NECESSITÀ E VIRTÙ

copertina

“Guardatevi dal sofisma dell’effimero”
(Denis Diderot, Sogno di d’Alembert)

Può risultare “perdente”, in tutte le sue sfaccettature, la pubblicazione di un libro sulla guerra del Golfo Persico, ed anche sulle diatribe tra bellicismo e pacifismo, ora che la guerra è apparentemente terminata, che le sue immagini sono state assorbite, evacuate e quindi consumate, al pari delle opinioni in merito. A questo punto, pare che l’unico spazio rimasto sia quello, peraltro già ampiamente occupato, di competenza degli specialisti, siano essi storiografi, fini analisti della politica internazionale e delle mene diplomatiche o, molto più materialisticamente e forse volgarmente, strateghi militari o economisti esperti in “ricostruzioni”, i quali, sicuramente, sapranno trarre delle buone lezioni e degli ottimi profitti da questa guerra.

Il consumo di immagini, emozioni, informazioni e disinformazioni è ormai talmente accelerato, quasi parossistico, che una notizia che può fare scalpore, spingere la gente a prendere partito (quale che sia), ad esprimere opinioni (quali che siano), consensi, applausi o dissensi ed indignazioni, in un brevissimo lasso di tempo non è più “notizia”, scivola in quella “storia” che sempre più stanno confezionando come un capace contenitore di tutto, slegandola dunque dalla vita reale, concretamente determinata, dei singoli soggetti. La memoria stessa che, pur stretta alle corde da aggressioni simboliche e materiali ben coordinate, conserva tuttavia una sua incancellabile forza, propende a mantenersi più nel privato che nel pubblico, bombardata com’è da micidiali e successive suggestioni (non a caso nella terminologia politica come in quella del marketing, la parola “suggestione” si è progressivamente sostituita all’antico “suggerimento”; in realtà, si vuole suggerire però suggestionando). Così il ricordo rimane patrimonio diretto soltanto di chi è stato toccato in prima persona da un avvenimento, per grande che sia, come nel caso di una guerra. Lì la memoria si fa ferita difficile a cicatrizzarsi, né più né meno come la fine di un amore o la morte di una persona cara. Gli altri, gli spettatori, vengono posseduti da ondate di immagini e rappresentazioni che progressivamente si sostituiscono a quelle anteriori, ancorché prossime, in un accavallamento che sembra non avere mai fine ed il cui fine sembra per l’appunto quello della disconnessione, di una sorta di extratemporalità neutrale.

La divisione dei còmpiti risulta abbastanza ben delineata. Chi è “protagonista”, magari del tutto involontario, di un certo accadimento, e non importa se vittima o carnefice (spesso i ruoli si mescolano), conserverà la sua memoria privata, magari trasmissibile come affabulazione; agli altri rimarrà una memoria confusa, attaccata com’è dall’incedere sovrano del sempre­nuovo (spesso antichissimo), e dunque, per preservarla, verrà affidata agli specialisti, a coloro che ricuciono professionalmente i brandelli di realtà per ripresentarla poi o “scientificamente” o “narrativamente” (un avveduto produttore cinematografico farebbe bene a commissionare immediatamente la sceneggiatura di un film su Melissa, la soldatessa americana fatta prigioniera, e sui suoi impacciati carcerieri iracheni che, secondo quanto riferiscono le cronache, la vedevano come un incrocio tra Rambo e Jodie Foster).

Noi, quelli che abbiamo altro da dire e soprattutto da dire altro, sembriamo completamente tagliati fuori, attori passivi, com’è stato per i differenti manifestanti per la pace, o semplicemente spettatori, com’è per la gran parte dell’umanità. Ma se allora, nel corso della guerra, il corpo sociale poteva venir percorso dai brividi prodotti dalla presenza simulata (la presenza della televisione e davanti ad essa, la lettura dei giornali, le discussioni con i conoscenti, le prese di posizione pubbliche o private ecc.) e dunque in qualche modo era legittimo per chicchessia parlare della guerra, ragionare su di essa, avanzare degli embrioni di analisi, ora, “a bocce ferme”, questa legittimità viene totalmente delegata ai vari specialisti. Il resto rischia di rimanere un chiacchiericcio indistinto, un rumore di fondo domato in fretta e messo a tacere da ben altri rumori, più “attuali”.

Nel nostro caso, la necessità e la virtù si sono coniugate senza chiedere alcuna benedizione o consenso razionale. Abbiamo cominciato a ragionare ed a scrivere sulla guerra prima ancora che iniziasse la sua fase più cruenta e spettacolare; abbiamo continuato durante, interrogandoci costantemente sul senso ultimo di una simile operazione; concludiamo e pubblichiamo a guerra finita, per adesso e questa. Ci è risultato relativamente facile non rincorrere l’instant-book perché da tempo abbiamo accumulato alcune convinzioni di base: che l’attualità è solo quella dei soggetti e non quella del tempo preconfezionato, cellophanato e distribuito; che non siamo contro questa o quella guerra, ma contro tutte, che peraltro non riteniamo inevitabili bensì fisiologiche rispetto al sistema di dominio esistente, e ad ogni sistema di dominio; che, se è consentito usare un paradosso, giudichiamo la guerra peggiore della pace senza però che quest’ultima, frutto di “equilibri” di guerra quotidiani, fra gruppi sociali, etnici, culturali, economici ecc. nonché fra individui e ruoli, sia di per sé migliore; che l’emancipazione dal capitale, dallo Stato, dallo spettacolo e dalle nostre povere sopravvivenze sia una guerra permanente, non necessariamente violenta come non necessariamente nonviolenta, dunque sempre attuale, a differenza dello spettacolo che, per quanto insegua il “tempo reale”, è sempre in ritardo, per lo scarto che esiste tra un’azione e la sua rappresentazione, o sostitutivo dell’ attualità soggettiva, a cui rimanda falsificatoriamente (nella società neomoderna “esiste” solo ciò che appare come esistente).

Certo, la guerra del Golfo è stata l’occasione di e per questo libro, così diseguale e così frammentario quali sono le nostre vite. Ma, per quanto alcuni testi possano sembrare “specifici”o addirittura “specialistici” (in realtà sono solo lo sforzo di correggere molte e diffuse opinioni false e falsificatrici in merito alla guerra ed alle sue cause), dobbiamo riconoscere, in verità, che, a ben vedere, abbiamo continuato a dire di noi stessi, delle nostre ambiziose voglie come delle nostre ineludibili insofferenze. Vissute nel presente ma, del pari, proiettate nel futuro. Se vogliamo, quindi abbiamo tentato soprattutto un’ analisi, oltre che della guerra, del Nuovo Ordine Mondiale che sta incubando e che ci sta incombendo addosso. Per trovare gli strumenti per combatterlo nelle maniere che sono e saranno necessarie e sufficienti.

Questa è la nostra attualità.

Riccardo d’Este
Torino, marzo 1991

(estratto da: “LA GUERRA E IL SUO ROVESCIO”

Questo testo è stato pubblicato per le edizioni Nautilus nel 1991. Riccardo D’Este ne fu il curatore e l’autore insieme ad altri compagni.

Nautilus – C.P. 1311 – 10100 Torino – 1991