Guy Debord
La société du spectacle, Buchet/Chastelm, Paris
pagine 254
8,90 euro
1967, ed. italiana 2001
Baldini e Castoldi, Milano
Guy Debord con questo libro scritto nel 1967, agli albori dell’era televisiva, ha intuito con lucidità agghiacciante che il mondo reale si sarebbe trasformato in immagini, che lo spettacolo sarebbe diventato “la principale produzione della società attuale”. Siamo entrati nell’epoca dello “spettacolo integrato”: è la fine della storia, “il crimine perfetto”, scrivono Carlo Freccero e Daniela Strumia nella prefazione, che “ha soppresso la realtà”. Non si può comprendere la logica e la strategia dei mass media senza fare riferimento alle tesi rivoluzionari de Debord.
In accordo alla tradizione situazionista, sulla traduzione e cura di quest’opera non vi è alcun copyright, alcun diritto d’autore, di traduzione o di edizione. Qui di seguito è presente la versione integrale del volume consultabile capitolo per capitolo.
Indice
Introduzione di Pasquale Stanziale
Prefazione alla quarta edizione italiana (1979) di Guy Debord
Capitolo 1 – La divisione perfetta
Capitolo 2 – La merce come spettacolo
Capitolo 3 – Unità e divisione nell’apparenza
Capitolo 4 – Il proletariato come soggetto e come rappresentazione
Capitolo 5 – Tempo e storia
Capitolo 6 – Il tempo spettacolare
Capitolo 7 – La configurazione del territorio
Capitolo 8 – La negazione e il consumo nella cultura
Capitolo 9 – L’ideologia materializzata
APPENDICI
a cura di P. Stanziale
Nota ai Commentari sulla Società dello spettacolo
Cronologia della vita
Opere di Debord
Bibliografia italiana essenziale
Quadro bibliografico generale
http://www.scienzepostmoderne.org/Libri/SocietaDelloSpettacolo/SocietaDelloSpettacolo.html
La società dello spettacolo
Guy Debord
INTRODUZIONE
di Pasquale Stanziale
LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO OVVERO CRISI DELLA MODERNITA’ E SCONFITTA DELLA POLITICA
E’ stato così che ci siamo definitivamente arruolati nel partito del diavolo, vale a dire di quel male storico che porta alla distruzione delle condizioni esistenti, di quella “parte sbagliata” che fa la storia rovinando ogni soddisfazione prestabilita. [1]
(Guy Debord)
1. I CATTIVI MAESTRI RITORNANO SEMPRE
Nella seconda metà del XX secolo una visione prese forma di narrazione e fu tutto più chiaro. Intuizione decisiva, a compimento di un pensiero snodatosi da lontano e polarizzato sulla constatazione di un dato di fatto: l’intero sistema economico, sociale e politico del moderno capitalismo stava dando mano, fra altre strategie ad ampio raggio, a una trasformazione dell’individuo di epocale e devastante portata.
Oggi constatiamo che la trasformazione si è attuata, le profezie del situazionista Debord si sono realizzate e, dopo molte lotte, illusioni e speranze tradite, ci troviamo immersi in una spettacolarità generalizzata, da intendersi come elemento unificante e rappresentativo di un teatro di guerra permanente, frutto maturo della globalizzazione capitalistica in cui centrale e predominante è l’epica delle merci e delle loro passioni [2]. Come scrive Debord,
lo spettacolare diffuso accompagna l’abbondanza delle merci, lo sviluppo non perturbato del capitalismo moderno… è in questa cieca lotta che ogni merce, seguendo la sua passione, nell’incoscienza generalizzata realizza, in effetti, qualcosa di più elevato: il divenire mondo della merce, che è altrettanto divenire merce del mondo.
Malgrado ciò, Debord ha ancora vinto perdendo [3], se è vero che del suo patrimonio teorico si parla sempre più spesso: per esempio in occasione di una retrospettiva dei suoi film a un festival di Venezia, o nei servizi che gli hanno recentemente dedicato Il Manifesto e il Magazine Littéraire. Il lavoro di Debord è ormai fra i testi base della cultura no-global, come è vero che “non si può capire il maggio, e nemmeno la guerra a questo G8, senza aver un po’ fantasticato sull’Internazionale Situazionista [4]”.
Il fatto è che al di là della mole di riferimenti teorici dedicati alla Società dello spettacolo, al di là di usi, abusi e richiami patinati, nella filosofia del ‘900 questo lavoro fornisce un ambito critico incancellabile:
il momento bellissimo in cui si dà il via a un assalto contro l’ordine del mondo. [5]
Vale a dire, il momento in cui si definisce il contesto al cui interno la spettacolarità giunge a rappresentare la strategia del capitalismo della globalizzazione, con i suoi assetti relativi alla fine della modernità, alla sconfitta della politica, alla crisi finale della democrazia (intesa come sintesi di rappresentanza, libertà e governo).
Al di là di prospettive semplificatrici e al di là di disinvolte e superficiali citazioni o strumentalizzazioni decorative (vedi alcune recenti Introduzioni all’opera di Debord), la Società dello spettacolo continua a dimostrare, in ambito filosofico, che
le avanguardie hanno un unico tempo e la fortuna più grande che possono avere è, nel senso pieno del termine, quella di fare il loro tempo. [6]
Orbene, il fatto è che il tempo dell’avanguardia situazionista debordiana è il tempo del capitalismo nel suo sviluppo storico ben profetizzato da Debord [7]. Ed è questa ragione per cui il cattivo maestro ritorna continuamente con le sue narrazioni [8] e con le sue profezie.
2. METAFISICA DEL MARKETING
La società dello spettacolo si presenta dunque ancora e sempre come l’ideologia unificatrice caratteristica del capitalismo del terzo millennio, nel contesto di una crisi della politica sempre più marcata.
La spettacolarità può assumere varie forme: si va dalla strategia del “terrorismo-spettacolo” [9] – che consente alle classi di potere, nei vari paesi dell’imperialismo, di ridisegnare l’ordine mondiale in funzione dell’interesse delle multinazionali – sino a un “voyeurismo televisivo” generalizzato, in cui la fiction si installa sempre più nella realtà, sotto l’occhio onnipresente delle telecamere, confermando ulteriormente che “il vero è un momento del falso”. [Tesi 9]
Nello scenario del mercato mondiale, il primato dell’economia capitalistica sulla politica, oltre ad avere una serie di pesanti conseguenze (dalla crisi dello stato-nazione allo stato di guerra permanente [10]), costituisce anche un quadro nuovo dei rapporti sociali di produzione in cui al disprezzo della produzione e al rinnegamento della fabbrica corrisponde un’ideologia “spettacolare” centrata sul marchio: entità in grado di trasmettere una serie di valori che la società dello spettacolo è chiamata a riconoscere e condividere nel consumo [11].
E’ una vera e propria precarizzazione del processo produttivo, con una crescente limitazione degli investimenti ad esso dedicati, a vantaggio di investimenti massicci nel marketing divenuto un settore sempre più autonomo e decisivo. Sono questi gli elementi della nuova frontiera della società dello spettacolo, che lega economia e spettacolo, ben messi in evidenza dalla Klein, che a sua volta si richiama a Debord quando parla di “interferenza culturale”, come riferimento al détournement [Tesi 208] che costituisce uno dei punti fondamentali della strategia situazionista: strategia che in tempi relativamente recenti è stata attuata in Italia dal gruppo Luther Blisset [12].
3. ULTIME FRONTIERE DELLO SPETTACOLO: L’IMPERIALE E IL VIRTUALE OVVERO NON C’E’ PIU’ UN FUORI, SIAMO TUTTI DENTRO
Nell’artificio generalizzato del nuovo ordine civile [13] si inscrive la fine della modernità (intesa come trionfo del simulacro e conseguente indebolimento della storicità [14]). A questo artificio totalizzante corrisponde l’affermarsi dello “spettacolo imperiale”, chiuso ad ogni dimensione o riferimento altro da sé. E’ l’ultima frontiera dello spettacolare, nel contesto storico di un dominio imperiale [15] che si attua sia come “spettacolo globale” – inteso a recuperare un’unità fittizia del mondo [Tesi 29] – sia come “virtualità”. Mentre da una parte, dunque, si realizza la spettacolarità diffusa descritta da Debord (concentrata e integrata, che nel globale trova infine il suo compimento), dall’altra si apre una dimensione simulativa, il virtuale, contrassegnato da un dileguarsi della realtà. E’ il feticismo della merce informatica, dello spettacolare simulativo che sul piano ideologico tende a stabilizzare la presa sull’economia dell’immaginario. [16]
A questo proposito, Hardt e Negri affermano che l’analisi di Debord “risulta sempre più pertinente e urgente” [17], in relazione alla spettacolarità imperiale che si presenta come distruzione di ogni forma di socialità di massa e con l’isolamento degli attori sociali. Tale spettacolarità imperiale, nel momento in cui crea forme di desiderio e di piacere strettamente legate alla paura, finisce essa stessa col comunicare paura [18].
Hardt e Negri ritengono che Debord appartenga di diritto a quella storia del pensiero critico che ha riconosciuto il destino trionfante del capitalismo, da Lenin a Horkheimer e Adorno. Questi ultimi scrivevano nel 1947:
Le automobili, le bombe e il cinema tengono insieme il tutto finché la loro tendenza livellatrice finirà per ripercuotersi sull’ingiustizia stessa a cui serviva. [19]
Mentre Marcuse affermava nel 1964 che
al progresso tecnologico si accompagna una razionalizzazione progressiva ed anzi la realizzazione dell’immaginario… l’Immaginazione non è rimasta immune dal processo di reificazione. [20]
Nel 1967 Debord [Tesi 21] ci parla di come nella “moderna società incatenata” il sogno divenga sonno e di come lo spettacolo sia il guardiano di questo sonno.
4. LO SPETTACOLO DELL’IMPRESA E’ L’IMPRESA DELLO SPETTACOLO OVVERO IL PADRONE PLUS-GODE COME UN PAZZO
Il momento infine in cui la crisi della modernità si iscrive nella globalizzazione dell’economia con connesso plus-godimento [21] (Lacan direbbe: il trionfo del “discorso del Padrone”) è quello in cui l’impresa si afferma come modello organizzativo [22] basato su un ordine sociale e su una logica produttivistica e di mercato. Ma mentre prima ciò avveniva in un ambito di scambio, col riconoscimento all’individuo di alcuni diritti, oggi, attraverso una diffusa retorica spettacolare, attraverso l’affermazione del “falso indiscutibile” [23], la cultura economica prevalente, è divenuta “destino” per gran parte degli individui che passivamente la accettano nonostante le vistose conseguenze negative [24].
Si tratta del dominio generalizzato dell’impresa che, subordinando anche gli Stati-nazione – con la conseguente crisi della politica – si propone come spettacolo globale di un ordine e di una logica che gli individui si trovano a condividere come attori dello spettacolo vincente.
L’impresa, come struttura costitutiva del potere imperiale, è fondamentalmente comunicazione di massa della società dello spettacolo. Tra le mote cose, ciò significa in primo luogo che la medialità spettacolare costituisce un ambito proprio della “società del controllo” (come la intende Foucault [25]) ovvero di una società in cui s’instaura un nuovo paradigma di potere basato sulle
macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi della comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi di Welfare, del monitoraggio delle attività ecc.), verso uno stato sempre più grave di alienazione dal senso della vita e dal desiderio di creatività. [26]
Le medialità spettacolare, come esercizio del potere imperiale, opera quindi attraverso la merce che tende a occupare il desiderio, attraverso la biopolitica [27], attraverso le tecnologie della comunicazione che veicolano saperi atti a fondare soggettività fittizie, ad alimentare bisogni e consensi verso la merce e l’impresa: uno spazio in cui la verità non ha più alcuna attrattiva.
Queste nuove servitù [28] – per cui più i servi si sentono padroni più affermano la loro condizione servile [29] – trovano la propria spiegazione nella strategia del “grande Altro” lacaniano: figurazione che ben richiama al dominante ordine simbolico spettacolarizzato dell’impresa che tende a determinare e saturare sempre di più, in un ambito globale, le dinamiche soggettive del desiderio.
LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO: PROPOSTA PER UN DETOURNEMENT
La saggezza non arriverà mai.
(Guy Debord)
La Società dello spettacolo rappresenta uno dei testi fondamentali per la lettura e la critica del capitalismo novecentesco nel suo sviluppo. Il lavoro di Debord rappresenta un punto di non ritorno nell’ambito di questa critica, nel senso che sarà sempre della Società dello spettacolo che occorrerà tener conto per comprendere in pieno le strategie di autoriproduzione ed accumulazione capitalistiche. Proposte di analisi come quelle contenute nei concetti di accesso rifkiniano, di new economy generalizzata o di alienazione biotecnologica, viste in una loro collocazione critica, non possono non essere ricondotte alle concezioni di fondo della Società dello spettacolo, unitamente alle analisi di R. Vaneigem e soci.
La Società dello spettacolo corrisponde, pertanto, a una fase storica di ristrutturazione del capitale – nella seconda metà del ‘900 – che consolida talune strategie di dominio nell’ambito produttivo e dà origine a nuove direttrici di consumo relative al passaggio all’avere e al baudrillardiano simulare. La Società dello spettacolo riflette tutto ciò con una consapevolezza critica innegabile.
La lettura che è possibile proporre oggi della Società dello spettacolo non può non avvalersi della tecnica del détournement ovvero:
- partire dalle analisi critiche legate al dibattito teorico proprio del movimento operaio alla fine degli anni ’60;
- prendere atto di un processo critico che abbraccia temi quali il tempo, il territorio e la cultura;
- approdare quindi all’ambito profetico della fenomenologia della società dello spettacolo, aspetto fondamentale e costitutivo della critica del capitalismo colto nel suo sviluppo storico.
Avendo premesso che il lavoro di Debord va inserito in un contesto di elaborazione teorica proprio dell’ambito situazionistico, ci si potrà accingere alla sua lettura, percorrendone la sua caratteristica articolata in 221 tesi, a loro volta raccolte in nove capitoli.
La definizione di una base storico-filosofica da cui partire è fornita certamente dal lungo capitolo 4. Esso inizia individuando l’orizzonte storico come spazio proprio per la costruzione di una prospettiva di analisi e di azione politica, e termina affermando la consapevolezza che ogni teoria rivoluzionaria è nemica di ogni ideologia rivoluzionaria. Muovendo da Hegel e Marx, Debord mostra le carenze proprie dei socialismi e dell’anarchismo. Egli fornisce una critica del burocratismo staliniano, ma anche delle illusioni neoleniniste del Trotsky ispiratore della Quarta internazionale [Tesi 113], affermando invece la validità dei Consigli operai come la realtà più alta del movimento operaio [Tesi 118]. Il percorso debordiano risente delle analisi del primo Lukàcs, di Korsch e di Gramsci, ma anche di una certa tradizione francese rappresentata dai gruppi e correnti che facevano capo a Socialisme ou Barbarie e Arguments.
Nei capitoli 5 e 6 il rapporto fra tempo e storia viene da Debord esaminato nel suo sviluppo, procedente da un tempo ciclico senza conflitti a un tempo irreversibile proprio del medioevo. Con l’ascesa della borghesia si afferma il tempo storico, anch’esso irreversibile, ma il cui uso è vietato alla società dalla borghesia padrona stessa [Tesi 144]. A tale tempo irreversibile corrisponde il tempo-merce della produzione corrispondente, a sua volta, al tempo pseudociclico del consumo. Si tratta del tempo spettacolare proprio di un’epoca senza festa [Tesi 154], una dimensione in cui lo spettacolo viene a porsi come falsa coscienza del tempo [Tesi 158].
Nel capitolo 7 Debord mostra come lo spazio divenga lo scenario del capitalismo e come la strutturazione del territorio, alterando in modo strumentale il rapporto tra città e campagna, miri a realizzare un maggior controllo delle persone e quindi il loro isolamento. Una rivoluzione che tenderebbe ad affermarsi nell’ambito dell’urbanismo viene individuata da Debord in un ritorno ai bisogni e alle condizioni dei lavoratori fatte proprie dai Consigli.
Nel capitolo 8 il consumo spettacolare viene da Debord denunciato come consumo della cultura-merce anche nei suoi correlati sociologici di comodo. La cultura che viene ad affermarsi va negata unitamente al linguaggio che la veicola, mentre il plagio necessario e il détournement (rovesciamento e riappropriazione) vengono a costituire prospettive di recupero creativo del senso.
L’ultimo breve capitolo tratta in nove tesi del trionfo dell’ideologia (qui, come in tutta la Società dello spettacolo, il termine “ideologia” va inteso in senso strettamente marxiano) nella sua materializzazione che è lo spettacolo. La falsa coscienza, in tal modo, celebra il proprio trionfo che è il trionfo di una base materiale relativa ad una verità capovolta. La lotta è dunque per un’effettiva verità e per l’emancipazione da questa base materiale.
Il tragitto del détorunement si conclude aprendosi ai primi tre capitoli che disegnano tesi il cui valore è continuamente avvalorato dal riscontro periodico con la realtà del capitalismo contemporaneo.
Le 72 tesi dei tre capitoli tracciano un percorso organico, partendo dal concetto di separazione – che riprende in una prospettiva innovativa sia il concetto di alienazione (sulla linea Hegel, Feuerbach, Marx) che il concetto di scissione (del Lukàcs della Teoria del romanzo, 1920) – per giungere al concetto di falsa unità che informa di sé tutta la realtà spettacolare. La separazione che si compie per Debord (con riferimento anche all’eccesso di metafisica lukacsiano) sembra portare a compimento quel processo di scissione tra il soggetto e se stesso originato dalla rottura dell’unità presente nel mondo greco e ormai in via di compimento nel capitalismo. La separazione è dunque tra il vissuto e la sua rappresentazione, ovvero la rappresentazione tende ad accumularsi e a predominare sul vissuto che nella società capitalistica viene sempre di più a marginalizzarsi e a diventare, nella sua verità, solo il momento di una rappresentazione totalizzante che sappiamo falsa.
Si tratta del dominio proprio di una società che è dello spettacolo, in cui più tende ad affermarsi l’apparire, più l’uomo è separato dalla vita. Lo spettacolo quindi si fa rapporto sociale e visualizza in modo totalizzante e pervasivo il suo essere capitale.
Sono presenti in questi assunti del primo capitolo rielaborazioni tratte dal giovane Marx, quando scrive dell’alienazione nella società borghese, mentre il secondo capitolo riprende il concetto di feticismo della merce sulla linea Marx-Lukàcs. Debord afferma che il predominio dello spettacolo si attua attraverso l’occupazione della vita sociale da parte della merce. A ciò corrisponde la vittoria del valore di scambio sul valore d’uso in una società che sancisce la vittoria dell’economia autonoma.
Ma è nel rapporto tra economia e società che Debord individua una possibile forma di riscatto là dove, infine, l’economia finisce con dipendere pur sempre dalla società e dalla lotta di classe. Parafrasando Freud, Debord scrive che là dove c’era l’es economico deve venire l’io e afferma che il desiderio della coscienza e la coscienza del desiderio costituiscono un unico progetto mirante all’abolizione delle classi.
Questo passaggio, in genere abbastanza ignorato, rappresenta invece un punto importante dato che, malgrado l’avversione di Debord per le scienze umane in generale, esso rispecchia un nucleo importante della psicoanalisi di J. Lacan. Questi, mostrando come in effetti la spaltung, la scissione, sia costitutiva dell’essere umano e rappresenti il prezzo che questi deve pagare per accedere – ed essere riconosciuto – all/dall’ordine simbolico (Stadio dello specchio), indica come la colonizzazione del desiderio rappresenti la strategia principale del capitalismo nel suo stadio attuale.
Il terzo capitolo probabilmente è il più “francofortese”. Nella sua unità fittizia, lo spettacolo maschera le contraddizione e le lacerazioni della società e dei poteri che la dominano. La banalizzazione, la vedette specializzata nel vissuto apparente, le finte lotte spettacolari: tutto ciò rappresenta un “artificiale” che traduce nello spettacolare la falsificazione della vita sociale. Uno spettacolare che si presenta sullo scenario globale come concentrato o diffuso a seconda della miseria che smentisce o mantiene.
Note:
1. G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, A. Mondadori, Milano 1998, p. 50
2. M. Löwy, La stella del mattino, Massari Editore, Bolsena 2000, p. 82
3. P. Stanziale, “Introduzione” a Guy Debord, Raoul Vaneigem e altri, Situazionismo, Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari Editore, Bolsena 1998, p. 15
4. R. Silvestri, “Geronimo ciberpunk”, in il Manifesto/Alias, 25 agosto 2001. Ma anche Black Book. Cosa pensano le tute nere, Stampa Alternativa, Viterbo 2001.
5. G. Debord, In girum…, cit. p. 57
6. Ibid, p. 60
7. G. Agamben: “Il fatto più importante dei libri di Debord è la puntualità con cui la storia sembra essersi impegnata a verificare le analisi…”. “Glosse in margine” ai Commentari alla Società dello spettacolo, Sugarco, Milano 1988
8. P. Stanziale, “Introduzione” a Situazionismo, cit., ma anche F. D’Agostini, “Situazionismo, l’eroismo difettoso dell’ultima parola”, in La Stampa del 29 aprile 1999, e Id., Breve storia della filosofia del ‘900, Einaudi, Torino 1999, p. 234
9. Ne parla R. Massari, con esplicito riferimento a Debord, nella nuova edizione de Il terrorismo. Storia, concetti, metodi, Bolsena 2002, pp. 425 e 437-8.
10. S. Amin, Il capitalismo del nuovo millennio, Ed. Punto rosso, Roma 2001 e N. Hertz, La conquista silenziosa, Carocci, Torino 2001
11. N. Klein, No Logo, Baldini & Castoldi, Milano 2001, pp. 171 sgg.
12. P. Stanziale, Introduzione a Situazionismo, cit. pp. 45-6
13. M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002, p. 179
14. F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989, pp. 7 sgg.
15. M. Hardt – A. Negri, op. cit., p. 180
16. P. Stanziale, Mappe dell’alienazione, Erre emme, Roma 1995, p. 166 e Introduzione cit., p.47
17. M. Hardt – A. Negri, op. cit., p. 179
18. Ibid., p. 302
19. M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 127
20. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, pp. 257 sgg.
21. J. Lacan, Radiofonia, Televisione, Einaudi, Torino 1982, p.53
22. L. Savelli, Globalizzazione e crisi della modernità, Massari Editore, Bolsena 2001, p. 144
23. G. Debord, “Commentari sulla società dello spettacolo”, in appendice a La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 197
24. L. Savelli, op. cit.
25. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 119 sgg.
26. M. Hardt – A. Negri, op. cit., p. 39
27. M. Foucault, “La nascita della medicina sociale”, in Archivio Foucault 2, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 221 sgg.
28. A. Burgio, “Il signore, il servo e la plebe”, in Aa. Vv., Nuove servitù, Manifestolibri, Roma 1994, p. 17
29. P. Stanziale, Introduzione a Situazionismo, cit., p. 47
La società dello spettacolo
Guy Debord
PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE ITALIANA (1979) [1]
Traduzioni di questo libro, pubblicato a Parigi verso la fine del 1967, sono già apparse in una decina di paesi; e spesso diverse ne sono state prodotte nella stessa lingua, da editori in concorrenza; e quasi sempre sono cattive traduzioni. Le prime sono state dappertutto infedeli e scorrette, tranne che in Portogallo e, forse, in Danimarca. Le traduzioni pubblicate in olandese e in tedesco sono buone a partire dal secondo tentativo, per quanto l’editore tedesco abbia trascurato, in questo secondo caso, di correggere una mole di errori di stampa. In inglese e in spagnolo, bisogna aspettare la terza edizione per sapere cosa ho scritto.
Niente è stato peggiore, tuttavia, di ciò che ho visto in Italia dove, nel 19689, l’editore De Donato ha pubblicato la più mostruosa di tutte, solo parzialmente migliorata dalle due edizioni rivali che l’hanno seguita. All’epoca, comunque, Paolo Salvadori era andato a trovare nei loro uffici i responsabili di un simile affronto e, dopo averli colpiti, avevo loro letteralmente sputato in faccia: perché tale è naturalmente il modo di agire dei buoni traduttori, quando ne incontrano di cattivi. E’ inutile dire che la traduzione per la quarta edizione italiana, fatta da Salvadori, è finalmente eccellente.
Le gravi carenze di molte traduzioni che, ad eccezione delle quattro o cinque migliori, non mi sono state sottoposte, non significano che questo libro sia più difficile da comprendere di qualsiasi altro che abbia mai realmente meritato di essere scritto. Non è vero nemmeno che questo trattamento sia particolarmente riservato alle opere sovversive, dal momento che in tal caso i falsificatori non avrebbero almeno da temere di essere trascinati in tribunale dall’autore; o perché l’eventuale assurdità aggiunta al testo favorirebbe alquanto le velleità di confutazione da parte degli ideologi borghesi o burocratici.
Non si può fare a meno di constatare che la grande maggioranza delle traduzioni pubblicate negli ultimi anni, in qualunque paese, e anche quando si tratta dei classici, sono trattate allo stesso modo. il lavoro intellettuale salariato tende normalmente a seguire la legge della produzione industriale della decadenza, in cui il profitto dell’imprenditore dipende dalla rapidità di esecuzione e dalla cattiva qualità del materiale impiegato. Questa produzione – così fieramente liberata da ogni forma di riguardo per il gusto del pubblico, concentrata finanziariamente e dunque sempre meglio attrezzata tecnologicamente, detentrice del monopolio, in tutto lo spazio del mercato, sulla presenza non-qualitativa dell’offerta – ha potuto speculare con un’impudenza crescente sulla sottomissione forzata della domanda e sulla perdita del gusto che ne è momentaneamente la conseguenza nella massa della sua clientela.
