sommossa a Berlino Est (1953) it/fr

17giugno-francobollo1

Le giornate di Berlino Est raccontate da alcuni anarchici che vi presero parte

Per comprendere gli avvenimenti di giugno, bisogna conoscere la vita normale nella zona russa. La penuria è una costante. Mentre a Berlino Ovest si vive senza carte e i negozi rigurgitano di provviste, Berlino Est — sebbene sia collegata alla parte più agricola della Germania — ha sempre carte speciali per bambini, disoccupati, lavoratori  leggeri, lavoratori di forza, intellettuali n. 1, intellettuali n. 2, ecc. Per i militanti dei quadri del Partito, ci sono assegnazioni speciali; per l’uomo comune, non solo le razioni sono scarse, ma il più delle volte non si può usufruirne dato che non c’è più nulla da comprare. Dove vanno a finire allora i viveri? Una buona parte se ne va in Russia; un’altra è riservata ai privilegiati del regime. Infine, a fianco dei negozi (privati o cooperativi) che vendono a prezzo di calmiere, il governo ha creato dei negozi appositi che fanno mercato nero ufficiale con grande profitto; sono le Handel Organizationen (organizzazioni di commercio) o H.O.; ma le teste male le hanno soprannominati “organizzazioni di fame”, o “affamatori dell’Est” (Hungernder Osten).

Data la disposizione geografica delle diverse zone della città ed il sistema di trasporti che la serve, è indispensabile che le persone possano passare attraverso il settore russo così come attraverso quelli occupati da francesi, inglesi o americani. Ma, mentre non vi è differenza fra i settori occidentali, nella parte sovietica si nota subito la miseria e la rovina generale, così come la scarsità di viveri, di vestiti e di altri articoli di prima necessità. Le sole cose che si trovano in abbondanza sono la propaganda e la disciplina. Dappertutto, nelle strade, gigantografie di Lenin, Stalin, Pieck (capo comunista tedesco) e consorti; ovunque, nei luoghi di lavoro, regolamenti draconiani, norme rigide, bassi salari e informatori. In breve, questa era la situazione a metà giugno, quando il vicepresidente del Consiglio Rau annunciò una nuova riduzione dei salari reali e un aumento delle norme: da quel momento in poi, gli operai avrebbero dovuto mangiare ancor meno, essere ancora più malvestiti, e faticare ancor di più al fine di «costruire il socialismo».

Questa dichiarazione del ministro Rau, il mattino del 16 giugno, fu il tema di un’animata discussione in diversi cantieri edili nella Frankfürterallee (diventata Stalinallee); i capisquadra ed i capicantiere non riuscivano a far riprendere il lavoro. Gli operai si riscaldavano, s’imprecava, si bestemmiava, si discuteva per la strada. In un cantiere si decise all’inizio di inviare al Ministero una delegazione di due membri, ma era probabile che questi sarebbero stati semplicemente arrestati. Allora per scortarli si costituì un gruppo determinato di sessanta/ottanta persone. La notizia si sparse nei cantieri vicini e alla fine i lavoratori dell’edilizia partirono in blocco per andare a presentare le loro rivendicazioni. Un migliaio di uomini erano in marcia, senza capi, senza ordine militare, senza ritratti né cartelli. All’inizio i passanti si fermavano stupefatti davanti a questa singolare manifestazione. Quando le grida di protesta contro l’aumento delle norme crebbero, l’interesse divenne entusiasmo: si fece corteo al corteo. La colonna raggiunse l’Alexanderplatz (quartiere popolare al cui centro si trova la Prefettura di Polizia) ingrossandosi a vista d’occhio, allorché si verificò un primo incidente. Due compagni di cantiere sono stati bloccati dai vopos e trascinati alla «Presidenza della Polizia popolare». Ma la folla, ammassandosi sotto le finestre, minacciò di dare l’assalto; le pietre volarono attraverso i vetri e la temperatura era talmente alta che i vopos giudicarono più prudente rilasciare i prigionieri.

