Chi darà l’occhio al ciclope?

brendanrebels1916

Un secolo fa il governo italiano annunciava il suo ingresso nella Prima Guerra Mondiale. In occasione di questa ricorrenza infame, celebrata oggi da tutte le istituzioni e dai loro servi in un tripudio di stracci tricolori, abbiamo pensato di pubblicare una piccola antologia di testi tratti dal numero speciale che Cronaca Sovversiva — il giornale animato negli Stati Uniti da Luigi Galleani e in un certo senso portavoce dell’anarchismo autonomo — dedicò alla Grande Guerra. Testi che non miravano solo a criticare quel conflitto bellico che riempì di morti i cimiteri e di invalidi gli ospizi, ma anche a dipanare la confusione e gli equivoci che riempivano la testa di tanti sovversivi. Ancora oggi, all’esplodere di una qualsiasi guerra, non sentiamo forse alzarsi da ogni parte sia giustificazioni reclamanti “necessità storiche” che lamentele invocanti “pacifiche convivenze”?

Contro la Guerra, contro la Pace, per la Rivoluzione!
La civiltà

Se i progressi della civiltà si misurano alle vittorie del diritto sull’arbitrio, della ragione sulla violenza, della volontà sulla rinuncia, della coscienza sul pregiudizio, dell’orgoglio sull’ignavia, dell’uomo sulla belva o sulla bestia da soma, non v’è dubbio: la guerra, del diritto, della ragione, della verità, della dignità, di ogni intimo, legittimo orgoglio ha fatto strame colle coscrizioni in massa, colle rimonte forzose, colle stragi sistematiche, colla distruzione cieca, colla chiusura delle scuole, col violento arresto d’ogni vita di pensiero, colla meditata restaurazione della chiesa e della caserma, sole depositarie ed arbitre oramai dei comuni destini; la guerra ci ha in ogni patria ripiombati nelle tenebre del medio evo, nell’ora più fosca della sua barbarie.
La nazione

