Affari di gioco

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Più che mai lo sport contraddistingue il nostro spazio e il nostro tempo. Malgrado le centinaia di milioni di tesserati sul pianeta, i miliardi di telespettatori, la sua importanza nel commercio mondiale, le sue complicità politico-finanziarie ed il suo potere egemonico sul corpo, lo sport viene presentato come un innocuo e piacevole passatempo.

Ma se ci si intendesse una volta per tutte sul significato di questo termine, se si smettesse di confondere una partita fra amici che corrono dietro a una palla con una finale di Coppa del Mondo, o una corsa fra i campi con una finale olimpica dei 100 metri, la questione dello sport non apparirebbe più così innocente e risibile. Lo sport non è un gioco, né un’attività fisica. Religione dei tempi moderni, i suoi valori sono indiscutibili e le sue pratiche universali. Nato con il capitalismo, ne difende l’ideologia e i principi. Regno del corpo e del pensiero unico, lo sport riflette e diffonde una visione del mondo. E poiché l’intelligenza tende a diventare pigra al cospetto del consenso, è il caso di porsi alcuni interrogativi. Perché mai lo sport occupa un posto così considerevole nella nostra società? Come spiegarsi che tanti poveri si identifichino con atleti che guadagnano in pochi mesi quello che loro non guadagneranno in tutta la vita? Perché le diseguaglianze, le menzogne e la corruzione tanto condannate altrove vengono tollerate in ambito sportivo? Perché questo «fatto sociale totale» resta impensato?
Con occhi ingenui o interessati, lo sport viene visto per lo più come un universo incantato e incantevole di pratiche che mirano al superamento di sé, dei propri limiti, che nulla ha a che vedere con progetti politici, programmi economici o fedi religiose. Lo sport è considerato fondamentalmente neutro, apolitico, al di sopra di ogni conflitto sociale. Questa pretesa neutralità nega il ruolo dello sport nell’impresa di abbrutimento, indottrinamento e cloroformizzazione di massa, e si manifesta essenzialmente in due modi. Il primo consiste nel sostenere che lo sport, se organizzato in maniera “progressista”, può contribuire al miglioramento del mondo: all’emancipazione delle donne, alla lotta contro la tirannia, all’integrazione razziale, nonché alla promozione della “cultura”. Ci sarebbe quindi uno sport vero, educativo, puro, dal volto umano, insomma un’essenza o idea platonica dello sport in aperta contraddizione con i deprecabili eccessi, gli abusi, le degenerazioni dello sport che conosciamo. Ma la brutale realtà dell’affarismo, del doping, dei risultati truccati e della corruzione avrebbe dovuto già fare piazza pulita di simili illusioni.
L’altro modo per sostenere la neutralità dello sport, ancor più diffuso, trae spunto dall’unanimità del suo consenso. Considerato il prolungamento professionale di pratiche dilettantistiche diffuse ovunque, lo sport è talmente popolare da risultare intoccabile e da consigliare agli eventuali critici un cauto silenzio. Il gregarismo, la massificazione, la mobilitazione totale — se non totalitaria — delle folle che le favolose imprese degli idoli degli stadi mandano in delirio, confermano in effetti l’universalismo dell’ideale sportivo, ma in quale maniera? Nelle estasi nazionali che affollano la piazza in caso di vittoria, gli amici dello sport riconoscono la manifestazione di una unione sacra rigeneratrice. I campioni diventano quindi l’avanguardia di una società riconciliata con se stessa. Come ebbe a dire il capitano di una nazionale campione del mondo, «il calcio è un mezzo che permette di cancellare le differenze razziali, sociali o politiche». Ma la civile concordia auspicata da questa affermazione, per altro indicativa del potere anestetizzante dello sport, risulta puntualmente smentita dalle violenze che sempre più spesso accompagnano gli incontri. Sebbene queste violenze siano presentate come tragici «incidenti» causati da qualche balordo, si tratta in realtà dell’ovvia conseguenza del trionfo della logica competitiva — della vittoria ad ogni costo — che prevale nello sport come in ogni ambito della società.