Che si tratti di un alloggio, della carne di bue d’allevamento o del frutto dello spirito ignaro di un traduttore, la considerazione che s’impone sovrana è che si può ormai ottenere molto rapidamente, a costo minore, ciò che prima esigeva un tempo abbastanza lungo di lavoro qualificato. E’ ben vero, del resto, che i traduttori hanno poche ragioni di pensare sul senso di un libro, e soprattutto, preliminarmente, di apprendere la lingua in questione, visto che quasi tutti gli autori attuali hanno essi stessi scritto con fretta così manifesta dei libri che saranno fuori moda in un tempo così breve. Perché tradurre bene ciò che era già inutile scrivere e che non sarà letto? E’ per questo aspetto della sua speciale armonia che il sistema spettacolare è perfetto: esso crolla da altri lati.
Tuttavia, questa pratica corrente della maggior parte degli editori è inadeguata nel caso de La società dello spettacolo, che interessa un pubblico del tutto diverso, per un diverso uso. Esistono, in maniera nettamente più marcata di una volta, diversi tipi di libri. Molti non vengono neppure aperti; e pochi sono ricopiati sui muri. Questi ultimi devono la loro popolarità e il loro potere di persuasione proprio al fatto che le istanze disprezzate dello spettacolo non ne parlano, o accennano di sfuggita qualche misera banalità.
Gli individui che dovranno giocare le proprie vita a partire da una certa descrizione delle forze storiche e del loro impiego desiderano, ovviamente, esaminare di persona i documenti sulla base di traduzioni rigorosamente esatte. Senza dubbio, nelle condizioni attuali di produzione ipermoltiplicata e di diffusione iperconcentrata dei libri, i titoli, nella loro quasi totalità, conoscono il successo, o più spesso l’insuccesso, solo durante le poche settimane che seguono la loro uscita. Qualunque mezza calzetta dell’editoria attuale fonda su questo la propria politica dell’arbitrio precipitoso e del fatto compiuto, che conviene abbastanza bene ai libri di cui non si parlerà che una sola volta e non importa come. Questo privilegio manca qui, ed è perfettamente inutile tradurre il mio libro in modo sommario, poiché il compito sarà sempre ricominciato da altri; e le cattive traduzioni saranno invariabilmente soppiantate da altre migliori.
Un giornalista francese che, recentemente, aveva composto un grosso volume, annunciato come l’evento in grado di rinnovare l’intero dibattito delle idee, qualche mese dopo spiegava il suo fiasco con il fatto che gli sarebbero mancati i lettori, piuttosto che le idee. Egli dichiarava quindi che siamo in una società in cui non si legge; e che se Marx pubblicasse oggi Il Capitale, andrebbe una sera a spiegare le sue intenzioni in una trasmissione letteraria della televisione, e l’indomani non se ne parlerebbe più. Questo divertente equivoco risente bene dell’ambiente d’origine. Evidentemente, se qualcuno pubblica ai giorni nostri un vero libro di critica sociale, si asterrà certamente dall’andare in televisione, o di partecipare ad altri colloqui dello stesso genere; di modo che, dieci o vent’anni dopo, se ne parlerà ancora.
A dire il vero, credo che non esista nessuno al mondo capace di interessarsi al mio libro, al di fuori di coloro che sono nemici dell’ordine sociale esistente, e che agiscono effettivamente a partire da questa situazione. La mia certezza a questo riguardo, ben fondata in teoria, è confermata dall’osservazione empirica delle rare e indigenti critiche o allusioni che esso ha suscitato fra coloro che detengono, o si stanno ancora sforzando di acquisire, l’autorità di parlare pubblicamente nello spettacolo, davanti ad altri che tacciono. Questi diversi specialisti delle apparenze di discussioni che si usa chiamare ancora, ma abusivamente, culturali o politiche, hanno necessariamente allineato la loro logica e la loro cultura a quelle del sistema che può impiegarli; non soltanto perché sono stati selezionati da esso, ma soprattutto perché sono stati istruiti mai da nient’altro.Di tutti coloro che hanno citato questo libro per riconoscergli qualche importanza, non ne ho visto finora uno solo che si sia arrischiato a dire, anche sommariamente, di che si trattasse: in effetti non si trattava per loro che di dare l’impressione di non ignorarlo. Contemporaneamente, tutti quelli che gli hanno trovato un difetto sembrano non avergliene trovati altri, poiché non ne hanno detto nient’altro. Ma ogni colta il difetto preciso aveva qualcosa di sufficiente per soddisfare il suo scopritore. L’uno aveva visto questo libro non abbordare il problema dello Stato; l’altro non tenere contro alcuno dell’esistenza della storia; un altro l’ha respinto perché elogio irrazionale e incomunicabile della pura distruzione; un altro ancora l’ha condannato quale guida segreta della condotta di tutti i governi costituiti dopo la sua apparizione. Cinquanta altri sono immediatamente pervenuti ad altrettante conclusioni singolari, nello stesso sonno della ragione. E che essi lo abbiano scritto su dei periodici, dei libri, o in pamphlet composti ad hoc, lo stesso tono dell’impotenza capricciosa è stato impiegato da tutti, in mancanza di meglio. Di contro, a mia conoscenza, è nelle fabbriche d’Italia che questo libro ha trovato, per il momento, i suoi migliori lettori. Gli operai italiani, che possono essere oggi portati come esempio ai loro compagni di tutti i Paesi per il loro assenteismo, per i loro scioperi selvaggi che nessuna concessione particolare riesce a placare, il loro lucido rifiuto del lavoro, il loro disprezzo della legge e di tutti i partiti statalisti, conoscerono abbastanza il soggetto nella pratica per aver potuto trarre profitto dalle tesi de La società dello spettacolo, anche quando non ne leggevano che delle mediocri traduzioni.
I commentatori hanno spesso fatto finta di non comprendere a quale uso poteva essere destinato un libro che non può essere classificato in alcuna delle categorie riguardanti le produzioni intellettuali che la società ancora dominante è pronta a prendere in considerazione, e che non è scritto dal punto di vista di alcuno dei mestieri specializzati che essa incoraggia. Le intenzioni dell’autore sono dunque apparse oscure. Non vi è là tuttavia niente di misterioso. Clausewitz, in La campagna del 1815 in Francia, ha osservato:
In ogni critica strategica, l’essenziale è di mettersi esattamente dal punto di vista degli attori; è vero che questo è spesso molto difficile. La grande maggioranza delle critiche strategiche scomparirebbe completamente, o si ridurrebbe a delle leggerissime distinzioni di comprensione, se gli scrittori volessero o potessero mettersi col pensiero in tutte le circostanze in cui si trovavano gli attori.
Nel 1967, volevo che l’Internazionale Situazionista avesse un libro di teoria. L’I.S. era in quel momento il gruppo estremista che più si era dato da fare per riportare la contestazione rivoluzionaria nella società moderna; ed era facile vedere che questo gruppo, avendo già imposto la propria vittoria sul terreno della critica teorica, e avendola abilmente proseguita su quello dell’agitazione pratica, si avvicinava allora al punto culminante della propria azione storica. Si trattava di fare dunque in modo che questo libro fosse presente nei sommovimenti che presto sarebbero arrivati, e che lo avrebbero trasmesso dopo di loro, al vasto seguito sovversivo cui avrebbero sicuramente dato vita.
E’ nota la tendenza forte tra gli esseri umani a ripetere inutilmente dei frammenti semplificati delle vecchie teorie rivoluzionarie, la cui usura è nascosta loro dal semplice fatto che essi non provano ad applicarle a qualche lotta effettiva per trasformare le condizioni nelle quali realmente si trovano; di modo che quasi non comprendono neppure come queste teorie si siano potute impiegare, con fortune diverse, in conflitti di altri tempi.
Malgrado ciò non vi è il minimo dubbio, per chi esamini freddamente la questione, che coloro i quali vogliono scuotere realmente una società costituita devono formulare una teoria che spieghi fondamentalmente tale società; o almeno che abbia tutta l’aria di darne una spiegazione soddisfacente. Dal momento in cui questa teoria è un po’ divulgata, a condizione che lo sia in scontri che perturbino il riposo pubblico, e anche prima che essa giunga ad essere esattamente compresa, il malcontento dovunque in sospeso sarà aggravato e inasprito, dalla semplice conoscenza vaga dell’esistenza di una condanna teorica dell’ordine delle cose. E dopo, sarà cominciando a condurre con collera la guerra della libertà che tutti i proletari potranno divenire strateghi.
Senza dubbio, una teoria generale calcolata per tale scopo deve anzitutto evitare di apparire come una teoria visibilmente falsa; e dunque non deve esporsi al rischio d’essere contraddetta dal seguito dei fatti. Ma bisogna anche ch’essa sia una teoria perfettamente inammissibile. Essa deve poter dichiarare cattivo, davanti allo stupore indignato di tutti coloro che lo trovano buono, il centro stesso del mondo esistente, avendone scoperto l’esatta natura. La teoria dello spettacolo risponde a queste due esigenze.
Il primo merito di una teoria critica esatta è di far apparire immediatamente ridicole tutte le altre. Così, nel 1968, mentre tra le correnti organizzate che, nel movimento di negazione con cui era cominciata la degenerazione delle forme di dominio di questo tempo, vennero a difendere il proprio ritardo e le proprie corte ambizioni, nessuna disponeva di un libro di teoria moderna, né riconosceva niente di moderno nel potere di classe che si trattava di rovesciare, i situazionisti furono in grado di porre in campo la sola teoria della temibile rivolta di maggio; e la sola che rendeva conto di nuove clamorose esigenze che nessuno aveva fino ad allora proclamato. Chi piange sul consenso? Noi l’abbiamo ucciso. Cosa fatta capo ha [2].
Quindici anni prima, nel 1952, quattro o cinque persone poco raccomandabili di Parigi decisero di cercare il superamento dell’arte. Risultò che, come felice conseguenza di una marcia audace lungo tale percorso, le vecchie linee di difesa che avevano spezzato le precedenti offensive della rivoluzione sociale si trovavano superate e aggirate. Si scopri a quel punto l’occasione di lanciarne un’altra. Questo superamento dell’arte non è altro che il “passaggio a nordovest” della geografia della vera vita, che era stato cosÏ spesso cercato durante più di un secolo, specialmente a partire dall’autodistruzione della poesia moderna. I precedenti tentativi, in cui tanti esploratori si erano perduti, non erano mai approdati direttamente su una tale prospettiva. E probabilmente perché avevano ancora qualcosa da bruciare della vecchia provincia artistica, e soprattutto perché la bandiera delle rivoluzioni sembrava tenuta da altre mani, più esperte. Mai però questa causa aveva subito una disfatta cosi completa e lasciato il campo di battaglia cosi deserto, come nel momento in cui noi venimmo a schierarci dalla sua parte. Credo che il richiamo di tali circostanze costituisca il miglior chiarimento che si possa apportare alle idee e allo stile de La società dello spettacolo. E a questo riguardo, se la si vuole ben leggere, si vedrebbe che i quindici anni che ho trascorso a meditare sulla rovina dello Stato, non li ho passati né a dormire né a giocare.
Non c’è una parola da cambiare a questo libro in cui, a eccezione di tre o quattro errori tipografici, nulla è stato corretto nel corso della dozzina di ristampe che ha visto in Francia. Mi lusingo d’essere uno dei rarissimi esempi contemporanei di qualcuno che ha scritto senza essere immediatamente smentito dagli avvenimenti, e non voglio dire smentito cento volte o mille volte, come gli altri, ma nemmeno una sola volta. Non dubito che la conferma che incontrano tutte le mie tesi debba continuare sino alla fine del secolo, e anche al di là. La ragione è semplice: ho compreso i fattori costitutivi dello spettacolo «nel corso del movimento e dunque anche dal loro lato effimero», vale a dire considerando l’insieme del movimento storico che ha potuto edificare questo ordine, e che ora comincia a dissolverlo. Sulla scala di questo movimento, gli undici anni che sono passati dal 1967 e dei quali ho potuto conoscere abbastanza da vicino i conflitti, non sono stati che un momento del seguito necessario di ciò che era scritto; benché, nello spettacolo stesso, siano stati riempiti dall’apparire e dal susseguirsi di sei o sette generazioni di pensatori più definitivi gli uni degli altri. Durante questo tempo, lo spettacolo non ha fatto che raggiungere più esattamente il suo concetto, e il movimento reale della sua negazione non ha fatto che espandersi per estensione e per intensità.
In effetti, era compito della stessa società spettacolare aggiungere qualcosa di cui questo libro non aveva, io credo, bisogno: delle prove e degli esempi più pesanti e più convincenti. Si è potuta vedere la falsificazione intensificarsi e scendere sino alla fabbricazione delle cose più banali, come una nebbia appiccicosa che si accumuli a livello del suolo di tutta l’esistenza quotidiana. Si è potuto veder pretendere all’assoluto, sino alla follia “telematica”, al controllo tecnico e poliziesco degli uomini e delle forze naturali, controllo i cui errori proliferano proprio allo stesso ritmo dei mezzi. Si è potuta vedere la menzogna statale svilupparsi in sé e per sé, avendo così ben dimenticato il proprio legame conflittuale con la verità e con la verosimiglianza, in modo tale da poter dimenticare anche se stessa e sostituirsi di ora in ora. L’Italia ha avuto recentemente l’occasione di contemplare questa tecnica a proposito del rapimento e della messa a morte di Aldo Moro, al punto più alto che essa abbia mai raggiunto, e che tuttavia sarà ben presto sorpassato, qui o altrove. La versione delle autorità italiane, aggravata piuttosto che migliorata da cento ritocchi successivi, e che tutti i commentatori si sono fatti un dovere di ammettere in pubblico, non è stata credibile un solo istante. La sua intenzione non era d’essere creduta, ma d’essere la sola in vetrina; e dopo d’essere dimenticata, esattamente come un cattivo libro.
Fu un’opera mitologica con grandi macchinari scenici, in cui degli eroi terroristi trasformisti diventano volpi per prendere in trappola la loro preda, leoni per non temere nulla da nessuno per tutto il tempo che la sorvegliano, e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare. Ci viene detto che essi hanno la fortuna di avere a che fare con la più incapace delle polizie, e che inoltre si sono potuti infiltrare senza problemi nelle sue più alte sfere. Questa spiegazione è poco dialettica. Un’organizzazione sediziosa che mettesse alcuni dei suoi membri in contatto con i servizi di sicurezza dello Stato, a meno di non averveli introdotti vari anni prima per svolgervi lealmente il loro compito in attesa che giunga una grande occasione di servirsene, dovrebbe aspettarsi che gli stessi propri manipolatori vengano a loro volta manipolati: e sarebbe dunque privata dell’olimpica assicurazione d’impunità che caratterizza il capo di stato maggiore della «brigata rossa». Ma lo Stato italiano dice di meglio, con l’approvazione unanime di coloro che lo sostengono. Esso ha pensato, come qualsiasi altro, di infiltrare degli agenti dei propri servizi speciali nelle reti terroristiche clandestine, dove è poi così facile per loro assicurarsi una rapida carriera tino alla direzione, facendo cadere in primo luogo i loro superiori, come fecero, per conto dell’Ochrana zarista, Malinowskij che ingannò anche l’astuto Lenin, o Azev che, una volta alla testa dell’organizzazione di combattimento del Partito socialista-rivoluzionario, spinse la virtù sino a far egli stesso assassinare il primo ministro Stolypin.
Una sola sventurata coincidenza è venuta ad ostacolare la buona volontà dello Stato: i suoi servizi speciali erano appena stati dissolti. Un servizio segreto, fino a quel momento, non era mai stato dissolto come, ad esempio, il carico di una petroliera gigante in acque costiere, o una frazione della produzione industriale moderna a Seveso. Conservando i propri archivi, gli informatori o l’organico degli ufficiali, cambiava semplicemente di nome. E’ così che in Italia il Sim, militari del regime fascista, così celebre suoi omicidi all’estero, era divenuto il Sid, Servizio Informazioni della difesa, sotto il regime democtatico-cristiano. D’altra parte, quando si è programmata su un calcolatore una specie di dottrina-robot della «brigata rossa», lugubre caricatura di ciò che si riterrebbe dover pensare e fare se si preconizzasse la scomparsa di questo Stato, un lapsus del calcolatore – a tal punto è vero che queste macchine dipendono dall’inconscio di coloro che le informano – ha fatto sì che venisse attribuita questa stessa sigla di Sim (che vuol dire questa volta “Stato imperialista delle multinazionali” [3]), all’unico pseudoconcetto ripetuto automaticamente dalla «brigata rossa».
Questo Sid, bagnato di sangue italiano, ha dovuto essere recentemente dissolto perché, come lo Stato confessa post festum, è esso che, dal 1969, ha eseguito direttamente – il più delle volte, ma non sempre alla dinamite – questa lunga serie di massacri che sono stati attribuiti, secondo le stagioni, agli anarchici, ai neofascisti o ai situazionisti. Ora che la «brigata rossa» fa esattamente lo stesso lavoro, e per una volta almeno con una capacità operativa molto superiore, esso non può evidentemente combatterla dato che è dissolto. In un servizio segreto degno di questo nome, la dissoluzione stessa è segreta. Non si può dunque distinguere quale proporzione degli effettivi sia stata ammessa ad un’onorevole pensione; quale sia stata assegnata alla «brigata rossa», o prestata magari allo scià d’Iran per incendiare un cinema ad Abadan; quale altra sia stata discretamente sterminata da uno Stato probabilmente indignato di apprendere che qualche volta si erano oltrepassate le sue istruzioni, e del quale si sa che non esiterà mai ad ammazzare i figli di Bruto pur di far rispettare le proprie leggi, dal momento in cui l’intransigente rifiuto ad accettare la benché minima concessione per salvare Moro ha finalmente dimostrato che esso possedeva tutte le ferme virtù della Roma repubblicana.
Giorgio Bocca, che passa per il miglior analista della stampa italiana e che fu nel 1975 la prima vittima del Rapporto veridico di Censor, trascinando subito nel suo errore tutta la nazione, o almeno lo strato qualificato che scrive sui giornali, non è stato scoraggiato dal mestiere a causa di questa disgraziata dimostrazione della sua stupidaggine. E può anche darsi che sia un bene per lui che essa sia stata provata allora da una sperimentazione così scientifica perché, altrimenti, si potrebbe essere pienamente convinti che è per venalità, o per paura, che nel maggio 1978 egli ha scritto il suo libro Moro: una tragedia italiana, nel quale si fa premura di trangugiare, senza perderne una, tutte le mistificazioni messe in circolazione, per rivomitarle dichiarandole eccellenti. Un solo istante egli è indotto ad evocare il centro della questione, ma beninteso all’inverso, quando scrive: «Oggi le cose sono cambiate; con il terrore rosso alle spalle, le frange operaie estremiste possono opporsi o tentare di opporsi alla politica sindacale. Chi ha assistito a un’assemblea operaia in una fabbrica come l’Alfa Romeo di Arese ha potuto vedere che il gruppo degli estremisti, non più di cento persone, è però in grado di stare in prima fila e di urlare accuse e insulti che il Pci deve sopportare» [4]
Che degli operai rivoluzionari insultino degli stalinisti, ottenendo il sostegno di quasi tutti i loro compagni, non c’è niente di più normale, poiché vogliono fare una rivoluzione. Non sanno essi forse, istruiti da una lunga esperienza, che la condizione preliminare è quella di scacciare gli stalinisti dalle assemblee? E’ per non aver potuto farlo che la rivoluzione fallì in Francia nel 1968 e in Portogallo nel 1975. Ciò che è insensato e odioso è di pretendere che queste «frange operaie estremiste» possano giungere a questo stadio necessario perché avrebbero, «alle spalle», dei terroristi. Al contrario, è proprio perché un gran numero di operai italiani è sfuggito all’inquadramento della polizia sindacal-stalinista che ha dovuto essere lanciata la «brigata rossa», il cui terrorismo illogico e cieco non può che dar loro fastidio; mentre i mass media coglievano l’occasione per riconoscervi senza l’ombra di un dubbio il loro distaccamento avanzato, e i loro inquietanti dirigenti.
Bocca insinua che gli stalinisti siano costretti a sopportare le ingiurie, che hanno così largamente meritato dovunque da sessant’anni in qua, perché sarebbero fisicamente minacciati da dei terroristi che l’autonomia operaia terrebbe in riserva. E’ una fesseria particolarmente ignobile perché nessuno ignora che a quella data, e anche molto oltre, la «brigata rossa» si era ben guardata dal prendere di mira gli stalinisti personalmente. Qualunque sia l’immagine che vuole offrire di se stessa, essa non sceglie a caso i periodi di attività, né a piacere le sue vittime.
In tale clima, si constata inevitabilmente l’allargamento di uno spazio periferico di piccolo terrorismo sincero, più o meno sorvegliato e tollerato momentaneamente, come un vivaio in cui si può sempre pescare su ordinazione qualche colpevole da mostrare su un vassoio; ma la force de frappe degli interventi centrali non poteva che essere composta da professionisti, come conferma ogni dettaglio del loro stile.
Il capitalismo italiano, e il suo personale governativo con lui, è molto diviso sulla questione, in effetti vitale ed eminentemente incerta, dell’impiego degli stalinisti. Certi settori moderni del grande capitale privato sono o sono stati risolutamente a favore; e altri, che sono appoggiati da molti degli amministratori del capitale delle imprese semistatali, sono più ostili. Il personale statale elevato gode di una larga autonomia di manovra, perché le decisioni del capitano prevalgono su quelle dell’armatore, quando la nave affonda, ma è esso stesso diviso. L’avvenire di ogni clan dipende dalla maniera in cui saprà imporre le proprie ragioni, provandole nella pratica. Moro credeva nel «compromesso storico», vaie a dire nella capacità degli stalinisti di spezzare finalmente il movimento degli operai rivoluzionari. Un’altra tendenza, quella che è per il momento in condizione di controllare i comandanti della «brigata rossa», non vi credeva; o almeno riteneva che gli stalinisti, per i deboli servizi che possono rendere e che renderanno in ogni modo, non debbano essere trattati con troppo riguardo, e che bisogna bastonarli più duramente perché non diventino troppo insolenti.
Si è visto che quest’analisi non era priva di valore poiché, rapito Moro a guisa di affronto inaugurale al «compromesso storico» infine autenticato da un atto parlamentare, il partito stalinista ha continuato a fingere di credere all’indipendenza della «brigata rossa». Si è tenuto il prigioniero in vita finché si è creduto di poter prolungare l’umiliazione e l’imbarazzo degli amici, che dovevano subire il ricatto facendo nobilmente finta di non comprendere che cosa si aspettassero da loro certi sconosciuti barbari. Dopodiché la si è ugualmente fatta finita non appena gli stalinisti hanno mostrato i denti, facendo pubblicamente allusione a delle oscure manovre: e Moro è morto deluso.
In effetti, la «brigata rossa» ha un’altra funzione, di interesse più generale, che è di sconcertare o screditare i proletari che si ergono realmente contro lo Stato, e forse un giorno di eliminarne qualcuno dei più pericolosi. Quest’ultima funzione gli stalinisti l’approvano, poiché essa li aiuta nel loro faticoso compito. Del lato invece che danneggia loro stessi, limitano gli eccessi con delle insinuazioni velate in pubblico nei momenti cruciali, e con minacce precise e urlate nei loro costanti negoziati intimi con il potere statale. La loro arma di dissuasione è che essi potrebbero improvvisamente dire tutto ciò che sanno della «brigata rossa», fin dal principio. Ma nessuno ignora che essi non possono usare quest’arma senza infrangere il «compromesso storico»; e che dunque sperano sinceramente di potersi mantenere al riguardo tanto discreti quanto lo furono, a suo tempo, sulle imprese del Sid propriamente detto. Cosa diverrebbero gli stalinisti in una rivoluzione? Quindi si continua a tenerli sotto pressione, ma non troppo. Quando, dieci mesi dopo il rapimento di Moro, la stessa invincibile «brigata rossa» abbatte per la prima volta un sindacalista stalinista, il partito cosiddetto comunista reagisce immediatamente, ma sul solo terreno delle forme protocollari, minacciando i suoi alleati di obbligarli a considerarlo ormai come un partito, certo sempre leale e costruttivo, ma che sarà a fianco della maggioranza, e non più al loro fianco nella maggioranza.
Come il barile sa sempre di aringa, cosi uno stalinista sarà sempre nel proprio elemento ovunque si respiri un odore di crimine occulto di Stato. Perché questi si offenderebbero per l’atmosfera delle discussioni al vertice dello Stato italiano, con il coltello nella manica e la bomba sotto il tavolo? Non era forse nello stesso stile che si regolavano le controversie fra, per esempio, Kruscev e Beria, Kadar e Nagy, Mao e Lin Piao? E d’altra parte i dirigenti dello stalinismo italiano hanno fatto anch’essi i macellai nella loro gioventù, al tempo del loro primo compromesso storico, quando si erano incaricati, insieme agli altri impiegati del «Comintern», della controrivoluzione al servizio della Repubblica democratica spagnola nel 1937. All’epoca fu la loro «brigata rossa» che rapì Andrés Nin, e lo uccise in un’altra prigione clandestina.
