Il martirio della bontà

 

Luigi Galleani
La bontà non si è fino ad oggi acclimatata nella nostra società rimasta per tre quarti selvaggia; v’è  poco posto per essa tra la ferocia generale. L’uomo buono, l’uomo che comprende e perdona, l’uomo di cuore è un martire fra la turba dei cannibali raffinati che costituiscono la specie umana.
Perché ama in luogo di odiare, perché perdona in luogo di vendicarsi, perché si scansa in luogo di combattere; la muta feroce lo crede debole e gli si mette alle calcagna sognando la preda facile senz’accorgersi che questo preteso pusillanime la domina, gigante, con tutta la forza della sua benevolenza, con tutta la superiorità del suo amore.

La sua forza è tutta nel dolore rinascente, inesauribile che ad ogni passo della vita l’amareggia ed in cui l’anima sua si ritempra di una nobiltà che nessun vituperio, nessuna calunnia saprebbero offuscare. Perché il dolore è la culla degli eroi: non dei bruti violenti che il volgo chiama eroi, megalomani allucinati di falsa gloria che per un lampo di vanità soddisfatta butterebbero come un cencio la vita loro e quella degli altri; ma di questi perseveranti che, instancabili, sereni, senza debolezza e senza tregua inseguono, indifferenti agli scherni ed alle imprecazioni ed a dispetto di ogni più amara delusione, la loro marcia imperturbabile verso l’ideale sempre più luminoso.
Tale è l’uomo di cuore, perduto, isolato nel marame dell’abiezione generale, la cui esistenza non è dalla culla alla tomba che una lunga crocifissione.
Fanciullo, quando l’anima sua s’apre sorridente ai primi raggi della vita, comincia in famiglia la sua lunga carriera di dolore. In preda alla paterna autorità assoluta il suo cuore sanguina in ogni più secreta fibra delle intrusioni intempestive, delle coercizioni brutali che urtano e violano le sue attitudini, la sua delicatezza, le sue predilezioni più care con una serie di ferite che lo dispone a risentire crudelmente più tardi le torture successive.
Alla scuola burlato dai compagni, incompreso dai maestri, sente, in questo clima infausto d’inscusabilità e di depravazione affettata, in quest’ambiente d’iniquità gerarchizzata acuirsi, accentuarsi il suo isolamento. È un diavolaccio, un ingenuo, uno gnocco. I suoi più teneri abbandoni sono preda allo scherno dardeggiante implacabilmente ogni fremito, ogni impeto che accusi, anche timidamente, disinteresse, generosità, abnegazione.
Intanto sopraggiunge la giovinezza e con essa gli slanci irresistibili verso tutte le forme della bellezza: ed i dolori dell’infanzia si esagerano allora di tutta l’impetuosa potenza della vitalità la cui cresciuta energia intensifica la sensibilità e la percettibilità del dolore.
Pieno di fiducia egli si abbandona intero a quelli che ama, agli amici, all’amante; e qui ancora egli precipita di delusione in delusione lasciando brandelli di carne e di cuore agli sterpi delle miserie, delle volgarità, delle vigliaccherie e delle bassezze inconfessabili di cui è seminata la via. L’amico che egli vorrebbe associare ai suoi entusiasmi, alle sue follie generose, risponde con lo scherno e scantonando alla prima voltata ruminando le perdite che avrebbe subito. L’amante che egli vorrebbe rapire nei suoi voli attraverso l’infinito luminoso di un ideale sublime, striscia terra terra miserabilmente e l’abbandona, paurosa o stanca, ai suoi vertiginosi colpi d’ala.
E più s’allarga la cerchia della sua attività, più s’approfondisce il suo solco di dolore. Alle prese colla vita sociale egli porta in questa lotta acerba le stesse disposizioni affettuose e benigne che di lui fecero e faranno lo zimbello perpetuo di quanti lo circondano. Soffre in ogni cosa che ami. La turba che egli vorrebbe rilevare dalla sua abiezione, strappare al delitto, svegliare alla luce redentrice della libertà, lo guarderà come un nemico e come un nemico lo odierà; l’autorità, palladio del delitto organizzato s’esaurirà a schiacciarlo e la sua bontà gli sarà imputata come un misfatto esecrando: amici e parenti allargheranno intorno a lui il vuoto, e quando si rifugerà in seno ai figli, in grembo alla compagna, tra gli esseri diletti – a cui si vuole tanto bene che ci pare una mostruosità anche la minore delle imperfezioni in essi constatata – egli dovrà anche nell’intimo santuario della gioia abbeverarsi di lacrime, di fiele, di amarezze atroci.
Crivellato di ferite, il cuore sanguinante e la mente perduta in tanti assalti, uno più dell’altro doloroso, sbattuto, disorientato, disfatto, eccovelo – a meno che non sia della tempra eccezionale degli eroi – frustrato, finito, annichilito, ridotto al cencio inutile, al brandello immondo e straziante che è ogni nomo rinsavito o rassegnato.
Tale nella società nostra il destino della bontà, che è pur tuttavia la base fondamentale ed essenziale di ogni società. Quante energie non sono così naufragate, inghiottite per sempre dalla cloaca delle turpitudini sociali! E come grave e profondo appare – così posto – il problema umano! E quanto meschine appaiono allora, cugini dell’altra riva, le vostre sterili medicine legislative, le pillole operaie esteriormente indorate, il balsamo delle pensioni, le tavolette ricostituenti del pane gratuito, i clisteri dei famosi tre otto!
Fino a quale infimo bassofondo bisogna smuovere i costumi perché la bontà ottenga soltanto il suo diritto alla luce! La questione sociale – direi quasi umana – non è anzitutto una terribile questione morale?
E tutti i rattoppi economici, e tutti i palliativi politici non sono – per quanto ingegnosi – egualmente impotenti a darci la soluzione invocata, la rifusione delle mentalità da cui dovrà scaturire l’uomo integrale?
(Cronaca Sovversiva, anno III, n. 24, 17 giugno 1905)