E se la nazione non è più lo stupro dei vassalli corveables et taillables à merci dell’antico regime, delle abolite monarchie nobiliari, ma dalla grande rivoluzione è l’universalità dei cittadini che hanno comune l’origine, la tradizione, la storia ed i costumi, non può essere dubbio neanche qui: la guerra è tutto ciò che di meno nazionale si possa immaginare.
Perché delle due l’una: o queste sofisticherie antropologiche si ripudian e non sarebbe irragionevole dinnanzi all’impossibilità di rintracciare oggi, dopo millenni d’incroci vari e di promiscuità diffuse, i caratteri differenziali dei particolari gruppi etnici; ed allora l’invocazione guerriera nel nome della gente è arruffianata ed idiota. O si accettano, ed allora bisogna pure accettarne la conclusione, e riconoscer che dagli altipiani del Punjab per tutta la Russia meridionale, per l’Ungheria, la Baviera, la Lorena, l’Italia Settentrionale, i dipartimenti orientali della Francia e la maggior parte del Belgio, noi non abbiamo che Celti, scaturiti dal medesimo ceppo tutti quanti, così come abbiamo nel Nord prussiani, scozzesi, irlandesi che sono teutoni tutti, tutti fratelli nella stirpe per quanto, posti dal caso dall’una o dall’altra parte della frontiera, si scannino oggi in Fiandra, nei Vosgi o nel Trentino, nel nome della stirpe col più fraterno entusiasmo.
Così che poteva Sir Ray Lankester — un antropologo dei meglio autorevoli — conchiudere in un suo studio recente che «se a determinare la grande guerra pesarono ambizioni ed interessi di varia natura, esula l’istinto di razza completamente».
La patria
Esuliamo noi pure da un campo così incerto, così mal fido, stringendoci nei confini della patria che è nata colla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” insieme col cittadino che doveva costituirne la base angolare, edificarne la storia e la gloria.
Della patria che — come il cittadino nel libero esercizio dei suoi diritti riconosciuti, salvi sempre gli uguali diritti del suo vicino — reclama, nella territoriale integrità dei confini che le sono dalla natura e dalla storia assegnati, il diritto di governarsi da sé, secondo le proprie tradizioni, secondo le proprie leggi, secondo le proprie consuetudini, senza ingerenze straniere, salvo soltanto l’omaggio dovuto all’eguale diritto delle altre genti, delle altre nazioni.
Perché, soltanto in questa reciprocità di uguali diritti è il fondamento delle patrie. Spezzate questo vincolo, umiliate nel vostro vicino cotesto diritto asservendovi una patria meno numerosa, meno forte, ed il vostro diritto all’integrità alla stessa esistenza nazionale sarà invalidato, abolito.
L’Italia, per riferirci ad un esempio attuale e pratico, reclama all’Austria la restituzione di Trento e di Trieste; va bene. Ma l’Italia tiene sotto il suo giogo l’Eritrea, il Benadir, la Tripolitania, la Cirenaica, tiene un piede nel Dodecaneso, un altro in Albania: calpesta cioè in quelle popolazioni il diritto che accampa su l’Austria, manda su le Giulie e su le Retiche a rivendicare l’integrità nazionale i figli nostri, tornati ieri dal contendere alle popolazioni musulmane dell’Africa od alle popolazioni greche dell’Egeo — colle quali non ha comuni né l’origine, né la tradizione, né la lingua, né la fede — i diritti e le aspirazioni che su Trento e Trieste pretenderebbe riconosciuti.
È ovvio che quanto si dice dell’Italia si può, con eguale e talora maggior ragione, dire dell’Austria, della Germania, dell’Inghilterra, della Russia, della Francia la cui potenza si esercita in odio di cento nazioni diverse egualmente asservite e ferocemente dissanguate. Ed è esuberante a dimostrare che dalle cause determinanti della guerra non bisogna soltanto escludere l’antagonismo di razza, ma bisogna soprattutto escludere le preoccupazioni civili e la sincerità liberatrice dei molti e vari governi che da anni la covarono e l’hanno al buon momento scatenata in tutto il suo selvaggio furore.
La realtà è ben altra.
Di fatto la patria non è nella storia recentissima dell’ultimo secolo più che una fiammata: non c’è più, per nessuno.
Affrancando la proprietà dai privilegi nobiliari, elevando il terzo stato all’egemonia del paese, ed il villano, l’artigiano alla dignità di cittadino, la rivoluzione, la Dichiarazione dei Diritti, il Terrore, le grandi guerre della repubblica, avevano 