Queste tristi verità numerosi italiani le conoscono da molto vicino, e altri ben più numerosi se ne sono immediatamente resi conto. Ma esse non sono rese pubbliche da nessuna parte, perché gli uni sono privati dei mezzi per farlo, e gli altri della voglia. E’ a questo livello dell’analisi che è fondato parlare di una politica «spettacolare» del terrorismo, e non, come ripete volgarmente la finezza subalterna di tanti giornalisti o professori, perché dei terroristi siano talvolta mossi dal desiderio di far parlare di sé. L’Italia riassume le contraddizioni sociali del mondo intero e tenta, nel modo che si sa, di amalgamare in un solo paese la Santa Alleanza repressiva del potere di classe, borghese e burocratico-totalitario, che già funziona apertamente su tutta la superficie della Terra, nella solidarietà economica e poliziesca di tutti gli Stati: sebbene, anche lì, non senza qualche discussione e qualche regolamento di conti all’italiana. Essendo per il momento il paese più avanzato nello slittamento verso la rivoluzione proletaria, l’Italia è anche il laboratorio più moderno della controrivoluzione internazionale. Gli altri governi sorti dalla vecchia democrazia borghese prespettacolare guardano con ammirazione al governo italiano per l’impassibilità che esso sa conservare al centro tumultuoso di tutte le degradazioni, e per la tranquilla dignità con la quale siede nel fango. E’ una lezione che dovranno applicare a casa propria per un lungo periodo.
In effetti, i governi, e le numerose competenze subordinate che li assecondano, tendono dappertutto a divenire più modesti. Essi si accontentano già di far passare per una tranquilla e abitudinaria pratica degli affari correnti la loro gestione, funambolesca e spaventata, di un processo che diviene senza posa più insolito, e che essi disperano di poter dominare. E come loro – l’aria del tempo apportando tutto ciò – anche la merce spettacolare è stata portata a un sorprendente rovesciamento del suo tipo di giustificazione menzognera. Essa presentava come beni straordinari, come la chiave di un’esistenza superiore, e magari anche d’élite, cose del tutto normali e banali: un’automobile, delle scarpe, una laurea in sociologia. Essa è oggi costretta a presentare come normali e familiari cose che sono divenute, di fatto, del tutto straordinarie.
Questo è del pane, del vino, un pomodoro, un uovo, una casa, una città? Certamente no, poiché una concatenazione di trasformazioni interne, a breve termine economicamente utile a coloro che detengono i mezzi di produzione, ne ha conservato il nome e buona parte dell’apparenza, ma ritirandone il gusto e il contenuto. Ciò nonostante si assicura che i vari beni consumabili rispondano indiscutibilmente a queste denominazioni tradizionali e si presenta come prova il fatto che non esiste più niente d’altro e che dunque non c’è paragone possibile. Come si è fatto in modo che molta poca gente sappia dove trovare cose autentiche là dove ancora esistono, così il falso può rilevare legalmente il nome del vero che si è estinto. E’ lo stesso principio che regola l’alimentazione o l’habitat del popolo e si estende dappertutto, fino ai libri o alle ultime apparenze del dibattito democratico che ci si degna di mostrargli.
La contraddizione essenziale del dominio spettacolare in crisi è che esso ha fallito nel punto in cui era il più forte, in certe piatte soddisfazioni materiali che escludevano ben altre soddisfazioni, ma che si presumevano sufficienti per ottenere l’adesione reiterata delle masse di produttori-consumatori. Ed è precisamente questa soddisfazione materiale che esso ha inquinato e ha cessato di fornire. La società dello spettacolo era cominciata ovunque nella costrizione, nell’inganno, nel sangue; ma essa prometteva un seguito felice. Credeva di essere amata. Ora non promette più nulla. Essa non dice più: «Ciò che appare è buono, ciò che è buono appare». Dice semplicemente: «E’ così». Essa riconosce francamente di non essere più, per l’essenziale, riformabile; benché il cambiamento costituisca la sua stessa natura, per tramutare in peggio ogni cosa particolare. Essa ha perduto tutte le illusioni generali su se stessa.
Tutti gli esperti del potere, e tutti i loro calcolatori, sono riuniti in permanenti consultazioni pluridisciplinari, se non per trovare il modo di guarire la società malata, almeno per conservare fino al limite del possibile, anche in coma irreversibile, un’apparenza di sopravvivenza, come per Franco e Boumedienne. Un vecchio canto popolare toscano conclude in modo più rapido e più saggio: La vita non è la morte,/e la morte non è la vita./La canzone è già finita.
Chi leggerà attentamente questo libro vedrà che esso non dà alcuna sorta di assicurazioni sulla vittoria della rivoluzione, né sulla durata delle sue operazioni, né sulle aspre vie che dovrà percorrere, e meno ancora sulla sua capacità, talora vantata alla leggera, di dare a ciascuno la perfetta felicità. Meno di ogni altro, il mio punto di vista, che è storico e strategico, può ritenere che la vita debba essere, per il solo fatto che questo ci sarebbe gradito, un idillio senza pena e senza male; né dunque che la malvagità di qualche proprietario e qualche capo crei da sola l’infelicità di tutti gli altri. Ciascuno è figlio delle proprie opere, e come la passività si fa il letto, così dorme, li più grande risultato della decomposizione catastrofica della società di classe è che, per la prima volta nella storia, il vecchio problema di sapere se gli uomini, nella loro massa, amino realmente la libertà, è ormai superato: perché ora si troveranno costretti ad amarla.
E’ giusto riconoscere la difficoltà e l’immensità dei compiti della rivoluzione che vuole instaurare e mantenere una società senza classi. Essa può abbastanza semplicemente cominciare ovunque, là dove delle assemblee proletarie autonome, non riconoscendo al di fuori di se stesse alcuna autorità o proprietà di chicchessia, ponendo la propria volontà al di sopra di tutte le leggi e di tutte le specializzazioni, aboliranno la separazione degli individui, l’economia mercantile, lo Stato. Ma essa non trionferà che imponendosi universalmente, senza lasciare una parcella di territorio ad alcuna forma residua di società alienata.
Allora si rivedrà un’Atene o una Firenze da cui nessuno sarà respinto, estesa sino ai confini del mondo; e che, avendo abbattuto tutti i propri nemici, potrà infine dedicarsi gioiosamente alle vere divisioni e alle rivalità senza fine della vita storica.
Chi può ancora credere a qualche esito meno radicalmente realistico? Sotto ogni risultato e ogni progetto di un presente infelice e ridicolo, si vede ormai iscritto il Mane, Tekel, Fares [5] che annuncia la caduta infallibile di tutte le città d’illusione.
I giorni di questa società sono contati; le sue ragioni e i suoi meriti sono stati pesati e trovati leggeri; i suoi abitanti si sono divisi in due partiti, uno dei quali vuole che essa scompaia.
1. E’ l’edizione curata da Paolo Salvadori per l’editrice Vallecchi, Firenze, 1979. Scritto a gennaio del 1979, il «Préface a la quatrième édition italienne de “La société du spectacle”» fu pubblicato a febbraio 1979 dalle Editions Champ Libre di Parigi.
2. In italiano nel testo [n.d.t.].
3. Abbiamo corretto la formulazione inesatta dell’Autore: Société internationale des multinationales [n.d.t.].
4. G. Bocca, Moro: Una tragedia italiana, Bompiani, Milano 1978, p. 18 [n.d.t.].
5. Daniele, 5, 25-8. E’ un riferimento a Baltazar, l’ultimo satrapo babilonese, cui la scritta in questione (equivalente a «Giudicato, Condannato, Distrutto») annunciò l’imminente caduta poco prima che fosse ucciso [n.d.t.].
La società dello spettacolo
Guy Debord
1. LA DIVISIONE PERFETTA
E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.
(Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’essenza del Cristianesimo).
1. L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.
2. Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita, si fondono in un unico insieme, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto di sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova, realizzata, nel mondo dell’immagine resa autonoma, in cui il mentitore mente a se stesso. Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente.
3. Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza; e l’unificazione che esso realizza non è altro che un linguaggio ufficiale della separazione generalizzata.
4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini.
5. Lo spettacolo non può essere compreso come l’abuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini. Esso è piuttosto una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata.
6. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto ornamento. Esso è il cuore dell’irrealismo della società reale. Nell’insieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. E’ l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.
7. La separazione fa parte essa stessa dell’unità del mondo, della prassi sociale globale, che si è scissa in realtà e in immagine. La pratica sociale, di fronte alla quale si pone lo spettacolo autonomo, è anche la totalità reale che contiene lo spettacolo. Ma la scissione in questa totalità la mutila al punto da far apparire lo spettacolo come il suo scopo. Il linguaggio dello spettacolo è strutturato con i segni della produzione imperante, che sono nello stesso tempo la finalità ultima di questa produzione.
8. Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. E nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riprende in se stessa l’ordine spettacolare, offrendogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è presente su entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio all’opposto: la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente.
9. Nel mondo falsamente rovesciato, il vero è un momento del falso.
10. Il concetto di spettacolo unifica e spiega una gran diversità di fenomeni apparenti. Le loro diversità e i loro contrasti sono le apparenze di quest’apparenza socialmente organizzata che dev’essere essa stessa riconosciuta nella propria verità generale. Considerato secondo i suoi veri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come semplice apparenza. Ma la critica, che coglie la verità dello spettacolo, lo scopre come la negazione visibile della vita; come negazione della vita che è divenuta visibile.
11. Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni e le forze che tendono alla sua dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inseparabili. Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare, in quanto si passa sul terreno metodologico di questa stessa società che si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo. E’ il momento storico che ci contiene.
12. Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che “ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. L’attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell’apparenza.
13. Il carattere fondamentalmente tautologico dello spettacolo, deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono nel contempo anche i suoi scopi. E’ il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Esso ricopre tutta la superficie del mondo e si bagna indefinitamente nella propria gloria.
14. La società basata sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, essa è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso.
15. In quanto indispensabile parure degli oggetti attualmente prodotti, in quanto esposizione generale della razionalità del sistema, in quanto settore economico avanzato, che manipola direttamente una crescente moltitudine di immagini-oggetto, lo spettacolo è la principale produzione della società attuale.
16. Lo spettacolo sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia sviluppantesi per se stessa. E’ il riflesso fedele della produzione delle cose e l’oggettivazione infedele dei produttori.
17. La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva originato, nella definizione di ogni realizzazione umana, un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia, conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve desumere il proprio prestigio immediato e la propria funzione ultima. Nello stesso tempo ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale da essa plasmata. Le è permesso di apparire solo in ciò che essa non è.
18. Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente percepibile, trova normalmente nella vista il senso umano privilegiato, che in altre epoche fu il tatto; il senso più astratto, più mistificabile, corrisponde all’astrazione generalizzata della società attuale. Ma lo spettacolo non è identificabile con il semplice sguardo, anche se combinato con l’ascolto. Esso è ciò che sfugge all’attività degli uomini, alla riconsiderazione e alla correzione della loro opera. E’ il contrario del dialogo. Dovunque c’è una rappresentazione indipendente, là lo spettacolo si ricostituisce.
19. Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che costituì pure una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda sull’incessante dispiegamento della precisa razionalità tecnica che è derivata da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. E’ la vita concreta di tutti che si è degradata in un universo speculativo.
20. La filosofia, in quanto potere del pensiero separato, e pensiero del potere separato, non ha mai potuto da se stessa andare oltre la teologia. Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tecnica spettacolare non ha dissipato le nubi religiose, in cui gli uomini avevano collocato i propri poteri distaccati da se stessi: essa li ha semplicemente ricongiunti a una base terrena; così è la vita più terrena che diviene opaca e irrespirabile. Essa non rigetta più nel cielo, ma alberga in sé il proprio rifiuto, il proprio fallace paradiso. Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei poteri umani in un al di là; scissione realizzata all’interno dell’uomo.
21. Più la necessità viene ad essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno.
22. Il fatto che la potenza pratica della società moderna si sia staccata da se stessa, e si sia edificata un impero indipendente nello spettacolo, non può spiegarsi che con quest’altro fatto, che questa potente pratica continuava a mancare di coesione ed era rimasta in contraddizione con se stessa.
23. E’ la più vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo. Lo spettacolo è quindi un’attività specializzata che parla per l’insieme delle altre. E’ la rappresentazione diplomatica della società gerarchica innanzi a se stessa, dove ogni altra parola è bandita. Il più moderno qui è anche il più arcaico.
24. Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. E’ l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni d’esistenza. L’apparenza feticistica della pura oggettività nelle relazioni spettacolari nasconde il loro carattere di relazione tra uomini e tra classi: una seconda natura sembra dominare il nostro ambiente con le sue leggi fatali. Ma lo spettacolo non è un prodotto necessario dello sviluppo tecnico visto come sviluppo naturale. La società dello spettacolo è al contrario la forma che sceglie il proprio contenuto tecnico. Se lo spettacolo, esaminato sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non tramite la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata. La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, vale a dire dalla forma generale della scissione nella società, prodotta dalla divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe.
25. La separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo. L’istituzionalizzazione della divisione sociale del lavoro, la formazione delle classi avevano elevato una prima contemplazione sacra, l’ordine mitico di cui ogni potere si ammanta fin dalle proprie origini. Il sacro ha giustificato l’ordinamento cosmico e ontologico che corrispondeva agli interessi dei padroni, ha spiegato e abbellito ciò che la società non poteva fare. Ogni potere separato è dunque spettacolare, ma l’adesione di tutti a una simile immagine immobile non significava altro che il comune riconoscimento di un prolungamento immaginario alla povertà dell’attività sociale reale, ancora largamente avvertita come una condizione unitaria. Lo spettacolo moderno al contrario esprime ciò che la società può fare, ma in questa espressione il permesso si oppone in modo assoluto al possibile. Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni d’esistenza. Esso è il proprio prodotto, ed è esso stesso che ha posto le sue regole: si tratta di uno pseudo-sacro. Esso mostra ciò che è: la potenza separata sviluppatasi in se stessa, nella crescita della produttività realizzata mediante il raffinamento incessante della divisione del lavoro nella parcellizzazione dei gesti, allora dominati dal movimento indipendente delle macchine, al lavoro per un mercato sempre più esteso. Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo movimento, nel quale le forze che hanno potuto crescere separandosi non si sono ancora ritrovate.
26. Con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario dell’attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Seguendo il progresso dell’accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo della direzione del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo.
27. Per la riuscita stessa della produzione separata in quanto produzione del separato, l’esperienza fondamentale, legata nelle società primitive a un lavoro principale, sta spostandosi al polo dello sviluppo del sistema, verso il non-lavoro, l’inattività. Ma questa inattività non è per nulla liberata dall’attività produttiva: dipende da essa, è una sottomissione inquieta e ammirativa alle necessità e ai risultati della produzione: è essa stessa un prodotto della sua razionalità. Non ci può essere libertà al di fuori dell’attività, e nell’ambito dello spettacolo ogni attività è negata, esattamente come l’attività reale è stata integralmente captata per l’edificazione globale di questo risultato. Così l’attuale “liberazione dal lavoro”, l’aumento dei divertimenti, non costituiscono in alcun modo liberazione nel lavoro, né liberazione di un mondo modellato da questo lavoro. Nulla dell’attività rubata nel lavoro può ritrovarsi nella sottomissione al suo risultato.
28. Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare dell’isolamento. L’isolamento fonda la tecnica, e il processo tecnico isola a sua volta. Dall’automobile alla televisione, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il rafforzamento costante delle condizioni d’isolamento delle “folle solitarie”. Lo spettacolo ritrova sempre più concretamente i propri presupposti.
29. L’origine dello spettacolo è la perdita dell’unità del mondo; e l’espansione gigantesca dello spettacolo moderno esprime la totalità di questa perdita: l’astrazione di ogni lavoro particolare e l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo di essere concreto è giustamente l’astrazione. Nello spettacolo, una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che lega gli spettatori non è che un rapporto irreversibile allo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato ma lo riunisce in quanto separato.
30. L’alienazione spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della propria attività incosciente) si esprime così: più esso contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo, in rapporto all’uomo agente, si manifesta nel fatto che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. Questo perché lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto.
31. Il lavoratore non produce più se stesso, egli produce una potenza indipendente. Il successo di questa produzione, la sua abbondanza, ritorna al produttore come abbondanza dell’espropriazione. Tutto il tempo e lo spazio del suo mondo gli divengono estranei con l’accumulazione dei suoi prodotti alienati. Lo spettacolo è la mappa di questo nuovo mondo, mappa che copre esattamente lo spazio del suo territorio. Le forze stesse che ci sono sfuggite si mostrano a noi in tuta la loro potenza.
32. Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione. L’espansione economica è principalmente l’espansione di questa produzione industriale precisa. Ciò che cresce con l’economia, muovendosi autonomamente per se stessa, non può essere che l’alienazione che era propriamente insita nel suo nucleo originario.
33. L’uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato dalla propria vita.
34. Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.
La società dello spettacolo
Guy Debord
2. LA MERCE COME SPETTACOLO
Perché è solo come categoria universale dell’essere sociale totale che la merce può essere compresa nella sua essenza autentica. E’ solo in questo contesto che la reificazione, sorta dal rapporto mercantile, acquisisce un significato decisivo, sia per l’evoluzione oggettiva della società che per l’atteggiamento degli uomini al suo riguardo, per la sottomissione della loro coscienza alle forme nelle quali tale reificazione si esprime… Questa sottomissione viene ancor più accentuata dal fatto che più la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo lavorativo aumentano, più l’attività del lavoratore perde il suo carattere di attività per divenire una attitudine contemplativa.
Lukàcs , Storia e coscienza di classe
35. In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò che esisteva nell’attività umana allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato, in quanto cose che sono divenute valore esclusivo per la loro formulazione in negativo del valore vissuto, riconosciamo la nostra vecchia nemica che sa così bene apparire nell’immediato come qualcosa di triviale e di evidente, mentre al contrario è così complessa e colma di sottigliezze metafisiche: la merce.
36. E’ il principio del feticismo della merce, il dominio della società attraverso “cose sovrasensibili in quanto sensibili” che si realizza in modo assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si fa riconoscere come il sensibile per eccellenza.
37. E’ il mondo contemporaneamente presente e assente che lo spettacolo fa vedere, il mondo della merce che domina su tutto ciò che è vissuto. E il mondo della merce è così mostrato come è, perché il suo movimento è identico all’allontanamento degli uomini tra loro e rispetto al loro prodotto globale.
38. La perdita della qualità, così evidente a tutti i livelli del linguaggio spettacolare, degli oggetti che loda e delle condotte che regola, non fa che tradurre i caratteri fondamentali della produzione reale che scarta la realtà: la forma-merce è da parte a parte l’uguaglianza a se stessa, la categoria quantitativa. E’ il quantitativo che essa sviluppa e non può che svilupparsi in esso.
39. Questo sviluppo che esclude il qualitativo è esso stesso sottomesso, in quanto sviluppo, al passaggio qualitativo: lo spettacolo significa che è andato oltre la soglia della propria abbondanza. Ciò non è ancora localmente vero che su qualche punto, ma è già vero al livello universale che costituisce il piano di riferimento originale della merce, riferimento che il suo movimento pratico ha determinato, unificando la Terra come mercato mondiale.
40. Lo sviluppo delle forze produttive è stato la vera storia inconscia che ha costituito e modificato le condizioni d’esistenza dei gruppi umani, in quanto condizioni di sopravvivenza e ampliamento di queste condizioni: la base economica di tutte le loro imprese. Il settore della merce ha rappresentato, all’interno di un’economia naturale, la costituzione di un surplus della sopravvivenza. La produzione delle merci, che implica lo scambio di prodotti diversi fra produttori indipendenti, ha potuto rimanere a lungo artigianale, contenuta in una funzione economica marginale in cui la sua verità quantitativa è ancora mascherata. Tuttavia, là dove essa ha incontrato le condizioni sociali del grande commercio e dell’accumulazione di capitali, ha conquistato il dominio totale dell’economia. L’economia tutta intera è diventata allora ciò che la merce aveva mostrato d’essere nel corso di tale conquista: un processo di sviluppo quantitativo. Questo incessante sviluppo della potenza economica sotto forma di merce, che ha trasfigurato il lavoro umano in lavoro-merce, in salariato, porta cumulativamente a un’abbondanza nella quale la questione primaria della sopravvivenza è senza dubbio risolta, ma in modo tale che deve sempre riproporsi; essa è ogni volta posta di nuovo a un livello superiore. La crescita economica libera le società dalla pressione naturale che esigeva la loro lotta immediata per la sopravvivenza, ma allora è dal loro liberatore che esse non sono liberate. L’indipendenza della merce si è estesa all’insieme dell’economia sulla quale domina. L’economia trasforma il mondo, ma lo modifica solo in mondo dell’economia. La pseudonatura, nella quale il lavoro umano si è alienato, esige di proseguire all’infinito il suo servizio, e questo servizio, che essendo giudicato e assolto se non da se stesso, ottiene infatti la totalità degli sforzi e dei progetti socialmente leciti, come suoi servitori. L’abbondanza delle merci, vale a dire del rapporto mercantile, non può più essere altro che la sopravvivenza aumentata.
41. Il dominio della merce si è inizialmente esercitato anzitutto in maniera occulta sull’economia, la quale, in quanto base materiale della vita sociale, restava indistinguibile e incompresa, come il familiare che non è tuttavia conosciuto. In una società in cui la merce concreta resta rara o minoritaria, si afferma il dominio apparente del denaro che si presenta come l’emissario munito di pieni poteri che parla a nome di una potenza sconosciuta. Con la rivoluzione industriale, la divisione manifatturiera del lavoro e la produzione massiva per il mercato mondiale, la merce appare effettivamente come una potenza che va realmente ad occupare la vita sociale. E’ allora che si costituisce l’economia politica come scienza del dominio.
42. Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo. La produzione economica moderna estende la propria dittatura estensivamente e intensivamente, Nelle zone meno industrializzate, il suo dominio è già presente con qualche merce-vedette e in quanto dominio imperialistico presente nelle zone che sono in testa nello sviluppo della produttività. In queste zone avanzate, lo spazio sociale è invaso dalla sovrapposizione continua di strati geologici di merci. A questo punto “della seconda rivoluzione industriale”, il consumo alienato diviene per la massa un dovere supplementare alla produzione alienata. E’ tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all’individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme. E’ dunque qui che la scienza specializzata del dominio deve specializzarsi a sua volta: ed essa si segmenta in sociologia, psicotecnica, cibernetica, semiologia ecc., presiedendo all’autoregolazione di tutti i livelli del processo.
43. Mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica “l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio”, ovvero colui che deve ricevere il minimo indispensabile per la conservazione della propria forza-lavoro, senza mai considerarlo “nei suoi svaghi e nella sua umanità”, questa posizione delle idee della classe dominante si inverte nel momento in cui il grado d’abbondanza raggiunto nella produzione delle merci esige un surplus di collaborazione da parte dell’operaio. Questo operaio subito lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente manifestato attraverso tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa, apparentemente trattato come una grande persona, con una premurosa cortesia, sotto il travestimento del consumatore. Allora l’umanesimo della merce prende in carico “gli svaghi e l’umanità” del lavoratore, semplicemente perché l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere in quanto economia politica. Così “il rinnegamento compiuto dell’uomo” ha saturato la totalità dell’esistenza umana.
44. Lo spettacolo è una permanente guerra dell’oppio per far accettare l’identificazione dei beni con le merci, e della soddisfazione con la sopravvivenza aumentata secondo le proprie leggi. Ma se la sopravvivenza consumabile è qualcosa che deve sempre aumentare, è perché essa non cessa di contenere la privazione. Se non c’è nessuno al di là della sopravvivenza aumentata, nessun punto dove potrebbe terminare la sua crescita, è perché non è essa stessa al di là della privazione, ma è la privazione stessa divenuta più ricca.
45. Con l’automazione, che è nello stesso tempo il settore più avanzato dell’industria moderna e il modello in cui si riassume perfettamente la sua pratica, bisogna che il mondo della merce superi questa contraddizione: la strumentazione tecnica, che sopprime obiettivamente il lavoro, deve nel contempo conservare il lavoro come merce e solo luogo di nascita della merce. Perché l’automazione, o ogni altra forma meno estrema dell’aumento della produttività del lavoro, non diminuisca effettivamente il tempo di lavoro sociale necessario su scala sociale, è necessario creare dei nuovi impieghi. Il settore terziario, i servizi, costituiscono l’immenso sviluppo di un piano strategico dell’esercito della distribuzione e dell’elogio delle merci attuali; mobilitazione di forze supplementari in opportuna corrispondenza, nell’artificiosità stessa dei bisogni relativi a tali merci, con la necessità di una tale organizzazione del dopo-lavoro.
46. Il valore di scambio ha potuto formarsi solo come agente del valore d’uso, ma la sua vittoria con armi proprie ha creato le condizioni del suo dominio autonomo. Mobilitando ogni uso umano e guadagnando il monopolio del suo soddisfacimento, ha finito per dirigere l’uso. Il processo di scambio si è identificato con ogni uso possibile e l’ha ridotto alla sua mercé. Il valore di scambio è il condottiero del valore d’uso, che finisce per condurre la guerra per proprio conto.