Da molti anni siamo costretti a subire l’inflazione dello spettacolo sportivo su tutti i canali di comunicazione. I campioni dello sport sono sul punto di sostituire le stelle della canzone e del cinema sul podio delle icone moderne. I tiracalci a palloni di cuoio fanno parte delle personalità predilette dal pubblico, sono diventati i modelli pubblicitari da imitare, quelli con cui i giovani devono identificarsi. Eppure, durante le loro innumerevoli ed insopportabili interviste, essi appaiono altrettanto vuoti dei loro omologhi della musica o del piccolo e grande schermo. Il loro successo deriva soltanto dall’enfasi di cui lo sport gode nell’universo mediatico. La loro immagine viene costruita, uniformata e diffusa: stesso linguaggio demenziale, stessi hotel di lusso, stessa passione per la automobili di grossa cilindrata, stesse relazioni sentimentali con soubrette dello spettacolo, stesse droghe, stesso interesse per i conti bancari. Arruolati da squadre in mano a potenti interessi finanziari, questi pochi eletti passano il tempo a incontrarsi in giro per il globo, dando spettacolo di fronte a una immensa platea di diseredati e oppressi ridotti ad essere telespettatori fanatici, mere macchine da applausi. Gli atleti sono trasformati in uomini-sandwich, i loro attrezzi da lavoro e i loro corpi vengono ricoperti di pubblicità e durante le interviste non mancano di esibire i marchi degli sponsor e un adeguato sorriso promozionale. Lo stesso vale per i luoghi dove avvengono le competizioni sportive, spazi traboccanti di annunci pubblicitari posizionati ad uso delle telecamere. Si tratta di fare audience e di vendere con ogni mezzo.
Gli sport-spettacoli dominanti vengono declinati in tutte le forme fino allo sfinimento, mentre si avvicendano altri mercati sportivi. Non esiste ormai più alcuna interruzione, ogni stagione ha il suo “avvenimento” sportivo (quando non diversi contemporaneamente) in un’autentica frenesia competitiva.
I giochi circensi degli antichi romani erano innocenti bambinate a confronto delle odierne manifestazioni sportive. Ma com’è possibile che uno spettacolo così idiota e cretinizzante appassioni miliardi di persone? È stato detto che la sua potenza si fonda sulla moltiplicazione infinita delle immagini, mediata solo da banali commentari. Questa teletrasmissione permanente, offerta in tutte le salse (in diretta, in differita, alla moviola, da più angolazioni) trasforma la passione sportiva in passione dell’immagine («l’iconomania» di cui scriveva Günther Anders). La contaminazione generale delle coscienze deriva da questo martellamento continuo. Infatti il tifo sportivo (all’origine della parola “tifosi”) è un’autentica pandemia che ha trasformato ogni individuo in un potenziale sostenitore. Al punto che per molte persone lo sport è diventato un bisogno essenziale, lo spazio-tempo quasi esclusivo delle folle solitarie che abitano il mondo moderno. Insomma, i tifosi delle competizioni sportive sono del tutto permeabili alle tecniche di manipolazione mentale del mercato. Consumano beatamente tutto ciò che viene loro chiesto di consumare e ne domandano ancora, al di là di ogni più rosea speranza.
D’altronde trovano nello sport un ottimo fattore di socializzazione e di calore umano, con un terreno comune per sfogare il proprio bisogno relazionale. Poco importa che i loro argomenti di conversazione siano patetici e i loro slanci collettivi da stadio ridicoli. Sono comunque contenti di stare insieme e di vibrare per la medesima “causa”. Ciò li conforta un poco dall’atomizzazione fredda e implacabile dell’abitudinaria vita quotidiana. Gli spettacoli sportivi ricreano una comunione nel bel mezzo degli odierni rapporti terra terra, perciò i tifosi sono felici di urlare all’unisono negli stadi, in una sorta di corale virile. All’uscita possono raccontarsi le partite e fare pronostici sul prossimo incontro. Il chiacchiericcio sociale, questo intralcio permanente al pensiero, viene continuamente alimentato dai commenti sportivi. È facile rilevare l’effetto gregario di tutto ciò. Dato che la maggioranza delle persone si entusiasma davanti allo sport, quelli che temono di sentirsi esclusi seguono la tendenza collettiva, anche se non ne sono attratti allo stesso modo. Avrebbero paura di perdere il calore del gregge, qualora ignorassero gli ultimi risultati.
Non ci si pone troppe domande, ci si comporta come fanno tutti. Come si fa sempre.
