Per il verso della vita (it/en)

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Lope Vargas
«Quanti esseri hanno attraversato la vita senza mai svegliarsi? E quanti altri si sono accorti che stavano vivendo solo per il monotono tic-tac degli orologi?»
Agli occhi più attenti non è certo sfuggito che in passato la poesia denotava una tendenza alla critica del mondo che è dato, alla trasformazione di questo mondo col fuoco della sua rivolta e delle sue esigenze. Al di là delle parole, e più precisamente contro, la poesia tendeva a trasgredire il piano in qualche modo contemplativo dove era stata confinata, per affermarsi sotto una forma attiva, concreta, materiale. Dunque a incarnarsi in questo mondo, gettandosi nella mischia per tentare di occupare un posto di primo piano nella lotta per la sua trasformazione. Si è voluto così guardare sotto una nuova luce gli autori di opere fino a quel momento considerate meramente letterarie, cominciare a udire la loro voce come se fosse quella di autentici uomini d’azione che invitavano alla battaglia. Rimbaud il comunardo, o Majakovskij il bolscevico, sono solo due degli innumerevoli esempi che in questo senso si potrebbero fare. Appare quindi tanto più strano che nessuno, o quasi, abbia pensato di intraprendere il cammino inverso, quello cioè che guarda ad individui passati alla storia per le loro azioni come ad autentici poeti.

Da questo punto di vista, si è appena agli albori della conoscenza dell’opera di Emile Henry, uno dei più grandi poeti francesi dell’Ottocento. Forse bisognerebbe ritrovare i colori usati da Lewis nel Monaco, per poter ricreare l’atmosfera appropriata che ha salutato l’apparizione di questo ragazzo ventunenne. Di fronte ai poeti d’allora, ma anche a molti poeti contemporanei, i suoi interventi a Parigi in rue des Bons-Enfants nel 1892 (cinque agenti morti nell’esplosione avvenuta in una stazione di polizia) e al Cafè Terminus nel 1894 (una ventina di feriti nel locale ritrovo della borghesia) brillano di un fulgore incomparabile; sono l’espressione di una rivelazione totale che sembra eccedere le possibilità umane. Infatti i grandi poeti non si caratterizzano forse per la loro tenace ricerca di superare i limiti a cui poteva aspirare la loro vita? Emile Henry è andato talmente lontano su questa via, da restare solo. Tutto ciò che, negli anni che seguiranno, si penserà e si intraprenderà di più audace contro il grigiore di un ordine sociale putrefatto ha trovato in lui un magico precursore. L’azione subisce con Emile Henry una svolta fondamentale, denota un ricominciamento, abbandonando le spiagge secche del beau geste.

«Inoltre ho ben il diritto di uscire dal teatro quando la commedia mi diventa odiosa ed anche sbattere la porta uscendo, col rischio di turbare la tranquillità di coloro che ne sono soddisfatti».

Sebbene abbia espresso meglio di chiunque altro le ragioni che possono spingere chi ha deciso di farla finita ad usare le cattive maniere, niente è più estraneo in lui della disperazione. Al contrario, con Henry l’atto individuale cessa di essere un martirio, ossia una manifestazione religiosa. Prima di lui, e purtroppo anche dopo, la ghigliottina non costituiva soltanto la punizione che l’ordine costituito minaccia contro il Ribelle, ma un destino considerato ineluttabile e che veniva deliberatamente scelto.

Ravachol si vanta delle proprie gesta in un locale pubblico, facendosi arrestare. Vaillant non cerca minimamente di evitare la cattura dopo aver lanciato la sua bomba alla Camera dei deputati. Anche Caserio e Bresci rinunciano alla propria libertà pur di vedere realizzata la loro opera. Dall’altro lato dell’oceano, Aleksandr Berkman e Leon Czolgosz non si comportano diversamente. Ma nel momento in cui Emile Henry apre il fuoco sugli zelanti poliziotti che lo stanno rincorrendo, cercando in tutti i modi di sottrarsi all’arresto, egli rompe con l’ideologia mortifera del sacrificio, con la logica matematica della compensazione. Al presidente della Corte che lo rimprovera di aver tutto progettato per mettersi al sicuro, Henry risponde: «È naturalissimo; come avrei potuto coltivar la speranza di ricominciare e di fare magari più vaste applicazioni, se alla prima mi fossi lasciato cogliere?». Del resto fu sempre lui a lasciar scritto che: «Tra gli economi di se stessi ed i prodighi di se stessi, credo che i prodighi siano i migliori calcolatori».

