Oreste Ristori, Le corbellerie del collettivismo

 

Data la babilonia infernale che impera intorno alle varie tendenze del socialismo di Stato ed al
partito in cui esse s’incarnano, non sarà affatto inutile, credo, ch’io spenda un po’ di tempo in
proposito, affinché il pubblico — che bene grosso — cessi di essere turlupinato e possa formarsi un
esatto concetto di ciò che armeggia e vuole la social-democrazia.
Premetto, anzitutto, che non farò la critica agli uomini di questo partito; non prenderò di mira
nessuna personalità; non sorprenderò l’individuo nelle sue attitudini enigmatiche, nella sua
anfibiosità. L’uomo — come uomo — può errare, tergiversare, cambiar maschera e colore, secondo
le circostanze, le necessità, e proclamare alternativamente buona e cattiva, giusta ed ingiusta una
medesima cosa. Togliere a pretesto l’attitudine di un individuo per giudicare un intero partito, può
essere un buon mezzo di turpe polemica o un buon espediente poliziesco; giammai onestà di
discussione. Per questo, non seguirò il pettegolezzo linguacciuto che si fa intorno alle individualità.
Buone o cattive che queste siano, passan qui inosservate.
È la collettività che deve esser discussa; sono i suoi desiderii, le sue speranze, le sue lotte, i suoi
trionfi, le sue delusioni, che debbono essere evidenziati e ch’io farò passare per il caleidoscopio di
una critica giusta e spassionata.

