n’éprouvons aucune difficulté à admettre que nous avons un idéal. Pour nous, un idéal est un mode quotidien de vivre et en même temps la préfiguration du monde dans lequel nous voudrions habiter. Idée, idéal sont des concepts qui renvoient, étymologiquement, à la capacité visuelle, à la vision. Il s’agit d’une faculté imaginative, de préfiguration, justement.

Préfigurer ne signifie pas construire de minutieuses architectures de mondes alternatifs, des cartes détaillées de la terre d’Utopie. C’est aussi impossible, parce que cela renverrait à une idée de société opposée à celle que nous voulons : ce serait une société planifiée par quelques uns dans l’intention d’ “améliorer l’humanité”, même contre… sa propre volonté.

Pour nous, la préfiguration est une image qui traverse l’esprit, une image dans laquelle l’expérience se mêle à la tension et l’espérance, dans laquelle les possibilités du passé rencontrent la rupture du présent. Cette image se nourrit de luttes et de valeurs, de techniques et de savoirs, d’espaces et de temps. Voilà de quoi il sera question dans ce numéro, conscients que ce que nous voulons ne peut que “porter la panique à la superficie des choses”.

Comme des pierres sur l’eau

Nous sommes avant tout des individus. Les définitions, lorsqu’elles ne sont pas des cages, sont comme des pierres jetées sur l’eau : elles créent des cercles toujours plus vastes, sans qu’aucun d’entre eux ne réussisse à contenir entièrement notre individualité. Conscients de cela, les mots ne nous font pas peur. Pourquoi sommes nous anarchistes ?

Parce que nous voulons un monde basé sur la réciprocité et sur l’entraide, et non pas sur la domination et l’exploitation. Un monde sans Etat et sans argent.

Nous reconnaissons la nécessité d’accords -ou, si on préfère, de règles- pour vivre ensemble ; mais, pour nous, les seuls accords dignes de ce nom sont ceux créés et définis librement et réciproquement, et non pas ceux imposés unilatéralement par ceux qui ont le pouvoir de faire les lois et la force militaire pour les faire respecter. Règles et lois ne sont pas du tout synonymes. La loi est un mode bien particulier -basé sur la coercition- de concevoir la règle. Dans la limite des possibilités, nous avons jusqu’à présent cherché à vivre sur la base du libre accord, refusant qu’une autorité décide pour nous.

Nous sommes pour l’entraide, parce que nous savons que l’équité ne suffit pas si elle n’est pas accompagnée d’un sentiment de solidarité conscient et volontaire. Contrairement au modèle libéral qui voit dans la liberté de l’autre une limite à la sienne, nous sentons que notre liberté s’étend à l’infini à travers la liberté des autres. Contrairement au communisme autoritaire, nous savons que l’égalité est la sœur du despotisme si elle n’est pas l’espace dans lequel exprimer les différences individuelles.

Un mode différent de concevoir les règles détermine aussi une manière diverse d’affronter les conflits. Tout d’abord, pour nous chacun répond uniquement de la violation de règles qu’il a lui-même défini et partagé -et non pas de lois que d’autres ont fixé en son nom ; en second lieu, ces mêmes conflits sont affrontés sur un mode non répressif, comme des signaux d’accords inadéquats, comme l’expérimentation de nouveaux rapports. Dans tous les cas, la solution aux désaccords ne doit pas être institutionnalisée dans des organes répressifs -comme les prisons et les ségrégations en tout genre- qui ne feraient rien d’autre que recréer ce pouvoir oppressif et arbitraire dont nous connaissons tous la nature et les conséquences. En bref, la “justice” ne doit jamais être séparée de la communauté qui l’exprime, en s’incarnant dans des organes spécialisés qui tendront avant tout à se reproduire, eux et leurs privilèges. Aucune recette, évidemment, seule une sensibilité anti-autoritaire à affiner sur les ruines de toutes les prisons.

Afin de pouvoir décider ensemble sans pouvoir centralisateur, il est nécessaire de pouvoir dialoguer de manière directe et horizontale. La société pour laquelle nous nous battons est une société du face à face. Une civilisation de masse, comme la civilisation industrielle, spécialise à l’extrême les tâches, crée partout des hiérarchies et rend les individus incapables de comprendre le produit de leurs relations sociales. Parce que la pensée n’est unie à l’action que dans l’individu -les forces sociales sont toujours aveugles-, il est nécessaire que l’activité accomplie soit directe, contrôlée et comprise par les individus eux-mêmes. Le travail salarié est en revanche basé sur l’exact contraire : quelques dirigeants organisent pendant que la masse exécute, incapable de maîtriser et de réparer les machines -dont on devient ainsi un simple appendice-, ni de comprendre le produit de sa propre activité.