47. Questa costante dell’economia capitalistica che rappresenta la caduta tendenziale del valore d’uso sviluppa una nuova forma di produzione all’interno della sopravvivenza aumentata, la quale non si è affatto affrancata dall’antica penuria, poiché esige la partecipazione della grande maggioranza degli uomini, come lavoratori salariati, al proseguimento infinito del suo sforzo, e che ciascuno sappia che vi si deve sottomettere o morire. E’ la realtà di questo ricatto, il fatto che l’uso sotto la sua forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se non imprigionato nella ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata, è questa la base reale dell’accettazione dell’illusione in generale nel consumo delle merci moderne. Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale.
48. Il valore d’uso, che era implicitamente contenuto nel valore di scambio, dev’essere ora esplicitamente proclamato, nella realtà invertita dello spettacolo, perché la sua realtà effettiva è erosa dall’economia mercantile sovrasviluppata e perché una pseudogiustificazione diviene necessaria alla vita falsa.
49. Lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: l’equivalente generale astratto di tutte le merci. Ma se il denaro ha dominato la società in quanto rappresentazione dell’equivalenza centrale, cioè del carattere di scambio dei beni multipli il cui uso rimaneva incomparabile, lo spettacolo è il suo complemento moderno, sviluppato dove la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come un’equivalenza generale di ciò che l’insieme della società può essere e fare. Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, perché già in esso è compresa la totalità dell’uso che si è scambiata contro la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non è solo il servitore dello pseudouso, è già in se stesso lo pseudouso della vita.
50. Il risultato concentrato del lavoro sociale, nel momento dell’abbondanza economica, diviene apparente e sottomette ogni realtà all’apparenza, che è ora il suo prodotto. Il capitale non è più il centro invisibile che dirige il modo della produzione: la sua accumulazione lo espande fino alla periferia sotto forma di oggetti sensibili. Tutta l’estensione della società è il suo ritratto.
51. La vittoria dell’economia autonoma dev’essere, nello stesso tempo, la sua sconfitta. Le forze che ha scatenato sopprimono la necessità economica che è stata la base immutabile delle società antiche. Quando essa la rimpiazza con la necessità dello sviluppo economico infinito, essa non può che rimpiazzare il soddisfacimento dei primi bisogni umani sommariamente riconosciuti, con una fabbricazione ininterrotta di pseudobisogni che si riconducono tutti al solo pseudobisogno del mantenimento del suo dominio. Ma l’economia autonoma si separa per sempre dal suo bisogno profondo, nella misura stessa in cui esce dall’inconscio sociale, da cui essa dipendeva senza saperlo. “Tutto ciò che è conscio si consuma. Ciò che è inconscio resta inalterabile. Ma una volta liberato, non cade in rovina a sua volta?” (S. Freud)
52. Nel momento in cui la società scopre che essa dipende dall’economia, l’economia di fatto dipende da essa. Questa potenza sotterranea che si è accresciuta fino ad apparire sovrana, ha in tal modo perduto la sua potenza. Là dove c’era l’es economico, deve venire l’io. Il soggetto non può emergere che dalla società, cioè dalla lotta che è in essa stessa. La sua esistenza possibile è sospesa ai risultati della lotta di classe che si rivela come il prodotto e il produttore della fondazione economica della storia.
53. La coscienza del desiderio e il desiderio della coscienza sono identicamente questo progetto che, nella sua forma negativa, vuole l’abolizione delle classi, cioè il controllo diretto dei lavoratori su tutti i momenti della loro attività. Il suo contrario è la società dello spettacolo, in cui la merce contempla se stessa in un mondo che essa ha creato.
La società dello spettacolo
Guy Debord
3. UNITA’ E DIVISIONE NELL’APPARENZA
Una nuova e animata polemica si sviluppa nel paese, sul fronte della filosofia a proposito dei concetti “uno si divide in due” e “due si fondono in uno”. Questo dibattito si presenta come lotta fra coloro che sono a favore e coloro che sono contro la dialettica materialistica, una lotta tra due concezioni del mondo: la concezione proletaria e la concezione borghese. Coloro che sostengono che “uno si divide in due” è la legge fondamentale delle cose si tengono dalla parte della dialettica materialistica: quelli invece che sostengono che la legge fondamentale delle cose è “due si fondono in uno” sono contro la dialettica materialistica. Le due parti hanno tracciato una netta linea di demarcazione tra loro e i loro argomenti sono diametralmente opposti. Questa polemica riflette sul piano ideologico la lotta di classe acuta e complessa che si sviluppa in Cina e nel mondo.
Bandiera Rossa, Pechino, 21 settembre 1964
54. Lo spettacolo, come la società moderna, è nello stesso tempo unito e diviso. Come questa, esso costruisce la propria unità sulla lacerazione. Ma la contraddizione, quando emerge nello spettacolo, è a sua volta contraddetta per un ribaltamento del suo senso; di modo che la divisione mostrata è unitaria.
55. E’ la lotta dei poteri che si sono costituiti per la gestione dello stesso sistema socio-economico, che si presenta come contraddizione ufficiale, appartenendo di fatto all’unità reale: e questo su scala mondiale come anche all’interno di ogni nazione.
56. Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato sono nello stesso tempo reali, in quanto traducono lo sviluppo ineguale e conflittuale del sistema, gli interessi relativamente contraddittori delle classi o dei segmenti delle classi che riconoscono il sistema, e definiscono la propria partecipazione al suo potere. Allo stesso modo come lo sviluppo dell’economia più avanzata viene a costituire lo scontro di certe priorità con altre, così la gestione totalitaria dell’economia da parte di una burocrazia di Stato e la condizione dei paesi che si sono trovati posti nella sfera della colonizzazione o della semicolonizzazione, sono definite da considerevoli particolarità nelle modalità della produzione e del potere. Queste diverse opposizioni possono darsi, nello spettacolo, secondo criteri del tutto differenti, come forme di società assolutamente distinte. Ma secondo la loro effettiva realtà di settori particolari, la verità della loro particolarità risiede nel sistema universale che li contiene: nel movimento unico che ha fatto del pianeta il proprio campo di battaglia, il capitalismo.
57. La società portatrice di spettacolo non domina solo mediante l’egemonia economica le regioni sottosviluppate. Le domina in quanto società dello spettacolo. Là dove la base materiale è ancora assente, la società moderna ha già invaso in modo spettacolare la superficie sociale di ogni continente. Essa definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costituzione. Nello stesso modo in cui presenta gli pseudobeni da desiderare, essa offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione. Lo spettacolo proprio del potere burocratico che controlla alcuni dei paesi industriali fa precisamente parte dello spettacolo totale, come sua pseudonegazione generale, e suo sostegno. Se lo spettacolo, visto nelle sue diverse localizzazioni, mostra l’evidenza delle specializzazioni totalitarie della parola e dell’amministrazione sociali, questa vanno poi a fondersi, a livello del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale di compiti spettacolari.
58. La divisione dei compiti spettacolari che conserva le generalità dell’ordine esistente, conserva principalmente il polo dominante del suo sviluppo. La radice dello spettacolo è nel terreno dell’economia divenuta abbondante, ed è da qui che vengono i frutti che tendono alla fine a dominare il mercato spettacolare, a dispetto delle barriere protezionistiche ideologico-poliziesche di qualsiasi spettacolo locale con pretese autarchiche.
59. Il movimento di banalizzazione che, sotto i mutevoli diversivi brillanti dello spettacolo, domina a livello mondiale la società moderna, la domina anche su ciascuno dei punti in cui il consumo sviluppato dalle merci ha moltiplicato in apparenza i ruoli e gli oggetti da scegliere. La sopravvivenza della religione e della famiglia – che rimane la forma principale del retaggio del potere di classe – e dunque della repressione morale che essa assicura, possono combinarsi come un’unica cosa, con l’affermazione ridondante del godimento di questo mondo, essendo prodotto solo come pseudogodimento che sostiene in sé la repressione. All’accettazione beata dell’esistente può anche unirsi come un’unica cosa la rivolta puramente spettacolare: ciò traduce il semplice fatto che l’insoddisfazione è divenuta essa stessa merce, dal momento che l’abbondanza economica si è trovata in grado di estendere la sua produzione fino al trattamento di una tale materia prima.
60. Concentrando in sé l’immagine di un ruolo possibile, la vedette, rappresentazione spettacolare dell’uomo vivente, concentra dunque questa banalità. La condizione di vedette è la specializzazione del vissuto apparente, l’oggetto d’identificazione alla vita apparente senza profondità, che deve compensare il frazionamento delle specializzazioni produttive effettivamente vissute. Le vedette esistono per rappresentare tipi variati di stili di vita e di stili di comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente. Esse incarnano il risultato inaccessibile del lavoro sociale, mimando dei sottoprodotti di questo lavoro, che sono magicamente trasferiti al di sopra di esso come suo fine: il potere e le vacanze, la decisione e il consumo, che sono all’inizio e alla fine di un processo indiscusso. Là, è il potere governativo che si personalizza in pseudovedette; qui è la vedette del consumo che si fa riconoscere plebiscitariamente come pseudopotere sul vissuto. Me come queste attività delle vedette non sono realmente globali, allo stesso modo esse non sono neanche variate.
61. L’agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il contrario dell’individuo, il nemico dell’individuo per se stesso come ovviamente per gli altri. Passando nello spettacolo come modello d’identificazione, egli ha rinunciato ad ogni qualità autonoma per identificarsi con la legge generale dell’obbedienza al corso delle cose. La vedette del consumo, mentre è esteriormente la rappresentazione di differenti tipi di personalità, mostra ciascuno di questi tipi come avente ugualmente accesso alla totalità del consumo, dove troverà parimenti la sua felicità. La vedette che decide deve possedere lo stock completo di quelle che sono state ammesse come qualità umane. Così tra loro le divergenze ufficiali sono annullate dalla conformità ufficiale, che è il presupposto della loro eccellenza in tutto. Kruscev era stato fatto generale per risolvere la battaglia di Kursk, non sul campo, ma nel ventesimo anniversario, quando era padrone dello Stato. Kennedy era rimasto oratore fino a pronunciare il proprio necrologio, poiché Theodore Sørensen continuava in quel momento a redigere per il successore i discorsi in quello stile che era stato così importante per far conoscere la personalità dello scomparso. I personaggi ammirevoli in cui il sistema si personifica sono ben noti per non essere ciò che sono: sono divenuti grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale, e tutti lo sanno.
62. La falsa scelta nel campo dell’abbondanza spettacolare, scelta che risiede nella giustapposizione di spettacoli concorrenziali e solidali, come nella sovrapposizione dei ruoli (principalmente significati e veicolati da oggetti), che sono contemporaneamente esclusivi e ramificati, si sviluppa in lotte di qualità fantomatiche, destinate ad appassionare l’adesione alla trivialità quantitativa. Così rinascono le false opposizioni arcaiche dei regionalismi o dei razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità ontologica fantastica la volgarità delle posizioni gerarchiche nel consumo. Così si ricompone l’interminabile serie dei contrasti derisori, che mobilitano un interesse sottoludico, dallo sport alle elezioni. Laddove ha preso possesso il consumo abbondante, emerge un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli adulti; perché non esiste da nessuna parte l’adulto, padrone della propria vita, e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste, non è affatto appannaggio degli uomini che oggi sono giovani, ma del sistema economico, del dinamismo del capitalismo. Queste sono le cose che dominano e che son giovani: che sostituiscono se stesse.
63. E’ l’unità della miseria che si nasconde sotto le opposizioni spettacolari. Se delle forme diverse della stessa alienazione si combattono sotto le maschere della scelta totale, è perché sono tutte costruite sulle contraddizioni reali rimosse. Secondo le necessità dello stadio particolare della miseria che esso smentisce e sostiene, lo spettacolo esiste sotto una forma concentrata o in una forma diffusa. In entrambi i casi, esso non è che un’immagine di unificazione felice, circondata di desolazione e di spavento, al centro tranquillo dell’ìinfelicità.
64. La concentrazione dello spettacolare è parte essenziale del capitalismo burocratico, per quanto questo possa essere importato come tecnica del potere statale su economie miste più arretrate, o in certi momenti di crisi del capitalismo avanzato. La proprietà burocratica, in effetti, è essa stessa concentrata, nel senso che il singolo burocrate non ha rapporti con il possesso dell’economia globale, se non tramite la comunità burocratica, in quanto membro di questa comunità. Inoltre la produzione di merci, meno sviluppata, si presenta a sua volta sotto forma concentrata: la merce che la burocrazia detiene è lavoro sociale totale, e ciò che essa rivende alla società è la sua sopravvivenza in blocco. La dittatura dell’economia burocratica non può lasciare alle masse sfruttate nessun valido margine di scelta, poiché essa ha dovuto scegliere tutto da sé, e ogni altra scelta esteriore relativa all’alimentazione o alla musica, è dunque già una scelta della propria completa distruzione. Essa deve accompagnarsi ad una violenza permanente. L’immagine imposta del bene, nel suo spettacolo, raccoglie la totalità di ciò che esiste ufficialmente, e si concentra normalmente su un sol uomo, che è il garante della sue coesione totalitaria. Con questa vedette assoluta devono magicamente identificarsi o scomparire. Perché si tratta del padrone del suo non-consumo e dell’immagine eroica di un certo senso accettabile per lo sfruttamento assoluto, che costituisce la realtà dell’accumulazione primitiva e accelerata dal terrore. Se ogni cinese deve imparare Mao, e così essere Mao, è perché non ha nessun altro da essere. Là dove domina lo spettacolare concentrato, domina anche la polizia.
65. Lo spettacolare diffuso accompagna l’abbondanza delle merci, lo sviluppo imperturbato del capitalismo moderno. Qui ogni merce presa a sé è giustificata in nome della grandezza della produzione e della totalità degli oggetti, di cui lo spettacolo è un catalogo apologetico. Delle affermazioni inconciliabili si accalcano sulla scena dello spettacolo unificato dell’economia abbondante; allo stesso modo differenti merci-vedette sostengono simultaneamente i loro progetti contraddittori di pianificazione della società; per questo lo spettacolo delle automobili vuole una circolazione perfetta che distrugge le vecchie città, mentre lo spettacolo della città stessa ha bisogno di quartieri-museo. Dunque la soddisfazione, già problematica, che si reputa appartenere al consumo dell’insieme è immediatamente falsificata per il fatto che il consumatore reale non può direttamente afferrare che una successione di frammenti di questa felicità mercantile, frammenti in cui ogni volta la qualità attribuita all’insieme è evidentemente assente.
66. Ogni merce determinata lotta per se stessa, non può riconoscere le altre, pretende di imporsi ovunque come se fosse la sola. Lo spettacolo allora è il canto epico di questo scontro, al quale neanche la caduta di alcune illusioni potrebbe porre fine. Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. E’ in questa lotta cieca che ogni merce, seguendo la sua passione, realizza in effetti nell’inconscio qualcosa di più elevato: il divenire-mondo della merce, che corrisponde al divenire-merce del mondo. Così, per un’astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre la forma-merce va verso la sua realizzazione assoluta.
67. La soddisfazione che la merce abbondante nel suo uso non può più dare continua ad essere cercata nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l’uso della merce che basta a se stesso e, per il consumatore, l’effusione religiosa verso la libertà sovrana della merce. Le ondate d’entusiasmo per un dato prodotto, sostenuto e rilanciato da tutti i mezzi d’informazione, si propagano così a una grandissima velocità. Uno stile di abbigliamento nasce da un film: una rivista lancia dei club, che lanciano a loro volta panoplie diverse. Il gadget esprime il fatto che, nel momento in cui la massa delle merci scivola verso l’aberrazione, l’aberrante stesso diventa una merce speciale. Nei portachiave pubblicitari, per esempio, non più acquistati ma distribuiti come doni supplementari che accompagnano gli oggetti di prestigio venduti o che derivano mediante scambio dalla loro sfera originaria, si può riconoscere la manifestazione di un abbandono mistico alla trascendenza della merce. Colui che collezione i portachiavi, appena fabbricati per essere collezionati, accumula le indulgenze della merce, un segno glorioso della sua presenza reale tra i suoi fedeli. L’uomo reificato esibisce la prova della propria intimità con la merce. Come nei raptus dei convulsionari o dei miracolati del vecchio feticismo religioso, il feticismo della merce arriva a momenti di fervente eccitazione., Il solo uso che qui si esprime ancora è l’uso fondamentale della sottomissione.
68. Senza dubbio, allo pseudobisogno imposto nel moderno consumo non può essere opposto nessun bisogno o desiderio autentico, che non sia esso stesso modellato dalla società e dalla sua storia. Ma la merce abbondante rappresenta la rottura assoluta dello sviuppo organico dei bisogni sociali. La sua accumulazione meccanica libera un artificaile illimitato, di fronte al quale il desiderio vivente resta disarmato. La potenza cumulativa di un artificiale indipendente comporta dovunque la falsificazione della vita sociale.
69. Nell’immagine dell’unificazione felice della società mediante il consumo, la divisione reale è soltanto sospesa fino al prossimo non-realizzato nel consumabile. Ogni prodotto particolare che deve rappresentare la speranza di una scorciatoia folgorante per accedere finine alla terra promessa del consumo totale, è presentato cerimoniosamente ogni volta come la singolarità decisiva. ma come nel caso della diffusione istantanea delle mode dei nomi apparentemente aristocratici che si trovano poi ad essere portati da tutti gli individui della stessa epoca, l’oggetto da cui ci si attende un singolare potere non ha potuto essere proposto alla devozione delle masse solo perché era stato tirato in numero di esemplari abbastanza grande per poter essere consumato massivamente. Il carattere prestigioso di questo prodotto qualsiasi, deriva solo dall’essere stato posto per un attimo al centro della vita sociale come mistero svelato della finalità della produzione. L’oggetto che era stato prestigioso nello spettacolo diviene volgare nell’istante in cui entra nella casa del consumatore, e contemporaneamente nella casa di tutti gli altri. Esso rivela troppo tardi la sua povertà essenziale, che gli deriva naturalmente dalla miseria della sua produzione. Ma già è un altro oggetto, portatore della giustificazione del sistema e dell’esigenza di essere riconosciuto.
70. L’impostura della soddisfazione deve denunciarsi da sé stessa nel rimpiazzarsi, nel seguire il mutare dei prodotti e quello delle condizioni generali della produzione. Ciò che ha affermato con la più perfetta impudenza la propria eccellenza definitiva tuttavia muta, nello spettacolo diffuso come nello spettacolo concentrato, ed è solo il sistema che deve continuare: Stalin come la merce fuori moda sono denunciati dagli stessi che li hanno imposti. Ogni nuova menzogna della pubblicità è anche la confessione della precedente menzogna. Ogni crollo di una figura del potere totalitario rivela la comunità illusoria che l’approvava unanimemente e che non era che un agglomerato di solitudini senza illusioni.
71. Ciò che lo spettacolo dà come perpetuo è fondato sul cambiamento, e deve cambiare con la sua base. Lo spettacolo è assolutamente dogmatico e nello stesso tempo non può realmente portare a nessun solido dogma. Niente per esso si ferma; è questo lo stato che gli è naturale e tuttavia il più contrario alla sua inclinazione.
72. L’unità irreale che lo spettacolo proclama è la maschera della divisione di classe su cui riposa l’unità reale del modo di produzione capitalistico. Ciò che obbliga i produttori a partecipare all’edificazione del mondo è anche ciò che da questo mondo li esclude. Ciò che mette in relazione gli uomini affrancati dalle loro limitazioni locali e nazionali è anche ciò che li allontana. Ciò che obbliga all’approfondimento del razionale è anche ciò che nutre l’irrazionale dello sfruttamento gerarchico e della repressione. Ciò che fa il potere astratto della società fa la sua non-libertà concreta.
La società dello spettacolo
Guy Debord
4. IL PROLETARIATO COME SOGGETTO E COME RAPPRESENTAZIONE
L’uguale diritto di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la negazione di ogni freno morale, ecco, se si scende alla radice delle cose, la ragione d’essere dell’insurrezione del 18 marzo e il proclama della temibile associazione che le ha fornito un esercito.
(Inchiesta parlamentare sull’insurrezione del 18 marzo)
73. Il movimento reale che sopprime le condizioni esistenti governa la società a partire dalla vittoria della borghesia nell’economia, e visibilmente dopo la traduzione politica di questa vittoria. Lo sviluppo delle forze produttive ha fatto saltare i vecchi rapporti di produzione, e ogni ordine statico si riduce in polvere. Tutto ciò che era assoluto diviene storico.
74. Gettati nella storia, dovendo partecipare al lavoro e alle lotte che la costituiscono, gli uomini si vedono costretti a riflettere sui loro reciproci rapporti in modo disingannato. Questa storia non ha oggetto distinto da ciò che realizza su se stessa, sebbene l’ultima visione metafisica inconscia dell’epoca storica possa considerare la progressione produttiva, attraverso la quale la storia si è sviluppata, come l’oggetto stesso della storia. Il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco.
75. Come un’unica corrente si sviluppano le lotte di classe della lunga epoca rivoluzionaria inaugurata dall’ascesa della borghesia, e il pensiero della storia, la dialettica, il pensiero che non si arresta più alla ricerca del senso dell’essere, ma si eleva alla conoscenza della dissoluzione di tutto ciò che è, e nel movimento dissolve ogni divisione.
76. Hegel non aveva più da interpretare il mondo, ma la sua trasformazione. Interpretandone soltanto la trasformazione, Hegel non rappresenta altro che il compimento filosofico della filosofia. Egli vuole comprendere un mondo che si fa da sé. Questo pensiero storico non è altro che la coscienza, che arriva sempre troppo tardi e che enuncia la giustificazione post festum. Così, essa non ha superato la divisione che nel pensiero. Il paradosso che consiste nel sospendere il senso di ogni realtà al suo compimento storico, e nel rivelare nello stesso tempo questo senso come costituentesi in se stesso come compimento della storia, deriva dal semplice fatto che il pensatore delle rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo non ha cercato nella sua filosofia che la riconciliazione con i loro risultati. «Anche come filosofia della rivoluzione borghese, essa non esprime tutto il processo di questa rivoluzione, ma soltanto la sua conclusione ultima. In questo senso, essa è una filosofia non della rivoluzione ma della restaurazione» (Karl Korsch, Tesi su Hegel e la rivoluzione). Hegel per l’ultima volta ha fatto il lavoro del filosofo, «la glorificazione di ciò che esiste»; ma già ciò che esisteva per lui non poteva essere ormai che la totalità del movimento storico. Essendo di fatto mantenuta la posizione esterna del pensiero, questa non poteva essere mascherata che con la sua identificazione a un progetto preliminare dello Spirito, eroe assoluto che ha fatto ciò che ha voluto e ha voluto ciò che ha fatto, e il cui adempimento coincide con il presente. Così, la filosofia che muore nel pensiero della storia non può glorificare il proprio mondo che rinnegandolo, perché per prendere la parola ha essa ha bisogno di supporre già finita questa storia totale cui ricondotto ogni cosa e chiusa la sessione dell’unico tribunale cui possa essere emessa la sentenza della verità.
77. Quando il proletariato dimostra con la propria esistenza in atto che questo pensiero della storia non si è dimenticato, la smentita della conclusione è anche la conferma del metodo.
78. Il pensiero della storia non può essere salvato che divenendo pensiero pratico; e la prassi del proletariato come classe rivoluzionaria non può essere meno della coscienza storica operante sulla totalità del mondo. Tutte le correnti teoriche del movimento operaio rivoluzionario sono uscite da uno scontro critico con il pensiero hegeliano, in Marx come in Stirner e in Bakunin.
79. Il carattere inseparabile della teoria di Marx e del metodo hegeliano è a sua volta inseparabile dal carattere rivoluzionario di questa teoria, cioè dalla sua verità. E’ in ciò che questa relazione fondamentale è stata generalmente ignorata o mal compresa, o ancora denunciata come il punto debole di ciò diveniva fallacemente una dottrina marxista. Bernstein, in Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, rivela perfettamente questo legame del metodo dialettico e della presa di partito storica, quando deplora le previsioni poco scientifiche del Manifesto del 1847 sull’imminenza della rivoluzione proletaria in Germania: «Questa autosuggestione storica, talmente erronea che il primo venuto dei visionari politici non avrebbe quasi trovato di meglio, sarebbe incomprensibile in un Marx, che a quell’epoca aveva già seriamente studiato l’economia, se non si dovesse vedere in essa il prodotto di un residuo della dialettica antitetica hegeliana, di cui Marx, non più di Engels, non è mai riuscito completamente a disfarsi. In quei tempi di effervescenza generale, ciò gli è stato tanto più fatale».
80. Il rovesciamento che Marx opera con un «salvataggio per trasferimento» del pensiero delle rivoluzioni borghesi non consiste nel rimpiazzare volgarmente, con lo sviluppo materialistico delle forze produttive, il percorso dello Spirito hegeliano che va incontro a se stesso nel tempo, con la sua oggettivazione identica alla sua alienazione e le sue ferite storiche che non lasciano cicatrici. La storia divenuta reale non ha più fine. Marx ha distrutto la posizione separata di Hegel di fronte a ciò che avviene e la contemplazione di un superiore agente esterno, qualunque esso sia. La teoria non ha altro da sapere che ciò che fa. Al contrario, è la contemplazione del movimento dell’economia, nel pensiero dominante della società attuale, l’eredità non rovesciata della parte non-dialettica nel tentativo hegeliano di un sistema circolare; E un consenso che ha perduto la dimensione del concetto e che non ha più bisogno di un hegelismo per giustificarsi, perché il movimento che si tratta di lodare non è più che un settore senza pensiero del mondo, il cui sviluppo meccanico domina effettivamente il tutto. Il progetto di Marx è quello di una storia cosciente, li quantitativo, che sopraggiunge nello sviluppo cieco delle forze produttive semplicemente economiche deve trasformarsi in appropriazione storica qualitativa. La critica dell’economia politica è il primo atto di questa fine della preistoria: «Di tutti gli strumenti della produzione, il più grande potere produttivo è la classe rivoluzionaria stessa».