A un dato momento un grido si leva: «Andiamo al governo!» e la colonna operaia si rimette in marcia. Arriva verso mezzogiorno sotto i famosi tigli berlinesi, Unter den Linden; cammin facendo, si è ingrossata e conta ormai decine di migliaia di persone. Più si ingrossa, e più le rivendicazioni si estendono. Non si protesta più solo contro le norme eccessive, ma contro le barriere che separano i settori e le zone, ed infine contro il governo ed il regime. Gli studenti dell’Università Humboldt si mescolano alla folla, che conta ormai centomila persone e si sente padrona della strada. Davanti all’ambasciata russa scandisce: «Ivan, hau ab» (Ivan, vai a casa!) e «Wir wollen keine Slaven sein» (Non vogliamo essere schiavi), poi ancora e sempre «Wir fordern freie Wahlen» (Vogliamo libere elezioni). La bandiera sovietica sulla Porta di Brandeburgo — scalata da giovani audaci — viene tolta, strappata, bruciata. Le gigantografie dei capi e le loro parole d’ordine monumentali eccitano la collera popolare che si accanisce a farle a pezzi. Infine, eccoci nella Leipzigerstrasse, di fonte alla sede del governo (il vecchio ministero dell’Aria sotto Goering). Fino ad ora non abbiamo quasi incontrato resistenza, sono le due di pomeriggio. Benché il governo sia in seduta, nessuno dei nostri grandi capi è disposto a regalarci un discorso; i bonzi del Partito si nascondono nei loro buchi, in preda all’indecisione e alla paura; un tavolo all’aperto attende invano gli oratori. Si grida di nuovo «Dimissioni! Abbasso il governo!», poi si canta all’indirizzo di Ulbricht e Pieck: «Der Spitzbart und der mit der Brille – Sind nicht da durch unser Wille» (La barbetta e l’uomo con gli occhialini – non eravamo noi a volerli). Alla fine si mostra Rau, vicepresidente del consiglio. Sale sul tavolo e vuole arringare la folla. Ma gli si urla di scendere e gli si fa perdere l’equilibrio sollevando la tribuna improvvisata su cui gesticola. Gli succede il ministro Selbmann, che salta sul tavolo. Non gli riesce del tutto. Un muratore salta a sua volta e lo butta a terra, mentre stava promettendo leggi meno severe. E la gioia non ha più limiti quando il muratore urla: «Vogliamo essere liberi e non siamo solo contro l’aumento delle leggi. Non veniamo qui solo per la Stalinallee, ma per tutta Berlino!».

Nel corso del pomeriggio la manifestazione aumenta ancora, dopo l’uscita dal lavoro. Due vetture munite di altoparlanti scortate da una macchina della polizia annunciano disperatamente: «Gli aumenti di norme ingiustificati verranno fatti rientrare». La volante viene fatta a pezzi, un’auto viene rovesciata, l’altra passa al servizio dei manifestanti. Alcuni dirigenti del S.E.D., inviati per perorare la causa della pacificazione, sono sbeffeggiati e percossi. Viene gridato a gran voce: «Sciopero generale!». La sera, gli uomini non stanno fermi un attimo. Un tentativo di contromanifestazione da parte della “Gioventù comunista” fallisce, sulla Friedrichstrasse; la città esulta. La polizia non ha mai contrattaccato.

Il mattino del 17 giugno l’atmosfera è tesa. Malgrado una pioggia incessante, si formano di nuovo colonne di manifestanti in diversi quartieri. La polizia sembra essersi ripresa; i posti di guardia sono raddoppiati davanti agli edifici governativi della Leipzigerstrasse. I russi pattugliano coi camion. I vopos con le uniformi russe restano ammassati in grossi battaglioni. Sulla Leipzigerstrasse i carri armati sovietici fanno la spola. Piove a dirotto. Decine di migliaia di persone invadono i marciapiedi. La questione è diventata: schiavitù o libertà. Vengono divelti i cartelli che delimitano il settore russo. Il popolo vuole cancellare ogni separazione fra Berlino Est e Ovest. Una marea umana affluisce e rifluisce attorno alla Presidenza della Polizia popolare, ma viene respinta da cariche molto dure. Sulla Potsdammerplatz, alcuni pali di demarcazione e del materiale propagandistico alimentano un falò, poi vengono incendiati i locali di un giornale e una sede della Handel-Organization. Più lontano, una caserma di polizia è in fiamme; i poliziotti hanno ripiegato nella Kolumbus-Haus e la bandiera bianca sventola dalle finestre. Una parte della Vopo si è rifugiata a Berlino Ovest. Ma la resistenza governativa va crescendo man mano che arrivano i carri armati e i blindati russi. In diversi quartieri la folla furiosa dà l’assalto agli uffici del S.E.D. (Partito socialista unificato a direzione comunista). Vengono bruciati i documenti e picchiati i funzionari rimasti sul posto. La Kolombus-Haus ed il café Vaterland sono in fiamme. Lo sciopero è totale nei trasporti e in tutte le imprese del settore russo. Rinforzi di decine di migliaiai di abitanti marciano coraggiosamente dalla periferia ovest verso il centro cittadino.