Ce n’est que dans les esprits autoritaires que l’universel et le local s’opposent, dans une telle vision il n’y aurait pas d’issue au gigantisme des villes et des appareils productifs. En réalité, ou nous réussirons à réinventer une vie sociale sur des bases plus modestes -du petit au grand à travers des unions horizontales-, sur des techniques plus simples, ou nous nous dirigerons toujours plus vers la désintégration de toute autonomie individuelle et vers le chaos écologique. Il est urgent de dissoudre les liens massifiés -sources de conformisme, de pollution et d’angoisse existentielle- pour en expérimenter d’autres, plus adaptés aux besoins et aux désirs de chacun.

Contrairement à la vision du progrès qui nous est imposée, dans laquelle l’histoire est une sorte de ligne droite qui va des cavernes au Fond Monétaire International, l’humanité a vécu pendant des millénaires dans des communautés sans Etat et sans pouvoir centralisé. Aujourd’hui, il ne s’agit certes pas de rêver à un mythique âge d’or, mais plutôt de redécouvrir dans le passé quels rapports et quelles techniques peuvent nous aider à transformer le présent. Pour nous, la redécouverte d’une nouvelle autonomie (alimentaire, énergétique, médicale, etc.) est indissociable d’un processus révolutionnaire de destruction de l’Etat et du démantèlement de la société industrielle. Réinventer un rapport entre la solitude et la rencontre, la forêt et le village, la campagne et le bourg, n’est pas seulement une tension éthique : c’est une nécessité vitale. Le capitalisme attaque les sources mêmes de la vie -la nourriture, l’air, l’eau- en les transformant en marchandises. Il est pour nous illusoire de penser se retirer dans une quelconque réserve de ce gigantesque supermarché. Elargir les espaces d’autonomie -en expérimentant des formes de vie et de rapports autres- et subvertir le présent ordre des choses, répétons-le, sont des aspects inséparables.

Contrairement à la propagande technologique, pour laquelle tout ce qui est techniquement efficace devient socialement positif, nous pensons que les techniques ne valent que soumises à des considérations éthiques et sociales, et que l’on doit faire marche arrière lorsqu’une prétendue efficacité technique s’obtient grâce à une plus grande spécialisation, un pouvoir plus puissant ou un appauvrissement général des rapports humains.

“Et donc ?”

Certaines de ces réflexions sont désormais banales pour beaucoup de personnes, révolutionnaires ou même seulement critiques. Ce qui nous caractérise comme anarchistes, c’est que nous considérons les fins inséparables des moyens, parce que les méthodes de lutte laissent déjà entrevoir la vie pour laquelle nous nous battons. En dépit du machiavélisme dominant, nous savons qu’en refusant d’employer certains moyens on refuse aussi certaines fins, justement parce que ces dernières sont toujours contenues dans les premiers. On sait, et les exemples historiques foisonnent, où a porté la logique de l’opportunisme, des exceptions tactiques et stratégiques, de la “transition vers le communisme” (qui ne finit jamais mais justifie tout). à des dictatures impitoyables ou à des social-démocraties assassines.

Quelqu’un disait qu’on ne peut combattre l’aliénation avec des formes aliénées. On ne peut reproduire dans ses propres rapports et dans ses pratiques les mêmes dynamiques que celles de la domination qu’on combat. Ainsi, nous sommes pour l’auto-organisation des luttes, c’est-à-dire pour une autonomie face à toutes les forces partidaires et syndicales, pour la conflictualité permanente avec le pouvoir, ses structures, ses hommes et ses idéologies. Ainsi, de même que nous refusons l’imbroglio électoral -par lequel la dictature du capital est occultée- , nous refusons en même temps les leaders, les hiérarchies, les comités centraux, les porte-parole médiatiques (soit les futurs chefs politiques).

Attaquer le pouvoir plutôt que de le reproduire, en déserter les institutions plutôt que d’en mendier les subventions, sont des méthodes qui, dans l’immédiat, peuvent sembler peu efficaces et s’accompagner d’un certain isolement (bien préparé par le lynchage médiatique permanent). A cela, on peut répondre que le sens de ce qui est fait se saisit dans l’activité elle-même, et non pas avec en en mesurant les résultats quantitatifs ; on ne peut mesurer les forces sociales à coup de recensements, notamment parce qu’elles sont imprévisibles : ce que nous percevons, au fond, ne sont que les premiers cercles formés par les pierres que nous lançons. D’autre part, la recherche de la cohérence est la force qui contient toutes les autres, et ceci non pas par adhésion sacrificielle à une doctrine, mais pour le plaisir procuré lorsque l’esprit est en accord avec lui-même. C’est dans l’union de la pensée et de l’action, disait Simone Weil, que se renouvelle le pacte de l’esprit avec l’univers.

Ainsi, ce qui peut sembler du “purisme” (comme disent de façon dépréciative les réalistes) est en fait un mode bien concret de palper l’existence, “dans le fier plaisir de la bataille sociale”. Nous ne croyons pas aux soleils radieux de l’avenir qui surgissent des calculs faits dans les arrière-boutiques. Le monde dans lequel on voudrait habiter doit être le plus possible contenu dans ses propres rapports et comportements. Enfin, en ne collaborant pas avec les institutions, personne ne pourra jamais nous jeter à la figure de cracher dans la soupe -et ça aussi, ça compte.