L’idolatria sportiva può diventare una forma di affermazione identitaria (più o meno violenta). Le mentalità sanguinarie comuni ai pre-umani trovano qui un accettabile surrogato della guerra. Gli scontri a colpi d’ascia o di bazooka vengono sostituiti dalle scazzottate fra tifosi di squadre avversarie, che talvolta finiscono con feriti e anche morti. Gli stadi diventano campi di battaglia dove non a caso si odono le medesime urla eccitate (nel corso degli ultimi mondiali di calcio, un commentatore sportivo affermò che l’Italia aveva «annichilito» gli avversari, ripetendo l’espressione usata poche settimane prima dai cecchini italiani in Iraq per indicare l’eliminazione degli insorti). Sebbene altri sport, a differenza del calcio, scatenino meno gli istinti bellicosi — almeno qui in Italia —, ciò non toglie che la mentalità di fondo sia la medesima. Le competizioni sportive sono occasioni per dimostrazioni virili esacerbate, dove comuni spettatori hanno l’illusione di esistere attraverso colpi di mano e l’adesione a qualche gruppo. Onore insperato, possono addirittura arrivare anche loro in televisione!
Un’altra forma di identificazione è quella che spinge il tifoso ad “attribuirsi” le vittorie della sua squadra o del suo beniamino. Un misterioso transfert di energia passa dal campione ai suoi tifosi. Tipico il caso del tifoso che, sparapanzato nella sua poltrona, imbottito di birra, esulta davanti allo schermo televisivo: «abbiamo vinto!». Coi suoi incoraggiamenti verbali a distanza, ha persino l’impressione di aver contribuito alla vittoria, di aver egli stesso segnato dei punti. Lui che per lo più si spacca la schiena per un salario da fame, diventa il cortigiano di persone diventate ricche e celebri solo grazie alla sua creduloneria volontaria. Invece di provare disprezzo per le stelle dello sport e di ignorarle fino a farle scomparire nel buco nero dell’oblio, si getta ai loro piedi elemosinando un autografo. Adora pensare alla notorietà e alla fortuna degli altri, a cui orgogliosamente ritiene di contribuire col proprio sostegno. È più facile vivere delle “imprese” degli altri che fare da sé degli sforzi, nello sport o altrove. Il tifoso più accanito non vive che attraverso la sua squadra o il suo campione preferito, rinunciando ad una personalità originale per annegare nell’ebbrezza allucinatoria sportiva. È il perfetto esempio del piccolo uomo descritto da Wilhelm Reich, qualcuno che «dissimula la sua piccolezza e ristrettezza mediante grandezza e forza illusorie, grandezza e forza altrui». Quando si ha già il pane, i giochi sono il complemento indispensabile per dimenticare la propria condizione di docili schiavi. A volte, fra i più poveri, lo sport riesce a far dimenticare anche la mancanza di pane. Lo spettacolo diventa cibo.
Un’altra delle ragioni del successo dello sport è rintracciabile nella mitologia della sua purezza. Ci troviamo in un’epoca sempre più oscura, nonostante le dichiarazioni di continuo progresso, in cui dovunque dilagano conflitti d’interesse, compromessi e trame più o meno occulte; il solo ideale diffuso è quello del massimo arricchimento. Nel mondo della dittatura dell’economia, le “imprese sportive” appaiono come antidoti, boccate d’aria purificatrice. Si fanno indossare allo sport indumenti iridescenti e gli si attribuiscono tutte le virtù. Esso incarnerebbe la cavalleria, il rispetto dell’avversario, la fine delle ostilità (la famosa tregua olimpica), la fratellanza e la solidarietà internazionale, la festa della gioventù… tutte cose assenti nella vita reale. Ci vengono narrate eroiche vittorie sugli elementi contrari e sui limiti fisiologici. Gli atleti diventano eroi, saggi, icone, statue d’oro, santi da venerare senza riserva e di cui bisogna seguire l’esempio. Nell’entusiasmo ci si scorda semplicemente che i loro candidi mantelli sono ricoperti di pubblicità e che lo sport è la fedele immagine della società, vale a dire è completamente marcio (basterebbe pensare al pugilato — la «nobile arte» —, al suo ambiente particolarmente corrotto, ai 400 pugili morti sul ring dal 1945). Non appena entrano in gioco la minima somma di denaro o il più infimo onore, si scatena l’avidità. Truffe, doping, sfruttamento, disparità uomo/donna e paesi ricchi/poveri, spirito di odio e di conquista… le turpitudini sono le medesime che si trovano dappertutto nel mondo della merce e del potere. Fin dal 1894, e per più di trent’anni, lo stesso de Coubertin aveva definito il denaro «il grande corruttore, l’eterno nemico», denunciando la «fabbricazione del purosangue umano» e l’avvento dei «meticci dello sport, giornalisti in cerca di copie, medici in cerca di clienti, ambiziosi in cerca di elettori, fannulloni in cerca di distrazioni, gente di ogni risma in cerca di notorietà». Il barone era sì reazionario ma, a modo suo, preveggente. Il suo difetto è di aver creduto possibile costruire una «società umana» sul culto del più forte, sulla concorrenza generalizzata e la competizione permanente, sull’apologia della virilità, sulla reificazione dei corpi, sulla cloroformizzazione delle coscienze, sui deliri patriottardi.