Da Heringsdorf sono partiti fin dal mattino dagli otto ai diecimila uomini e donne. Le porte chiuse delle fabbriche e le frontiere dei settori non hanno potuto bloccare la loro assenza dal lavoro e la loro marcia. Hanno attraversato Berlino Ovest dopo aver percorso a piedi più di venticinque chilometri. La polizia coi suoi manganelli non può più fronteggiare la tempesta umana. Sovrastata, apre il fuoco a più riprese. I carri armati russi si lanciano attraverso la folla costringendola a sbandare precipitosamente. Tuttavia con pietre, pezzi di ferraglia, travi di legno, un certo numero di carri armati viene bloccato. Al riparo degli altri, avanza adesso la polizia popolare, ben sapendo che i colossi d’acciaio la proteggeranno dai pugni nudi dei manifestanti. Sulla Potsdammerplatz vengono esplosi colpi d’arma da fuoco, seguiti da salve di mitragliatrici. Ben presto la piazza rimane vuota. All’inizio del pomeriggio numerosi feriti vengono trasportati dai loro compagni verso Berlino Ovest per metterli al sicuro negli ospedali. Vengono annunciati i primi morti, che sono portati via. Ora la polizia non ha più alcuna esitazione, si eccita a colpire i manifestanti, a sparare, a cercare la folla con l’appoggio dei carri armati russi. Ed è un miracolo che non ci siano altre vittime.

All’una viene proclamato lo stato d’assedio dal comando militare russo. Vengono proibiti gli assembramenti di più di tre persone. Ma le strade sono ancora piene di decine di migliaia di persone. I militanti del S.E.D. sparano dalle loro auto con le rivoltelle. Ormai in tutte le parti della città l’iniziativa è passata alle forze governative che prendono d’assalto e paralizzano i manifestanti, con l’intervento ulteriore di carri armati veloci e di una intera divisione di fanteria russa. Ci sono morti e feriti dovunque. I settanta feriti più gravi vengono trasportati a Berlino Ovest, dove sei di loro muoiono. Altri feriti e altri morti restano sul campo e non si può né soccorrerli né contarli. I russi mettono in movimento consigli di guerra che colpiscono i rivoltosi con pene draconiane immediate. Al calar delle tenebre l’insurrezione è stata schiacciata dai cingolati dei carri armati e soffocata nel sangue. La fanteria russa si accampa nelle strade, qua e là si sentono di continuo colpi d’arma da fuoco o raffiche. La rivolta degli sfruttati è stata repressa ancora una volta.

Il 18 giugno vengono ristabiliti i confini dal lato di Berlino Ovest, pattugliati da carri armati russi, dalla fanteria e dalla Vopo. Ma nessuna azienda è in funzione. Tutti i negozi sono chiusi. La metropolitana è ferma, il traffico completamente interrotto.

Gli abitanti vagano per la città. Malgrado la legge marziale, le strade ben presto si riempiono. Non si vuole darsi per vinti. Tuttavia la polizia cerca gli «istigatori della ribellione». I bonzi del S.E.D., infine usciti dai loro buchi, fanno opera di infiltrati e delatori. Viene annunciata l’esecuzione di un abitante di Berlino Ovest, l’operaio Willi Göttling, condannato da una corte marziale, presentato come uno dei «capi» dell’insurrezione. Ma i «capi» non erano dalla parte degli insorti. La sommossa era nata spontaneamente dai lavoratori e dalla popolazione. L’insurrezione non è stata comandata né ordinata da nessuno. È un’assurdità presentarla come opera di agenti occidentali. È stata solo la risposta alla provocazione inaudita del governo Ulbricht-Grotewhol, che agiva sotto gli ordini di Mosca. È da quella parte — ad Est — che bisogna cercare i provocatori.