81. Ciò che lega strettamente la teoria di Marx al pensiero scientifico, è la comprensione razionale delle forze che operano realmente nella società. Ma si tratta fondamentalmente di un al di là del pensiero scientifico, dove questo viene conservato in quanto superato; si tratta di una comprensione della lotta e non della legge. «Noi non conosciamo che una scienza sola: la scienza della storia», si dice ne L’ideologia tedesca.
82. L’epoca borghese, che vuole fondare scientificamente la storia, trascura il fatto che questa scienza disponibile avrebbe dovuto piuttosto essere essa stessa fondata storicamente con l’economia. Inversamente, la storia dipende radicalmente da questa conoscenza solo in quanto questa stessa storia resta storia economica. Quanto la parte della storia nell’economia stessa – il processo globale che modifica i propri dati scientifici di base – abbia potuto essere trascurata dal punto di vista dell’osservazione scientifica, è d’altra parte ben dimostrato dalla vanità dei calcoli socialisti che credevano di aver stabilito l’esatta periodicità delle crisi; e da quando l’intervento costante dello Stato è riuscito a compensare l’effetto delle tendenze verso la crisi, lo stesso tipo di ragionamento vede in questo equilibrio un’armonia economica definitiva. Se il progetto del superamento dell’economia, il progetto della presa di possesso della storia, deve conoscere – e riportare a sé – la scienza della società, non può essere esso stesso scientifico. In quest’ultimo movimento che crede di dominare la storia presente attraverso una conoscenza scientifica, il punto di vista rivoluzionario è rimasto borghese.
83. Le correnti utopistiche del socialismo, benché fondate esse stesse storicamente sulla critica dell’organizzazione sociale esistente, possono essere giustamente qualificate come utopistiche nella misura in cui rifiutano la storia – vale a dire la lotta reale in corso, come anche il movimento del tempo al di là della perfezione immutabile della loro immagine di una società felice – ma non perché rifiutino la scienza. I pensatori utopisti sono al contrario completamente dominati dal pensiero scientifico, quale si era imposto nei secoli precedenti. Essi cercano il perfetto compimento di questo sistema razionale generale: non si considerano affatto dei profeti disarmati, perché credono al potere sociale della dimostrazione scientifica e anche, nel caso del sansimonismo, alla presa del potere da parte della scienza. In che modo, dice Sombart, «si vorrebbe conquistare con le lotte ciò che deve essere provato?». Tuttavia la concezione scientifica degli utopisti non si estende fino alla conoscenza del fatto che alcuni gruppi sociali hanno degli interessi in una data situazione, delle forze per conservarla e anche delle forme di falsa coscienza corrispondenti a tali posizioni. Essa dunque resta molto al di qua della realtà storica dello sviluppo della scienza stessa, che in gran parte si è trovata orientata dalla domanda sociale derivata da tali fattori, la quale seleziona non solo ciò che può essere ammesso, ma anche ciò che può essere ricercato. I socialisti utopisti, rimasti prigionieri della forma espositiva della verità scientifica, concepiscono questa verità secondo la sua pura immagine astratta, come l’aveva vista imporsi uno stadio molto anteriore della società. Come rilevava Sorel, è sul modello dell’astronomia che gli utopisti pensano di scoprire e di dimostrare le leggi della società. L’armonia da loro pensata, ostile alla storia, deriva dal tentativo di applicare alla società la scienza meno dipendente dalla storia. Essa tenta di farsi riconoscere con la stessa innocenza sperimentale del newtonismo e il destino felice costantemente postulato «gioca nella loro scienza sociale un ruolo analogo a quello che si rifà dell’inerzia nella meccanica razionale» (Materiali per una teoria del proletariato).
84. L’aspetto deterministico-scientifico del pensiero di Marx costituì la breccia attraverso la quale penetrò il processo di ideologizzazione, quando egli era vivo, e ancor di più nell’eredità teorica lasciata al movimento operaio. L’avvento del soggetto della storia è ancora una volta rinviato a più tardi ed è la scienza storica per eccellenza, l’economia, che tende, sempre più ampiamente, a garantire la necessità della propria negazione futura. Ma così viene esclusa dal campo della visione teorica la pratica rivoluzionaria che è la sola verità di questa negazione. Così è importante studiare pazientemente lo sviluppo economico e ammettere ancora, con tranquillità hegeliana, il dolore, ciò che nel suo risultato resta un «cimitero di buone intenzioni». Ora si scopre che, secondo la scienza delle rivoluzioni, la coscienza arriva sempre troppo presto e dovrà essere insegnata. «La storia ci ha dato torto, a noi e a tutti quelli che pensavano come noi. Essa ha mostrato chiaramente che lo stato di sviluppo economico sul continente era allora ben lontano dall’essere maturo…», dirà Engels nel 1895. Per tutta la vita, Marx ha conservato il punto di vista unitario della propria teoria, ma l’esposizione di tale teoria si è spostata sul terreno del pensiero dominante, precisandosi sotto forma di critica di discipline particolari, specialmente di critica della scienza fondamentale della società borghese, l’economia politica. E questa mutilazione, ulteriormente accettata come definitiva, che ha costituito il «marxismo».
85. I limiti della teoria di Marx sono naturalmente i limiti della lotta rivoluzionaria del proletariato della sua epoca. La classe operaia non ha decretato la rivoluzione permanente nella Germania del 1848; la Comune è stata vinta nell’isolamento. La teoria rivoluzionaria non può dunque ancora pervenire alla propria esistenza totale. Essere ridotti a difenderla e a precisarla nella divisione erudita del lavoro, al British Museum, implicava una perdita nella teoria stessa. E sono proprio le giustificazioni scientifiche tratte sull’avvenire dello sviluppo della classe operaia, e la pratica organizzativa combinata con queste giustificazioni, che si sarebbero trasformate in ostacoli per la coscienza proletaria in uno stadio più avanzato.
86. Tutta l’insufficienza teorica nella difesa scientifica della rivoluzione proletaria può essere ricondotta, per il contenuto come per la forma dell’esposizione, a un’identificazione del proletariato con la borghesia dal punto di vista della conquista rivoluzionaria del potere.
87. La tendenza a fondare una dimostrazione della legittimità scientifica del potere proletario sulla testimonianza di esperimenti ripetuti nel passato ha oscurato, dai tempi del Manifesto, il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare dello sviluppo dei modi di produzione, originato da lotte di classi che finirebbero ogni volta «o per una trasformazione rivoluzionaria della società intera o con la distruzione comune delle classi in lotta». Ma nella realtà osservabile della storia, come «il modo di produzione asiatico» – constatava Marx altrove – ha conservato la sua immobilità a dispetto di tutti gli scontri di classe, così le jacqueries dei servi non hanno mai sconfitto i baroni, né le rivolte degli schiavi dell’antichità gli uomini liberi. Lo schema lineare perde di vista anzitutto il fatto che la borghesia è la sola classe rivoluzionaria che sia mai stata vincitrice; e nel contempo che essa è la sola classe per la quale lo sviluppo dell’economia sia stato causa e conseguenza del dominio da essa conquistato sulla società. La stessa semplificazione ha condotto Marx a sottovalutare il ruolo economico dello Stato nella gestione di una società di classe. Se l’ascesa della borghesia si è mostrata come un affrancamento dell’economia dallo Stato, è solo nella misura in cui lo Stato antico si confondeva con lo strumento di un’oppressione di classe in un’economia statica. La borghesia ha sviluppato la propria potenza economica autonoma nel periodo medievale di indebolimento dello Stato, nel momento della frammentazione feudale dell’equilibrio dei poteri. Ma lo Stato moderno che, con il mercantilismo, ha cominciato ad appoggiare lo sviluppo della borghesia, e che è infine diventato il suo Stato ali’insegna del «laisser faire, laisser passer» si rivela ulteriormente dotato di una potenza centrale nella gestione calcolata del processo economico. D’altra parte Marx aveva potuto descrivere, nel bonapartismo, l’abbozzo della burocrazia statale moderna, fusione di Stato e di capitale, costituzione di un «potere nazionale del capitale sul lavoro, d’una forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale» in cui la borghesia rinuncia ad ogni vita storica, che non sia la sua riduzione alla storia economica delle cose, e accetta di «essere condannata allo stesso nulla politico delle altre classi». Qui sono già poste le basi socio-politiche dello spettacolo moderno, che in negativo definisce il proletariato come solo pretendente alla vita storica.
88. Le due sole classi, che corrispondono effettivamente alla teoria di Marx, le due classi pure verso le quali conduce ogni analisi nel Capitale, la borghesia e il proletariato, sono anche le due sole classi rivoluzionarie della storia, ma a condizioni differenti: la rivoluzione borghese è compiuta; la rivoluzione proletaria è un progetto, nato sulla base della precedente rivoluzione, ma ne differisce qualitativamente. Col trascurare l’originalità del ruolo storico della borghesia, si maschera l’originalità concreta di questo progetto proletario che non può arrivare a nulla se non apportando i propri colori e riconoscendo «l’immensità dei propri compiti». La borghesia è giunta al potere perché è la classe dell’economia in sviluppo. Il proletariato non può essere esso stesso il potere se non diventando la classe della coscienza. Il maturare delle forze produttive non può garantire un tale potere, neanche attraverso l’alternativa dell’aumento di espropriazione che esso comporta. La conquista giacobina dello Stato non può essere il suo strumento. Nessuna ideologia può servirgli a trasformare dei fini parziali in fini generali, perché non può conservare nessuna realtà parziale che gli sia effettivamente propria.
89. Se Marx, in un periodo determinato della sua partecipazione alla lotta del proletariato, si era aspettato troppo dalla previsione scientifica, al punto di creare la base intellettuale delle illusioni dell’economicismo, si sa anche che non vi soccombette personalmente. In una nota lettera del 7 dicembre 1867, accompagnando un articolo in cui egli stesso criticava Il Capitale, articolo che Engels dovette far passare alla stampa come se fosse stato scritto da un avversario, Marx ha esposto chiaramente i limiti della propria scienza: «…la tendenza soggettiva dell’autore – egli era legato e obbligato a essa forse dalla sua posizione di partito e dal suo passato – vale a dire la maniera in cui presenta a sé o agli altri il risultato finale dell’odierno movimento, dell’odierno processo sociale, non ha nulla affatto a che vedere col suo sviluppo effettivo» [1]. Così Marx, denunciando egli stesso le «conclusioni tendenziose» della sua analisi obiettiva, e con l’ironia del «forse» relativa alle scelte extrascientifiche che gli sarebbero state imposte, mostra nel contempo la chiave metodologica della fusione dei due aspetti.
90. E’ nella stessa lotta storica che bisogna realizzare la fusione della conoscenza e dell’azione, in modo tale che ognuno di questi termini riponga nell’altro la garanzia della propria verità. La costituzione della classe proletaria in soggetto rappresenta l’organizzazione delle lotte rivoluzionarie e l’organizzazione della società nel momento rivoluzionario: è qui che devono esistere le condizioni pratiche della coscienza, nelle quali si conferma la teoria della prassi divenendo teoria pratica. Tuttavia, tale questione centrale dell’organizzazione è stata la meno considerata dalla teoria rivoluzionaria all’epoca in cui si fondava il movimento operaio, cioè quando questa teoria ancora possedeva il carattere unitario derivante dal pensiero della storia (e che essa si era appunto assegnata il compito di sviluppare fino ad una unitaria pratica storica). E’ al contrario il luogo dell’inconseguenzadi questa teoria, che ammette la ripresa di metodi di applicazione statali e gerarchici derivati dalla rivoluzione borghese. Le forme di organizzazione del movimento operaio, sviluppate sulla base di questa rinuncia della teoria, hanno di ritorno teso ad impedire la conservazione di una teoria unitaria, dissolvendola in diverse conoscenze specializzate e parcellari. Questa alienazione ideologica della teoria non può più quindi riconoscere la verifica pratica del pensiero storico che essa ha tradito, quando questa verifica sorge dalla lotta spontanea degli operai: essa può solo concorrere a reprimere la manifestazione e la memoria. Al contrario, queste forme storiche apparse nella lotta costituiscono il milieu pratico che mancava alla teoria per essere vera. Esse sono un’esigenza della teoria, ma che non era stata formulata teoricamente. Il soviet non era una scoperta della teoria. E già prima, la più alta verità teorica dell’Associazione internazionale dei lavoratori era la sua stessa esistenza messa in pratica.
91. I primi successi della lotta portarono l’Internazionale ad affrancarsi dalle influenze confuse dell’ideologia dominante che sussistevano in essa. Ma la disfatta e la repressione che incontrò subito, fecero passare in primo piano il conflitto tra due concezioni della rivoluzione proletaria, che contengono entrambe una dimensione autoritaria, nella quale l’autoemancipazione cosciente della classe viene abbandonata. In effetti, la querelle divenuta irriconciliabile fra marxisti e bakunisti era duplice, riguardando contemporaneamente il potere nella società rivoluzionaria e l’organizzazione presente del movimento, e passando dall’uno all’altro di questi aspetti, le posizioni degli avversari si ribaltavano. Bakunin combatteva l’illusione di un’abolizione delle classi attraverso l’uso autoritario del potere statale, prevedendo il ricostituirsi di una classe dominante burocratica e la dittatura dei più saggi, o di quelli che sarebbero stati ritenuti tali. Marx, convinto che il maturarsi inseparabile delle contraddizioni economiche e dell’educazione democratica degli operai avrebbe ridotto il ruolo di uno Stato proletario a una semplice fase di legalizzazione dei nuovi rapporti sociali che si sarebbero imposti oggettivamente, denunciava in Bakunin e nei suoi partigiani l’autoritarismo di un’élite cospirativa che si era deliberatamente posta al di sopra dell’Internazionale e concepiva lo stravagante disegno di imporre alla società la dittatura irresponsabile dei più rivoluzionari, o di coloro che da se stessi si sarebbero designati come tali. Bakunin in effetti reclutava i suoi partigiani nel quadro di una tale prospettiva: «Piloti invisibili nel cuore della tempesta popolare, noi dobbiamo dirigere, non con un potere visibile, ma attraverso la dittatura collettiva di tutti gli alleati. Dittatura senza fascia, senza titolo, senza diritto ufficiale, e tanto più potente in quanto non avrà alcuna delle apparenze del potere». Così si sono opposte due ideologie della rivoluzione operaia, contenenti ognuna una critica parzialmente vera, ma perdendo l’unità del pensiero della storia e istituendosi esse quali autorità ideologiche. Organizzazioni potenti, come la socialdemocrazia tedesca e la Federazione anarchica iberica, hanno fedelmente servito o l’una o l’altra di queste ideologie, e dappertutto il risultato è stato assai diverso da quello che si era voluto.
92. Il fatto di considerare il fine della rivoluzione proletaria come immediatamente presente, costituisce contemporaneamente la grandezza e la debolezza della lotta anarchica reale (perché nelle sue varianti individualistiche, le pretese dell’anarchismo restano derisorie). Del pensiero storico delle moderne lotte di classe, l’anarchia collettivistica mantiene esclusivamente la conclusione, e la sua esigenza assoluta di tale conclusione si traduce ugualmente nel disprezzo deliberato del metodo. Così la sua critica della lotta politica è rimasta astratta, mentre la scelta stessa della lotta economica non viene affermata che in funzione dell’illusione di una soluzione definitiva, strappata con un sol colpo su questo terreno, nel giorno dello sciopero generale o dell’insurrezione. Gli anarchici hanno un ideale da realizzare. L’anarchia è la negazione ancora ideologica dello Stato e delle classi, cioè delle condizioni sociali stesse dell’ideologia separata. E’ l’ideologia della pura libertà che tutto uguaglia e che rifiuta ogni idea di male storico. Questo punto di vista della fusione di tutte le esigenze parziali ha dato all’anarchia il merito di rappresentare il rifiuto di tutte le condizioni esistenti per la totalità della vita, e non nell’ ambito di una specializzazione critica privilegiata: ma il fatto di considerare questa fusione in assoluto, secondo il capriccio individuale, prima della sua realizzazione effettiva, ha d’altra parte condannato l’anarchismo a un’incoerenza troppo facilmente contestabile. L’anarchismo non ha che da ripetere, e rimettere in gioco in ogni lotta, la sua stessa semplice conclusione totale, perché questa prima conclusione era fin dall’origine identificata con il risultato integrale del movimento. Bakunin poteva dunque scrivere nel 1873, abbandonando la Federazione del Giura: «Negli ultimi nove anni si sono sviluppate in seno all’Internazionale molte più idee di quante ne servirebbero per salvare il mondo, se le sole idee potessero salvarlo, e sfido chiunque a inventarne una nuova. Non è più tempo per le idee, ma per i fatti e le azioni». Senza dubbio questa concezione conserva del pensiero storico del proletariato la certezza che le idee devono divenire pratica, ma essa abbandona il terreno storico supponendo che le forme adeguate di questo passaggio alla pratica siano già state trovate e non cambieranno più.
93. Gli anarchici, che si distinguono esplicitamente dall’insieme del movimento operaio per la loro convinzione ideologica, riproducono al proprio interno questa separazione delle competenze, fornendo un terreno favorevole al dominio informale, su ogni organizzazione anarchica, dei propagandisti e difensori della propria ideologia, specialisti in genere tanto più mediocri, in quanto la loro attività intellettuale si propone principalmente la ripetizione di alcune verità definitive. Il rispetto ideologico dell’unanimità della decisione ha favorito piuttosto l’attività incontrollata, nella stessa organizzazione, degli specialisti della libertà; e l’anarchismo rivoluzionario si aspetta dal popolo liberato lo stesso genere di unanimità, ottenuto con gli stessi mezzi. E d’altra parte, il rifiuto di considerare l’opposizione di condizioni tra una minoranza, riunita nella lotta attuale, e la società degli individui liberi, ha nutrito una divisione permanente degli anarchici nel momento della decisione comune, come dimostra l’esempio di un gran numero di insurrezioni anarchiche in Spagna, circoscritte e soffocate sul piano locale.
94. L’illusione mantenuta più o meno esplicitamente nell’anarchismo autentico è quella dell’imminenza permanente di una rivoluzione che dovrà dare ragione all’ideologia, e al modo d’organizzazione pratico derivato dall’ideologia, compiendosi istantaneamente. Nel 1936 l’anarchismo ha realmente condotto una rivoluzione sociale e l’abbozzo, il più avanzato che mai si sia visto, di un potere proletario. In questa circostanza bisogna ancora notare, da una parte, che il segnale di un’insurrezione generale era stato imposto dal pronunciamento dell’esercito. E d’altra parte, nella misura in cui questa rivoluzione non era stata completata nei primi giorni, dato che esisteva un potere franchista nella metà del paese, appoggiato fortemente dall’estero allorché il resto del movimento proletario internazionale era già vinto, e dato che sopravvivevano nel campo della Repubblica delle forze borghesi o altri partiti operai statalisti, il movimento anarchico organizzato si è dimostrato incapace di estendere le mezze-vittorie della rivoluzione e anche solo di difenderle. I suoi capi riconosciuti sono divenuti ministri, e ostaggi dello Stato borghese che distruggeva la rivoluzione per perdere la guerra civile.
95. Il «marxismo ortodosso» della Seconda internazionale è l’ideologia scientifica della rivoluzione socialista, che identifica ogni sua verità con il processo obiettivo nell’economia, e con il progressivo riconoscimento di questa necessità nella classe operaia educata dall’organizzazione. Questa ideologia ritrova la fiducia nella dimostrazione pedagogica, che aveva caratterizzato il socialismo utopistico, ma integrata da un riferimento contemplativo nel corso della storia: tuttavia, un simile atteggiamento ha perduto sia la dimensione hegeliana di una storia totale sia l’immagine immobile della totalità presente nella critica utopistica (in Fourier al massimo grado). E’ da un simile atteggiamento scientifico, che non poteva fare a meno di rilanciare simmetricamente delle scelte etiche, che derivano le vacuità di Hilferding, quando questi precisa che riconoscere la necessità del socialismo non offre «alcuna indicazione sull’atteggiamento pratico da adottare. Perché una cosa è riconoscere la necessità, e un’altra il mettersi al servizio di questa necessità» (Il Capitale finanziario). Coloro che hanno misconosciuto il fatto che il pensiero unitario della storia, per Marx e per il proletariato rivoluzionario, non fose affatto distinto da una posizione pratica da adottare, dovevano essere normalmente vittime della pratica che contemporaneamente avevano adottato.
96. L’ideologia dell’organizzazione socialdemocratica la poneva al servizio dei professori che educavano la classe operaia; e la forma di organizzazione adottata era la forma adeguata a questo apprendistato passivo. La partecipazione dei socialisti della Seconda internazionale alle lotte politiche ed economiche era certo concreta, ma profondamente acritica. Essa era condotta, in nome dell’illusione rivoluzionaria, secondo una pratica manifestamente riformista. Così l’ideologia rivoluzionaria doveva essere stroncata dal successo stesso di coloro che la sostenevano. La separazione dei deputati e dei giornalisti nel movimento riconduceva verso il modo di vita borghese coloro che erano stati già reclutati fra gli intellettuali borghesi. La burocrazia sindacale costituiva in sensali della forza-lavoro, da vendere come merce al suo giusto prezzo, gli stessi che venivano reclutati a partire dalle lotte dei proletariato industriale e di lì fatti uscire. Perché l’attività di tutti costoro conservasse qualcosa di rivoluzionario, sarebbe stato necessario che il capitalismo si fosse trovato opportunamente incapace di sopportare economicamente questo riformismo che tollerava politicamente nella loro agitazione legalista. E’ una simile incompatibilità che la loro scienza garantiva, e che la storia smentiva ad ogni istante.
97. Questa contraddizione, della quale Bernstein, essendo il socialdemocratico più distante dall’ideologia politica e il più francamente aderente alla metodologia della scienza borghese, ebbe l’onestà di voler mostrare la realtà, mostrare – e il movimento riformista degli operai inglesi, facendo a meno di un’ideologia rivoluzionaria, l’aveva già mostrata – non doveva essere tuttavia dimostrata senza repliche che dallo sviluppo stesso della storia. Bernstein, sebbene pieno di illusioni sotto altri aspetti, aveva negato che una crisi della produzione capitalistica sarebbe venuta miracolosamente a forzare la mano ai socialisti che non volevano ereditare la rivoluzione che mediante questa legittima consacrazione. Il movimento di profondo sconvolgimento sociale che emerse con la prima guerra mondiale, anche se fu fertile per la presa di coscienza, dimostrò per due volte che la gerarchia socialdemocratica non aveva educato rivoluzionariamente, non aveva reso teorici, gli operai tedeschi: prima quando la grande maggioranza del partito si allineò con la guerra imperialistica e in seguito quando, nella disfatta, schiacciò i rivoluzionari spartachisti. L’ex-operaio Ebert credeva ancora nel peccato, poiché confessava di odiare la rivoluzione «come il peccato». E lo stesso dirigente si mostrò un buon precursore della rappresentanza socialista, che doveva poco dopo opporsi come nemico assoluto al proletariato della Russia e del resto del mondo col formulare l’esatto programma di questa nuova alienazione: «Socialismo vuol dire lavorare molto».
98. Lenin non è stato, come pensatore marxista, che il kautskista fedele e conseguente che applicava l’ideologia rivoluzionaria di questo «marxismo ortodosso» nelle condizioni russe; condizioni che non permettevano la pratica riformista che la Seconda internazionale riformista portava in contropartita. La direzione esterna del proletariato, agendo attraverso un partito clandestino disciplinato, sottomesso agli intellettuali divenuti «rivoluzionari di professione», costituisce qui una professione che non vuole patteggiare con nessuna professione dirigente della società capitalistica (e il regime politico zarista era d’altra parte incapace di offrire una tale apertura, la cui base è uno stadio avanzato del potere della borghesia). Essa diviene dunque la professione della direzione assoluta della società.
99. Il radicalismo ideologico autoritario dei bolscevichi si è sviluppato su scala mondiale con la guerra e con l’affondamento della socialdemocrazia internazionale davanti alla guerra. La fine sanguinosa delle illusioni democratiche del movimento operaio aveva fatto del mondo intero una Russia, e il bolscevismo, regnando sul primo varco rivoluzionario che questa epoca di crisi aveva originato, offriva al proletariato di tutti i paesi il proprio modello gerarchico e ideologico, per «parlare in russo» alla classe dominante. Lenin non ha rimproverato al marxismo della Seconda internazionale di essere un’ideologia rivoluzionaria, ma di aver cessato di esserlo.
100. Lo stesso momento storico in cui il bolscevismo ha trionfato per se stesso in Russia, e dove la socialdemocrazia ha combattuto vittoriosamente per il vecchio mondo, segna la nascita definitiva di un ordine di cose che è al centro del dominio dello spettacolo moderno: la rappresentanza operaia si è opposta radicalmente alla classe.