Così comportandosi, Henry fornisce per la prima volta all’azione individuale il suo orizzonte più appropriato. Una scommessa di vita, non una promessa di morte. Ma non è soltanto nelle modalità, è anche nella stessa scelta dell’obiettivo contro cui scagliare le proprie invettive che Henry opera un salto vertiginoso rispetto ai suoi contemporanei. Egli non abbatte figure simbolo dell’oppressione, non incendia parafulmini messi a protezione di un’intera classe di sfruttatori: è l’intera borghesia, con i suoi cani da guardia, che trema al rimbombo della folgore di chi è convinto che «di borghesi innocenti non ve ne sono, comunque vi piaccia qualificarli».

In Henry l’ispirazione poetica scaturisce dalla rottura tra il buon senso e l’immaginazione, rottura che – quando si verifica – il più delle volte pende in favore di quest’ultima. La rivolta, qualsiasi rivolta, non potrebbe essere considerata ancora Poesia se dovesse risparmiare indefinitamente una forma di autorità a scapito delle altre. È dunque tra le macerie di rue des Bons-Enfants e tra i tavoli rovesciati del caffè Terminus che essa si esalta, si sublima, si completa. Il contrasto flagrante che, dal punto di vista morale, sembrano offrire queste due opere con la tensione ideale che le anima è in realtà il frutto amaro dell’ideologia dominante. Se i re e i presidenti della repubblica hanno le mani sporche di sangue, i cavalieri d’industria e i gendarmi non sono da meno. Se i primi rappresentano da lontano quell’oppressione che quotidianamente prosciuga la nostra esistenza delle sue gioie più intense, i secondi ne sono la concretizzazione a noi più vicina. Insomma, se si scandaglia l’animo umano per ritrovare ciò che può costituire il fondamento di un simile furore, si scoprirà come questo riposi soprattutto sull’impossibilità di inventare le condizioni della propria avventura esistenziale, costretta a dover sottostare a banali cliché.

Con Henry ad essere rimessi in discussione sono i limiti entro i quali le idee possono entrare in rapporto con le idee, e gli atti con gli atti. Egli rifiuta la supremazia della propaganda retorica a scapito dell’azione, giacché vuole che la libertà – se essa non è un vuoto segreto fatto ad un idolo astratto – si confonda necessariamente con la messa in atto dell’idea. «Dacché un’idea è matura ed ha trovato una formula, bisogna senza più tardare cercarne la realizzazione». Un principio di mutazione perpetua si impadronisce così degli oggetti come delle idee, tendendo a raggiungere una liberazione totale che implica quella dell’uomo. Con occhio assolutamente selvaggio, Henry si tiene ai margini del perfezionamento scientifico del mondo, passando oltre la dimensione consapevolmente utilitaria di questo perfezionamento, per collocarlo assieme a tutto il resto sotto la luce nera dell’apocalisse. Apocalisse definitiva, la sua opera, nella quale si perdono e si esaltano le grandi pulsioni istintive a contatto di una gabbia d’amianto che rinchiude un cuore rovente.

«La società moderna è come una vecchia nave che affonderà nella tempesta, per non aver voluto liberarsi del suo carico accumulato durante il viaggio nel corso dei secoli; vi sono delle cose preziose, ma che pesano troppo».