 

[Contre-Courant n. 11, autunno 1953]

 

1953: Émeute à Berlin

Les journées de Berlin-Est racontées par des anarchistes qui y prirent part

 

 

Pour comprendre les événements de juin, il faut savoir ce que c’est que la vie normale en zone russe. La disette est permanente. Alors qu’à Berlin-Ouest on vit sans cartes et que les magasins regorgent de provisions, Berlin-Est, bien que relié à la partie la plus agricole de l’Allemagne, a toujours des cartes spéciales pour les enfants, les non-travailleurs, les travailleurs légers, les travailleurs de force, les intellectuels n° 1, les intellectuels n° 2, etc… Pour les militants des cadres du Parti, il y a des attributions spéciales ; pour l’homme ordinaire, non seulement les rations sont maigres, mais le plus souvent on ne peut les toucher, parce qu’il n’y a plus rien à acheter. Où donc passent les vivres ? Une bonne partie s’en va en Russie ; une autre est réservée aux privilégiés du régime. Enfin, en marge des magasins (privés ou coopératifs) vendant à la taxe, le gouvernement a créé des magasins spéciaux qui font du marché noir officiel à gros bénéfice ; ce sont les « Handel Organizationen » (organisations de commerce) ou H.O. ; mais les mauvaises têtes les ont surnommés « organisations de famine », ou « affameurs de l’Est » (Hungernder Osten).

Étant donnée la disposition géographique des diverses parties de la ville et le système des transports qui la dessert, il est indispensable que les gens puissent passer par le secteur russe aussi bien que par ceux occupés par les Français, les Anglais, ou les Américains. Mais, tandis qu’il n’y a pas de différence entre les secteurs occidentaux, on remarque immédiatement dans la partie soviétique la misère et le délabrement général, ainsi que la pénurie de vivres, de vêtements et d’autres articles de première nécessité. Les seules choses qui soient en abondance sont la propagande et la discipline. Partout, dans les rues, des images géantes de Lénine, Staline, Pieck (chef communiste allemand) et consorts ; partout, sur les lieux de travail, des règlements draconiens, des normes élevées, des bas salaires et des mouchards. Bref, telle était la situation à la mi-juin, lorsque le vice-président du Conseil des Ministres, M. Rau, annonça une nouvelle diminution des salaires réels et une augmentation des normes : désormais, les ouvriers devraient manger ancore moins, être encore plus mal vêtus, et s’épuiser encore davantage à « construire le socialisme ».

Cette déclaration du ministre Rau, le matin du 16 juin, fut le thème d’une discussion animée dans divers chantiers du bâtiment dans la Frankfürterallee (devenue Stalinallee par la grâce de l’occupant) ; les contremaîtres et les conducteurs de travaux n’obtenaient pas qu’on se mît au travail ; les ouvriers s’échauffaient, on pestait, on jurait, on discutait en pleine rue. Sur un des chantiers, on décida d’abord d’envoyer au Ministère une délégation de deux membres, mais il était probable que ceux-ci seraient tout simplement arrêtés. Alors se forma pour les escorter un groupe résolu de soixante à quatre-vingts. La nouvelle se répandit dans les chantiers avoisinants, et finalement, c’est en bloc que les gars du bâtiment partirent présenter leurs revendications. Un millier d’hommes était en marche, sans chefs, sans ordre militaire, sans portraits ni pancartes. Les passants s’arrêtaient d’abord stupéfaits devant cette manifestation d’un genre nouveau. Lorsque s’élevèrent les clameurs de protestation contre l’élévation des normes, l’intérêt devint de l’enthousiasme : on fit cortège au cortège ; la colonne gagnait l’Alexanderplatz (quartier populaire au centre duquel se trouve la Préfecture de Police) et faisait boule de neige à vue d’oeil, quand surgit un premier incident. Deux compagnons de chantier sont embarqués par les vopos et traînés à la « Présidence de la Police populaire ». Mais la foule, s’amassant sous les fenêtres, menace de donner l’assaut ; les pierres volent à travers les vitres, et la température est telle, que les vopos jugent plus prudent de relâcher les prisonniers.

