…e gli altri predicatori della morte!

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Due sono le categorie dei predicatori della morte. Alla prima appartengono i religiosi, coloro che credono ad una seconda vita, ad una vita eterna fatta di gioia. Costoro, naturalmente, cercano di dimostrare la vanità e la mediocrità della nostra vita terrena, per esaltare la vita che troveremo al di là della nostra morte fisica. La gioia è un peccato! La lotta, la rivolta, il piacere, la conoscenza sono peccati; vanità è ogni nostro sforzo per elevarci, vanità e peccato è ogni nostro tentativo per liberarci dalla schiavitù, per appropriarci del benessere.

L’umiltà, la rassegnazione, la rinuncia a tutti i piaceri, il disprezzo per la vita sono dei requisiti indispensabili per chi aspira alla vita eterna.
Alla seconda categoria appartengono i pessimisti e, in una certa misura, i fatalisti, coloro che in ogni azione umana vedono il dito del destino.
Per i pessimisti l’umanità è un solo immondezzaio ed essa è arrivata ad un tale grado dì abiezione e di corruzione, che più nessuna via di salvezza e di rigenerazione le rimane: essa si avvia fatalmente alla sua tomba. La cancrena che la divora è inguaribile!

Ed allora perché lottare per sanarla o per ritardare la sua fine? Non è, ciò, prolungare le sofferenze d’un moribondo? Sì!… Meglio dunque affrettare la sua morte! Meglio non dire agli uomini: disgraziati! perché vi sprofondate sempre più nel vizio? perché non cercate di sottrarvi al male che mina la vostra esistenza per incominciare una nuova vita più semplice, più buona, più in armonia colla natura? perché non vi liberate dal pantano in cui soffocate per salire sulle alture ove l’aria pura guarirà i vostri polmoni malati?

Uomo! Là è la nuova vita che devi incominciare, perché là è purezza, è gioia. Perché là è luce, è la sconfinata libertà, è il cielo azzurro, è la misteriosa musica e l’immensa bellezza delle foreste; è il verde ed il profumo dei campi in fiore, è, insomma, il figliol prodigo ritrovato, l’uomo riconciliato colla natura, che ritorna a vivere nelle sue braccia generose.

Ma no! Il pessimista — il vero ammalato cronico dell’umanità — non dirà parole buone e consolatrici; non dirà una parola d’amore e d’incoraggiamento verso il suo vicino sofferente; non prenderà né una goccia d’acqua per bagnare il suo labbro arso dalla febbre, né stenderà la pomata benefica sulla sua piaga dolorante.

No!… Egli non predicherà neppure il verbo della rivolta contro il male, ma la morte che è il male dei mali, e per guarire l’uomo di qualche tumore che ha sul suo corpo, ne consiglierà il taglio della testa. Così, dice qualche pessimista, potrà ricominciare una nuova… vita.

Distruggere l’umanità perché la vita ricominci ancora da capo? E si crede che l’umanità che sorgerà dalle rovine di questa sarà migliore e non ricadrà negli stessi vizi e negli stessi errori? E si crede che l’uomo si può distruggere e creare come si può distruggere e creare la vita delle società?

E poi, milioni d’anni ha impiegato l’uomo per divenire ciò che è, e noi, che non possiamo leggere nel passato che per qualche migliaio d’anni, come possiamo negare che vi fu progresso, miglioramento della sua vita? Prendiamo solo qualche esempio.

Non costituisce un progresso l’uomo che ha saputo liberarsi dai pregiudizi sociali e religiosi in confronto all’uomo che ne è ancora dominato? Non costituisce un progresso l’anarchico disertore, o colui che preferì la galera piuttosto che sottostare alle violenze del militarismo, in confronto all’anarchico che per vigliaccheria — o debolezza, se ciò consola di più — si lasciò sottomettere e contento di farsi strumento d’una causa che è contro la propria causa?