L’auto-organisation dont nous parlons n’est pas une simple vue de l’esprit. C’est une expérience humaine qui existe depuis la nuit des temps, un grand arsenal théorique et pratique que le passé a transmis au présent. Beaucoup de ce qu’on appelle théories ont été suggérées par la réalité des luttes, par les expérimentations communautaires tout comme par les révoltes audacieuses et solitaires de ceux qui ont eu la détermination de défier le pouvoir, les habitudes et les préjugés de leur époque, de ceux qui ont attiré sur eux les foudres de tous les juges antiques et modernes. Du Moyen-Age à aujourd’hui, les exemples de communautés qui ont aboli la propriété privée et l’Etat, en une tentative passionnée de réaliser sur Terre le bonheur que les religions ont toujours enfermé au royaume des cieux, sont innombrables. Mais nous n’avons pas besoin d’un passé dans lequel chercher des justifications à nos désirs. L’auto-organisation est une réalité qui existe dans le monde actuel, soit comme pratique sociale lors des explosions insurrectionnelles (pensons aux assemblées de quartier en Argentine ou aux aarch en Algérie), soit comme méthode de lutte lors de conflits plus spécifiques (pensons aux récents blocus des nettoyeurs des trains, celui de Scansano Jonio ou de la Campania, aux grèves sauvages des conducteurs de trams et bus). Des milliers d’exploités font l’expérience de l’action directe non par idéologie, mais parce que c’est le seul mode pour arracher quelques améliorations réelles aux patrons. Cette critique anticapitaliste que les intellectuels serviles trouvent vaine, dépassée ou criminelle, de nombreux exploités la mettent en œuvre dans leurs luttes parce qu’ils expérimentent le capitalisme sur leur peau. Et nous, dans tout cela ?

N’ayant aucune mentalité avant-gardiste, nous donnons simplement notre contribution, partout où nous y réussissons, pour favoriser des pratiques d’auto-organisation et d’action directe. Lorsque c’est possible, nous initions en notre nom des situations de lutte sociale, autrement nous intervenons, sur nos bases, dans des luttes menées par d’autres. N’étant pas des spécialistes, nous n’avons aucun champ d’intervention exclusif, notamment parce que cette société a désormais atteint un tel degré d’interdépendance entre ses secteurs qu’il n’est possible d’en modifier en profondeur aucun aspect significatif sans remettre l’ensemble en discussion. Même la requête d’une nourriture non empoisonnée signifie pour être satisfaite -comme quelqu’un l’a déjà écrit- le démantèlement de l’ensemble du système de production, d’échange et de transport existant. Du problème de la dévastation de l’environnement à celui de la guerre, la critique se retrouve face à la société toute entière et à ses chiens de garde lorsqu’elle veut aller au fond des choses. Bien sûr, certaines questions nous tiennent plus à cœur que d’autres, et notamment parce que nous pensons qu’elles sont moins récupérables -c’est-à-dire neutralisables- que d’autres par la domination. Si on peut concevoir qu’un pouvoir produise moins d’incinérateurs ou certaines technologies hautement nuisibles, il n’est pas concevable qu’un pouvoir fasse moins de prisons, de la même façon qu’il n’a jamais existé de fossoyeurs de révolutions qui n’en aient reconstruit. Pourtant, à bien y regarder, le problème même de la prison renvoie à celui de l’autonomie des décisions et de ce que chacun a besoin pour vivre. Tant que nous n’apprendrons pas à préférer le libre accord à l’imposition, la solidarité à la compétition avilissante, la logique du châtiment reconstruira ses cages et ses horreurs. Nous sommes pour la rupture révolutionnaire parce que nous savons que les mentalités serviles ont besoin d’une violente secousse au même titre que les institutions sociales, mais nous savons aussi qu’une insurrection est seulement le début d’un changement possible et non pas une panacée. Prêts à nous unir à quiconque souhaite vraiment abattre la domination actuelle, nous défendrons aussi bec et ongles notre possibilité de vivre sans imposer ni recevoir d’ordres d’une autorité, d’un parti ou d’un comité central. L’expérience historique nous a appris que les pires oppresseurs peuvent endosser l’habit du révolutionnaire, et nous ne voulons certainement pas nous retrouver alliés avec les étrangleurs de toute spontanéité subversive et de toute liberté. Pour nous, l’unique violence acceptable est celle qui libère et n’asservit pas, celle qui détruit le pouvoir et ne le reproduit pas, celle qui défend à chacun la possibilité de vivre à sa façon. Imposer la liberté est un contre-sens. Si je devais dresser l’échafaud pour vaincre, disait Malatesta, je préférerais alors perdre.

