Sviluppo sostenibile

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Eugène Benoît
È nel 1980, in un rapporto comune del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente e del World Wildlife Fund, che è comparsa per la prima volta la nozione di «sviluppo sostenibile». Successivamente è stata avanzata nel rapporto «Bruntland», dal nome del primo ministro norvegese che presiedeva la commissione delle Nazioni Unite per l’ambiente e lo sviluppo. Ecco la definizione: «Uno sviluppo che risponda ai bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai loro».
Non esiste definizione assai più precisa di «sviluppo sostenibile». Il suo significato dipende dai rapporti di forza sociali fra diversi gruppi di interessi che con questo termine difendono obiettivi in gran parte contraddittori. In effetti questi sono ufficialmente di tre tipi: mantenere l’integrità dell’ambientemigliorare l’equità socialemigliorare l’efficacia economica. Secondo gli agenti sociali coinvolti, difensori dell’ambiente, industriali o Stati (più o meno industrializzati), lo «sviluppo sostenibile» ricoprirà quindi priorità del tutto differenti, senza che per questo il significato imposto nel senso comune – sinonimo di rispetto dell’ambiente e divenuto strumento di marketing politico e commerciale – ne sia toccato.

Gli industriali hanno riassunto a modo loro questi tre obiettivi: le «3P», ovvero i «tre poli interdipendenti dello sviluppo sostenibile dell’umanità: equità sociale (People), conservazione dell’ambiente (Planet), efficacia economica (Profit)».
Quanto alla Commissione europea, essa proclama che «lo sviluppo sostenibile lascia intravedere all’Unione Europea l’immagine concreta [sic!], a lungo termine, di una società più prospera e più giusta, garante di un ambiente più pulito, più sicuro, più sano, e che offra una migliore qualità della vita a noi stessi, ai nostri figli e nipoti. Per realizzare questi obiettivi occorre una crescita economica che favorisca il progresso sociale e rispetti l’ambiente, una politica sociale che stimoli l’economia e una politica ambientale che sia al tempo stesso efficace ed economica». Nell’ultima parte della frase si vede chiaramente che la politica ambientale è sottomessa agli obiettivi economici. Di sfuggita notiamo che lo «sviluppo sostenibile» è una nozione sufficientemente malleabile («una politica sociale che stimoli l’economia…») perché si possa invocarlo al fine di legittimare politiche di regolamentazione del mercato del lavoro. È proprio la crescita ad essere qui la sorgente del progresso sociale e del rispetto per l’ambiente («una crescita economica che favorisca il progresso sociale e rispetti l’ambiente…»): cosa che porta a stabilire un legame meccanico tra la realizzazione del primo obiettivo dello «sviluppo sostenibile», lo sviluppo, e gli altri due, il rispetto dell’ambiente e delle regole d’equità.
In quest’ottica, deregolamentare l’attività delle imprese e rendere flessibile il mercato del lavoro avrebbe la virtù di consentire alle imprese di investire maggiori profitti nella ricerca di tecnologie «pulite» («eco-industrie») e quindi di proteggere l’ambiente e anche di aumentare il «benessere» sociale. Il corollario è che non si potrebbero imporre regolamentazioni ambientali all’industria né limitarne la capacità di sviluppo per salvaguardare il pianeta. È ciò che alcuni chiamano anche «crescita verde», vertiginoso rovesciamento di prospettiva se ci si ricorda che il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente intendeva rispondere alle analisi del Club di Roma che raccomandava allora una crescita zero.
Davanti gli edifici della commissione di Bruxelles una scultura di cemento, raffigurante un ingranaggio industriale munito di un tubo di scappamento che trascina i petali di una margherita, illustra così abbastanza fedelmente, se non esteticamente, questa risoluzione della quadratura del cerchio produttivista sostenibile.
Si capirà un po’ più concretamente cosa si nasconda dietro questo blaterare consultando il rapporto di valutazione della «Strategia di Lisbona a metà percorso», apparso nel 2004. Il «gruppo ad alto livello» messo all’opera dalla Commissione Europea fornisce in particolare questo esempio: «Solo tre cinesi su mille possiedono attualmente una automobile, ma, via via che il tenore di vita aumenterà, la Cina potrebbe diventare il più grande mercato automobilistico del mondo. Allo stesso tempo, tenuto conto dell’ampiezza dei problemi relativi all’inquinamento atmosferico e alla crescita della domanda di petrolio, il governo cinese si sforza di raggiungere le norme europee per le emissioni dei veicoli da qui al 2010. Questi elementi, combinati ai redditi relativamente poco elevati in Cina, inciteranno i consumatori a scegliere veicoli più puliti e a basso consumo. I costruttori dell’Unione Europea sono in buona posizione per rispondere a questa domanda». Questa «soluzione» (sempre più auto ma più pulite) è stata raccomandata direttamente dall’industria stessa, attraverso il Consiglio mondiale degli affari per lo sviluppo sostenibile (WBCSD), potente lobby padronale creata, nella prospettiva del vertice della terra di Rio, dall’industriale svizzero Stephan Scmidheiny, su richiesta di Maurice Strong, l’allora presidente della commissione delle Nazioni Unite per l’ambiente dopo aver presieduto il Forum economico mondiale di Davos. Il gruppo di lavoro per la «mobilità sostenibile» di questa ONG padronale riunisce i principali gruppi energetici e automobilistici, fra cui BP, DaimlerChrysler, General Motors, Michelin, Norsk Hydro, Renault Shell e Toyota. Ha la pretesa di sviluppare una visione a lungo termine della mobilità ma non considera l’insostenibilità inerente ad un aumento sempre maggiore dei volumi trasportati su distanze sempre più grandi, e questo nel nome del secondo principio, l’equità sociale. In effetti, nel suo rapporto 2003, il gruppo mette l’accento sul fatto che sono «i trasporti ad aver creato la possibilità di vita così come la conosciamo nel mondo sviluppato», caratterizzata dall’«accesso ai beni e servizi». E uno degli obiettivi è «ridurre la frattura della mobilità» che colpisce i paesi poveri e le popolazioni socialmente sfavorite ovunque nel mondo… impedendo loro di «pervenire a migliori condizioni di vita per loro e le loro famiglie».