Cerchiamo, ora, di vedere che cosa siamo noi in confronto all’umanità. Sapremmo noi, almeno noi che abbiamo la pretesa di giudicare l’umanità e che lanciamo l’anatema contro la vita, vivere liberi e felici? Sì? Che cosa si vuol distruggere allora? Tutto? Leggi, morali, società, l’uomo, oppure si vuol distruggere l’umanità ma esclusi noi che ci riteniamo superiori ad essa? Siamo noi degli esseri più liberi, più perfetti della media del genere umano; abbiamo noi saputo liberarci dai pregiudizi, oppure siamo ancora schiavi d’essi e viviamo nella corruzione? Se sì, con quale diritto giudichiamo gli altri e mostriamo il nostro disprezzo contro l’«ignobile» folla? Se no, come possiamo con qualche frase sentenziosa (accidenti, che giudici arcigni ed infallibili siamo!) sostenere che altri individui, che la maggior parte del genere umano non possa arrivare a quel grado d’evoluzione e di perfezione a cui noi già siamo arrivati?

Si sostiene che l’umanità è troppo ammalata e che non vale la pena di curarla, che tanto la sua guarigione è impossibile. Bisogna affrettarne la fine, distruggerla fin nelle sue basi. E poi? Sarà il nulla, si dice!

Interessante e consolante questo nulla! Confesso la mia ignoranza per non essere ancora riuscito a comprendere come si riesce a concepire questo… ma come posso esprimerlo se è…

Il vuoto, il nulla, il niente non esiste. Provate ad immaginarvelo e dappertutto troverete qualche cosa.

Ma se non mi sbaglio, i novelli suicidisti teorici intendono dire la sola distruzione del genere umano, e non credo nemmeno che arrivino fino a quella di tutta la specie animale, perché sono convinto che se andassimo presso le cosiddette bestie a dir loro che sono corrotte marce ed a predicare la necessità della loro distruzione, queste ci si «sganascerebbero» sul muso (pardon! sotto il naso) e se potessero esprimersi a parole, ci direbbero con compatimento e dandoci un colpettino di zampa sulla spalla: uomo! E questo, come se noi dicessimo: bestia!
E se è a supporre che le bestie — almeno quelle che non sono torturate, massacrate e divorate da noi — non sono dispiacenti di vivere, perché non lo potremmo essere anche noi che pur siamo dotati di maggiori capacità sia fisiche che intellettuali?

È necessario che l’uomo ritorni alla vita animale, libero nel mezzo della natura libera, per essere felice? Ebbene: se la nostra evoluzione fu un male incominciamo l’involuzione verso il bene. Ritorniamo alla semplicità, devastiamo il nostro cervello; insomma, distruggiamo tutto ciò che l’uomo in millenni di vita sociale ha creato e ritorniamo alla vita primitiva e selvaggia, all’uomo armato di randello, vigoroso, sano, audace ed in lotta contro tutta la natura.
Ma ciò è necessario per trovare la felicità? Io non esito a rispondere: no!
Ed esaminiamo le diverse cause dei nostri mali.

Una delle cause che procura all’uomo le maggiori, o meglio, l’illusione delle sue sofferenze fisiche e morali, è — e parrà strano — uno dei beni più apprezzabili che ha acquistato dal progresso nelle scienze e nelle industrie: la comodità.
La comodità ha ucciso nell’uomo la capacità alla lotta; la soppressione della lotta quotidiana ne ha distrutto il coraggio, e da qui la nostra vigliaccheria di fronte al pericolo, alla fatica, al dolore.

L’uomo primitivo che si trovava solo e disarmato a lottare contro mille pericoli: le belve, gli uomini, il vento, il gelo, la tempesta, le malattie, la fame, era dotato d’un coraggio sicuramente sconosciuto ai nostri giorni, e mantenuto ed aumentato dalla lotta quotidiana incessante; il suo fisico continuamente in azione era robusto e sano e sapeva sopportare le più grandi fatiche e sofferenze. Non temeva la lotta anche colle belve perché ciò entrava nel quadro e nella necessità della sua esistenza, ed il suo coraggio e la sua forza dovevano averlo reso tanto temibile, che le bestie anche più feroci, quand’egli s’internava nel folto della foresta, dovevano scansarsi piene di rispetto e di timore di fronte ad un nemico così deciso e pericoloso.
Questa pratica quotidiana di coraggio, questa lotta senza tregua, questo sfidare ad ogni istante la morte per procacciarsi gli alimenti necessari alla sua esistenza, rendeva l’uomo primitivo agguerrito contro tutte le fatiche e le sciagure.