Que le chœur des intelligences soumises répète qu’une révolution est impossible ne nous impressionne ni ne nous étonne. N’est-ce pas ce que les trente tyrans répétaient aux démocrates athéniens, les aristocrates aux bourgeois, les latifundistes aux paysans mexicains, les démocrates aux anarchistes espagnols, les bureaucrates staliniens aux insurgés hongrois, les sociologues aux enragés du mois de Mai ? “Celui qui fait la révolution à moitié creuse sa propre tombe”. C’est le seul enseignement que nous voulons tirer de ceux qui nous ont précédé sur la route d’une révolution anarchiste.

Nous considérant comme des exploités aux côtés des autres exploités, nous pensons que notre impatience, notre détermination à attaquer ici et maintenant font aussi partie du conflit de classe. Nous n’admettons pas de hiérarchie fondée sur les risques prévus par le code pénal : un tract a la même dignité qu’un sabotage, parce que pour nous l’action directe ne s’oppose pas à la diffusion des idées.

Les années à venir seront lourdes de conflits, certains difficiles à déchiffrer, d’autres clairs parce que nets comme les barricades. Le terrain de l’acquiescement et de la soumission se fissure, de nombreux signes d’insatisfaction le révèlent. L’auto-organisation reviendra cogner avec force à la porte de la guerre sociale.

Nos complices sont et seront tous les individus disposés à se battre pour conquérir la liberté avec les autres, et prêts aussi à risquer la leur.

Prison de Trento, 23 juillet 2004

Ce texte est disponible en brochure à diffuser :

Dans Adesso.

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Ja, aber was wollt ihr denn eigentlich?

Übersetzt aus dem Italienischen und Französischen
Frühling 2010
Originaltitel: « Sì, ma cosa volete in fondo ? »
Adesso (Rovereto-TN), nr. 29,
6. September 2004

 

Diese Ausgabe von Adesso* wird anders sein als die anderen. Wir werden versuchen, auf eine Frage zu antworten, die uns oft gestellt wird: « Ja, aber was wollt ihr denn eigentlich? ». In einer Zeit, in der sich die Repression verschärft, in Anbetracht der kürzlichen Verhaftungen von Anarchisten in Trento und im Rest von Italien, werden sich manche vielleicht über die Wahl eines solch allgemeinen Themas wundern. Es mangelt gewiss nicht an Dingen, die über all dies gesagt werden müssen und wir werden dies so bald wie möglich tun. Sogar die Blinden werden von nun an einsehen müssen, dass die Macht bei jeder Form von Dissens auf immer offenere Weise zuschlägt. Dennoch darf uns die Repression nicht die Luft abschneiden, indem sie uns dazu zwingt, ausschliesslich nach ihrem Zeitplan zu handeln. Die Rolle von ewigen Kassandren** gefällt uns nicht. Vielleicht ist dies der Grund, weshalb wir das Verlangen verspührt haben, jenseits der spezifischen Kämpfe und Episoden und trotz der Bullen, Staatsanwälte, Journalisten und Gefängniswärter ein paar Zeilen für das Leben, wofür wir kämpfen, zu schreiben – wieso jetzt?, das ist nicht leicht zu sagen. Die Fragen, die uns am Herzen liegen – wie beispielsweise jene, einer Gesellschaft ohne Gefängnisse –, werden sozusagen kaum angerissen werden. Dazu brauchen wir gewiss ganz andere Sachen als eine Ausgabe von Adesso. Trotzdem haben wir Lust, es zu versuchen, wenn auch in dem begrenzten Rahmen unseres Blattes für soziale Kritik. Aber wo beginnen?

Wir wissen, dass es unmöglich ist, unseren Verlangen auf den Grund zu gehen, da sie wortwörtlich grundlos sind. Gleichzeitig bereitet es uns jedoch keine Mühe, zuzugeben, dass wir ein Ideal haben. Ein Ideal ist für uns eine alltägliche Art zu leben und im selben Moment eine Vorahnung [prefigurazione] der Welt, in der wir gerne leben würden. Idee und Ideal sind Konzepte, die etymologisch auf das Sehvermögen, auf die Vision verweisen. Es geht um Vorstellungsvermögen, eben, um Vorahnung.

Eine Vorahnung zu haben, bedeutet nicht, minutiöse Architekturen von alternativen Welten oder detaillierte Karten vom Land der Utopie zu erstellen. Abgesehen davon, dass es unmöglich ist, würde dies erneut zu einer Gesellschaftsidee führen, die jener, die wir anstreben, entgegengesetzt ist: Eine von wenigen durchgeplante Gesellschaft, mit der Absicht die ”Menschheit zu verbessern” – wenn auch… gegen ihren Willen.