Se egli accettava di agire sul mondo così come gli era stato dato, si guardava bene dal modificarne vagamente le forme in misura di un desiderio incerto, sapeva che così facendo avrebbe compromesso per sempre l’azione che sognava di esercitare. Bisognava che le sue azioni si inserissero in questa realtà fatta di bottegai, di pensionati, di funzionari, di camerieri, di appetiti meschini, di stupidi orgogli e oscure invidie. Ed egli voleva operare sul mondo e non sui fantasmi con cui è tanto comodo sostituirlo. Così, il suo passo decisivo non fu quello di inventare un universo parallelo ma di stabilire, in favore di una conoscenza esatta, il peso autentico e l’orrore fertile di quello in cui ci troviamo tutti immersi fino al collo. Il mondo è fatto così come lo conosciamo: e sia. Ma allora che cosa ce ne facciamo? A questo interrogativo, egli cercò di non mentire mai a se stesso: «tra la beatitudine dell’incoscienza e l’infelicità di sapere, io ho scelto».

Ed è proprio questa consapevolezza, questo rifiuto di arrendersi davanti alla vanità del tutto, ad aver guidato la sua mano: «Quando un uomo, nell’attuale società, diventa un ribelle cosciente delle proprie azioni, è perchè ha fatto nel suo cervello un lavoro di analisi doloroso le cui conclusioni sono imperative e non possono essere eluse se non per vigliaccheria. Lui solo tiene la bilancia, lui solo è giudice della ragione o del torto di odiare e di essere selvaggio, “perfino feroce”».

Queste parole precedono quelle che un altro grande poeta francese, Antonin Artaud, ebbe modo di scrivere qualche decennio dopo: «Non vi è crudeltà senza coscienza, senza una specie di coscienza applicata». 

 

Emile Henry sconvolge. Sconvolge perché distrugge alle fondamenta tutto un sistema di riferimenti, perché corrode la cultura umanistica occidentale, perché colpisce senza pietà il pensiero e la società borghese. Pensiero che si è difeso dichiarando folli i suoi atti, insensate le sue parole. Ma le accuse che sono state mosse nei confronti della sua opera, al fine di sminuirla, mostrano bene come la critica non abbia mai potuto avvicinarsi ad essa senza rimanere scottata. In prima fila, come sempre del resto, si trovavano i giornalisti armati della loro ridicola psichiatria da Corte d’Assise. Si trattava di dimostrare il più in fretta possibile che Emile Henry denotava malattia e demenza. Come riuscirvi? Ricorrendo alle aberrazioni prese a prestito da Freud e consimili: il punto di partenza dell’impresa di Henry sarebbe stato una delusione amorosa, una carenza affettiva. In questo modo, ecco come la sinistra ombra dell’idiozia ha cercato di banalizzare il tentativo di rivincita del desiderio messo in atto da Henry.

Quanto alla sua dichiarazione resa in tribunale, le motivazioni che egli dà alle sue azioni hanno un tale accento passionale da non risultare affatto ciniche. Non solo Henry non è cinico, ma non è neppure un fanatico come molti hanno cercato di dipingerlo, anche fra i suoi stessi compagni. Il suo furore non è quello del puritano idealista che distrugge perché suggestionato da una visione messianica, ma è rivolto tutto contro coloro che lo opprimono. Emile Henry non si giustifica in considerazione di ciò che sarà il futuro – l’arcadia anarchica –, ma in considerazione di ciò che è il presente – un’esistenza miserevole. La pace, la giustizia, l’uguaglianza e l’amore universale saranno forse del mondo di domani, ma la realtà di oggi è la lotta fra la società dell’autorità e gli individui che vogliono la libertà perché sono responsabili di se stessi. Non a caso Henry ha fatto propria la frase messa in bocca da Zola a Souvarine, personaggio del suo romanzo più famoso: «Tutti i ragionamenti sull’avvenire sono delittuosi, perchè impediscono la distruzione pura e semplice ed ostacolano il cammino della rivoluzione». Contro ogni tentazione di riconciliazione, contro ogni speranza di poter assistere a dei placidi tramonti, Henry ammette di «avere portato nella lotta un odio profondo, ogni giorno ravvivato dallo spettacolo nauseante di questa società in cui tutto è ostacolo all’espansione delle passioni umane, alle tendenze generose del cuore, al libero slancio del pensiero».

Dopo il pensiero, toccava all’intera società borghese di doversi difendere. Di doversi vendicare, potremmo dire. Emile Henry, sebbene avesse cercato di evitare un simile tragico epilogo, lo seppe affrontare con dignità: «In questa guerra senza pietà che abbiamo dichiarato alla borghesia, noi non domandiamo pietà: noi diamo la morte, noi sapremo subirla».