La difficoltà ed il pericolo della lotta per la vita e le sofferenze che ne conseguivano non lo gettavano nella disperazione. Essendo la vita per lui il suo bene maggiore ed arrestandosi il suo ideale a se stesso, la difendeva fino all’estremo con denti ed artigli. Non avendo, poi, ideali metafisici da raggiungere, e tenendosi nel cerchio del reale e del possibile, senza lasciarsi troppo trasportare dall’immaginazione, è da supporre ch’egli non conosceva lo scoraggiamento, perché tutto ciò che pensava poteva essere realizzato nel corso della sua vita e da lui stesso.

La vita dell’uomo moderno, invece, si differenzia essenzialmente da quella dell’uomo primitivo?
Se è vero che per una gran parte dell’umanità la lotta per l’esistenza non è cessata, pur tuttavia essa è ridotta ai minimi termini, e le probabilità di procacciarsi il fabbisogno per l’esistenza senza grandi fatiche e pericoli, sono enormemente aumentati ed hanno raggiunto una certa stabilità.

L’uomo moderno, grazie all’arma da fuoco, è riuscito a dominare il regno animale, che con lui competeva nella lotta per la vita e l’ha soggiogato in parte ai suoi voleri ed ai suoi bisogni. Inoltre si è messo al riparo dalle tempeste e dal freddo costruendosi comode case e vestimenta; contro quasi tutte le malattie fisiche ha trovato dei rimedi che ne diminuiscono in gran parte le sofferenze.

Rimane la lotta fra gli uomini per ideali metafisici come quello di patria, ma anche qui delle convenzioni internazionali hanno già diminuite in gran parte le probabilità di guerre, e man mano che la cultura dilagherà dalle classi privilegiate a quelle del popolo, facendogli comprendere l’insensatezza di tali guerre, anche tali probabilità andranno rapidamente diminuendo fino a scomparire.

E vi è la lotta per il pane, lotta per strappare alla terra i suoi prodotti, ed in seguito lotta d’uno strato della società contro l’altro che cerca di accaparrarsi questi prodotti stessi.
Ma malgrado che questa lotta continui sorda e violenta, raramente i contendenti mettono in gioco la loro vita, come invece era obbligato a fare l’uomo primitivo ogni giorno, anzi, ogni istante, ed all’infuori di questa lotta esiste fra le parti contendenti un tacito accordo, che vale ad assicurare anche alla classe meno favorita il pane quotidiano, se non in misura sufficiente per soddisfare tutti i suoi bisogni fisici e morali, almeno sufficiente per non morire di fame.

Se l’operaio di cento anni fa avesse posseduto ad un tratto ciò che l’operaio d’oggigiorno possiede, è certo che avrebbe benedetta la vita. Ma ciò non è di noi, che abituati ad una maggior somma di benessere, ne rivendichiamo un altro superiore, come del resto la nostra capacità di produzione ce ne dà il diritto.

È indiscutibile che, per l’uomo moderno, le fatiche ed i pericoli per procacciarsi il suo nutrimento sono grandemente diminuiti e che le basi della sua vita sono andate divenendo sempre più tranquille, stabili e comode.

Ma man mano che la tranquillità e la stabilità della vita dell’uomo si va formando e che la lotta per l’esistenza diviene meno dura, il suo fisico perde d’agilità e di forza, il suo coraggio diminuisce: l’uomo si ammala di pigrizia, malattia che deriva dalla comodità. Così, se i suoi mali sono diminuiti, è diminuita pure in ugual misura la sua resistenza contro il male.

Se per l’uomo primitivo arrampicarsi sopra un albero era forse uno dei suoi divertimenti più facili e preferiti, per l’uomo moderno riuscirebbe ben penoso, e se il capogiro non viene a… trasportarlo rapidamente a terra, il suo coraggio almeno sarà messo a dura prova.

Se il primo colto improvvisamente in aperta campagna dalla tempesta e senza… ombrello, se ne ritornava tranquillamente alla sua caverna, il secondo ne sarebbe talmente terrorizzato, che ancora dopo parecchie settimane di una sì straordinaria avventura, sarà dominato dalla paura di malattie misteriose contratte e non ancora manifestatesi.