Für uns ist eine Vorahnung ein Bild, das im Geiste aufblitzt, ein Bild, worin sich die Erfahrung mit der Spannung und der Hoffnung vermischt, worin die Möglichkeiten der Vergangenheit auf den Bruch mit der Gegenwart treffen. Dieses Bild nährt sich von Kämpfen und Werten, von Techniken und Wissen, von Raum und Zeit. Dies ist, worüber wir in dieser Ausgabe sprechen wollen, im Bewusstsein, dass das, was wir wollen, bloss ”die Panik an die Oberfläche der Dinge bringen kann”.

Wie Steine, die ins Wasser geworfen werden

Wir sind zunächst Individuen. Insofern Definitionen keine Käfige sind, sind sie wie ins Wasser geworfene Steine: Sie kreieren immer weitere Kreise, ohne dass es auch nur einem von ihnen gelingt, unsere Individualität vollständig zu umfassen. Dessen bewusst, machen uns die Worte keine Angst. Wieso sind wir Anarchisten?

Weil wir eine Welt wollen, die auf Gegenseitigkeit und wechselseitiger Hilfe basiert, und nicht auf Herrschaft und Ausbeutung. Eine Welt ohne Staat und ohne Geld.

Wir sind uns der Notwendigkeit von Abmachungen – oder, wenn man es bevorzugt, von Regeln –, um zusammenzuleben bewusst; doch die einzigen Abmachungen, die diesen Namen verdienen, sind für uns diejenigen, die frei und gegenseitig gemacht und definiert wurden, und nicht diejenigen, die einseitig von jenen auferlegt wurden, die die Macht, Gesetzte zu erlassen und die militärische Kraft, um deren Respektierung durchzusetzen besitzen. Regel und Gesetz sind gewiss keine Synonyme. Das Gesetz ist eine sehr spezielle – auf Zwang basierende – Art, die Regel zu begreifen. Innerhalb der Grenzen des Möglichen haben wir bis heute versucht, durch das Verweigern einer Autorität, die für uns entscheidet, auf der Basis der freien Vereinbarung zu Leben.

Wir sind für die gegenseitige Hilfe, denn wir wissen, dass Gleichheit alleine nicht ausreicht, wenn sie nicht auch von einem Gefühl bewusster und freiwilliger Solidarität begleitet wird. Im Gegensatz zum liberalen Modell, welches in der Freiheit des anderen eine Begrenzung der eigenen sieht, empfinden wir, dass sich unsere Freiheit, mittels jener der anderen, bis in die Unendlichkeit erstreckt. Im Gegensatz zum autoritären Kommunismus wissen wir, dass die Gleichheit die Schwester des Despotismus ist, wenn sie nicht der Raum ist, worin sich die individuellen Differenzen ausdrücken.

Eine andere Art und Weise die Regel zu begreifen, führt auch zu einer anderen Form, den Konflikten entgegenzutreten. Zuallernächst trägt jeder einzig und allein über die Verletzung jener Regeln Verantwortung, die er selbst definiert und geteilt hat – und nicht über Gesetze, die andere in seinem Namen festgelegt haben; desweiteren werden diese Konflikte auf eine nicht-repressive Weise angegangen, als Zeichen für nicht übereinstimmende Abmachungen, als Experimentieren mit neuen Beziehungen. Auf jeden Fall darf die Lösung für Uneinigkeiten nicht in repressiven Organen – wie Gefängnisse und Wegschliessung im Allgemeinen – institutionalisiert werden, die zu nichts anderem dienen, als jene unterdrückende und willkürliche Macht wiederzubeleben, deren Charakter und Konsequenzen wir alle kennen. ”Gerechtigkeit” kann schliesslich nie von der Gemeinschaft getrennt werden, die sie in spezialisierten Organen ausdrückt, welche in erster Linie danach streben, sich selbst und ihre Privilegien zu reproduzieren. Es gibt offensichtlich keine Lösungsanleitung, einzig eine anti-autoritäre Sensibilität, die es auf den Ruinen aller Gefängnisse zu verfeinern gilt.

Um Entscheidungen gemeinsam und ohne zentalisierende Macht treffen zu können, ist es notwendig, auf direkte und horizontale Weise miteinander zu sprechen. Die Gesellschaft, für die wir kämpfen, ist eine Gesellschaft von Angesicht zu Angesicht. Eine Massenkultur wie die industrielle Zivilisation spezialisiert die Tätigkeiten bis zum Äussersten, kreiert überall Hierarchien und macht die Individuen unfähig, das Produkt ihrer sozialen Beziehungen zu verstehen. Weil das Denken allein im Individuum mit dem Handeln vereint ist – die sozialen Kräfte sind stets blind –, muss die ausgeführte Aktivität unmittelbar von den Individuen selbst kontrolliert und verstanden werden. Die Lohnarbeit hingegen basiert auf dem exakten Gegenteil: Einige Führungskräfte organisieren, während die Masse ausführt, unfähig die Maschinen – von denen sie eine blosse Erweiterung werden – zu beherrschen oder herzustellen, noch das Produkt ihrer eigenen Aktivität zu begreifen.

