Netanyau: Netanyahu: “Sparare subito a chi attacca i nostri soldati”

epa04026896 A Palestinian youth throws stones during clashes with Israeli forces following a protest near Nahal Oz crossing with Israel in the east of Gaza City, 17 January 2014. The Israeli forces fired live rounds and tear gas at protesters near the border fence, two Palestinians are reported wounded in the clashes.  EPA/MOHAMMED SABER

Tel Aviv studia la possibilità di aprire il fuoco sui palestinesi che lanciano sassi durante i raid dell’esercito nelle loro città. Una possibilità che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, è già una realtà.

Roma, 3 settembre 2015, Nena News – Sparare a chi lancia sassi ai soldati israeliani. E’ una delle possibilità al vaglio del governo di Tel Aviv, che in queste ore esaminerà ed emenderà le regole d’ingaggio dell’esercito nei Territori Occupati: la parola d’ordine, stando alle dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu, è “tolleranza zero” sia per il lancio di pietre contro i suoi militari che per “gli atti di terrorismo”.

Netanyahu ha confermato ieri che “sarà esaminata una modifica degli ordini sull’apertura del fuoco per quanto riguarda il lancio di pietre e bombe incendiarie”: stessa cosa avverrà per l’imposizione delle “pene minime” per gli autori dei suddetti crimini. Pene inasprite giusto un mese fa, quando la Knesset ha passato un emendamento che punisce con un massimo di 20 anni di prigione chi lancia pietre contro i soldati, contro le auto israeliane e contro le pattuglie di stanza nei Territori occupati. La pena scende a un massimo di 10 anni quando il sospettato riesce a dimostrare – per assurdo – che l’obiettivo del lancio non era quello di danneggiare cose o persone.

Le attuali regole di ingaggio consentono a soldati e poliziotti di aprire il fuoco vivo solo in caso di pericolo imminente per la propria vita o per il pubblico, e solo dopo una serie di colpi di avvertimento. Eppure le cronache parlano di decine di palestinesi colpiti da proiettili dell’esercito israeliano anche quando “disarmati” o non partecipanti alle proteste contro le forze d’occupazione: durante le manifestazioni del giorno della Nakba 2014, ad esempio, le telecamere a circuito chiuso ripresero l’uccisione di due giovani palestinesi a Beitunia lontano dal luogo in cui si svolgeva una protesta contro l’esercito israeliano. In un episodio simile, le pallottole sparate dai militari hanno raggiunto e ucciso Jihad al-Jaf’ari sul tetto della sua casa nel campo profughi di Dheisheh, vicino Betlemme.

Le “nuove regole d’ingaggio” del governo israeliano arrivano a pochi giorni dalla diffusione del video, diventato virale, sul brutale tentativo di arresto da parte dei soldati di un ragazzino palestinese con un braccio ingessato durante le proteste di venerdì scorso nel villaggio di Nabi Saleh. Un militare è stato assalito dalla madre del ragazzo e da altre donne del villaggio, che hanno liberato il giovane. “Una vera e propria aggressione”, come è stata descritta da non pochi utenti dei social network in Israele, contro la quale il soldato avrebbe dovuto “usare il fucile”.

Il governo israeliano è inoltre impegnato nell’aumento delle pattuglie a Gerusalemme: l’ufficio di Netanyahu ha infatti dichiarato di aver dispiegato altre due unità di polizia di frontiera (circa 300 soldati) e altri 400 poliziotti nella città occupata. In particolare, le unità militari saranno rafforzate lungo la Strada 443, una grande arteria che collega Gerusalemme a Tel Aviv e attraversa per diversi chilometri la Cisgiordania. Tutto perché, secondo quanto dichiarato dal portavoce della polizia israeliana Luba Samri, sarebbero in aumento “gli attacchi nazionalistici da parte dei palestinesi a Gerusalemme est”.

Se è vero – come riporta il portale Middle East Online – che nell’ultimo mese si sono verificati alcuni attacchi da parte di palestinesi contro pattuglie israeliane o contro le auto dei coloni, è anche vero che la tensione è salita alle stelle tra i palestinesi  dall’uccisione del piccolo Ali Dawabsheh, 18 mesi, bruciato vivo nella sua casa di Kafr Douma da un incendio appiccato da coloni israeliani. In quel caso tutto il mondo condannò l’attacco, definito “di natura nazionalistica” e le autorità israeliane fecero a gara a chi pronunciava con più veemenza la frase “tolleranza zero contro gli estremisti”.

A un mese di distanza, gli assassini di Ali e di suo padre Saad sono ancora a piede libero, mentre invece Tel Aviv studia la possibilità di aprire il fuoco sui ragazzi palestinesi che lanciano sassi durante i raid dell’esercito nelle loro città. Una possibilità che però è già realtà: secondo i dati diffusi dall’associazione per i diritti umani B’Tselem, nel 2014 i minori uccisi dal fuoco dell’esercito israeliano nei Territori occupati sono stati 12. Almeno quattro di loro, secondo quanto dichiarato dai soldati, avrebbero lanciato pietre. Nena News

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