Infine: se per il primo restare due o tre giorni senza mangiare doveva essere per lui la cosa più comune e che non diminuiva né il suo coraggio né grandemente la sua energia, per il secondo — eccettuati gli anarchici che sono un po’… abituati a questi tiri birboni del… destino — restare un solo giorno crederà di morirne e costituirà un avvenimento così eccezionale che se ne rammenterà per tutta la sua vita, ed il solo ricordo lo farà rabbrividire.

Non son quindi le sofferenze e le fatiche che hanno rese le condizioni della vita dell’uomo moderno più dure, ma è la sua diminuzione di resistenza che gliele fa sembrar tali.
Se mi fosse permesso un paradosso, direi che la nostra mancanza di coraggio e la nostra cedevolezza di fronte al male, ci fa sembrare una eternità di gioia un attimo, ed un attimo di dolore un’eternità.

È la conquista sempre maggiore di benessere, di piaceri, di soddisfazioni materiali e spirituali che ce li rende comuni e ce ne fa deprezzare il loro valore; ed è il desiderio sempre insoddisfatto dell’uomo verso più grandi possessi che gli fa considerare con disprezzo ciò che già possiede.

Dovremo, quindi, arrestarci al punto in cui siamo e dichiararci soddisfatti di ciò che già è in nostro dominio?
Giammai! Evolvere è perfezionarsi e perfezionarsi è completare la nostra vita eliminandone le tare; è, infine, vivere maggiormente.

Soltanto che dobbiamo saper godere di ogni possesso nuovo considerandolo nel suo valore intrinseco e non lasciar menomare questo nostro godimento dal veleno de’ desideri di cose non ancora entrate in nostro potere.
E sopratutto sappiamo resistere al dolore e non lasciamoci vincere dallo scoramento per le piccole lotte quotidiane.
Fortifichiamo il nostro coraggio; costruiamo la diga di resistenza contro il male, e che il nostro volere sia: vincere il dolore!

Se non riusciremo a distruggerlo interamente, saremo però riusciti a debellare il suo potere sulla gioia. Ancora, non lasciamoci impossessare dalla disperazione perché vediamo le cattive leggi che gli uomini si sono imposte e le malefiche abitudini che hanno contratto. Ricordiamoci solo che tutto ciò che l’uomo ha creato può essere dall’uomo distrutto.

Ai folli amanti esaltatori della morte, contrapponiamo l’equilibrio mentale, la gioia della vita!
Distruzione! Distruzione! Morte! Morte! È il verbo in special modo di un gruppo d’individualisti-nichilisti milanesi. E se qualcuno li accusa di amar la vita, arrossiscono di vergogna e protestano indignati contro sì infamante sospetto; e per addimostrare l’infondatezza di essa, aumentano il loro verbalismo-suicidista, pietoso.

Il mio individualismo anarchico, invece, non è soltanto distruttore, ma anche costruttore. Se tendesse solo a distruggere non sarebbe che nichilista ma non anarchico, perché l’anarchia non è una filosofia negativa ma costruttiva. Essa è nata per ricostruire la vita nella sua interezza e nella sua perfezione, ed a tale scopo — che può essere irrealizzabile nel suo assoluto — essa lavora e combatte contro la società presente che la vita sminuisce, corrompe, devasta, distrugge.

Il mio individualismo-anarchico crede nell’evoluzione verso il meglio e non ritiene che l’uomo è inesorabilmente perduto, ma che egli è un ammalato che può essere ancora guarito.
Se non fossi convinto di ciò, saprei senza tante parole il da farsi: una mezza parabola dalla più alta vetta non mi farebbe certo paura, perché la riterrei una vera liberazione. Chi ha paura della vita non deve aver paura della morte!
Ma io sono innanzitutto «anarchico» precisamente perché ritengo che la lotta dell’uomo contro il male non è vana, perché l’«anarchismo» (e picchio espressamente sul motto «anarchismo» perché mi sembra che parecchi compagni l’hanno dimenticato, per ricordarsi solo d’essere «individualisti») è filosofia di vita; è l’antidoto contro il male che cerca di minare la nostra esistenza; è la reazione violenta e tenace delle parti sane del nostro essere contro l’invasione feroce della morte; è, infine, movimento incessante verso la liberazione e la perfezione dell’individuo, ciò che significa: verso la vita e non verso la morte!
Enrico Arrigoni
[Nichilismo, anno I, n. 9-10 dal 24 agosto al 9 settembre 1920]