«Il solo re buono…»

Cronaca

Gli Anarchici di Lynn (Massachusetts)
Ricordate? A Monza, a due passi da Milano che Umberto I aveva abbandonato nel Maggio 1898, come città di conquista, ai cosacchi di Bava Beccaris, il 29 Luglio 1900 intorno al sovrano che ogni atto del suo regno e gli avvolgimenti biechi della sua politica aveva diretto a cancellare tradizioni, conquiste e speranze della Rivoluzione Italiana, pretoriani e cenciosi riaffermavano tra il garrir degli inni cortigiani l’inscindibile fortuna del re e del popolo, la comune ansiosa sollecitudine pel bene inseparabile del re e della patria.

Eppure, mai aspirazioni e propositi di sovrano erano apparse più acerbamente ostili ai voti ed alla fortuna della nazione quanto i ventotto anni del regno di Umberto I agli aneliti dell’Italia nuova resuscitata alla storia dal martirio e dall’eroismo di tre generazioni!
Perché nessun sovrano porta al tribunale della storia uno stato di servizio bieco e macabro come quello di Umberto I. Possono le auguste sgualdrine impenitenti ed i confessori aulici mentire sulla sua bara che egli fu il re buono, così come il padre, cacciato a dispetto delle sue bestemmie e delle sue paure attraverso la breccia, era stato chiamato padre della patria, e l’avo, l’avo che aveva sulla coscienza i tradimenti del 1821, le condanne capitali di Garibaldi e di Mazzini, l’abbandono di Milano alle iene dell’Austria, era stato chiamato il magnanimo.
La storia, stracciata la fragile ragnatela delle postume apologie della regina Margherita e del suo consolatore il cardinale Bonomelli, dirà domani senza riguardi e senza pietà:
Che ringoiandosi periodicamente le convenzionali proclamazioni dell’intangibilità di Roma capitale d’Italia, Umberto I ha chiesto perdono a tutte le sacrestie vaticane delle sue millanterie laiche e delle sue temerità massoniche e non invocò mai al suo popolo altro destino che quello ferrato della duplice devozione alla chiesa ed allo Stato;
Dirà la storia che, auspice Umberto I, l’Italia risorta ad unità ed indipendenza, attraverso mezzo secolo di rivoluzioni, rinnegò a Candia, gendarme della ragione di stato e della grazia di dio, i diritti e le glorie delle proprie origini;
Dirà che la Costituzione stessa della patria, nel nome ed in forza della quale la sua dinastia pezzente era stata investita della sovranità di una nazione grande e gloriosa, non ebbe mai peggior nemico né manigoldo più sozzo di Umberto I che la tenne sotto i piedi ad ogni fremito della protesta popolare e sognò, complici Pelloux e Bava Beccaris, stracciarla per sempre nella restaurazione assoluta dell’autocrazia militare, e dal sogno non cessò che quando si vide sull’orlo dell’abisso;
Dirà la storia che, strumento di una famelica banda di sciacalli, Umberto I fecondò col sangue più puro della giovane Italia il sogno pazzo della corona d’Etiopia travolgendo il nome e le bandiere della patria nel fango di compromessi ignominiosi e di transazioni infami nuove, ignorate certamente ai liberi comuni ed alle piccole repubbliche che tenevano testa validamente al Barbarossa ed al Valois e salvavan l’onore dove ogni fortuna dell’armi era perduta;
Ed aggiungerà la storia di domani che, auspice Umberto I, i dilapidatori della fortuna pubblica ebbero nel re buono il complice autorevole che garantiva l’impunità del sacco e delle paradossali rapine recidive;
Ed ai figli nostri dirà spietata, inesorabile che mentre i saccheggiatori delle banche, pagata la taglia alle reali bagasce ed ai corruttori della politica nazionale, potevano assurgere ai massimi onori ed alle supreme magistrature della patria, nella terra di Galileo, di Bruno e di Vanini, la libertà di pensiero non trovava più larga mercé che presso i tribunali della Santa Romana Rota, né altro rifugio, né altro tempio che le galere e le Isole italiane della Salute; che ogni anelito del proletariato italico ad assurgere verso il destino fatale dì verità e di giustizia prefinito dalle leggi ineluttabili del progresso civile, fu soffocato nel sangue, e da Conselice a Milano si contano a centinaia, a migliaia i figli d’Italia che sul solco fecondato dal servo sudor caddero col petto infranto dalla mitraglia regia, suppliziati in ispregio di ogni legge civile ed umana per avere, inermi, reclamato un pane meno scarso, una vita meno bestiale, un po’ più di riposo per le membra disfatte, un po’ d’aria e di luce per i cervelli ottenebrati.