Nur bei autoritären Geistern steht das Universelle dem Lokalen gegenüber. In einer solchen Vorstellung wird es keinen Ausweg aus dem Grössenwahn der Städte und der Produktionsapparate geben. In Wirklichkeit wird es uns entweder gelingen – vom Kleinen bis zum Grossen, mittels horizontaler Verbindungen – wieder ein soziales Leben auf bescheideneren Grundlagen und mit simpleren Techniken zu erfinden, oder wir manövrieren uns immer mehr der Desintegration jeglicher individueller Autonomie und der ökologischen Katastrophe entgegen. Die vermassten Zusammenhänge – Quellen von Konformismus, Verschmutzung und existenzieller Angst – müssen dringend aufgelöst werden, um mit anderen zu experimentieren, die den Bedürfnissen und Verlangen eines jeden besser angepasst sind.

Entgegen der Fortschrittsidee, die man uns aufdrängt, nach welcher die Geschichte eine Art gerade Linie darstellt, die von den Höhlen bis zum ”Internationalen Währungsfond” reicht, hat die Menschheit während Jahrtausenden in Gemeinschaften ohne Staat und ohne zentralisierte Macht gelebt. Heute geht es gewiss nicht darum, von der Rückkehr in ein mythisches, goldenes Zeitalter zu träumen, sondern vielmehr darum, in der Vergangenheit aufzudecken, welche Beziehungen und Techniken uns behilflich sein könnten, um die Gegenwart zu verändern. Die Wiederentdeckung einer neuen Autonomie (was Nahrung, Energie, Medizin, usw. betrifft) ist für uns von einem revolutionären Prozess der Zerstörung des Staates und der Zerschlagung der industriellen Gesellschaft nicht zu trennen. Wieder eine Beziehung zwischen der Einsamkeit und der Begegnung, dem Wald und dem Dorf, dem Land und der städtischen Umgebung zu erfinden, ist nicht bloss eine ethische Spannung: es ist eine Lebensnotwendigkeit. Der Kapitalismus greift die eigentlichen Quellen des Lebens an – die Nahrung, die Luft, das Wasser – und verwandelt sie in Waren. Zu denken, sich irgendein Reservat dieses gigantischen Supermarktes abtrennen zu können, scheint uns illusorisch. Die Verbreitung von Räumen der Autonomie – indem mit anderen Lebensformen und Beziehungen experimentiert wird – und das Untergraben der gegenwärtigen Ordnung sind, um es zu wiederholen, zwei Aspekte, die nicht voneinander zu trennen sind.

Entgegen der technologischen Propaganda, welche sagt, dass alles was technisch effizient ist, sozial positiv wird, denken wir, dass den Techniken nur unter ethischen und sozialen Überlegungen Wert zukommt, und dass wir einen Schritt zurücksetzen müssen, wenn eine vermeintliche, technische Effizienz nur noch dank grösserer Spezialisierung, grösserer Macht oder einer allgemeinen Verarmung der menschlichen Beziehungen erreicht wird.

« Und nun ? »

Einige dieser Überlegungen sind für viele revolutionäre oder schlicht kritische Personen bereits banal. Was uns als Anarchisten charakterisiert, ist, dass wir die Ziele als untrennbar von den Mitteln betrachten, denn die Methoden des Kampfes geben bereits Einblick in das Leben, wofür wir kämpfen. Vom vorherrschenden Machiavellismus abgeneigt, wissen wir, dass wir mit der Weigerung gewisse Mittel einzusetzen, auch gewisse Ziele verweigern, eben weil Letztere stets in den Ersteren enthalten sind. Wir haben aus der Fülle an historischen Beispielen gelernt wohin die Logik des Opportunismus, die taktischen und strategischen Ausnahmen oder der ”Übergang zum Kommunismus” (der nie übergeht, aber alles rechtfertigt) führen: Zu schonungslosen Diktaturen oder mordenden Sozialdemokratien.

Irgendjemand sagte einmal, dass man die Entfremdung nicht mit entfremdeten Formen bekämpfen kann. In unseren eigenen Beziehungen und unseren eigenen Praktiken können wir nicht dieselben Dynamiken der Herrschaft reproduzieren, die wir bekämpfen. In diesem Sinne sind wir für die Selbstorganisation der Kämpfe, das heisst, für Autonomie gegenüber allen parteilichen und gewerkschaftlichen Kräften; für den permanenten Konflikt mit der Macht, ihren Strukturen, ihren Menschen und Ideologien. Deshalb verweigern wir die Betrügerei der Wahlen – womit sich die Diktatur des Kapitals verhüllt – in gleichem Masse wie Führer, Hierarchien, Zentralkomitees und Mediensprecher (bzw. die künftigen politischen Chefs).