Là-dessus, un cri s’élève :

« Allons au gouvernement ! » et la colonne ouvrière se remet en marche. Elle arrive vers midi sous les fameux tilleuls berlinois, Unter den Linden ; chemin faisant, elle s’est grossie et se compte maintenant par dizaines de mille ; plus elle s’enfle et plus les revendications s’élargissent. On ne proteste plus seulement contre les normes excessives, mais contre les barrières séparant les secteurs et les zones, et finalement contre le gouvernement et le régime. Les étudiants de l’Université Humboldt se mêlent à la foule ; elle compte maintenant cent mille personnes et se sent maîtresse de la rue. Devant l’ambassade russe, elle scande : « Ivan, hau ab » (Ivan, rentre chez toi) et « Wir wollen keine Slaven sein » (Nous ne voulons pas être des esclaves), puis encore et toujours « Wir fordern freie Wahlcn » (Nous exigeons des élections libres) ; le drapeau soviétique sur la Porte de Brandebourg — escaladée par de jeunes audacieux — est amené, déchiré, brûlé. Les images géantes des chefs et leurs mots d’ordre monumentaux excitent la colère populaire qui s’acharne à les mettre en pièces. Enfin, nous voilà dans la Leipzigerstrasse, en face du siège du gouvernement (l’ancien ministère de l’Air sous Goering). Jusqu’à présent, nous n’avons presque pas rencontré de résistance : il est deux heures de l’après-midi. Bien que le gouvernement soit en séance, personne de nos grands chefs ne se trouve disposé à nous régaler d’un discours ; l’indécision et la peur tiennent les bonzes du Parti, cachés dans leurs trous ; en vain, une table en plein air attend les orateurs. Alors on crie de nouveau : « Démission ! A bas le gouvernement ! » ; puis l’on chante à l’usage de MM. Ulbricht et Pieck : « Der Spitzbart und der mit der Brille – Sind nicht da durch unser Wille » (La barbiche et l’homme aux lorgnons – Ce n’est pas nous qui le voulions). A la fin se montre Rau, vice-président du conseil. II monte sur la table et veut haranguer la foule. Mais on lui crie de descendre et on lui fait perdre l’équilibre en soulevant la tribune improvisée sur laquelle il gesticule. Le ministre Selbmann lui succède ; il grimpe sur la table. Cela ne lui réussit pas davantage. Un maçon grimpe à son tour et le jette à terre, alors qu’il promettait des normes moins dures. Et la joie n’a plus de bornes, lorsque le maçon s’écrie : « Nous voulons être libres, et nous ne sommes pas seulement contre l’ élévation des normes. Nous ne venons pas ici seulement pour la Stalinallee, mais pour Berlin tout entier ! »

L’après-midi s’avance, et la manifestation s’élargit encore par la sortie du travail ; deux voitures à hautparleur escortées d’un car de police annoncent désespérément : « Les augmentations de normes injustifiées seront ramenées à leur ancien niveau. » Le car est mis en pièces détachées, une voiture est renversée, l’autre passe au service des manifestants. Des dirigeants du S.E.D., envoyés pour plaider la cause de l’apaisement, sont bernés et rossés ; et le grand cri est lancé « Grève générale ! » Le soir, les hommes ne tiennent pas en place ; une tentative de contre-manifestation des Jeunesses communistes se termine en déroute, sur la Friedrichstrasse ; la ville exulte dans sa force. La police n’a toujours pas contre-attaqué.

Au matin du 17 juin, l’atmosphère est tendue. Malgré la pluie qui n’arrête pas, des colonnes de manifestants se forment à nouveau dans les divers quartiers. La police paraît s’être ressaisie ; les postes sont doublés devant les édifices gouvernementaux de la Leipzigerstrasse. Les Russes patrouillent en camions. Les vopos en uniformes russes restent massés par gros bataillons. Dans la Leipzigerstrasse, les tanks soviétiques font la navette. Il pleut à verse. Des dizaines de milliers de gens envahissent les chaussées. La question est maintenant : esclavage ou liberté. On arrache les panneaux indiquant les limites du secteur russe ; le peuple veut effacer toute séparation entre Berlin-Est et Ouest. Une marée humaine flue et reflue autour de la Présidence de la Police populaire ; elle est repoussée par des charges très dures. Sur la Potsdammerplatz, des poteaux de démarcation et du matériel de propagande alimentent un feu de la Saint-Jean ; puis c’est l’incendie des locaux d’un journal et d’un établissement de l’Handel-Organization. Plus loin, une caserne de police est en flammes ; les policiers se sont repliés de la Kolumbus-Haus, et le drapeau blanc flotte aux fenêtres. Une partie de la Vopo s’est réfugiée à Berlin-Ouest. Mais la résistance gouvernementale va croissant à mesure que débouchent les tanks et les panzers russes. Dans divers quartiers, le peuple furieux donne l’assaut aux bureaux du S.E.D. (Parti socialiste unifié à direction communiste) ; on brûle les papiers, on rosse les permanents demeurés à leur poste. La Kolumbus-Haus et le café Vaterland sont en feu. La grève est totale dans les transports et dans toutes les entreprises du secteur russe. Des renforts de dizaines de milliers d’habitants marchent courageusement de la banlieue ouest vers le centre de la ville.