101. «In tutte le rivoluzioni anteriori – scriveva Rosa Luxemburg in Rote Fahne del 21 dicembre 1918 – i combattenti si affrontavano a viso scoperto: classe contro classe, programma contro programma. Nella rivoluzione presente le truppe di protezione del vecchio ordine non intervengono sotto le insegne delle classi dirigenti, ma sotto la bandiera di un “partito socialdemocratico”. Se la questione centrale della rivoluzione fosse posta apertamente e onestamente: capitalismo o socialismo, nessun dubbio, nessuna esitazione sarebbero oggi possibili nella grande massa del proletariato». Così, qualche giorno prima della sua distruzione, la corrente radicale del proletariato tedesco scopriva il segreto delle nuove condizioni che aveva creato tutto il processo anteriore (e al quale aveva grandemente contribuito la rappresentanza operaia): l’organizzazione spettacolare della difesa dell’ordine esistente, il regno sociale delle apparenze in cui nessuna «questione centrale» può più essere posta «apertamente e onestamente». La rappresentanza rivoluzionaria del proletariato, a questo stadio, era divenuta contemporaneamente il fattore principale e il risultato centrale della falsificazione generale della società.
102. L’organizzazione del proletariato sul modello bolscevico, era nata dall’arretratezza russa e dalla rinuncia alla lotta rivoluzionaria da parte del movimento operaio dei paesi avanzati, incontrò anche nell’arretramento russo tutte le condizioni che portavano questa forma d’organizzazione verso il rovesciamento controrivoluzionario che essa inconsciamente già conteneva nel proprio germe originario; e la rinuncia reiterata della massa del movimento operaio europeo davanti al hic Rhodus, hic salta del periodo 1918-1920 – rinuncia che implicava la distruzione violenta della propria minoranza radicale – favori lo sviluppo completo del processo e lasciò che il suo risultato menzognero si affermasse davanti al mondo come la sola soluzione proletaria. La conquista del monopolio statale della rappresentanza e della difesa del potere operaio, che giustificò il partito bolscevico, lo fece divenire ciò che era: il partito dei proprietari del proletariato, eliminando per l’essenziale le precedenti forme di proprietà.
103. Tutte le condizioni della liquidazione dello zarismo delineate nel dibattito teorico sempre insoddisfacente delle diverse tendenze della socialdemocrazia russa per vent’anni – debolezza della borghesia, peso della maggioranza contadina, ruolo decisivo di un proletariato concentrato e combattivo ma estremamente minoritario nel paese – rivelarono infine nella pratica la loro soluzione, attraverso un dato che non era presente nelle ipotesi: la burocrazia rivoluzionaria che dirigeva il proletariato, impadronendosi dello Stato, diede alla società un nuovo dominio di classe. La rivoluzione strettamente borghese non era possibile; la «dittatura democratica degli operai e dei contadini» era priva di senso; il potere proletario dei soviet non poteva mantenersi contemporaneamente contro la classe dei contadini proprietari, la reazione bianca nazionale e internazionale, e la sua stessa rappresentanza esteriorizzata e alienata in partito operaio dei padroni assoluti dello Stato, dell’economia, di ogni forma di espressione e presto anche del pensiero. La teoria della rivoluzione permanente di Trotsky e Parvus, alla quale Lenin aveva effettivamente aderito nell’aprile 1917, era la sola a divenire vera per i paesi arretrati nei confronti dello sviluppo sociale della borghesia, ma soltanto dopo l’introduzione di questo fattore sconosciuto che era il potere di classe della burocrazia. La concentrazione della dittatura nelle mani della rappresentanza suprema dell’ideologia fu difesa nel modo più coerente da Lenin, nei numerosi scontri all’interno della direzione bolscevica. Lenin aveva ogni volta ragione contro i suoi avversari per il fatto di sostenere la soluzione implicata dalle precedenti scelte del potere minoritario assoluto: la democrazia rifiutata statalmente ai contadini doveva esserlo anche agli operai, ciò che portava a rifiutarla ai dirigenti comunisti dei sindacati, dunque in tutto il partito, e infine anche al vertice della gerarchia del partito. Al X Congresso, nel momento in cui il soviet di Kronstadt veniva abbattuto con le armi e sepolto sotto le calunnie, Lenin pronunciava contro i burocrati di sinistra organizzati in «Opposizione Operaia» questa conclusione, di cui Stalin avrebbe poi in seguito esteso la logica fino a una perfetta divisione del mondo: «Qua o là con un fucile, ma non con l’opposizione… Ne abbiamo abbastanza dell’opposizione».
104. La burocrazia rimasta unica proprietaria di un capitalismo di Stato, si è dapprima assicurata il potere mezzo di un’alleanza temporanea con la classe contadina, dopo Kronstadt, al momento della «nuova politica economica», mentre l’ha difeso all’esterno utilizzando gli operai irreggimentati nei partiti burocratici della Terza internazionale, come forza d’appoggio della diplomazia russa, per sabotare ogni movimento rivoluzionario e sostenere i governi borghesi, sul cui sostegno poteva contare in politica internazionale (il potere del Kuomintang nella Cina del 1925-27, il Fronte Popolare in Spagna e in Francia ecc.). Ma la società burocratica doveva perseguire il proprio compimento attraverso il terrore esercitato sulle masse contadine, per realizzare l’accumulazione primitiva di capitale più brutale della storia. Questa industrializzazione dell’epoca staliniana rivela la realtà ultima della burocrazia: essa è la continuazione del potere dell’economia, il salvataggio dell’essenziale della società mercantile che mantiene il lavoro-merce. E’ la prova offerta dall’economia indipendente, che domina la società al punto di ricreare per i propri fini il dominio di classe che le è necessario: il che equivale a dire che la borghesia ha creato una potenza autonoma la quale, fintanto che sussiste questa autonomia, può arrivare al punto di fare a meno di una borghesia. La burocrazia totalitaria non è «l’ultima classe proprietaria della storia», nel senso che le attribuiva Bruno Rizzi, ma solamente una classe dominante di sostituzione per l’economia mercantile. La proprietà privata capitalistica venuta meno viene sostituita da un sottoprodotto semplificato, meno diversificato, concentrato in proprietà collettiva della classe burocratica. Questa forma sottosviluppata di classe dominante è anche l’espressione del sottosviluppo economico; e non ha altra prospettiva che quella di recuperare il ritardo di questo sviluppo in alcune regioni del mondo. E’ stato il partito operaio, organizzato secondo il modello borghese della separazione, a fornire l’impianto gerarchico-statale a questa edizione supplementare della classe dominante. Anton Ciliga scriveva in una prigione di Stalin che «le questioni tecniche di organizzazione si rivelavano essere delle questioni sociali» (Lenin e la Rivoluzione).
105. L’ideologia rivoluzionaria, la coerenza del separato di cui il leninismo costituisce il più alto sforzo volontaristico, detenendo la gestione di una realtà che la respinge, con lo stalinismo tornerà alla sua verità nell’incoerenza. A questo punto l’ideologia non è più un’arma, ma un fine. La menzogna che non è più contraddetta diventa follia. La realtà, così come lo scopo, vengono dissolti nella proclamazione ideologica totalitaria: tutto ciò che essa dice è tutto ciò che è. E’ un primitivismo locale dello spettacolo, il cui ruolo è tuttavia essenziale nello sviluppo dello spettacolo mondiale. L’ideologia che qui si materializza non ha trasformato economicamente il mondo, come il capitalismo giunto allo stadio dell’abbondanza; essa ha solamente trasformato poliziescamente la percezione.
106. La classe ideologico-totalitaria al potere è il potere di un mondo rovesciato; più essa è forte, più afferma che non esiste, e la sua forza le serve prima di tutto ad affermare la sua inesistenza. Essa è modesta su questo solo punto, perché la sua inesistenza ufficiale deve anche coincidere col nec plus ultra dello sviluppo storico, che al tempo stesso sarebbe dovuto al suo infallibile comando. Operante dappertutto, la burocrazia deve essere la classe invisibile per la coscienza, di modo che è poi tutta la vita sociale che diviene demente. L’organizzazione sociale della menzogna assoluta deriva da questa contraddizione fondamentale.
107. Lo stalinismo fu il regno del terrore nella classe burocratica stessa. Il terrorismo che fonda il potere di questa classe deve colpire anche questa classe, perché essa non possiede nessuna garanzia giuridica, nessuna esistenza riconosciuta in quanto classe proprietaria, che possa estendere a ciascuno dei suoi membri. La sua proprietà reale è dissimulata, ed essa non è divenuta proprietaria che per la via della falsa coscienza. La falsa coscienza mantiene il proprio potere assoluto solo attraverso il terrore assoluto, in cui ogni vero motivo finisce per perdersi, l membri della classe burocratica al potere non hanno diritto di possesso sulla società che collettivamente, in quanto partecipi di una fondamentale menzogna: bisogna che essi recitino il ruolo del proletariato che dirige una società socialista: che siano gli attori fedeli al testo dell’infedeltà ideologica. Ma l’effettiva partecipazione a questo essere menzognero deve vedersi al tempo stesso riconosciuta come una partecipazione veridica. Nessun burocrate può sostenere individualmente il proprio diritto al potere, perché provare che egli è un proletario socialista significherebbe manifestarsi come il contrario di un burocrate; e provare che egli è un burocrate è impossibile, poiché la verità ufficiale della burocrazia è di non essere. Così ogni burocrate si trova a dipendere in modo assoluto da una garanzia centrale dell’ideologia, che riconosce una partecipazione collettiva al suo «potere socialista» da parte di tutti i burocrati che essa non annienta. Se i burocrati presi nel loro complesso decidono su tutto, la coesione stessa della loro classe non può essere assicurata che attraverso la concentrazione del loro potere terroristico in una sola persona. In questa persona risiede la sola verità pratica della menzogna al potere: la fissazione indiscutibile della sua frontiera sempre rettificata. Stalin decide senza appello chi è alla fine burocrate possidente: cioè chi deve venire chiamato «proletario al potere» oppure «traditore al soldo del Mikado o di Wall Street». Gli atomi burocratici non trovano l’essenza comune del loro diritto se non nella persona di Stalin. Stalin è questo sovrano del mondo che si sa in questo modo come la persona assoluta, per la cui coscienza non esiste spirito più alto. «Il sovrano del mondo possiede la coscienza effettiva di ciò che egli è – della potenza universale dell’effettualità, nella violenza distruttrice che egli esercita contro il sé di coloro che lo contrastano». Mentre è la potenza che definisce il terreno del dominio, egli è nello stesso tempo «la potenza che devasta questo terreno».
108. Quando l’ideologia, diventata assoluta con il possesso del potere assoluto, è mutata da una conoscenza parcellare in menzogna totalitaria, il pensiero della storia è stato così perfettamente annientato che la storia stessa, a livello della conoscenza più empirica, non può più esistere. La società burocratica totalitaria vive in un presente perpetuo, in cui tutto ciò che è avvenuto esiste soltanto per essa, come spazio accessibile alla sua polizia. Il progetto, già formulato da Napoleone, di «dirigere monarchicamente l’energia dei ricordi» ha trovato la sua concretizzazione totale, in una manipolazione permanente del passato, non soltanto nei significati, ma nei fatti. Ma il prezzo di questa liberazione da ogni realtà storica è la perdita del riferimento razionale che è indispensabile alla società storica del capitalismo. Si sa ciò che l’applicazione scientifica dell’ideologia, divenuta folle, è potuta costare all’economia russa, non fosse che con l’impostura di Lyssenko. Questa contraddizione della burocrazia totalitaria che amministra una società industrializzata, presa fra il suo bisogno del razionale e il suo rifiuto del razionale, costituisce anche una delle sue principali deficienze nei confronti del normale sviluppo capitalistico. Come, in rapporto ad esso, la burocrazia non può risolvere la questione dell’agricoltura, così gli è finalmente inferiore nella produzione industriale, pianificata autoritariamente sulle basi dell’irrealismo e della menzogna generalizzata.
109. Il movimento operaio rivoluzionario, del periodo fra le due guerre, fu annientato dall’azione congiunta della burocrazia stalinista e del totalitarismo fascista, che aveva preso a prestito la propria forma organizzativa dal partito sperimentato in Russia. Il fascismo ha costituito una difesa estremistica dell’economia borghese, minacciata dalla crisi e dalla sovversione proletaria, lo stato d’assedio nella società capitalistica, attraverso cui questa società si salva e si dà d’urgenza una prima razionalizzazione, facendo intervenire massicciamente lo Stato nella sua gestione. Ma una tale razionalizzazione è essa stessa gravata dell’immensa irrazionalità del suo mezzo. Se il fascismo si pone a difesa dei principali punti dell’ideologia borghese divenuta conservatrice (la famiglia, la proprietà, l’ordine morale, la nazione), riunendo la piccola borghesia e i disoccupati impazziti dalla crisi o delusi dell’impotenza della rivoluzione socialista, non è esso stesso sostanzialmente ideologico. Esso si dà per quello che è: una violenta resurrezione del mito, che esige la partecipazione a una comunità definita da pseudovalori arcaici: la razza, il sangue, il capo. Il fascismo è l’arcaismo tecnicamente equipaggiato. Il surrogato decomposto dal mito, ripreso nel contesto spettacolare dei mezzi di condizionamento e di illusione più moderni. Così, esso è uno dei fattori nella formazione del moderno spettacolare, nella misura in cui la sua parte nella distruzione del vecchio movimento operaio fa di lui una delle potenze fondatrici della presente società; ma dato che il fascismo viene ad essere anche la forma più costosa del mantenimento dell’ordine capitalistico, avrebbe dovuto normalmente abbandonare il fronte della scena che occupano i grandi ruoli degli Stati capitalistici, per essere sostituito da forme più razionali e più forti di questo stesso ordine.
110. Quando la burocrazia russa è riuscita finalmente a disfarsi delle tracce della proprietà borghese, che intralciavano il suo dominio sull’economia, a sviluppare questa per il proprio uso, e ad essere riconosciuta all’esterno tra le grandi potenze, essa vuole godere tranquillamente del proprio mondo e sopprimere quella parte di arbitrio che si esercitava su essa stessa: essa denuncia lo stalinismo della sua origine. Ma una tale denuncia rimane stalinista, arbitraria, inesplicata e continuamente corretta, perché la menzogna ideologica della sua origine non può mai essere rivelata. In questo modo la burocrazia non può liberalizzarsi né culturalmente né politicamente, perché la sua esistenza come classe dipende dal suo monopolio ideologico che, con tutta la sua pesantezza, è il suo solo titolo di proprietà. L’ideologia ha certamente perduto la passione per la sua affermazione positiva, ma ciò che ne sussiste di trivialità indifferente ha ancora questa funzione repressiva di proibire anche la minima concorrenza, di dominare la totalità del pensiero. La burocrazia è così legata a un’ideologia che non è più creduta da nessuno. Ciò che era terroristico è divenuto derisorio, ma questa stessa derisione non può mantenersi che conservando in secondo piano il terrorismo di cui vorrebbe disfarsi. Così, nel momento stesso in cui la burocrazia vuole mostrare la propria superiorità sul terreno del capitalismo, essa si rivela un parente povero del capitalismo. Come la sua storia effettiva è in contraddizione col suo diritto, e la sua ignoranza grossolanamente mantenuta in contraddizione con le sue pretese scientifiche, il suo progetto di rivaleggiare con la borghesia nella produzione di un’abbondanza mercantile è ostacolato dal fatto che un’abbondanza del genere porta in se stessa la propria ideologia implicita e si accompagna normalmente a una libertà indefinitamente estesa di false scelte spettacolari, pseudolibertà che rimane inconciliabile con l’ideologia burocratica.
111. A questo stadio dello sviluppo, il titolo di proprietà ideologica della burocrazia comincia già a crollare a livello internazionale. Il potere che si era costituito nazionalmente in quanto modello fondamentalmente internazionalistico deve ammettere che non può più pretendere di mantenere la propria coesione menzognera al di là d’ogni frontiera nazionale. L’ineguale sviluppo economico conosciuto dalle burocrazie, con i loro interessi concorrenti, che sono riuscite a possedere il proprio «socialismo» al di fuori di un solo paese, ha condotto ad affrontarsi pubblicamente e completamente la menzogna russa e la menzogna cinese. A partire da questo punto, ogni burocrazia al potere, ovvero ogni partito totalitario candidato al potere lasciato dal periodo staliniano in alcune classi operaie nazionali, deve seguire la propria strada. Unendosi alle manifestazioni di negazione interna che hanno cominciato ad affermarsi davanti al mondo con la rivolta operaia di Berlino-Est, che opponeva ai burocrati la propria esigenza di «un governo di metallurgici», e che sono già arrivate una volta fino al potere dei consigli operai in Ungheria, la decomposizione mondiale dell’alleanza della mistificazione burocratica è, in ultima analisi, il fattore più sfavorevole all’attuale sviluppo della società capitalistica. La borghesia sta perdendo l’avversario che la sosteneva oggettivamente unificando illusoriamente ogni negazione dell’ordine esistente. Una tale divisione del lavoro spettacolare vede la propria fine quando il ruolo pseudorivoluzionario si divide a sua volta. L’elemento spettacolare della dissoluzione del movimento operaio sta per essere esso stesso dissolto.
112. L’illusione leninista nelle diverse tendenze non ha più altra base attuale se non trotskiste, in cui l’identificazione del progetto proletario con un’organizzazione gerarchica dell’ideologia sopravvive solidamente all’esperienza dei suoi risultati. La distanza che separa il trotskismo dalla critica rivoluzionaria della presente società, è ciò che gli permette anche di osservare la distanza rispettosa nei confronti di posizioni che erano già false quando si consumarono in un conflitto reale. Trotsky è rimasto fino al 1927 fondamentalmente solidale con l’alta burocrazia, sempre cercando di impadronirsene per farle riprendere un’azione realmente bolscevica all’esterno (si sa che in quel momento, per aiutare a dissimulare il famoso «testamento di Lenin», egli arrivò fino a sconfessare calunniosamente il suo partigiano e amico Max Eastman che l’aveva divulgato). Trotsky è stato condannato dalla sua prospettiva di fondo, perché dal momento in cui la burocrazia si riconosce nel proprio risultato come classe controrivoluzionaria all’interno, essa deve anche scegliere d’essere effettivamente controrivoluzionaria all’esterno in nome della rivoluzione, come a casa propria. L’ulteriore lotta di Trotsky per una Quarta internazionale contiene la stessa incoerenza. Egli ha rifiutato per tutta la vita di riconoscere nella burocrazia il potere di una classe separata, perché era diventato, durante la Seconda rivoluzione russa, il partigiano incondizionato della forma bolscevica di organizzazione. Quando Lukàcs, nel 1923, indicava in questa forma la mediazione finalmente trovata fra la teoria e la pratica, dove i proletari cessano d’essere «spettatori» degli eventi sopraggiunti nella loro organizzazione, che essi hanno coscientemente scelti e vissuti, descriveva come meriti effettivi del partito bolscevico tutto ciò che il partito bolscevico non era. Lukàcs era ancora, a fianco del suo profondo lavoro teorico, un ideologo, che parlava a nome del potere più volgarmente esterno al movimento proletario, credendo e facendo credere di trovarsi egli stesso, con la sua totale personalità in questo potere come nel suo proprio. Quando il seguito degli eventi mostrò in che modo questo potere sconfessa e sopprime i suoi valletti, Lukàcs, sconfessandosi egli stesso senza fine, ha mostrato con nettezza caricaturale con che cosa egli si era identificato: con il contrario di se stesso e di ciò che aveva sostenuto in Storia e coscienza di classe. Lukàcs verifica alla meglio la regola fondamentale che giudica tutti gli intellettuali di questo secolo: ciò che essi rispettano misura esattamente la loro realtà disprezzabile. Lenin del resto non aveva affatto incoraggiato questo genere di illusioni sulla propria attività; conveniva che «un partito politico non può esaminare i propri membri per vedere se vi sono delle contraddizioni fra la loro filosofia e il programma del partito». Il partito reale, di cui Lukàcs aveva presentato prontamente il ritratto sognato, non era coerente se non per un compito preciso e parziale: impadronirsi del potere dello Stato.
113. L’illusione neoleninista dell’attuale trotskismo, dato che viene ad ogni momento smentita dalla realtà della società capitalistica moderna, sia borghese che burocratica, trova naturalmente un campo di applicazione privilegiato nei paesi «sottosviluppati» formalmente indipendenti, in cui l’illusione di una qualsiasi variante di socialismo statale e burocratico viene coscientemente manipolata come la semplice ideologia dello sviluppo economico dalle classi dirigenti locali. La composizione ibrida di queste classi si ricollega più o meno nettamente ad una gradazione dello spettro borghesia-burocrazia. Il loro gioco su scala internazionale, fra questi due poli del potere capitalistico esistente, non meno dei loro compromessi ideologici – soprattutto con l’islamismo – esprimendo la realtà ibrida della loro base sociale, finiscono per levare a quest’ultimo sottoprodotto del socialismo ideologico ogni serietà che non sia poliziesca. Una burocrazia ha potuto formarsi inquadrando la lotta nazionale e la rivolta agraria dei contadini: essa tende allora, come in Cina, ad applicare il modello di industrializzazione staliniano in una società meno sviluppata della Russia del 1917. Una burocrazia capace di industrializzare la nazione può formarsi a partire dalla piccola borghesia, dai quadri dell’esercito che si impadroniscono del potere, come dimostra l’esempio dell’Egitto. In alcuni casi, come l’Algeria al termine della guerra d’indipendenza, la burocrazia, che si è costituita come direzione parastatale durante la lotta, cerca il punto di equilibrio in un compromesso che le consenta di fondersi con una debole borghesia nazionale. Infine, nelle vecchie colonie dell’Africa nera che restano apertamente legate alla borghesia occidentale, americana ed europea, viene a costituirsi una borghesia – il più delle volte a partire dalla potenza dei capi tradizionali del tribalismo – attraverso il possesso dello Stato: in questi paesi in cui l’imperialismo straniero rimane il vero padrone dell’economia, si afferma uno stadio in cui i compradores hanno ricevuto a compenso della loro vendita dei prodotti indigeni, la proprietà di uno Stato indigeno, indipendente di fronte alle masse locali, ma non di fronte all’imperialismo. In questo caso, si tratta di una borghesia artificiale che non è capace di accumulare, ma che semplicemente dilapida, sia la parte di plusvalore del lavoro locale che ne ricava che i sussidi stranieri degli Stati o monopoli che sono i suoi protettori. L’evidenza dell’incapacità di queste classi borghesi di provvedere alla normale funzione economica della borghesia fa sorgere di fronte a ognuna di esse una sovversione sul modello burocratico, più o meno adattato alle particolarità locali, che vuole prenderne l’eredità. Ma la riuscita stessa di una burocrazia nel suo progetto fondamentale di industrializzazione contiene necessariamente la prospettiva della sua disfatta storica: accumulando il capitale, essa accumula il proletariato, e crea la propria smentita, in un paese in cui questo non esisteva ancora.
114. In questo sviluppo complesso e terribile che ha portato l’epoca delle lotte di classe verso nuove condizioni, il proletariato dei paesi industriali ha completamente perduto l’affermazione della propria prospettiva autonoma e, in ultima analisi, le proprie illusioni, ma non il proprio essere. Esso non è stato soppresso. Rimane irriducibilmente esistente nell’alienazione intensificata del capitalismo moderno: si trova ad essere l’immensa maggioranza dei lavoratori che hanno perduto ogni potere sull’impiego della propria vita, e che, dal momento che lo sanno, si ridefiniscono come il proletariato, il negativo all’opera in questa società. Questo proletariato è oggettivamente rafforzato dal movimento di scomparsa della classe contadina, come dall’estensione della logica del lavoro in fabbrica che si applica a gran parte dei «servizi» e delle professioni intellettuali. E’ soggettivamente che questo proletariato è ancora lontano dalla propria coscienza pratica di classe, non solo per ciò che riguarda gli impiegati, ma anche relativamente agli operai che non hanno ancora scoperto se non l’impotenza e la mistificazione della vecchia politica. Tuttavia, quando il proletariato scopre che la propria forza esteriorizzata concorre al rafforzamento permanente della società capitalistica, non solo nella forma del proprio lavoro, ma anche nella forma dei sindacati, dei partiti o della potenza statale che aveva costituito per emanciparsi, esso scopre anche attraverso l’esperienza storica concreta di essere la classe totalmente nemica di ogni esteriorizzazione congelata e di ogni specializzazione del potere. Esso porta la rivoluzione che non può lasciare niente all’esterno di se stessa, porta l’esigenza del dominio permanente del presente sul passato e la critica totale della separazione; ed è questo ciò di cui deve trovare la formula adeguata nell’azione. Nessun miglioramento quantitativo della sua miseria, nessuna illusione di integrazione gerarchica sono un rimedio durevole per la sua insoddisfazione, perché il proletariato non può riconoscersi con verità in un particolare torto che avrebbe subito né dunque nella riparazione di un torto particolare, né in un gran numero di questi torti, ma solamente nel torto assoluto di essere rigettato ai margini della vita.
115. Dai nuovi segni di negazione, incompresi e falsificati dal sistema spettacolare, che si moltiplicano nei paesi economicamente più avanzati, si può già trarre la conclusione che una nuova epoca si è aperta: dopo il primo tentativo di sovversione operaia, è ora l’abbondanza capitalistica che è fallita. Quando le lotte antisindacali degli operai occidentali sono represse prima di tutto dai sindacati, e quando le correnti in rivolta della gioventù lanciano una prima protesta informe, nella quale tuttavia il rifiuto della vecchia politica specializzata, dell’arte e della vita quotidiana, è immediatamente implicito, sono queste le due facce di una nuova lotta spontanea che comincia sotto l’aspetto criminale. Sono i segni precursori del secondo assalto proletario contro la società di classe. Quando i figli perduti di questo esercito ancora immobile riappaiono su questo terreno, divenuto diverso e rimasto lo stesso, seguono un nuovo «generale Ludd» che, questa volta, li lancia nella distruzione delle macchine del consumo consentito.