Alle prime luci del 21 maggio 1894 Emile Henry venne decapitato. Come ebbe a scrivere Maurice Barrès, testimone all’esecuzione: «Sessanta chili, tutto un sistema sociale cadeva, spezzandogli il mento, sul collo di questo adolescente».

 

Forse si dovrebbe collocare meglio Emile Henry nell’ambito della poesia francese. Forse si dovrebbe parlare di Lautréamont o di Rimbaud, di cui egli sembra incarnare a posteriori la violenza e la rivolta. Ma come abbiamo visto non ci si può fermare a considerazioni di ordine estetico quando si tratta dell’opera di Henry, dal cui atto salutare deborda l’elemento stesso che gli ha dato origine e che è una consapevolezza senza misura.

Oggi tutto fa supporre che l’oblio sia calato su Emile Henry. L’ombra lo avvolge, un’ombra fredda che lo consegna agli archivi dei giornalisti, dei magistrati e dei gendarmi. Ma per gli spiriti accorti, la notte che lo copre non è in grado di sottrarre la sua lezione. La rivendicazione ribelle di un uomo che non ha esitato a portare delle questioni teoriche sul terreno fertile della vita, e a viverle infine nella sua carne e nel suo sangue, fino in fondo, gli conferisce una grandezza feroce. La sua morte non lascia un vuoto: essa sfonda la muraglia di compromessi e di sottomissione sotto la quale l’uomo soffoca. Attraverso questa apertura, è l’esistenza stessa dell’individuo che inizia a scorrere e a gorgogliare, senza più freni né museruole.

[da Diavolo in corpo, n. 2, maggio 2000]

 

For the poetry of life

Lope Vargas

How many people have gone through life without ever waking up!

And how many others have been noticed who live only for the monotonous tick-tock of the clock!

To the most attentive eyes, it does not go unnoticed that in the past poetry signified a tendency toward the critique of the given world, to the transformation of this world through the fire of poetic revolt and necessity. Beyond words, and more precisely against them, poetry strove to transgress the somewhat contemplative plain to which it had been confined, in order to affirm itself in an active, concrete, material form. Thus, to embody itself in this world, hurling itself into the fray in order to try to occupy a place on the first level in the struggle for its transformation. It is therefore desirable to see the authors of works that have been considered merely literary up to this point in a new light, to start hearing their voice as if it was that of authentic men of action calling us to battle. Rimbaud the communard and Mayakovsky the Bolshevik are just two of the innumerable examples that could be made in this sense. Hence, it seems extremely strange that no one, or nearly no one has that of taking the opposite path that looks at individuals who have passed into history for their actions as authentic poets.

From this point of view, awareness of the works of Emile Henry, one of the greatest French poets of the nineteenth century, is barely dawning. Perhaps it would be necessary to find the colors Lewis used in Monaco to be able to create the appropriate atmosphere that greeted the appearance of this twenty-one year old boy. In comparison to the poets of the time, but also to many contemporary poets, his interventions in Paris in the rue des Bons-Enfants in 1892 (five police agents killed in an explosion in a police station) and at the Café Terminus in 1894 (about twenty wounded in the local meeting place of the bourgeoisie) explode with and incomparable splendor; they are expressions of a total revelation that seems to exceed human possibilities. Indeed, aren’t the great poets characterized by their tenacious search to get beyond the limits to which their lives could aspire? Emile Henry went such a long way on this path, remaining alone. In the years that follow, all the boldest things that would be thought and undertaken against the dullness of a putrefied social order found in him a magical precursor. With Emile Henry, action reaches a fundamental turning point, it indicates a recommencement, abandoning the dry shores of the beau geste.

Besides, I have the right to leave the theatre when the comedy becomes odious to me and even to slam the door while leaving, at the risk of disturbing the tranquility of those who are satisfied with it.