De Heringsdorf, huit à dix mille hommes et femmes sont partis dès le matin. Les portes fermées des fabriques et les frontières des secteurs n’ont pu les arrêter dans leur action de débauchage et dans leur marche. Ils ont traversé Berlin-Ouest après avoir fait à pied plus de vingt-cinq kilomètres. La police avec ses matraques ne peut plus faire face à la tempête humaine. Débordée, elle ouvre le feu à plusieurs reprises ; les tanks russes foncent à travers la foule et la forcent à s’écarter précipitamment. Cependant, avec des pierres, des morceaux de ferrailles, des poutres de bois, un certain nombre de tanks sont échenillés. A l’abri des autres, s’avance maintenant la police populaire, sachant que les colosses d’acier les protégeront contre les poings nus des manifestants. Des coups de feu éclatent sur la Potsdammerplatz, suivis de salves de mitrailleuses. Bientôt, la place reste vide ; au début de l’après-midi, plusieurs blessés sont transportés par leurs compagnons vers Berlin-Ouest où ils seront en sûreté dans les hôpitaux. On annonce les premiers morts ; on les emporte. La police n’a maintenant plus d’hésitation ; elle s’excite à assommer les manifestants, à tirer, à chercher la multitude avec l’appuides chars russes. Et c’est miracle qu’il n’y ait pas davantage de victimes.

A 13 heures, l’état de siège a été proclamé par le commandant militaire russe. Les rassemblements de plus de trois personnes sont interdits. Mais c’est encore par dizaines de milliers que les gens se groupent dans les rues. De leurs autos, les militants de cadre du S.E.D. tirent avec des revolvers. Maintenant, dans toutes les parties de la ville, l’initiative est aux forces gouvernementales qui assaillent et paralysent les manifestants. Des tanks rapides et toute une division d’infanterie russe sont jetés dans la balance.

Partout il y a des morts et des blessés. Soixante-dix des plus gravement atteints sont transportés à Berlin-Ouest, dont six meurent. D’autres blessés et des morts restent sur place et l’on ne peut ni les secourir ni même les compter.

Les Russes mettent en mouvement des conseils de guerre qui frappent les émeutiers de peines draconiennes immédiates. A la nuit tombante, l’insurrection a été écrasée par les chenilles des tanks et étouffée dans le sang. L’infanterie russe campe dans les rues ; toujours il y a des coups de feu dispersés, ou des salves. La révolte des exploités a été brisée une fois de plus.

Le 18 juin, les frontières du côté de Berlin-Ouest sont rétablies et gardées par les tanks russes, l’infanterie et la Vopo. Mais aucune entreprise ne fonctionne. Toutes les boutiques sont fermées. Le métro est arrêté, le trafic entièrement suspendu. Les habitants errent dans la ville.

Malgré la loi martiale, les rues sont bientôt pleines de monde. On ne veut pas se croire vaincus. Cependant la police cherche les « instigateurs de la rébellion ». Les bonzes du S.E.D., enfin sortis de leurs trous, font office de mouchards et d’indicateurs. On annonce l’exécution d’un habitant de Berlin-Ouest, l’ouvrier Willi Göttling, condamné par une cour martiale ; on le présente comme ayant été un des « meneurs » de l’insurrection. Mais les « meneurs » n’étaient pas du côté des insurgés. L’émeute était spontanée de la part des travailleurs et de la population. Cette insurrection n’a été commandée ni ordonnée par personne. C’est un non-sens que de la présenter comme l’oeuvre d’agents occidentaux. Il n’y avait là qu’une réponse à la provocation inouïe du gouvernement Ulbricht-Grotewohl, agissant comme sous-ordre de Moscou. C’est de ce côté-là — à l’Est — qu’il faut chercher les provocateurs.

 

[Extrait de Contre-Courant n° 11, automne 1953]