Carcere – Lettera di Annino Mele sulle condizioni nel carcere di Uta (Cagliari)

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Cari compagni,

ho lasciato il carcere di Nuchis, per prendere posto nel nuovo labirinto di Uta. Mi pare di avervi scritto di aver cercato di fare il possibile affinché mi risparmiassero questa sorta di magazzino gestito da veri e propri pensatori di come avvilire l’essere umano sia esso dentro il magazzino che nei confronti dei familiari.
L’altro giorno l’educatrice mi ha chiamato per dirmi se volevo far parte della componente lavoranti, inserirmi in cucina, conto corrente, magazzino, o altro. Gli ho risposto di non prendere per il momento nessuna iniziativa perché sto valutando come potermene andar via quanto prima da questo carcere.

Per prima cosa è impossibile potermi sentire libero di svolgere le mie attività, quali dipingere, costruire lavori artigianali, lavorare con i centrini, scrivere e leggere anche quei libri colpevoli di essere vestiti d’abito rigido, perciò se io vengo privato di quella parte da me considerata essenziale per sentirmi ancora in parte libero, non riesco a svolgere alcuna mansione, in questo caso sembra scelta come zuccherino.
Vi sono cose di cui ho già contestato, e continuo a farlo fino a quando non andrò via, penso chiederò il trasferimento entro questo mese, andrò in un carcere della Lombardia. Poi una volta entrato nelle grazie del magistrato disposto a valutare che 33 anni di carceri pieni che maturo nel prossimo gennaio bastino per un’assegnazione alla comunità dove ho chiesto, se vuole può sommare pure la liberazione anticipata e così arriva sui 38 anni. A quel punto posso far rientro in Sardegna, altrimenti si vedrà.
Come vi dicevo all’inizio in questo carcere con la scusa che è nuovo e quindi devono organizzare sono partiti in una serie di restrizioni al punto che io definisco vere angherie.
Pensate che aprono le celle dalle otto di mattina fino alle 11,30, riapertura all’una, per poi chiuderle definitivamente alle 17,30, durante queste ore di apertura proibiscono che uno cammina nel corridoio, o in cella o in saletta, quando ho sentito questa scemenza ho inoltrato domandina per avere la cella chiusa 24 ore su 24. In cella non puoi attaccare niente, e la cella compreso il bagno non c’è dove appendere un asciugamano, un accappatoio, una mensolina dove poggiare un sapone, il dentifricio, attrezzi per la barba ecc. Pretendono che uno si chiuda la cella, non c’è palestra, non c’è campo sportivo, dicono che a giorni aprono la biblioteca.
Ai colloqui non puoi portare niente, le macchinette sono all’esterno, se vogliono sono i familiari a farsi rapinare dalle macchinette.
I colloqui vanno prenotati dall’esterno, tenendo il detenuto all’oscuro del loro arrivo, sono trattati male anche i familiari nel senso che non sempre riescono stabilire il contatto con chi ha la responsabilità della prenotazione. Ho avuto la macchina da scrivere, ma non è stato facile, vietato però avere un evidenziatore, il cancellino, e mi fermo qua, perché sinceramente faccio prima ad elencare le cose che ho potuto avere.
Pare che il tutto sia dalla rigida commissaria, si chiama Alessandra Uscidda. Non vorrei che sia il capro espiatorio. Una cosa è certa, il funzionamento di questo carcere si muove nell’avvilimento del detenuto, è quando questo metodo viene sostenuto nel tempo, il detenuto è destinato ad essere spogliato di tutto, mentre la parte dei repressori possono vantare la massima cialtroneria, sciatteria, tanto il detenuto si chiude le celle, i movimenti durante la giornata sono ridotti al massimo, chi non ha la fortuna di avere un familiare che viene a trovarlo, quel detenuto come movimento può avere quello di uscire all’aria, la cella, e la saletta. Poi parlano di reinserimento. […]

Un abbraccio a tutti

Annino Mele
31 maggio 2015

dalla Cassa Antirepressione delle Alpi Occidentali e diffondiamo un lettera del prigioniero Annino Mele in cui vengono descritte le tecniche afflittive messe in atto nel “moderno” carcere di Uta (Cagliari):