Die Macht anzugreifen, statt sie zu reproduzieren, aus den Institutionen zu desertieren, statt um Subventionen zu betteln; das sind Methoden, die zunächst wenig effizient erscheinen mögen und eine gewisse (von der konstanten medialen Lynchung gut präparierte) Isolation mit sich bringen. Darauf können wir erwidern, dass der Sinn dessen, was wir tun, der Aktivität selbst und nicht der Anzahl quantitativer Resultate anhaftet; eben weil die sozialen Kräfte unvorhersehbar sind, kann man sie nicht in Zahlen messen: was wir wahrnehmen, das sind im Grunde nur die ersten, sich bildenden Kreise von den Steinen, die wir werfen. Die Suche nach Kohärenz hingegen ist die Kraft, die alle anderen Kräfte enthält, und dies nicht durch aufopferndes Anschliessen an eine Doktrin, sondern durch die entstehende Freude, wenn der Geist mit sich selbst einig ist. In der Einheit von Denken und Handeln, sagte Simone Weil, erneuert sich der Pakt des Geistes mit dem Universum.

Und somit ist das, was wie ein ”Purismus” erscheinen mag (wie die Realisten abwertend sagen), in Wirklichkeit eine recht konkrete Weise, die Existenz zu betasten, ”mit der stolzen Freude des sozialen Kampfes”. Wir glauben nicht an aufgehende Sonnen der Zukunft, während man im Hinterzimmer Berechnungen anstellt. Die Welt, in welcher wir leben wollen, muss so viel wie möglich in unseren eigenen Beziehungen und Verhaltensweisen enthalten sein. Da wir nicht mit den Institutionen kollaborieren, wird uns letztendlich niemand vorwerfen können, mit den Wölfen zu heulen – und auch das zählt.

Die Selbstorganisation von der wir sprechen, ist nicht ein blosses Fantasiegebilde. Sie ist eine menschliche Erfahrung, die seit jeher existiert, ein grosses theoretisches und praktisches Arsenal, das aus der Vergangenheit an die Gegenwart weitergegeben wurde. Vieles von dem, was wir Theorie nennen, wurde durch die Realität der Kämpfe und durch gemeinschaftliches Experimentieren angeregt. Doch ebenso durch die kühnen und einsamen Revolten von denjenigen, die die Entschlossenheit besassen, die Macht, die Gewohnheiten und die Vorurteile ihrer Epoche herauszufordern, von denjenigen, die den Zorn aller antiken und modernen Richter auf sich gezogen haben. Vom Mittelalter bis Heute gibt es unzählige Beispiele von Gemeinschaften, die das Privateigentum und den Staat abgeschafft haben, in einem leidenschaftlichen Versuch, auf der Erde jenes Glück zu verwirklichen, das die Religionen stets im himmlischen Königreich einschlossen. Doch wir brauchen keine Vergangenheit, um nach Rechtfertigungen für unsere Verlangen zu suchen.

Selbstorganisation ist eine Realität, die in der heutigen Welt existiert, sei es als soziale Praxis bei aufständischen Explosionen (denken wir bloss an die Quartiersversammlungen in Argentinien oder an die Aarch in Algerien) oder als Kampfmethode bei spezifischeren Konflikten (denken wir an die kürzlichen Blockaden des Zugreinigunspersonals in Scanzano Jonico oder Campania, an die wilden Streiks der Tram- und Buschauffeure). Tausende Ausgebeutete machten ihre Erfahrungen mit der direkten Aktion nicht aufgrund irgendeiner Ideologie, sondern weil es die einzige Methode ist, um den Bossen eine wirkliche Verbesserung zu entreissen. Da sie den Kapitalismus an ihrer eigenen Haut erfahren, machen zahlreiche Ausgebeutete im Verlauf ihrer Kämpfe mit dieser antikapitalistischen Kritik Erfahrung, welche von den Intellektuellen als vergeblich, überholt oder kriminell abgetan wird. Und wir in all dem?