Questa la voce della storia; e voi, compagni nostri di miseria, di pena, di servitù, voi che la secolare consuetudine religiosa inchina facilmente ai feticci e piega ai loro odii ed alle loro vendette, voi non maledirete più all’uomo che il 29 luglio 1900 nell’orgia di domesticità e di prostituzione a cui si abbandonavano incoscienti od obliosi i figli, i fratelli, i compagni di catena e di miseria di tante vittime della regia ferocia, disperò del destino del proletariato italiano ed atterrando del suo fulmine vendicatore Umberto I, agli oppressori ammonì che mai colla violenza delle manette e delle stragi si ricaccia un popolo a ritroso della sua storia, ed agli oppressori rivelò la fragilità dei simboli che all’armento ingenuo ed imbelle degli schiavi incutono tanta
devozione e tanta paura.
Voi non potete maledire al giustiziere né imprecare all’ammonitore che da una parte chiude per sempre le vie dell’avvenire ai propositi di insane, impossibili restaurazioni, schiude dall’altra ai vinti le vie della speranza e della risurrezione, ammonendo che le libertà hanno una sola vera e reale guarentigia: la coscienza vigile delle masse che non sanno abdicarvi né sono disposte a lasciarsele confiscare; e che fra i molti effimeri diritti di cui cianciano i padri santi dell’ordine uno ve n’è che vuole avanti ad ogni altro trovare nella realtà quotidiana il suo compimento: il diritto al pane che è la prima e più elementare forma di libertà, il diritto al pane dell’anima e del cervello che è la forma elementare della civiltà, la condizione elementare del progresso.
Non maledite al giustiziere, all’annunziatore!
Neanche levatelo sugli altari a rifar la teoria dei santi della rivoluzione sociale che dietro ai taumaturghi si rifugiano di solito l’ignavia e l’impotenza dei fedeli.
Meglio che le maledizioni e le apologie, le quali non saprebbero né avertere né moltiplicare cotesti superbi atti di rivolta, vale ricercare le cause da cui sono determinati e misurare le conseguenze postume e remote che ne discendono.
Lo stato di servizio di Umberto I illumina le cause a cui direttamente si connette il supremo atto di giustizia di Gaetano Bresci; la storia del nuovo regno ne illustra le conseguenze prossime.
Coloro che per sistema, per interesse, per paura deplorano gli atti di rivolta come pretesto di subite violente reazioni in cui vanno disperse le libertà pubbliche appena consolidate, hanno dovuto riconoscere che se si tornò subito dopo la caporalesca dittatura militare del Pelloux al rispetto delle guarentigie statutarie — quali che ne siano — che se il diritto di organizzazione e di sciopero ebbe dopo gli stati d’assedio la più vasta consacrazione, le cause sono tutte e soltanto nell’atto magnifico di rivolta e di giustizia compiuto a Monza da Gaetano Bresci il 29 luglio 1900.
Le conseguenze remote sono di loro natura meno prevedibili e sono nel caso nostro, e per colpa comune a lutti i lavoratori a quelli più specialmente che militano all’avanguardia del movimento proletario, meno profonde e meno sensibili.
Perché noi non abbiamo saputo trarre profitto dalla nuova condizione di cose che l’eroico esempio di Gaetano Bresci ci aveva creato.
Mentre i partiti politici hanno saputo avvantaggiarsi delle ristorate libertà pubbliche e si sono avventati all’albero della cuccagna fino ad attingerne la vetta sospirata, dando di lassù il calcio dell’asino al proletariato che sulle sue spalle eternamente curve li aveva levati alla fortuna, la parte rivoluzionaria, quella che va al di là dei mondi e delle forme e vuole dalla rivoluzione l’essenziale libertà della vita e del pensiero, si è adagiata sullo strame delle mezze libertà riconosciute quasi che concioni verbose e sgorbi tribunizi fossero tutto il suo programma, tutta la sua meta, ed ottenuta la libertà di svesciar ciarle, celebrar congressi innocui e muggire rauchi ordini del giorno, non le rimanesse altro da fare.
Si accucciò ignava alla prima tappa, e nell’ozio Bisanzio rifiorì e rintronò il bivacco di tutte le sguaiataggini scioperate dell’accidia, ed al problema arduo ed urgente della miseria e dell’ignoranza che ci gravano sulle spalle, ed al mezzo di risolverlo riprendendoci quello che è nostro per farne la comune guarentigia del benessere e della libertà di tutti e di ciascuno, problema che i lavoratori aveva appassionati, raccolti, ravvivati di augurale vigore durante un trentennio e della piccola falange di pionieri aveva fatto l’esercito minaccioso che Stati d’assedio e domicilio coatto e galera avevano moltiplicato ed agguerrito, filosofastri da ghetto e da lupanare sono venuti sostituendo le suppurazioni fetide dell’anima scrofolosa. Spolverati i sofismi del vecchio Hobbes ne hanno fatto la trama di un vangelo ravveduto della poltroneria, della viltà e della rassegnazione vestendolo d’ironia e di cinismo:
«Sperate nella rivoluzione? E siete poveri cristianelli a cui i fedeli, stanchi, daranno un bel dì nel groppone».
«Contate sulla solidarietà? Ma non sapete che l’uomo è lupo all’uomo, che la massa è sordida e meglio che sorreggerla quando vacilla val ancora gabbarla a beneficio proprio?».