116. «La forma politica finalmente scoperta nella quale l’emanazione economica del lavoro poteva venire realizzata» ha acquistato in questo secolo una figura netta nei Consigli operai rivoluzionari, che concentrarono in sé tutte le funzioni di decisione e di esecuzione, e federandosi per mezzo di delegati responsabili di fronte alla base e revocabili in ogni momento. La loro effettiva esistenza non è stata che un breve abbozzo, subito combattuto e vinto dalle diverse forze difensive della società di classe, fra le quali bisogna spesso comprendere la propria falsa coscienza. Pannekoek insisteva giustamente sul fatto che la scelta di un potere dei Consigli operai «propone dei problemi» piuttosto che apportare una soluzione. Ma questo potere è precisamente il luogo dove i problemi della rivoluzione del proletariato possono trovare la loro vera soluzione». Il luogo in cui le condizioni oggettive della coscienza storica sono riunite; la realizzazione della comunicazione diretta attiva, in cui finiscono la specializzazione, la gerarchia e la separazione, in cui le condizioni esistenti sono state trasformate «in condizioni di unità». Qui il soggetto proletario può emergere dalla sua lotta contro la contemplazione: la sua coscienza è uguale all’organizzazione pratica che si è data, perché questa stessa coscienza è inseparabile dall’intervento coerente nella storia.
117. Nel potere dei Consigli, che deve soppiantare internazionalmente ogni altro potere, il movimento proletario è il proprio prodotto, e questo prodotto è il produttore stesso. Esso è a se stesso il proprio fine. Soltanto là la negazione spettacolare della vita è negata a sua volta.
118. L’apparizione dei Consigli fu la realtà più alta del movimento proletario nel primo quarto del secolo, realtà che rimane non considerata o travestita perché spariva col resto del movimento che l’insieme dell’esperienza storica di allora smentiva ed eliminava. Nel nuovo spazio della critica proletaria, questo risultato appare come il solo punto non vinto del movimento vinto. La coscienza storica che sa di avere in esso il suo solo spazio d’esistenza, può riconoscerlo adesso, non più alla periferia di ciò che rifluisce, ma al centro di ciò che sale.
119. Un’organizzazione rivoluzionaria esistente prima del potere dei Consigli – e che dovrà trovare lottando la propria forma per tutte queste ragioni storiche sa già che non rappresenta la classe. Essa deve soltanto riconoscersi come divisione radicale dal mondo della separazione.
120. L’organizzazione rivoluzionaria è l’espressione coerente della teoria della prassi, che entra in comunicazione non-unilaterale con le lotte pratiche, in divenire verso la teoria pratica. La sua pratica è la generalizzazione della comunicazione e della coerenza in queste lotte. Nel momento rivoluzionario del dissolvimento della divisione sociale, questa organizzazione deve riconoscere il proprio dissolvimento in quanto organizzazione separata.
121. L’organizzazione rivoluzionaria non può essere che la critica unitaria della società, cioè una critica che non scende a patti con nessuna forma di potere separato, in nessun punto del mondo, e una critica pronunciata globalmente contro tutti gli aspetti della vita sociale alienata. Nella lotta dell’organizzazione rivoluzionaria contro la società di classe, le armi non sono altro che l’essenza dei combattenti stessi: l’organizzazione rivoluzionaria non può riprodurre in se stessa le condizioni di scissione e di gerarchia che sono quelle della società dominante. Essa deve lottare in permanenza contro la sua deformazione nello spettacolo dominante. Il solo limite della partecipazione alla democrazia totale dell’organizzazione rivoluzionaria è il riconoscimento e l’auto-appropriazione effettiva, da parte di tutti i suoi membri, della coerenza della sua critica, coerenza che deve provarsi nella teoria critica propriamente detta e nella relazione fra questa e l’attività pratica.
122. Quando la realizzazione sempre più spinta dell’alienazione capitalistica a lutti i livelli, rendendo sempre più difficile ai lavoratori il riconoscere e nominare la loro propria miseria, li pone nell’alternativa di rifiutare la totalità della propria miseria, o niente, l’organizzazione rivoluzionaria ha dovuto imparare che essa non può più combattere l’alienazione sotto forme alienate.
123. La rivoluzione proletaria è interamente sospera a questa necessità che, per la prima volta, è la teoria in quanto intelligenzsa della pratica umana che dev’essere riconosciuta e vissuta dalle masse. Essa esige che gli operai diventino dialettici e iscrivano il proprio pensiero nella pratica; essa cosi chiede agli uomini senza qualità ben più di ciò che la rivoluzione borghese domandava agli uomini qualificati, che essa delegava alla propria realizzazione: perché la coscienza idcologica parziale, edificata da una parte della classe borghese, aveva per base una parte centrale della vita sociale, l’economia nella quale questa classe era già al potere. Lo sviluppo stesso della società di classe fino all’organizzazione spettacolare della non-vita, porta dunque il progetto rivoluzionario a diventare visibilmente ciò che era già essenzialmente.
124. La teoria rivoluzionaria è ora nemica di ogni ideologia rivoluzionaria, e sa di esserlo.
1. Marx a Engels, 7 dicembre 1867, in Marx-Engels, Opere complete, XLII, Roma 1974, p. 443. La traduzione francese cit. da Debord presenta alcune lievi differenze con l’edizione italiana [n.d.r.].
La società dello spettacolo
Guy Debord
5. TEMPO E STORIA
Oh gentiluomini, la vita è breve… Se viviamo, viviamo per camminare sulla testa dei re.
Shakespeare, Enrico V
125. L’uomo, «l’essere negativo che è unicamente nella misura in cui sopprime l’Essere» è identico al tempo. L’appropriazione da parte dell’uomo della propria natura è anche il suo appropriarsi del dispiegarsi dell’universo. «La storia è essa stessa parte reale della storia naturale, della trasformazione della natura nell’uomo» (Marx). Al contrario, questa «storia naturale» non ha altra esistenza effettiva che attraverso il processo di una storia umana, della sola parte che ritrova questo tutto storico, come il telescopio moderno la cui portata raggiunge nel tempo la fuga delle nebulose alla periferia dell’universo. La storia è sempre esistita, ma non sempre in forma storica. La temporalizzazione dell’uomo, come si effettua attraverso la mediazione di una società, è uguale a un’umanizzazione del tempo, li movimento incosciente del tempo si manifesta e diventa vero nella coscienza storica.
126. Il movimento propriamente storico, sebbene ancora nascosto, inizia nella lenta e impercettibile formazione della «natura reale dell’uomo», questa «natura che nasce nella storia umana nell’atto generatore della società umana», ma la società che è arrivata allora a padroneggiare una tecnica e un linguaggio, se essa è già il prodotto della propria storia, non ha coscienza che di un presente perpetuo. Ogni conoscenza, limitata alla memoria dei più anziani, vi è sempre portata da viventi. Né la morte né la procreazione sono comprese come una legge del tempo. Il tempo resta immobile, come uno spazio chiuso. Quando una società più complessa viene a prendere coscienza del tempo, il suo lavoro è piuttosto quello di negarlo, perché essa vede nel tempo non ciò che passa, ma ciò che ritorna. La società statica organizza il tempo secondo la propria esperienza immediata della natura, sul modello del tempo ciclico.
127. Il tempo ciclico è già dominante nell’esperienza dei popoli nomadi, perché sono le stesse condizioni che essi ritrovano ad ogni momento del loro passaggio: Hegel nota che «l’errare dei nomadi è soltanto formale, perché è limitato a degli spazi uniformi». La società che, fissandosi localmente, dà allo spazio un contenuto mediante la strutturazione di luoghi individualizzati, si trova in tal modo imprigionata all’interno di questa localizzazione. Il ritorno temporale in simili luoghi è ora il puro ritorno del tempo nello stesso luogo, la ripetizione di una serie di gesti. Il passaggio dal nomadismo pastorale all’agricoltura sedentaria e la fine della libertà pigra e senza contenuto, l’inizio della fatica e del lavoro. Il modo di produzione agricolo in generale, dominato dal ritmo delle stagioni, è la base del tempo ciclico pienamente costituito. L’eternità gli è interiore: è, in tale ambito, il ritorno dell’identico. Il mito è la costruzione unitaria del pensiero che garantisce tutto l’ordine cosmico attorno all’ordine che questa società ha già di fatto realizzato entro le proprie frontiere.
128. L’appropriazione sociale del tempo, la produzione dell’uomo mediante il lavoro umano, si sviluppano in una società divisa in classi. Il potere che si e costituito al di sopra della penuria della società del tempo ciclico, la classe che organizza questo lavoro sociale e si appropria del suo plusvalore limitato, si appropria ugualmente del plusvalore temporale della sua organizzazione del tempo sociale: essa possiede per sé stessa soltanto il tempo irreversibile del vivente. La sola ricchezza che può esistere concentrata nel settore del potere per essere materialmente spesa in una festa sontuosa, si trova anche spesa come dilapidazione di un tempo storico della superficie della società. I proprietari del plusvalore storico detengono la conoscenza e il godimento degli avvenimenti vissuti. Questo tempo, separato dall’organizzazione collettiva del tempo che predomina con la produzione ripetitiva della base della vita sociale, scorre al di sopra della propria comunità statica. E’ il tempo dell’avventura e della guerra, in cui i padroni della società ciclica vivono la loro storia personale; ed è ugualmente il tempo che appare nell’urto fra comunità straniere, la crisi dell’ordine immutabile della società. La storia sopraggiunge dunque davanti agli uomini come un fattore estraneo, come ciò che non hanno voluto e contro cui si credevano al riparo. Ma per questa via, ritorna indirettamente anche l’inquietudine negativa dell’umano, che era stata all’origine stessa di tutto lo sviluppo che si era addormentato.
129. Il tempo ciclico è in se stesso il tempo senza conflitto. Ma il conflitto è ben presente in quest’infanzia del tempo: la storia lotta inizialmente per essere la storia nell’attività pratica dei padroni. Questa storia crea superficialmente dell’irreversibile; il suo movimento costituisce il tempo stesso che esso esaurisce, all’interno del tempo inesauribile della società ciclica.
130. Le «società fredde» sono quelle che hanno rallentato al massimo la loro parte di storia; che hanno mantenuto in un costante equilibrio la loro opposizione all’ambiente naturale e umano, e le loro opposizioni interne. Se l’estrema diversità delle istituzioni costituite a questo fine testimonia della plasticità dell’autocreazione della natura umana, questa testimonianza appare evidentemente solo per l’osservatore esterno, all’etnologo venuto dal tempo storico. In ognuna di queste società, una strutturazione definitiva ha escluso il cambiamento. Il conformismo assoluto delle pratiche sociali esistenti, con le quali si trovano per sempre identificate tutte le possibilità umane, non ha altro limite esterno che quello della paura di ricadere nell’animalità senza forma. Qui, per restare nell’umano, gli uomini devono rimanere se stessi.
131. La nascita del potere politico, che sembra essere in relazione con le ultime grandi rivoluzioni della tecnica – come la fusione del ferro, alle soglie di un periodo che non conoscerà più sconvolgimenti in profondità fino all’apparire dell’industria – è anche il momento nel quale incominciano a dissolversi i legami di consanguineità. Da quel momento, la successione delle generazioni esce dalla sfera del puro ciclo naturale per divenire avvenimento orientato, successione di poteri. Il tempo irreversibile è il tempo di colui che regna; e le dinastie sono la sua prima misura. La scrittura è la sua arma. Nella scrittura, il linguaggio raggiunge la sua piena realtà indipendente di mediazione fra le coscienze. Ma questa indipendenza è identica all’indipendenza generale del potere separato, come mediazione che costituisce la società. Con la scrittura compare una coscienza che non è più contenuta e trasmessa nella relazione immediata dei viventi: una memoria impersonale, che è quella dell’amministrazione della società. «Gli scritti sono i pensieri dello Stato; gli archivi la sua memoria» (Novalis).
132. La cronaca è l’espressione del tempo irreversibile del potere, e anche lo strumento che mantiene la progressione volontaristica di questo tempo a partire dal suo tracciato precedente, perché questo orientamento del tempo deve fondersi con la forza di ogni potere particolare e ricadere nell’oblio indifferente del tempo ciclico conosciuto dalle masse contadine che, nel crollo degli imperi e delle loro cronologie, non cambiano mai. I possessori della storia hanno introdotto nel tempo un senso: una direzione che è anche un significato. Ma questa storia si svolge e soccombe a parte; essa lascia immutabile la società profonda, perché è propriamente ciò che rimane separato dalla realtà comune. E’ il motivo per cui la storia degli imperi d’Oriente si riduce per noi alla storia delle religioni: queste cronologie ricadute in rovina non hanno lasciato che la storia apparentemente autonoma dalle illusioni che le avviluppavano. I padroni che detengono la proprietà privata della storia, sotto la protezione del mito, la detengono essi stessi anzitutto nella forma dell’illusione. In Cina e in Egitto hanno avuto a lungo il monopolio dell’immortalità dell’anima: come le loro prime dinastie riconosciute sono l’ordinamento immaginario del passato. Ma questo illusorio possesso dei padroni è anche tutto il possesso possibile, al momento, di una storia comune e insieme della loro propria storia. L’estensione del loro potere storico effettivo procede insieme a una volgarizzazione del possesso mitico illusorio. Tutto ciò deriva dal semplice fatto che è solo nella misura in cui i padroni si sono incaricati di garantire miticamente la permanenza del tempo ciclico, come nei riti stagionali degli imperatori cinesi, che se ne sono essi stessi relativamente affrancati.
133. Affinché la secca cronologia senza spiegazioni del potere divinizzato, che parla ai suoi servitori, cronologia che non vuole essere compresa se non come esecuzione terrena dei comandamenti del mito, possa essere superata e divenire storia cosciente, è necessario che la partecipazione reale alla storia sia stata vissuta da gruppi estesi. Da questa comunicazione pratica fra coloro che si sono riconosciuti come i possessori di un presente singolare, che hanno provato la ricchezza qualitativa degli avvenimenti come attività propria e luogo proprio in cui vivevano – la loro epoca – nasce il linguaggio generale della comunicazione storica. Coloro per i quali il tempo irreversibile è esistito vi scoprono insieme il memorabile e la minaccia dell’oblio: «Erodoto di Alicarnasso presenta qui i risultati della sua inchiesta, affinché il tempo non elimini le opere degli uomini…».
134. Il ragionamento sulla storia è, inseparabilmente, ragionamento sul potere. La Grecia è individuabile come un momento in cui il potere e il suo cambiamento si discutono e si capiscono, la democrazia dei padroni della società. Là vi era l’opposto delle condizioni conosciute dallo Stato dispotico, in cui il potere non regola mai i conti con se stesso, nell’inaccessibile oscurità del suo punto più concentrato: con la rivoluzione di palazzo, che la riuscita o il fallimento mettono ugualmente fuori discussione. Tuttavia, il potere condiviso delle comunità greche non esisteva che nella spesa di una vita sociale, la cui produzione rimaneva separata e statica nella classe servile. Solo coloro che non lavorano vivono. Nella divisione delle comunità greche, e nella lotta per lo sfruttamento delle città straniere, era esteriorizzato il principio della separazione, che fondava interiormente ognuna di esse. La Grecia, che aveva sognato la storia universale, non giunse a unirsi di fronte all’invasione; e neanche a unificare i calendari delle proprie città indipendenti. in Grecia il tempo storico è divenuto cosciente, ma non ancora cosciente di se stesso.
135. Dopo la scomparsa delle condizioni localmente favorevoli che avevano conosciuto le comunità greche, la regressione del pensiero storico occidentale non è stata accompagnata da una ricostituzione delle antiche organizzazioni mitiche. Nell’urto dei popoli del Mediterraneo, nella formazione e nel crollo dello Stato romano, sono comparse delle religioni semistoriche che sono diventate dei fattori fondamentali della nuova coscienza del tempo e la nuova armatura del potere separato.
136. Le religioni monoteistiche sono state un compromesso fra il mito e la storia, fra il tempo ciclico dominante ancora la produzione e il tempo irreversibile in cui si affrontano e si ricompongono i popoli. Le religioni originate dal giudaismo costituiscono la riconoscenza universale astratta del tempo irreversibile che si trova democratizzato, aperto a tutti, ma nell’illusione. Il tempo è orientato interamente verso un solo avvenimento finale: «Il regno di Dio è vicino». Queste religioni sono nate sul terreno della storia e vi si sono stabilite. Ma là esse si mantengono ancora in opposizione radicale alla storia. La religione semistorica definisce un punto di partenza qualitativo nel tempo, la nascita del Cristo, la fuga di Maometto, ma il suo tempo irreversibile – introducendo un’accumulazione effettiva che potrà prendere nell’Islam la forma di una conquista o nel cristianesimo della Riforma quella di una crescita del capitale – viene ad essere di fatto invertito nel pensiero religioso come un conto alla rovescia: l’attesa, nel tempo che diminuisce, dell’accesso all’altro vero mondo, l’attesa del Giudizio finale. L’eternità è uscita dal tempo ciclico. E’ il suo al-di-là. E’ l’elemento che sminuisce l’irreversibilità del tempo, che sopprime la storia nella storia stessa, ponendosi, come puro elemento puntuale in cui il tempo ciclico è rientrato e si è abolito, dall’altro lato del tempo irreversibile. Bossuet dirà ancora: «E per mezzo del tempo che passa, noi entriamo nell’eternità che non passa».
137. Il Medioevo, questo mondo mitico incompiuto che aveva la sua perfezione al di fuori di se stesso, è il momento in cui il tempo ciclico, che regola ancora la parte principale della produzione, è veramente eroso dalla storia. Una certa temporalità irreversibile è riconosciuta individualmente a tutti, nella successione delle età della vita, nella vita considerata come un viaggio, un passaggio senza ritorno in un mondo il cui senso è altrove: il pellegrino è l’uomo che esce da questo tempo ciclico per essere effettivamente il viaggiatore che segnatamente ognuno è. La vita storica personale trova sempre la propria realizzazione nella sfera del potere, nella partecipazione alle lotte condotte dal potere e alle lotte per la contesa del potere; ma il tempo irreversibile del potere è diviso all’infinito, sotto l’unificazione generale del tempo orientato dell’era cristiana, in un mondo della fiducia armata, dove il gioco dei padroni ruota attorno alla fedeltà e alla contestazione della fedeltà dovuta. Questa società feudale, nata dall’incontro fra «la struttura organizzativa dell’esercito conquistatore così com’è andata sviluppandosi durante la conquista» e «le forze produttive trovate nei paesi conquistati» (L’ideologia tedesca) – e bisogna comprendere nell’organizzazione di queste forze produttive il loro linguaggio religioso – ha diviso il dominio della società fra la Chiesa e il potere statale, questo a sua volta suddiviso nelle complesse relazioni di sovranità e di vassallaggio delle amministrazioni territoriali e dei comuni urbani. In questa diversità della vita storica possibile, il tempo irreversibile che inconsciamente s’imponeva nella società profonda, il tempo vissuto dalla borghesia nella produzione delle merci, nella fondazione e l’espansione delle città, nella scoperta commerciale della Terra – la sperimentazione pratica che distrugge per sempre ogni Organizzazione mitica del cosmo – si rivelò lentamente come il lavoro sconosciuto dell’epoca, quando la grande impresa storica ufficiale di questo mondo fallì con le Crociate.
138. Col declino del Medioevo, il tempo irreversibile che pervade la società è recepito, dalla coscienza legata all’antico ordine, sotto forma di un’ossessione della morte. E’ la malinconia della dissoluzione di un mondo, l’ultimo in cui la sicurezza del mito equilibrava ancora la storia; e per questa malinconia ogni cosa terrestre si avvia soltanto verso la sua corruzione. Le grandi rivolte dei contadini europei sono anche il loro tentativo di risposta alla storia che li strappava violentemente al sonno patriarcale, che aveva garantito la tutela feudale. E’ l’utopia millenaristica della realizzazione terrestre del paradiso, in cui ritorna in primo piano ciò che era all’origine della religione semistorica, quando le comunità cristiane, come il messianesimo giudaico da cui esse provenivano – risposte ai disordini e alla sofferenza del tempo – attendevano l’imminente realizzazione del regno di Dio e aggiungevano un fattore d’inquietudine e di sovversione nella società antica, li Cristianesimo venuto a partecipare al potere nell’impero aveva smentito a suo tempo, come semplice superstizione, ciò che sussisteva di questa speranza: questo è il senso dell’affermazione agostiniana, archetipo di tutti i satisfecit dell’ideologia moderna, secondo la quale la Chiesa instaurata era già da molto tempo quel regno di cui si era parlato. La rivolta sociale della classe contadina millenaristica si definisce anzitutto naturalmente come una volontà di distruzione della Chiesa. Ma il millenarismo si esplica nel mondo storico e non sul terreno del mito. Non sono le speranze rivoluzionarie moderne, come crede di mostrare Norman Cohn in La poursuite du Millenium [1], ad essere degli strascichi irrazionali della passione religiosa del millenarismo. Al contrario, è il millenarismo, lotta di classe rivoluzionaria parlante per l’ultima volta la lingua della religione, ad essere già una tendenza rivoluzionaria moderna, alla quale manca ancora la coscienza di non essere che storica. I millenaristi dovevano perdere perché non potevano riconoscere la rivoluzione come operazione propria. Il fatto che essi aspettavano per agire un segno esterno della decisione di Dio è la traduzione in pensiero di una pratica in cui i contadini insorti seguono dei capi presi al di fuori di loro stessi. La classe contadina non poteva raggiungere una giusta coscienza del funzionamento della società, e del modo di condurre la propria lotta: è perché essa mancava di queste condizioni d’unità nella sua azione e nella sua coscienza, che essa espresse il proprio progetto e condusse le proprie guerre secondo le rappresentazioni del paradiso terrestre.
139. Il nuovo possesso della vita storica, il Rinascimento che trova nell’Antichità il suo passato e il suo diritto, porta in essa la rottura gioiosa con l’eternità. Il suo tempo irreversibile è quello dell’accumulazione infinita delle conoscenze, e la coscienza storica derivata dall’esperienza delle comunità democratiche e delle forze che le insidiano, può riprendere con Machiavelli il ragionamento sul potere desacralizzato, dirà l’indicibile dello Stato. Nella vita esuberante delle città italiane, nell’arte delle feste, la vita si conosce come un godimento del passaggio del tempo. Ma questo godimento del passaggio doveva essere esso stesso passeggero. La canzone di Lorenzo de’ Medici, che Burckhardt considera come l’espressione dello «spirito stesso del Rinascimento», è l’elogio che questa fragile festa della storia ha pronunciato su se stessa: «Com’è bella giovinezza/che si fugge tuttavia».
140. Il costante movimento di monopolizzazione della vita storica da parte dello Stato della monarchia assoluta, forma di transizione verso il completo dominio della classe borghese, fa apparire nella sua verità cosa sia il nuovo tempo irreversibile della borghesia. E’ al tempo di lavoro, per la prima volta affrancato dal ciclico, che la borghesia è legata. Il lavoro è divenuto, con la borghesia, lavoro che trasforma le condizioni storiche. La borghesia è la prima classe dominante per la quale il lavoro è un valore. E la borghesia che sopprime ogni privilegio, che non riconosce alcun valore che non derivi dallo sfruttamento del lavoro, ha giustamente identificato col lavoro il proprio valore come classe dominante, e fatto del progresso del lavoro il proprio progresso. La classe che accumula la merce e il capitale modifica continuamente la natura modificando lo stesso lavoro, scatenandone la sua produttività. Ogni vita sociale si è già concentrata nella povertà decorativa della Corte, ornamento della fredda amministrazione statale che culmina nel «mestiere di re»; e ogni particolare libertà storica ha dovuto consentire alla propria morte. La libertà del gioco temporale irreversibile dei feudali si è consumata nelle loro ultime battaglie, perdute con le guerre della Fronda o la sollevazione degli Scozzesi per Carlo-Edoardo. Il mondo ha cambiato di base.
141. La vittoria della borghesia è la vittoria del tempo profondamente storico, perché è il tempo della produzione economica che trasforma la società, in permanenza e da cima in fondo. Per tutto il tempo durante il quale la produzione agraria rimane il lavoro principale, il tempo ciclico che resta presente al fondo della società dà vita alle forze coalizzate della tradizione, che freneranno il movimento. Ma il tempo irreversibile dell’economia borghese estirpa queste sopravvivenze su tutta l’estensione della terra. La storia che era apparsa fin qui come il solo movimento degli individui della classe dominante, è dunque scritta come storia di avvenimenti, è adesso compresa come movimento generale, e in questo severo movimento gli individui sono sacrificati. La storia che scopre la propria base nell’economia politica conosce adesso l’esistenza di ciò che era il suo inconscio, ma che tuttavia rimane ancora l’inconscio che essa non può portare alla luce. E’ solo questa cieca preistoria, una nuova fatalità che nessuno domina, che l’economia mercantile ha democratizzato.