Even though he has expressed better than anyone else the reasons that might push someone to end it all in using bad manners, nothing is more foreign to him than desperation. On the contrary, with Henry, the individual act ceases to be martyrdom, i.e., a religious manifestation. Before him, and unfortunately after him as well, the guillotine did not just constitute the punishment that order constructed as a threat against the Rebel, but a destiny, considered unavoidable, that was deliberately chosen.

Ravachol bragged of his deeds in a public place, causing himself to be arrested. Vaillant didn’t try in the least to avoid capture after leaving the bomb in the Chamber of Deputies. Caserio and Bresci also renounced their freedom just to see their action realized. On the other side of the ocean, Alexander Berkman and Leon Czolgosz behaved no differently. But the moment that Emile Henry opens fire on the zealous police officers who are pursuing him, trying in every way to escape arrest, he breaks with the ideology of sacrifice, with the mathematical logic of compensation. When the presiding judge of the court reprimanded him for having planned everything in order to keep himself safe, Henry replied: “It is quite natural; how could I have cultivated the hope of starting over and making even broader applications if, from the first, I allowed myself to be caught?” Besides, he had always written:

Between the economizers of themselves and the prodigals of themselves, I believe the prodigals are the better calculators.

Behaving in this way, Henry furnishes individual action with its appropriate horizon for the first time. A wager with life, not a promise of death. But it isn’t just in the methods, it is also in the very choice of objects at which to hurl his invectives that Henry makes a dizzying leap in relation to his contemporaries. He doesn’t cut down symbolic figures of oppression, nor set fire to lightning rods placed to protect an entire class of exploiters: the entire bourgeoisie and its guard dogs shudder at the roar of the thunderbolt, and he is convinced that “there are no innocent bourgeoisie, whoever may please to qualify themselves as such”.

In Henry, poetic inspiration springs from the rupture between common sense and imagination, a rupture that – when it occurs – usually leans in favor of the latter. Revolt, any revolt, could not yet be considered poetry if it had to indefinitely shore up one form of authority at the expense of the others. So it is among the wreckage of rue des Bons-Enfants and among the upset tables of the Terminus Café that it is exalted, elevated, completed. The flagrant contrast that these two works seem to offer, from a moral point of view, with the ideal tension that animates them is really hatred for the dominant ideology. If kings and presidents have hands soiled with blood, the knights of industry and the police are just the same. If the former represent from a distance the oppression that daily drains our existence of its most intense joys, the latter are what make this concrete closest to us. In short, if one probes the human mind in order to recover that which could form the basis of such a fury, one will discover that this rests above all on the impossibility of inventing the conditions of one’s existential adventures, forced to submit to banal clichés.

With Henry, the limits within which ideas could enter into relationship with ideas and actions could enter into relationship with actions are put back into discussion. He refuses the supremacy of rhetorical propaganda at the expense of action, since he wants freedom – if it is not a secret prayer made to an abstract idol – to merge into putting the idea into action.

Once an idea is ripe and has found a formula, it is necessary to seek its realization without further delay.

A principle of perpetual mutation thus takes possession of objects as of ideas, striving to achieve a total liberation that entails that of the human being. With utterly wild eyes, Henry keeps himself at the margins of the scientific perfection of the world, passing beyond the consciously utilitarian dimension of this perfection in order to place it, along with everything else, under the black light of the apocalypse. Definitive apocalypse, his activity, in which the great instinctive urges in contact with an asbestos cage that encloses a flaming heart lose and exalt themselves.

Modern society is like an old ship that will sink in the storm, because it didn’t want to free itself of the cargo it accumulated through the course of the centuries; they are precious things, but they weigh too much.

Though he accepted acting on the world just as it was given to him, he was quite careful not to vaguely modify its form to the measure of an uncertain desire – he knew that doing so would have compromised the action he dreamed of putting into practice forever. It was necessary for his actions to intervene in this reality of shopkeepers, pensioners, functionaries, waiters, paltry appetites, stupid ostentation and dark envy. And he wanted on the world and not on the phantoms with which it is much too easily replaced. Thus, his decisive path was not that of inventing a parallel universe, but establishing, to the benefit of a precise knowledge, the authentic gravity and the fertile horror in which we all find ourselves immersed up to the neck. The world is made just as we know it: and so it is. But then, what do we make of it? He tried never to lie to himself about this question:

Between the bliss of unawareness and the unhappiness of knowledge, I have made my choice.