«Sognate la fratellanza? Aspettate Nazareni circoncisi che facendo lo scab a Giuda vi venderemo per un nikelino ai birri ed al sinedrio!».
«Vi compiacete degli atti individuali ? E i vostri eroi ve li catalogherà Lombroso tra degenerati paranoici criminali nati!».
La causa? ma è un non senso! il prossimo? ma è un pugno di pidocchi! l’ideale? una menzogna convenzionale. L’ Umanità? cristianesimo che si rinnova e ripullula sul vostro rammollimento.
Non ci siamo che noi, ed all’infuori di noi non è che l’armento: benedetto chi lo castra e chi lo tosa, e quanto all’anarchia, che è per definizione negazione dell’autorità, ben venga se può accordarsi col dominio che per definizione è la negazione dell’anarchismo… bociavano i norcini rigattieri di un egoismo stupidamente inteso ed oscenamente praticato. E dietro ad essi la corte di miracoli del pidocchiume, incapaci di levarsi dall’immondezzaio e dalla rogna, fierissima di poterci urlare che era con noi ad un patto, che il livello dell’eguaglianza agognata fosse quello del suo abbrutimento della sua vigliaccheria e della sua abiezione.
E mentre i lavoratori sfiduciati e nauseati dell’obliquità dei tutori esosi guardavano alla parte rivoluzionaria, chiedendole l’auspicio della nuova giornata e tornando alle origini eroiche del movimento socialista mostravano di saper scegliere e ci affidavano di saper fare buona rotta, la nuova parola non abbiamo saputo dire, non abbiamo saputo cogliere la meravigliosa contingenza. Noi facevamo a vituperi pei trivi coi beceri e colle ciane dell’espedientismo anarchico.
Infezione sporadica, effimera, superficiale da cui la prima ventata gagliarda di reazione, il primo brivido d’azione ci purgherà ricacciando in ghetto gli usurai, ed alla fogna le povere sorche che l’hanno diffusa, ma intanto quello che non aveva saputo essere l’individualismo era diventato il personalismo, quella che doveva essere la polemica, stimolo, revisione, controllo, correzione, era diventato la bega turpe per cui i lenoni gridavan: venduti! a quanti non sapevano prostituirsi, ed i ladri colle mani nel sacco urlavano dalle bigonce improvvisate in bordello: parassiti! a coloro che preferiscono la superba miseria all’accattonaggio professionale.
Ed il proletariato che noi avevamo cessato di affiancare, di cui non dividevamo più la quotidiana esistenza, di cui non comprendevamo più i nuovi bisogni ci ripagò di buona moneta: non ci comprese più, non volle comprendere né intendere che più potessimo aspirare ad un regime di libertà di giustizia d’amore, noi che quanto a libertà ed a giustizia non avevamo criteri diversi dai tribunali del Sant’Ufficio o dai cannibali della Milanesia.
Propaganda ed agitazione ne furono anchilosate, l’azione — possibile soltanto dove sia vigorosa concordia di propositi e d’opere — divenne impossibile.
Chi pretende inculcare agli altri la verità in cui crede deve avere il coraggio di dire a se stesso intera e nuda la verità per quanto sia ingrata.
E verità amara è questa, che dell’eroico olocausto di Gaetano Bresci i rivoluzionari non hanno saputo cogliere il frutto, né valutare l’aspetto che meglio lo caratterizza: che se la rivolta soltanto può mettere un freno alla reazione e rialzare gli altari della libertà, può soltanto la rivoluzione abbattere le bastiglie dell’ignoranza e le galere dello sfruttamento, restituire ai lavoratori i mezzi di produzione e di scambio, erigere sulle rovine del mondo borghese la città libera della giustizia e dell’amore; che le rivoluzioni non sono l’opera dei partiti ma delle classi e che soltanto rituffandoci tra gli irredenti del pane e dell’amore col fervore sereno che ci viene dalla fede immutata, seminandovi senza tregua, senza debolezze, senza vergognose restrizioni mentali, le verità liberatrici che hanno fatto di noi degli uomini e dei ribelli, potremo coscrivere per la rivoluzione l’esercito di cui non siamo che la smilza avanguardia, zimbello oggi degli scherni, domani della ferocia inesorabile del secolare nemico.
Ed è l’urgenza assoluta.
A Roma, più impudica, più scandalosa che a Monza nel Luglio 1900, tripudia sul cinquantenario di massacri proletari recidivi e di frodi impunite la geldra sconcia degli eroi della sesta giornata.
Se qualcuno… guastasse la festa, non vorrebbe il proletariato italiano cogliere occasione dalla repentina inaspettata decapitazione dei pubblici poteri, del disorientamento e dello scompiglio che ne verrebbe per avventarsi concorde alle trincee del vecchio ordine sociale ed accender le prime fazioni della guerra disperata che deve recargli colla vittoria il benessere e la libertà?
Non è oggi che un dubbio lontano, domani potrebbe essere la realtà inattesa e gli avvenimenti non ci debbono trovare né discordi, né inermi, né ignavi.
Ricordatevene!
(Cronaca Sovversiva, anno IX, n. 31, 5 agosto 1911)