Elasticità del socialismo
Del socialismo — come di tutto ciò che ad esso si riferisce — si ha un’idea confusa, strana, che
varia essenzialmente da regione a regione, da individuo a individuo. Ognuno se lo abbozza a modo
suo, secondo la forza del suo criterio, e ciò che è peggio, spesso, secondo particolari interessi.
Esistono certi socialisti il cui socialismo fa ridere, come fa piangere il socialismo di certi altri. Ce
n’è per tutti i gusti… se l’oste ne cuoce.
Per alcuni, «socialismo» consiste nel battezzarsi «socialista», nell’assistere a qualche conferenza,
nel portare il bollettino alle urne, nel convertirsi in lacchè dei propri candidati, o nel fare «sport» di
un rivoluzionarismo «à la mode», che all’occasione rinnegano o rimangiano con una meravigliosa
disinvoltura. Altri, lo fanno consistere in una specie di parafulmine destinato a paralizzare l’azione
violenta delle correnti sociali, ad impedire gli urti tumultuosi degl’interessi antagonici delle classi in
lotta, e che, considerato sotto certi aspetti e inteso in certo modo, è benefico per tutti — per il ricco
come per il povero, per l’oppressore e l’oppresso.
Il socialismo, inoltre (intendo parlare del socialismo adulterato e imbastardito dai demagoghi della
social-democrazia) pare che goda di una certa supremazia in fatto di plasticità: si restringe, si
allarga, si contrae, si estende, sparisce, riapparisce, ora sotto un colore, ora sotto un altro, facendo
press’a poco l’effetto del gioco del bussolotti. È assimilabile quanto mai, e trova il suo ambiente in
qualsiasi temperamento. In una parola: si «adatta». Si presenta sotto forme o denominazioni diverse
ed ha per ciascuno un lato angelico e seducente.
Papa Leone XIII — amico intimo dello Spirito Santo — diceva:
«Nessuno è più socialista di me, da! momento che ho speso tutta la mia vita nel predicare la
rinunzia alle ricchezze, in favore della Santa Madre chiesa»!… e sua eccellenza Bismarck — che
Domeneddio l’abbia in gloria! — reclamava, lui pure, la patente di «socialista» per avere
ingigantito il militarismo nell’interesse della comune patria: l’Allemagna!… Ma domandate ad un
buon borghese ciò che intende per socialismo, ed egli vi risponderà:
«Bisogna dar lavoro agli operai: ecco ciò che significa “fare del socialismo”!»… Così il filantropo,
che vi dà una particella insignificante di quanto vi avrà rubato (pardon! sig. Pampione: avevo
dimenticato che i borghesi son perle di onestà) si considera pontefice del socialismo.
Ma non è di questa razza di socialismo polimorfo che io mi occuperò, bensì del socialismo che
passa per «autentico», vale a dire delle aspirazioni e del movimento dei socialisti legalitari che si
agitano sul nuovo e sul vecchio continente.
Ma, anzitutto, e — s’il vous plaît —un breve schizzo intorno alla
Psicologia di questi messeri
Cosa vogliono essi?
Non lo sanno. E che non lo sanno ce lo dimostrano tutti i giorni, in tutte le occasioni, ma più
specialmente quando discutono con noi anarchici intorno alle loro idee ed ai loro metodi di lotta. Il
loro cervello è paralizzato, cristallizzato nelle vecchie teorie democratiche, nei vecchi dogmi. Tutto
giudicano con partito preso e
da un punto di vista metafisico.
Questi uomini che si vantano pionieri della nuova civiltà, che s’illudono di possedere il monopolio
della «praticità», noi li cogliamo ad ogni momento in flagrante contraddizione con i principii che
dicono professare. Non v’è frivolezza al mondo, non v’è patente corbelleria, non v’è insensata
iniziativa che non sia elaborata dal loro cervello, o che non vada a cadere nelle loro mani. Nella
migliore ipotesi, scimmiottano i partiti conservatori o semi borghesi: nel loro movimento c’è
qualcosa di giolittiano, di sacchiano e di mazziniano: hanno usurpato ai repubblicani il sistema
cooperativo ed ai radicali quello riformistico. Ad essi appartiene la generalizzazione delle idee più
strambe e più utopiche: l’idea del «suffragio universale» (come se fosse concepibile un suffragio
universale!), delle effimere riforme, della Conquista del Potere (colla comica guerra a base di
pezzettini di carta depositati nelle urne!), della riduzione di spese militari (come se gli stati
potessero risolversi a diminuire l’esercito di un solo soldato o di una sola cartuccia!), del riposo
festivo (colla disoccupazione e la miseria immensa che c’è!), della legge da confezionarsi sul
divorzio (come se non fosse più logico abolire quella che già esiste in opposizione al divorzio!), o di
tutte le altre colossali castronerie che fanno fare delle risate a crepapelle nel buon mondo borghese!
Inoltre, amano molto appiccicarsi dei titoloni pomposi come, ad esempio, quello di positivi; porre
sulle tristi nudità di un socialismo compassionevole il manto colorito della scienza e chiamarlo
«scientifico», dirne cotte e crude su tutte le questioni, su tutte le teorie, ed assumer «pose» da
cattedratici.
I paroloni rimbombanti — come Libertà, Progresso, Uguaglianza — stanno all’ordine del giorno
nei loro discorsi, quasi sempre gli stessi, o nei loro articoli di giornale che terminano sempre —
ancorché, si tratti di cavoli — con una incitatina alle urne.
Babilonia di principii, ovvero Il cacciucco collettivista
Vediamo ora quali sono i principii socialdemocratici e quali i mezzi che i socialisti adottano per farli
trionfare.
Essi riconoscono — al par degli anarchici — che la proprietà individuale origina la disuguaglianza
sociale, l’antagonismo degl’interessi, la lotta di classe, e, per conseguenza, credono giusto e
necessario trasformarla in collettiva, affinché tutti gli uomini siano economicamente uguali. Ma
l’uguaglianza che teoricamente stabiliscono con la socializzazione delle ricchezze, la distruggono,
poi, col sistema di retribuzione da essi preconizzato il quale consisterebbe nel «dare a ciascuno a
seconda di quanto ha prodotto». Non c’è necessità di fare uno sforzo cerebrale per intuire
immediatamente, che con l’applicazione di tal principio, il privilegio economico, ben lungi
dall’essere abolito, come i collettivisti pretendono, cambierebbe semplicemente d’aspetto e
favorirebbe senza dubbio la classe — diciamo così — intellettuale, o fisicamente più forte, della
società. Perché — intendiamoci: «Dare a ciascuno secondo quel che produce» vuol dire, in
linguaggio comprensibile, stabilire la disuguaglianza economica fra coloro che, essendo più forti o
più abili, producon di più, e coloro che, più deboli o meno abili, producon di meno.
Esempio: voi siete un calzolaio; in una settimana producete sette paia di scarpe ed avrete una
ricompensa adeguata, supponiamo, di
sette
«buoni di lavoro»; il vostro vicino è più debole, meno
svelto di voi, non ne produce che cinque paia e non può ottenere che la ricompensa corrispondente a
cinque
«buoni di lavoro»; — e così, mentre voi potrete soddisfare in ragione di
sette
le vostre
necessità, egli non potrà soddisfarle che in ragione di
cinque
, e la differenza fra voi e lui è ben
marcata.
E per gl’inabili al lavoro? Per gl’infelici che per certe malattie o deteriorazioni organiche non
potranno produrre, chi ci penserà?
La società!… — ci rispondono i collettivisti. Ma in qual modo, domandiamo noi? Se a ciascuno è
dato «a seconda di quel che produce», che può restare per coloro che non possono produrre? — La
carità; nient’altro che la pelosa e gesuitica carità dei simili, ammenoché anche in regime
collettivista non vi sia qualche Cristo che s’incarichi… di moltiplicare i prodotti!…
Ma questo non è, strizza strizza, che un inconveniente insignificante. Tutta l’assurdità della formula
collettivista sta nel fatto che essa presuppone la possibilità di dare un giusto valore alla produzione
individuale. Pretenzione pazza, insensata, di menti scombussolate. […]
[post 1900]

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