And it is really this awareness, this refusal to surrender before the vanity of everything, that guided his hand:

When a man, in the present society, becomes a rebel conscious of his own actions, it is because he has carried out a painful task of analysis in his mind, the conclusions of which are imperative and cannot be escaped except through cowardice. He alone holds the balance, he alone is the judge of the rightness or wrongness of hating and of being wild, “even ferocious”.

These words precede those that another great French poet, Antonin Artaud managed to write a few decades later: “There is no cruelty without awareness, a kind of applied awareness”.

Emile Henry shocks. He shocks because he destroys an entire system of reference from its foundations, because he corrodes western humanistic culture, because he strikes bourgeois thought and culture without pity. Thought that protects itself by declaring his acts mad and his words meaningless. But the accusations that have been put forward against his work, with the aim of diminishing it, show well that the critic has never been able to approach it without getting burned. In the first rank, as always, the journalists armed with their ridiculous psychiatry from the Court of Assizes. It was a question of demonstrating as quickly as possible that Emile Henry denoted disease and madness. How to manage this? By resorting to aberrations borrowed from Freud and his ilk: the starting point of Henry’s endeavor would have been an amorous illusion, an emotional lack. This is how the sinister shadow of idiocy has tried to banalize the endeavors of revenge for the desire Henry put into action.

In his declaration to the court, the reasons he gives for his actions have such a passional accent that they don’t appear at all cynical. Not only is Henry not a cynic, he is not even a fanatic as so many have tried to portray him, even among his comrades. His rage is not that of an idealistic puritan who destroys because he is mesmerized by a messianic vision, but rather is total revolt against what oppressed him. Emile Henry does not justify himself in terms of the future that will be – the anarchist paradise – but in terms of the present that is – a miserable existence. Peace, justice, equality and universal love may perhaps exist in the world of tomorrow, but today’s reality is the struggle between authoritarian society and the individuals who want freedom because they are responsible for themselves. It was no accident that Henry took the phrase that Zola put into the mouth of Souverine, a character in his most famous novel, as his own:

All arguments about the future are criminal, because they hinder pure and simple destruction and block the road of revolution.”

Against every temptation for reconciliation, against every hope of being able to assist in peaceful declines, Henry acknowledged:

having brought a deep hatred into the struggle, a hatred which is stirred up daily by the nauseating spectacle of this society in which everything is an obstacle to the expansion of the human passions, to the generous tendencies of the heart, to the free impulse of thought.”

After the thought, it was the lot of the whole of bourgeois society to have to defend itself. To have to avenge itself, we should say. Though Emile Henry had tried to avoid such a tragic end, he knew how to face it with dignity:

In this war without pity that we have declared against the bourgeoisie, we ask no pity. We give death, we know how to suffer it.”

At the first light of May 21, 1894, Emile Henry was beheaded. As Maurice Barrés, a witness to the execution, wrote: “Sixty kilos, an entire social system, fell on the neck of this adolescent, shattering his chin.”

Perhaps Emile Henry would be better placed in the sphere of French poetry. Perhaps we should speak of Lautréamont or Rimbaud, whose violence and rebellion he subsequently seemed to embody. But as we have seen, we cannot stop at considerations of an aesthetic order when dealing with Henry’s work. The very element that had given his beneficial actions birth overflows from them, and that is an awareness without measure.

Today, everything makes us suppose that oblivion has fallen on Emile Henry. Shadow surrounds him, a cold shadow that consigns him to the archives of journalists, judges and police. But for wise spirits, the night that covers him is not able to take away his lesson. The rebellious taking of responsibility of a man who did not hesitate to carry theoretical questions onto the fertile terrain of life and to live them finally in his flesh and in his blood, ultimately confers on a him a fierce greatness. His death does not leave a void; it breaks through the wall of compromises and submissions behind which the human being suffocates. Through this opening, the very existence of the individual starts to flow and rumble, with no more muzzle or restraint.

[from Diavolo in corpo, n. 2, may 2000]