creato la nazione, la patria; e, recati dai sanculotti per ogni terra, i principii del 1789 vi iniziarono il ciclo delle rivendicazioni e delle rivoluzioni nazionali di cui lampeggia il secolo XIX che vide, particolarmente cara ai nostri ricordi, tra il 1848 ed il 1870, epilogo dei moti costituzionali del 1821, l’assunzione dell’Italia libera ed una in Campidoglio.
Nella patria assommavano i nostri vecchi, che ne cementarono col sangue l’edificio, tutte le aspirazioni della libertà e del benessere.
Ma, nata appena, dileguava la patria nello scherno degli uni e nel disinganno degli altri.
La borghesia ne trovò angusti i confini all’esuberanza dei suoi prodotti, nelle esigenze del suo traffico, e li scavalcò alla conquista dei mercati del mondo; disperse la patria ovunque, la ritrovò sotto ogni cielo che benedicesse di insperati profitti la propria intraprendenza, il proprio fervore: fu patria sua il mondo. Il proletariato dal canto suo, dopo di aver chiesto indarno alle convulsioni politiche intermittenti una liberazione che non si può scindere dal contemporaneo riscatto dello strumento di produzione, non vide nella patria se non la riorganizzazione più esosa dei privilegi che si illudeva di avere seppelliti per sempre tra i ruderi della Bastiglia, ai piedi della ghigliottina. Esulò, esperimentando che ogni patria si assomiglia, che la lingua e gli usi rimangono qualche volta diversi, ma che sono dovunque padroni e servi, oppressori ed oppressi, ricchi e poveri, eletti e dannati; dannati soprattutto, coi quali aveva comuni dolori, catene, miserie. E le frontiere della patria spostò, laddove pel sudore delle fronti buscò il povero pane, oltre il breve termine che la tradizione aveva murato fra la culla e la bandiera, lontano, ogni giorno più lontano, oltre le alpi, oltre il mare, a l’orizzonte estremo, sorprendendo nei suoi pellegrinaggi desolati una frontiera sola, scoscesa, antica, immutata; la frontiera che si erge fra chi ozia e chi lavora, tra chi gavazza e chi 
geme: fu sua patria il mondo.
La piccola patria è morta: la verità è in marcia!
Luigi Galleani
La grande gesta ispiratrice
Secondo i gazzettieri delia baracca imperialista e i giullari del colascione patriottesco nulla vale più della guerra per rigenerare un popolo, purificare una nazione, ringagliardire uno stato. E bisogna sentire con quanti sproloqui di mentecatti e con quali elucubrazioni di delinquenti ne esaltano gli effetti e ne celebrano le vicende! Bisogna vedere con che gusto enumerano i cadaveri e rimescolano il sangue dei caduti. Per costoro la guerra, neanche farlo apposta, è altresì la grande ispiratrice dell’arte, la musa sovrana dei popoli, che crea il poema omerico e la chanson de gestes, il dramma nazionale e la lirica eroica, l’acropoli e l’arco di trionfo, la statua equestre e il quadro storico.
Che certe guerre, per certi popoli, in alcuni periodi storici possano servire d’ispirazione e d’alimento all’arte, nessuno lo mette in dubbio; ma d’altro canto se dovessimo paragonare ciò che la guerra in tutti i tempi ha distrutto con ciò che ha creato nel campo artistico, ci accorgeremmo subito che molto spesso un arco trionfale sorge sulle rovine di cento città, che una statua equestre piglia il posto di mille capolavori scomparsi, che un epinicio echeggia là dove la voce di un gran popolo si spegne. Le guerre d’oggi poi, pel modo stesso con cui si svolgono, sono la vera negazione dell’arte senza compenso alcuno di nessuna specie.
La storia non ha registrato mai guerre più bestiali, più devastatrici, più sanguinarie, più crudeli delle presenti, in cui non aleggia alcuna idealità e non spira alcun grande e nobile affetto. Esse sono il prodotto della falsa e bugiarda civiltà borghese, per la quale unica e sola regola di vivere è la rapina, ed unica e sola impresa è il lupus homo homini di Plauto.
Da quest’immane carneficina di popoli nessun poema omerico, nessun dramma eschileo sorgerà. I posteri frugando nelle loro biblioteche s’imbatteranno soltanto nei proclami del generale Bissing e nelle stupide smancerie di Gabriele D’Annunzio, nei paranoici deliri della Kultur e nelle vacue decimazioni dei gazzettieri e dei politicanti. La guerra odierna nel dominio dell’arte distrugge senza nulla creare, neppure una chanson de gestes; e in ciò, come nel fatto della crudeltà e della rapina, i civilissimi e coltissimi sostenitori dell’ordine borghese hanno superato di gran lunga tutti i barbari presenti, passati e futuri.
Paolo Schicchi
La guerra, i guerraioli e noi