Basarsi così sul principio di equità incluso nella definizione di «sviluppo sostenibile» per contrastare le critiche al produttivismo è diventata una strategia frequente. Quando una associazione, Actionconso, denuncia la campagna di marketing «Consumare meglio, è urgente» degli ipermercati Carrefour, il gruppo si offre il lusso di pubblicare sul suo sito la lettera dell’associazione e la «risposta» del Direttore Generale. Da buon populista di mercato, costui respinge ogni idea di riduzione dei consumi nel nome della «democratizzazione del consumo» e a sostegno dei «meno abbienti» (People), basandosi sulla «definizione di sviluppo sostenibile, enunciata per la prima volta nel 1987 dalle Nazioni Unite nel rapporto Bruntland […]: consumare riflettendo sul lungo termine». Questa definizione è evidentemente imposta come ambito di qualsiasi negoziazione coi difensori dell’ambiente. Quelli che non l’accettano – ovvero che rifiutano di integrare la competitività delle imprese e l’obiettivo della crescita alle loro problematiche ecologiste – tendono ad essere esclusi dal dibattito pubblico e dal «Dialogo». Alcuni sono accusati di appartenere ad «organizzazioni estremiste» mentre queste ONG non fanno che difendere la propria ragione sociale – come le imprese difendono la loro: fare profitti. Al contrario gli «eco-realisti», come il WWF, sono particolarmente vezzeggiati dal mondo dell’impresa.
L’obiettivo degli industriali divenuti cantori dello «sviluppo sostenibile» è di evitare ad ogni costo una qualsiasi regolamentazione obbligatoria in cambio di promesse basate su codici di comportamento volontari. Le Nazioni Unite hanno contribuito a dare credibilità a questa ideologia angelica lanciando, nel corso del forum di Davos del 1999, il Patto mondiale delle imprese, «concepito dalla Camera di commercio internazionale». Attraverso ciò, le imprese «si impegnano», senza il minimo controllo né obbligo di risultati, nei campi dell’ambiente, del sociale e dei diritti dell’uomo. Esse vi guadagnano il marchio dell’ONU trasformato in strumento di marketing: secondo un istituto di sondaggi, il 75% degli intervistati in 18 paesi hanno dichiarato che la loro fiducia in una multinazionale aumenterebbe se entrasse in partnerariato con l’ONU per il progresso sociale.
Gli ecologisti avrebbero quindi torto a prendere alla leggera le strategie di rinverdimento dell’industria e della grande distribuzione, le quali, con la riforma del vocabolario, ostentano ormai il nostro modo di pensare. Tanto più che un buon numero di organizzazioni ecologiste stringono «accordi per lo sviluppo sostenibile» con i principali inquinatori. È il caso del WWF, diventato la garanzia «delle multinazionali che contribuiscono con fondi importanti al [suo] lavoro di conservazione» e vengono così rassicurate in cambio con una «relazione unica che migliorerà la [loro] immagine di marca e valorizzerà le [loro] strategie di marketing e comunicazione» – costo dell’operazione per il gruppo Lafarge: 5 milioni di euro in 5 anni.
I grandi inquinatori hanno tutto l’interesse affinché lo «sviluppo sostenibile» sia innanzitutto un problema dii responsabilizzazione del consumatore-cittadino, facendo così dell’inquinamento un problema di mancanza di senso civico e del consumo una soluzione. La migliore maniera per proteggere la natura è consumare ancora. Il che è un’ottima cosa perché il consumatore non ha che l’imbarazzo della scelta: fra Leclerc e Carrefour, quale sostenere col proprio atto d’acquisto «ecologico» ed «etico»? Quale insegna oligopolistica votata al consumo di massa, spingendo al produttivismo, al dumping sociale e alle delocalizzazioni, sradicando il commercio al dettaglio, strangolando i produttori con margini ridotti, gettando sulle strade un flusso esponenziale di camion attraverso tutta l’Europa, è la più impegnata sulla via dello «sviluppo sostenibile»?
[Agone, n. 34, 2005]
http://finimondo.org/node/1325