Allo stadio come altrove, la funzione essenziale dello spettacolo sportivo è la manipolazione delle emozioni di massa. È attraverso il gioco delle identificazioni collettive e della contemplazione passiva che opera questo “oppio del popolo”. Lo sport consola, pacifica, fa volatilizzare ogni conflitto sociale e di classe. Ecco perché, oltre ad essere una inesauribile fonte di guadagno, è anche un potente strumento di controllo e di pacificazione sociale. Durante le competizioni, infatti, si dimenticano la miseria della propria esistenza e le drammatiche condizioni in cui versa il mondo. Senza il minimo sforzo, i flussi di immagini e di commenti sportivi imbottiscono il cervello e dispensano dal riflettere sulle cause e i possibili rimedi delle questioni sociali che ci affliggono. Hitler e i suoi emuli hanno sempre compreso la potenza del fascino dello sport, e se ne sono serviti per ipnotizzare, unire e galvanizzare le folle.
Nonostante nel 1892 de Coubertin sostenesse che «il giorno in cui (lo sport) verrà introdotto nei costumi della vecchia Europa, la causa della pace avrà ricevuto un nuovo e potente sostegno», il XX secolo verrà ricordato per essere stato il secolo del male e dell’indifferenza. Non solo lo sport non ha limitato la tirannia, ma anzi ne è sempre stato il complice. A confermare questo aberrante successo sportivo è lo stesso de Coubertin che, in occasione delle Olimpiadi berlinesi del 1936, ebbe a dichiarare che i Giochi «sono stati esattamente quel che volevo che fossero… A Berlino si è vibrato per una idea che non dobbiamo giudicare, ma che fu lo stimolo passionale che io cerco di continuo. D’altronde la parte tecnica è stata organizzata con tutta la cura desiderabile e non si può rimproverare ai tedeschi alcuna slealtà sportiva. In queste condizioni, come volete che ripudi la celebrazione della XI Olimpiade? Dato che anche questa glorificazione del regime nazista è stato lo choc emotivo che ha permesso l’immenso sviluppo che ha conosciuto». I regimi democratici contemporanei seguono il modello totalitario, riproducendolo in maniera molto più estesa e sofisticata.
E che lo sport sia un potente strumento di pacificazione sociale non l’hanno capito solo i politici, ma anche gli industriali. Non avendo i grandi manager più nulla da dimostrare nel mondo degli affari, vale la pena chiedersi cosa li spinga ad investire in squadre la cui redditività rimane alquanto dubbia. Sebbene gli sponsor vengano presentati come uno strumento recente del mercato sportivo, la storia dei club sportivi mostra il contrario. Quante squadre di calcio sono controllate da industriali? Il caso della Juventus è esemplare. Così come Peugeot controlla il FC Sochaux dal 1925, Philips controlla il PSV Eindhoven e Bayer il Bayer Leverkusen dal 1904, la Fiat possiede dal 1923 la squadra bianconera di Torino. Passatempo? Opera sociale?
In tempi in cui il concetto di «cultura d’impresa» non era ancora sorto mentre erano diffuse forti tensioni sociali, il padronato ha subito colto l’interesse implicito nello sport e le sue potenzialità. L’obiettivo è duplice: tenere occupati i lavoratori durante il tempo libero e assicurar loro una migliore identificazione con l’impresa attraverso un sistema di valori e di comportamenti, uno spirito di squadra e di competizione che renda più efficiente lo sfruttamento. Il successo finanziario passa anche per la soddisfazione dei salariati, facendoli sentire fieri di appartenere a una impresa «vincente», sul campo come in economia.

(estratto da: Machete, n. 3, novembre 2008)