Ohne jegliche avantgardistische Mentalität erbringen wir schlicht überall dort, wo wir können unseren Beitrag, um die Praktiken der Selbstorganisation und der direkten Aktion voranzutragen. Wenn möglich tragen wir dazu bei, Situationen des sozialen Kampfes zu kreieren, ansonsten intervenieren wir – auf unseren Grundlagen – in Kämpfe, die von anderen geführt werden. Wir sind keine Spezialisten und haben auch kein exklusives Interventionsgebiet, eben weil diese Gesellschaft bereits einen solchen Grad an gegenseitiger Abhängigkeit zwischen ihren Bereichen erreicht hat, dass es unmöglich ist, irgendeinen bedeutsamen Aspekt tiefgehend zu verändern, ohne die Gesamtheit in Frage zu stellen. Wie schon einmal jemand schrieb, erfordert selbst das Bedürfnis nach unvergiftetem Essen, um befriedigt zu werden, die Zerschlagung des gesamten, bestehenden Produktions-, Tausch- und Transportsystems. Vom Problem der Umweltverschmutzung bis zu jenem des Krieges, wenn die Kritik auf den Grund der Dinge gehen will, sieht sie sich mit der ganzen Gesellschaft und ihren Wachhunden konfrontiert. Gewiss, einige Fragen liegen uns mehr am Herzen als andere, und zwar vor allem, weil wir denken, dass sie weniger einfach von der Herrschaft rekuperiert – das heisst, neutralisiert – werden können. Wenn es denkbar ist, dass eine Macht weniger Müllverbrennungsöfen oder gewisse hochschädliche Technologien produziert, so ist es nicht denkbar, dass sich eine Macht der Knäste entledigt, ebenso wie es nie Totengräber der Revolution gegeben hat, die nicht die Gefängnisse wieder aufgebaut hätten. Und doch, wenn man genau hinschaut, verweist selbst das Problem des Gefängnisses auf jenes der Unabhängigkeit in den Entscheidungen, und diese braucht ein jeder, um zu leben. Solange wir nicht lernen die freie Abmachung den Befehlen und die Solidarität dem erniedrigenden Konkurrenzkampf vorzuziehen, baut die Logik der Bestrafung ihre Käfige und Schrecken wieder auf.

Wir sind für den revolutionären Bruch, denn wir wissen, dass die unterwürfigen Haltungen, ebenso wie die sozialen Institutionen einen gewaltigen Stoss nötig haben, doch wir wissen auch, dass ein Aufstand kein Allheilmittel, sondern bloss der Beginn einer möglichen Veränderung ist. Bereit, uns mit jedem zu vereinigen, der die gegenwärtige Herrschaft wirklich bekämpfen will, verteidigen wir mit Händen und Füssen unsere Möglichkeit zu Leben, ohne irgendwelche Anweisungen einer Autorität, einer Partei oder eines Zentralkomitees zu erteilen, noch anzuerkennen. Die geschichtliche Erfahrung hat uns gelehrt, dass die schlimmsten Unterdrücker das Kleid des Revolutionärs überziehen können und wir wollen gewiss nicht in Allianz mit den Erstickern jeglicher subversiven Spontaneität und jeglicher Freiheit enden. Die einzig akzeptable Gewalt ist für uns jene, die befreit und nicht unterwirft, jene, die die Macht zerstört und nicht reproduziert, jene, die für jeden die Möglichkeit verteidigt, auf seine eigene Weise zu leben. Wenn ich einen Galgen errichten muss, um zu gewinnen, sagte Malatesta, dann ziehe ich es vor, zu verlieren.

Dass der Chor der unterworfenen Intelligenzen wiederholt, eine Revolution sei unmöglich, beeindruckt uns nicht, noch erstaunt es uns. Ist es nicht das, was schon die dreissig Tyrannen den Athener Demokraten, die Aristokraten den Bourgeois, die Latifundisten den mexikanischen Bauern, die Demokraten den spanischen Anarchisten, die stalinistischen Bürokraten den ungarischen Aufständischen, die Soziologen den Wütenden des Pariser Mai‘s wiederholten? « Wer die Revolution nur halb macht, gräbt sein eigenes Grab ». Dies ist der einzige Ratschlag, den wir aus den Erfahrungen jener ziehen wollen, die uns auf dem Pfad einer anarchistischen Revolution vorangegangen sind.

Uns als Ausgebeutete an der Seite von anderen Ausgebeuteten betrachtend, denken wir, dass unsere Ungeduld und unsere Entschlossenheit hier und jetzt anzugreifen, einen Teil des Klassenkonfliktes ausmacht. Wir lassen keine Hierarchie unter den Mitteln zu, die sich auf den im Strafgesetzbuch vorgesehenen Risiken begründet: ein Flyer hat die selbe Würde wie ein Sabotageakt, denn die direkte Aktion steht für uns der Verbreitung von Ideen nicht gegenüber.

Die kommenden Jahre werden voller Konflikte sein, manche schwierig zu entziffern, andere klar und deutlich wie die Barrikaden. Das Terrain der Einwilligung und Unterwerfung wird rissig, wie zahlreiche Anzeichen von Unzufriedenheit zeigen. Die Selbstorganisation wird erneut kräftig an das Tor des sozialen Krieges pochen.

Unsere Komplizen sind und werden all jene Individuen sein, die bereit sind zu kämpfen, um die Freiheit gemeinsam mit den anderen zu erobern, und auch bereit sind, ihre eigene zu riskieren.

Gefängnis von Trento, 23. Juli 2004

* Zeitschrift für soziale Kritik aus Rovereto, Italien

** Von der gleichnamigen Gestalt aus der griechischen Mythologie abgeleitet, nennt man heute noch denjenigen eine ”Kassandra”, der zutreffend, aber vergebens vor einer drohenden Gefahr warnt, die er für unabwendbar hält. Solche Warnungen werden als ”Kassandrarufe” bezeichnet.

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