E siamo ancora in condizioni di doverla definire questa maledetta guerra, di doverne spiegare il significato, l’intima essenza, le fosche ed abominevoli origini, l’influenza che ha esercitato ed esercita nei rapporti fra gli uomini e le nazioni, le fatali conseguenze che ne sono derivate e ne derivano.
Poiché pare, a sentirne blaterare certi dottoroni ossessionati di patriottismo (di quello interessato e greppaiolo, si capisce) debba la guerra considerarsi come la salvezza del mondo: «Al di fuori della guerra non vi è salvezza; essa è la sola, la vera igiene della vita, l’unica e la più sicura via onde pervenire alla felicità!».
Così ci cantano allegramente con ripugnante disinvoltura tanti sciagurati untorelli del nazionalismo nuovo stile.
Noi però non vogliamo far torto ai lettori di questo giornale — anche per non andare oltre i limiti, che vogliono essere discreti, di questo articolo — e non diremo che cosa siano state in passato e che cosa siano oggi le guerre. Ci limiteremo a rilevare che la guerra propriamente detta, quella che per volontà di sovrani e governanti si combatte con le milizie regolari agli ordini di capi, non è stata mai il risultato genuino della volontà popolare e del popolo non ha mai fatto l’interesse. Il governo, essendo l’esponente ed il difensore delle classi privilegiate e dominanti, sia esso impersonato nel sovrano assoluto o nel complesso dei poteri rappresentativi, monarchici o repubblicani, non può fare che il tornaconto della classe della quale è l’espressione e dalla quale è sostenuto.
Il popolo dei lavoratori è stato sempre estraneo a guerre di tal genere e le ha fatte e ne ha subito le conseguenze per abitudine atavica, per incoscienza, per falsa educazione, per paura.
Questa, in poche parole, la verità intorno alle guerre tutte dalle epoche più remote delle società umane fino ai nostri giorni.
Naturalmente, fra le guerre alle quali abbiamo accennato, non vanno comprese quelle per mezzo delle quali in epoche diverse i popoli oppressi hanno trovato la via della loro liberazione — che queste, per certi aspetti, possono trovar giustificazione — né i tentativi generosi e non sempre fortunati delle folle insorte (guerre civili) contro le varie tirannidi.
Roberto Elia
Alla guerra come alla guerra
L’indolenza proletaria ha permesso il gran delitto, e questa indolenza bisogna riscattare con tutti i mezzi, con tutte le nostre forze, se non vogliamo rinunciare al nostro posto nella vita, se non vogliamo rimanere gregge umile sotto il bastone del padrone.
E sarà oggi, più che ieri, grave e difficile il compito: la guerra ha dovunque restaurato le religioni, le chiese in bancarotta, su tutti i campi di battaglia, pastori ed ulema, curati e monache largheggiando di sacramenti, d’indulgenze e di carità pelose, in venti mesi, negli sbrandellati figlioli delle cento patrie, instillano il veleno dell’uguale rassegnazione, la consolazione eunuca che il sangue e la giovinezza hanno dato per la fede, per la patria, per la civiltà: il veleno che porteranno i mutilati ai casolari, ed inietteranno a loro volta nelle carni dei vecchi e dei figli, evirandone maledizioni, audacie e rivolte.
Sarà grave il compito e più difficile; ma degno dei nostri entusiasmi e del nostro diuturno sforzo a rovesciare la tempesta sanguinosa su quanti all’usura, al delitto, al furto, all’inganno chiedono il soddisfacimento dell’epa e del forziere, 
ugualmente insaziati ed insaziabili.
Per l’avvenire nostro, per la vendetta dei nostri morti, a soddisfare l’odio accumulato nel millenario dolore: in piedi al nostro posto di battaglia!
Savino
La patria
La patria è la terra ingrata sulle cui zolle irrorate da tanti eroici sudori ho visto squarciati dal piombo del re i cavi petti dei servi della gleba, fratelli miei, colpevoli d’aver mendicato per sé, pei figli, meno ingrato il boccone quotidiano.
La patria è il tempio della giustizia che vidi cortigiana mancipia degli usurai, dei prevaricatori scaltri, dei ladri commendatori, degli assassini professionali; implacata agli straccioni ed ai mendichi.
La patria è la chiesa del buon dio in cui un prete sozzo d’ogni corruttela mi ha parlato di morale, in cui un levita mercenario mi ha parlato di abnegazione, in cui un ministro di menzogna mi ha parlato di verità; in cui un pubblicano insottanato, la destra sul ventre, gli artigli sulla cassaforte, mi incuteva il delirio della rinunzia e della passione.
La patria è il parlamento in cui mezzo migliaio d’intriganti, d’arruffoni, di ciancioni, sgrana leggi e leggi e leggi, leggi tutte di libertà e di tutela, per rapirmi ogni diritto, per negarmi ogni giustizia, per confiscarmi ogni libertà, per cingermi di tutte le ritorte.
La patria è la caserma in cui ogni mio affetto ed ogni mio palpito, ogni impeto giovanile, ogni anelito di bontà e di fratellanza è stato schernito, irriso, soffocato dall’ossessione di un odio meditato, sapiente, feroce; in cui mi hanno insegnato ad assassinare fra gli squilli delle fanfare e l’alitar del vessillo tricolore, chiunque, fuori del confine e dentro, non s’inchini alla maestà del re ed al ventre dei padroni.
La patria è la spiaggia piena di sole, rigurgitante di dovizie, fervida di traffici immani lungo la quale mi acciuffò un negriero che qui mi vendette a negrieri di altra stirpe e d’altra fede, ugualmente avidi e bestiali.
La patria non rivive che d’angosce e di lividure, di pianto e di maledizioni nella memoria sgomenta; non mi parla altra voce, altro linguaggio che di scherni e di abbandono…
Oggi dall’altra riva agitando un cencio, un nastro, una minaccia, squassando un paio di manette o di ceppi, e vuole la giovinezza, temprata in cento pugne, vuole il sangue propiziatore della sua gloria e del suo destino.
La conosco! Conosco quella dove son nato e quelle altre per le quali pellegrinai, solo, schernito, deriso; e sono tutte una ipoteca assurda ed esosa che mezza dozzina di ladri ha acceso sulla terra, sui servi che ne squarciano il solco e l’abisso, recando al sole glorioso l’inapprezzabile tesoro della sua fecondità inesausta.
E finché avrò fiato e vita coi servi, fratelli di miseria e di dolore, di servitù, dovunque alla scuola della stessa pena siano cresciuti, non agogno che a cancellare quell’ipoteca e quell’onta, a livellare frontiere e gioghi, ad affrettare l’uragano che sullo sfacelo delle patrie e dei privilegi che vi si annidano, inizi l’era auspicata della grande liberazione.
Novello Spartaco
Pacifisti?

Pacifisti noi?
Siamo per la guerra o per la pace, noi anarchici?
Né per l’una né per l’altra, quando a determinarle siano gli ingordi interessi del capitalismo.
Contro la guerra e contro la pace ugualmente, finché a volere l’una, ad imporre l’altra, sia la forza brutale dell’agente d’affari della borghesia: lo Stato.
Contro la guerra sino a tanto che simbolo della battaglia e della vittoria sarà la croce di dio.
Contro la pace sino a quando la pace s’incarnerà nella supina rassegnazione plebea.
Per la guerra e per la pace siam noi.
Per la guerra dei diseredati di ogni fortuna contro i predoni d’ogni ricchezza, per la nostra guerra, per la rivoluzione sociale.
A. Ciofalo
[Cronaca Sovversiva, anno XIV, n. 12, 18/3/1916]