142. La storia che è presente in tutta la profondità della società, tende a perdersi alla superficie. Il trionfo del tempo irreversibile è anche la sua metamorfosi in tempo delle cose, perché l’arma della sua vittoria è stata proprio la produzione in serie degli oggetti, secondo le leggi della merce. Il prodotto principale che lo sviluppo economico ha fatto passare dalla lussuosa rarità al consumo corrente è dunque la storia, ma solo in quanto storia del movimento astratto delle cose che domina ogni uso qualitativo della vita. Mentre il tempo ciclico anteriore aveva sopportato una parte crescente di tempo storico vissuto da individui e gruppi, il dominio del tempo irreversibile della produzione tende ad eliminare socialmente questo tempo vissuto.
143. Così la borghesia ha fatto conoscere e ha imposto alla società un tempo storico irreversibile, ma gliene rifiuta l’uso. «C’è stata una storia, ma ora non c’è più», perché la classe dei possessori dell’economia, che non può rompere con la storia economica, deve anche reprimere come una minaccia immediata ogni altro impiego irreversibile del tempo. La classe dominante, fatta di specialisti del possesso delle cose, che sono essi stessi, per questo, una proprietà delle cose, deve legare la propria sorte al mantenimento di questa storia reificata, al permanere di una nuova immobilità nella storia. Per la prima volta il lavoratore, alla base della società, non è materialmente estraneo alla storia, perché è ora mediante la propria base che la società si muove irreversibilmente. Nella rivendicazione di vivere il tempo storico che egli produce, il proletariato trova il semplice centro indimenticabile del proprio progetto rivoluzionario; e ognuno dei tentativi fin qui falliti, di porre in atto questo progetto, segna un possibile punto di partenza della nuova vita storica.
144. Il tempo irreversibile della borghesia padrona del potere si è dapprima presentato sotto il suo nome, come un’origine assoluta, l’anno Primo della Repubblica. Ma l’ideologia rivoluzionaria della libertà generale che aveva abbattuto gli ultimi resti dell’organizzazione mitica dei valori e ogni regolamentazione tradizionale della società, lasciava già intravvedere la sua reale volontà, che essa aveva vestito alla romana: la libertà di commercio generalizzata. La società della merce, scoprendo allora che doveva ricostruire la passività, che aveva dovuto mettere in discussione sin dalle fondamenta per istituire il proprio puro regno, «trova nel Cristianesimo col suo culto dell’uomo astratto… il complemento religioso più conveniente» (Il Capitale). La borghesia ha concluso allora con questa religione un compromesso che si esprime anche nella presentazione del tempo: abbandonato il proprio calendario, il tempo irreversibile è tornato a modellarsi sull’era cristiana di cui continua la successione.
145. Con lo sviluppo del capitalismo, il tempo irreversibile è mondialmente unificato. La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che è la stessa contemporaneamente dappertutto, non è ancora che il rifiuto infrastorico della storia. E’ il tempo della produzione economica, ritagliata in frammenti astratti uguali, che si manifesta su tutto il pianeta come lo stesso giorno. Il tempo irreversibile unificato è quello del mercato mondiale, corollario dello spettacolo mondiale.
146. Il tempo irreversibile della produzione è anzitutto la misura delle merci. Così dunque il tempo che si afferma ufficialmente nello spazio mondiale come il tempo generale della società, manifestando solo gli interessi specializzati che lo costituiscono, non è che un tempo particolare.
1. N. Cohn, The Pursuit of the Millennium. Revolutionary millenarians and mystical anarchists of the Middle Ages, London 1957 (ed. rivista, 1970) [n.d.r.].
La società dello spettacolo
Guy Debord
6. IL TEMPO SPETTACOLARE
Non abbiamo niente di nostro tranne il tempo, di cui godono gli stessi che non hanno alcuna dimora.
Baltasar Graciàn, L’uomo di corte
147. Il tempo della produzione, il tempo-merce, è un’accumulazione infinita di intervalli equivalenti. E’ l’astrazione del tempo irreversibile, in cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. Questo tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che è nel suo carattere scambiabile. E’ in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto e l’uomo non è niente; egli è tutt’al più la carcassa del tempo» (Miseria della Filosofia). E’ il tempo svalorizzato, l’inversione completa del tempo come «campo di sviluppo umano».
148. Il tempo generale del non-sviluppo umano esiste anche sotto l’aspetto complementare di un tempo consumabile che ritorna verso la vita quotidiana della società, a partire da questa produzione determinata come un tempo pseudociclico.
149. Il tempo pseudociclico non è, in effetti, che il travestimento consumabile del tempo-merce della produzione. Esso ne contiene le caratteristiche essenziali di unità omogenee scambiabili e di soppressione della dimensione qualitativa. Ma essendo il sottoprodotto di questo tempo destinato all’arretramento della vita quotidiana concreta – e al mantenimento di questo arretramento – esso deve essere caricato di pseudovalorizzazioni e apparire in una serie di momenti falsamente individualizzati.
150. Il tempo pseudociclico è quello del consumo della sopravvivenza economica moderna, la sopravvivenza accresciuta, in cui il vissuto quotidiano resta privo di decisione e sottomesso, non più all’ordine naturale, ma alla pseudonatura sviluppata nel lavoro alienato; e dunque questo tempo ritrova del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che regolava la sopravvivenza delle società preindustriali. Il tempo pseudociclico trova sostegno sulle tracce naturali del tempo ciclico e allo stesso tempo ne compone nuove omologhe combinazioni: il giorno e la notte, il lavoro e il riposo settimanali, il ritorno dei periodi di vacanza.
151. Il tempo pseudociclico è un tempo che è stato trasformato dall’industria. Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci, è esso stesso una merce consumabile, che riunisce tutto ciò che si era precedentemente distinto, durante la fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica e vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene ad esserne trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati, che s’impongono sul mercato come impieghi del tempo socialmente organizzato. «Un prodotto che esiste già sotto una forma che lo rende adatto alla consumazione può tuttavia divenire a sua volta materia prima di un altro prodotto» (Il Capitale).
152. Nel suo settore più avanzato, il capitalismo concentrato si orienta verso la vendita di blocchi di tempo «completamente attrezzati», ognuno dei quali costituisce una sola merce unificata, che ha integrato un certo numero di merci diverse. Si vede così apparire, nell’economia in espansione dei «servizi» e del «tempo libero», la formula del pagamento calcolato «tutto compreso», per l’habitat spettacolare, per gli pseudospostamenti collettivi delle vacanze, l’abbonamento al consumo culturale e per la vendita della stessa socialità in «conversazioni appassionanti» e «incontri con personalità». Questa specie di merce spettacolare, che non può evidentemente avere corso che in funzione dell’accresciuta penuria delle corrispondenti realtà, figura altrettanto evidentemente fra gli articoli-pilota della modernizzazione delle vendite, essendo pagabile a credito.
153. Il tempo pseudociclico consumabile è il tempo spettacolare, sia come tempo del consumo di immagini, in senso stretto, sia come immagine del consumo del tempo, in tutta la sua estensione. Il tempo del consumo di immagini, medium di tutte le merci, è inseparabilmente il campo in cui si esercitano in pieno gli strumenti dello spettacolo, e lo scopo che questi presentano globalmente, come luogo e come figura centrale di tutti i consumi particolari: si sa che il risparmio di tempo costantemente ricercato dalla società moderna – che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso delle minestre in sacchetto – si traducono positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la sola contemplazione della televisione la occupa in media fra le tre e le sei ore al giorno. L’immagine sociale del consumo del tempo, da parte sua, è esclusivamente dominata dai momenti di svago e di vacanza, momenti rappresentati a distanza e desiderabili per postulato, come ogni merce spettacolare. Questa merce è qui esplicitamente data come il momento della vita reale, di cui si tratta di attendere il ritorno ciclico. Ma in questi stessi momenti assegnati alla vita, è ancora lo spettacolo che si dà a vedere e riprodurre, raggiungendo un grado più intenso. Ciò che è stato rappresentato come la vita reale si rivela semplicemente come la vita più realmente spettacolare.
154. Questa epoca, che mostra a se stessa il proprio tempo essenzialmente come il ritorno precipitoso di molteplici festività, è ugualmente un’epoca senza festa. Ciò che, nel tempo ciclico, era il momento della partecipazione di una comunità alla spesa lussuosa della vita, è impossibile per la società senza comunità e senza lusso. Quando le sue pseudofeste volgarizzate, parodie del dialogo e del dono, incitano ad un sovrappiù di spesa economica, non riportano che la delusione sempre compensata dalla promessa di una nuova delusione. Il tempo della sopravvivenza moderna deve, nello spettacolo, vantarsi tanto più a gran voce quanto più il suo valore d’uso si è ridotto. La realtà del tempo è stata sostituita dalla pubblicità del tempo.
155. Mentre il consumo del tempo ciclico delle società antiche era in accordo col reale lavoro di queste società, il consumo pseudociclico dell’economia sviluppata si trova in contraddizione col tempo irreversibile astratto della sua produzione. Mentre il tempo ciclico era il tempo dell’illusione immobile, vissuto realmente, il tempo spettacolare è il tempo della realtà che si trasforma, vissuto illusoriamente.
156. Ciò che è sempre nuovo nel processo di produzione delle cose non si ritrova nel consumo, che rimane il ritorno allargato del processo stesso. Poiché il lavoro morto continua a dominare il lavoro vivo, nel tempo spettacolare il passato domina il presente.
157. Come altro lato della mancanza di vita storica generale, la vita individuale non ha ancora storia. Gli pseudoavvenimenti che premono nella drammatizzazione spettacolare non sono stati vissuti da coloro che ne sono informati; e inoltre essi perdono nell’inflazione del loro precipitoso ricambio, ad ogni impulso della macchina spettacolare. D’altra parte, ciò che è stato realmente vissuto è senza relazione col tempo irreversibile ufficiale della, società, e in opposizione diretta al ritmo pseudociclico del sottoprodotto consumabile di questo tempo. Questo vissuto individuale della vita quotidiana separata rimane senza linguaggio, senza concetto, senza accesso critico al proprio passato, il quale non si trova consegnato da nessuna parte. Esso non si comunica. E’ incompreso e dimenticato a vantaggio della falsa memoria spettacolare del non-memorabile.
158. Lo spettacolo come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell’abbandono della storia che si erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo.
159. Per portare i lavoratori allo statuto di produttori e consumatori «liberi» del tempo-merce, la condizione preliminare e stata l’espropriazione violenta del loro tempo. Il ritorno spettacolare del tempo non è divenuto possibile che a partire da questo primo spossessamento del produttore.
160. La parte irriducibilmente biologica che rimane nel lavoro, sia per la dipendenza dal ciclico naturale della veglia e del sonno che nell’evidenza del tempo irreversibile individuale dell’usura di una vita, è semplicemente accessoria nei confronti della moderna produzione; e come tali questi elementi sono trascurati nelle proclamazioni ufficiali del movimento della produzione e dei trofei consumabili che sono la traduzione accessibile di quest’incessante vittoria. Immobilizzata nel centro falsificato del movimento del suo mondo, la coscienza spettatrice non conosce più nella propria vita un passaggio verso la realizzazione e verso la propria morte. Chi ha rinunciato a spendere la propria vita non deve più ammettere la propria morte. La pubblicità delle assicurazioni sulla vita insinua soltanto che è colpevole morire senza avere assicurato la regolare continuazione del sistema dopo questa perdita economica; e quella dell’American way of death insiste sulla sua capacità di mantenere per tale occasione la maggior parte delle apparenze della vita. Su tutto il resto del fronte dei bombardamenti pubblicitari è severamente proibito invecchiare. Si tratterebbe di amministrare in ognuno un «capitale-giovinezza» che, per non essere stato se non mediocremente impiegato, non può tuttavia pretendere di acquistare la realtà durevole e cumulativa del capitale finanziario. Questa assenza sociale della morte è identica all’assenza sociale della vita.
161. Il tempo è l’alienazione necessaria, come mostrava Hegel, l’elemento in cui il soggetto si realizza perdendosi, diviene altro per divenire la verità di se stesso. Ma il suo contrario è proprio l’alienazione dominante, che è subita dal produttore di un presente estraneo. In questa alienazione spaziale, la società che separa alla radice il soggetto e l’attività che essa gli sottrae, lo separa anzitutto dal proprio tempo. L’alienazione sociale sormontabile è giustamente quella che ha impedito e pietrificato le possibilità e i rischi dell’alienazione vivente nel tempo.
162. Sotto le mode apparenti che si annullano e si ricompongono sulla superficie futile del tempo pseudociclico contemplato, il grande stile dell’epoca è sempre in ciò che è orientato dalla necessità evidente e segreta della rivoluzione.
163. La base naturale del tempo, il dato sensibile dello scorrere del tempo, diventa umano e sociale esistendo per l’uomo. E’ lo stato limitato della pratica umana, il lavoro a differenti stadi, che ha fino ad oggi umanizzato e anche disumanizzato, il tempo come tempo ciclico e tempo diviso irreversibile della produzione economica. Il progetto rivoluzionario di una società senza classe, di una vita storica generalizzata, è il progetto di un deperimento della misura sociale del tempo, a profitto di un modello ludico di tempo irreversibile degli individui e dei gruppi, modello nel quale sono simultaneamente presenti dei tempi indipendenti federati. E’ il programma di una realizzazione totale, nell’elemento del tempo, del comunismo che sopprime «tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui».
164. Il mondo possiede già il sogno di un tempo di cui adesso deve possedere la coscienza per viverlo realmente.
La società dello spettacolo
Guy Debord
7. LA CONFIGURAZIONE DEL TERRITORIO
E chi diviene patrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella; perché sempre ha per refugio, nella ribellione, el nome della libertà e gli ordini antiquii sua; li quali né per la lunghezza de’ tempi né per benefizii mai si dimenticano. E per cosa che si faccia e si provvegga, se non si disuniscono o dissipano gli abitatori, e’ non sdimenticano quel nome né quelli ordini…
Machiavelli, Il Principe
165. La produzione capitalistica ha unificato lo spazio, che non è più limitato da società esterne. Questa unificazione è allo stesso tempo un processo estensivo e intensivo di banalizzazione. L’accumulo delle merci prodotte in serie per lo spazio astratto del mercato, che doveva rompere tutte le barriere regionali e legali, e tutte le restrizioni corporative del Medioevo che mantenevano la qualità della produzione artigianale, doveva anche dissolvere l’autonomia e la qualità dei luoghi. Questo potere di omogeneizzazione è l’artiglieria pesante che ha fatto cadere tutte le muraglie della Cina.
166. E’ per divenire sempre più identico a se stesso, per avvicinarsi al massimo della monotonia immobile, che lo spazio libero della merce è ormai in ogni istante modificato e ricostruito.
167. Questa società che sopprime la distanza geografica raccoglie interiormente la distanza, in quanto separazione spettacolare.
168. Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla scelta di andare a vedere ciò che è diventato banale. La configurazione economica della frequentazione di luoghi diversi è già per se stessa garanzia della loro equivalenza. La stessa modernizzazione che dal viaggio ha ritirato il tempo, gli ha anche ritirato la realtà dello spazio.
169. La società che modella tutto ciò che la circonda ha costruito la propria tecnica speciale per elaborare la base concreta di questo insieme di compiti: lo stesso suo territorio. L’urbanistica è presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi logicamente in dominio assoluto, può e deve ora configurare la totalità dello spazio come proprio scenario.
170. La necessità capitalistica soddisfatta nell’urbanismo, in quanto glaciazione visibile della vita, può esprimersi – usando dei termini hegeliani – come il predominio assoluto della «placida coesistenza dello spazio» sull’«inquieto divenire nella successione del tempo».
171. Se tutte le forze tecniche dell’economia capitalistica devono essere comprese come operanti delle separazioni, nel caso dell’urbanismo si ha a che fare con l’organizzazione della loro base generale, con il trattamento del suolo che conviene alla loro affermazione; con la tecnica stessa della separazione.
172. L’urbanismo è il compimento moderno del compito ininterrotto che salvaguarda il potere di classe: il mantenimento dell’atomizzazione dei lavoratori che le condizioni urbane di produzione avevano pericolosamente riunito. La lotta costante che ha dovuto essere condotta contro tutti gli aspetti di questa possibilità d’incontro trova nell’urbanismo il proprio terreno privilegiato. Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere i mezzi di mantenimento dell’ordine nelle strade, culmina finalmente con la soppressione delle strade stesse. «Con i mezzi di comunicazione di massa su grandi distanze, l’isolamento della popolazione si è rivelato un mezzo di controllo molto efficace», constata Lewis Mumford in La città nella storia, descrivendo «un mondo ormai a senso unico». Ma il movimento generale dell’isolamento, che costituisce la realtà dell’urbanismo, deve anche contenere una reintegrazione controllata dei lavoratori, secondo le necessità pianificabili della produzione e del consumo. L’integrazione nel sistema deve recuperare gli individui in quanto individui isolati insieme: le fabbriche, come le case della cultura, i villaggi delle vacanze come «i grandi agglomerati», sono organizzati in modo specifico ai fini di questa pseudocollettività che accompagna anche l’individuo isolato nella cellula famigliare, ovvero l’impiego generalizzato dei ricevitori del messaggio spettacolare fa sì che il suo isolamento si ritrovi popolato delle immagini dominanti, immagini che solo per questo isolamento acquistano la loro piena potenza.
173. Per la prima volta una nuova architettura, che ad ogni epoca precedente era riservata alla soddisfazione delle classi dominanti, si trova direttamente destinata ai poveri. La miseria formale e l’estensione gigantesca di questa nuova esperienza di habitat provengono entrambe dal suo carattere di massa, che è il portato sia della sua destinazione che delle moderne condizioni di costruzione. La decisione autoritaria, che configura astrattamente il territorio in territorio dell’astrazione, è evidentemente al centro di queste moderne condizioni di costruzione. La stessa architettura appare ovunque incominci l’industrializzazione dei paesi sotto questo aspetto arretrati, come terreno adeguato al nuovo genere di esistenza sociale che si tratta di impiantarvi. Altrettanto nettamente che nelle questioni dell’armamento termonucleare o della natalità – riscontrando già in quest’ultima la possibilità di una manipolazione dell’ereditarietà – la soglia varcata nell’aumento del potere materiale della società, e il ritardo del dominio cosciente di questo potere, sono evidenti nell’urbanismo.
174. Il momento presente è già quello dell’autodistruzione del centro urbano. L’esplosione delle città sulle campagne ricoperte di «masse informi di residui urbani» (Lewis Mumford) è, in forma immediata, determinata dagli imperativi del consumo. La dittatura dell’automobile, prodotto-pilota della prima fase dell’abbondanza mercantile, si e iscritta nel terreno col dominio dell’autostrada, che disgrega i vecchi centri e presiede a una dispersione sempre più ampia. Allo stesso tempo, i momenti di riorganizzazione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano in modo precario intorno alle «fabbriche di distribuzione» che sono i supermarket giganti costruiti su un terreno nudo, su uno zoccolo di parking; e questi templi del consumo rapido sono essi stessi in fuga nel movimento centrifugo che li respinge lontano, man mano che divengono a loro volta dei centri secondari sovraccarichi, dato che hanno portato a una parziale composizione dell’agglomerato. Ma l’organizzazione tecnica del consumo non è che al primo posto nell’ambito della dissoluzione generale, che ha portato in questo modo la città a consumare se stessa.
175. La storia economica che si è interamente sviluppata attorno alla contrapposizione città-campagna, è giunta a uno stadio di successo che annulla contemporaneamente i due termini. L’attuale paralisi dello sviluppo storico totale, a vantaggio della prosecuzione esclusiva del movimento indipendente dell’economia, fa del momento in cui cominciano a sparire la città e la campagna, non il superamento della loro scissione ma il loro simultaneo disfacimento. L’usura reciproca della città e della campagna, prodotto della mancanza del movimento storico, attraverso cui la realtà urbana esistente dovrebbe essere superata, si mostra nell’eclettica mescolanza dei loro elementi decomposti, che invade le zone più avanzate nell’industrializzazione.
176. La storia universale è nata nelle città ed è divenuta maggiorenne nel momento della decisiva vittoria della città sulla campagna. Marx considera come uno dei più grandi meriti rivoluzionari della borghesia il fatto che «essa ha sottomesso la campagna alla città», dove l’aria emancipa. Ma se la storia della città è la storia della libertà, è stata però anche quella della tirannia, dell’amministrazione statale che controlla la campagna e la stessa città. La città non ha potuto essere altro che il terreno di lotta della libertà storica, e non il suo possesso. La città è l’ambiente della storia perché è contemporaneamente concentramento del potere sociale, che rende possibile l’impresa storica, e coscienza del passato. La presente tendenza alla liquidazione della città non fa dunque che esprimere in altro modo il ritardo di una subordinazione dell’economia alla coscienza storica, di una unificazione della società riappropriatasi dei poteri che si sono staccati da essa.
177. «La campagna mostra proprio il fatto opposto, l’isolamento e la divisione» (L’ideologia tedesca). L’urbanismo che distrugge le città ricostituisce una pseudocampagna, nella quale sono perduti sia i rapporti naturali della vecchia campagna sia i rapporti sociali diretti e direttamente messi in questione della città storica. E’ un nuovo contadiname fittizio quello che le condizioni di habitat e di controllo spettacolare ricreano nell’attuale «territorio programmato»: la dispersione nello spazio e la mentalità ristretta che hanno sempre impedito al contadiname d’intraprendere un’azione indipendente e di affermarsi come potenza storica creatrice, ridiventano la caratterizzazione dei produttori – il movimento di un mondo da essi stessi fabbricato rimanendo non meno completamente fuori della loro portata di quanto lo fosse il ritmo naturale dei lavori per la società agraria. Ma ora che questo contadiname, che era stato la base incrollabile del «dispotismo orientale» e il cui sgretolamento stesso aveva richiesto la centralizzazione burocratica, è riapparso come prodotto delle condizioni di crescita della burocratizzazione statale moderna, la sua apatia ha dovuto essere storicamente fabbricata e stabilizzata: l’ignoranza naturale ha fatto posto allo spettacolo organizzato dell’errore. Le «città nuove» dello pseudocontadiname tecnologico iscrivono chiaramente nel terreno la rottura col tempo storico sul quale esse sono costruite; la loro insegna potrebbe essere: «Qui, non succederà mai niente, e niente è mai successo». Evidentemente, è proprio perché la storia, che bisogna liberare nelle città non vi è ancora stata liberata, che le forze dell’assenza storica incominciano a delineare il loro paesaggio esclusivo.
178. La storia che minaccia questo mondo crepuscolare è anche la forza che può sottomettere lo spazio al tempo vissuto. La rivoluzione proletaria è questa critica della geografia umana attraverso la quale gli individui e le comunità devono costruire i luoghi e gli avvenimenti corrispondenti all’appropriazione, non più soltanto del loro lavoro, ma della loro storia totale. In questo spazio mobile del gioco, e delle variazioni delle regole del gioco liberamente scelte, l’autonomia del luogo può ritrovarsi, senza reintrodurre un attaccamento esclusivo al suolo, e restituire in tal modo la realtà del viaggio e della vita intesa come un viaggio ha in se stesso tutto il proprio senso.
179. La più grande idea rivoluzionaria a proposito dell’urbanizzazione non è essa stessa urbanistica, tecnologica o estetica. E’ la decisione di ricostruire il territorio secondo i bisogni del potere dei Consigli dei lavoratori, della dittatura antistatale del proletariato, del dialogo esecutorio. E il potere dei Consigli, che non può essere effettivo se non trasformando la totalità delle condizioni esistenti, non potrà assegnarsi un compito inferiore se vuole essere riconosciuto e riconoscersi esso stesso nel proprio mondo.
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La società dello spettacolo
Guy Debord
8. LA NEGAZIONE E IL CONSUMO NELLA CULTURA
Avremo dunque una rivoluzione politica? Noi, i coetanei di questi tedeschi? Amico mio, Lei crede ciò che desidera… lo giudico la Germania basandomi sulla sua storia passata e su quella contemporanea; non mi vorrà obiettare che quella storia è un falso e che la vita pubblica odierna non rispecchia la vera situazione del popolo. Legga tutti i giornali che vuole; si convincerà che non si smette, e mi vorrà concedere che la censura non impedisce ad alcuno di smettere, di inneggiare alla nostra libertà e felicità nazionale…
Ruge, Lettera a Marx, marzo 1843 [1]
180. La cultura è la sfera generale della conoscenza e delle rappresentazioni del vissuto nella società storica divisa in classi; come dire che essa è il potere di generalizzazione esistente a parte, come divisione del lavoro intellettuale e lavoro intellettuale della divisione. La cultura si è staccata dall’unità della società del mito, «quando il potere di unificazione è scomparso dalla vita dell’uomo e gli opposti hanno perduto la loro relazione e interazione vivente, e acquistano l’autonomia…» (Differenza dei sistemi di Fichte e Schelling). Guadagnandosi la propria indipendenza, la cultura inizia un movimento imperialistico di arricchimento, che è allo stesso tempo il declino della sua indipendenza. La storia che crea l’autonomia relativa della cultura, e le illusioni ideologiche su questa autonomia, si esprime anche come storia della cultura. E tutta la storia conquistatrice della cultura può essere compresa come storia della rivelazione della sua insufficienza, come una marcia verso la sua autosoppressione. La cultura è il luogo della ricerca dell’unità perduta. In questa ricerca dell’unità, la cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa.
181. La lotta della tradizione e dell’innovazione, che è il principio di sviluppo interno della cultura delle società storiche, non può essere perseguita che attraverso la vittoria permanente dell’innovazione. L’innovazione nella cultura tuttavia non è portata da nient’altro che dal movimento storico totale che, prendendo coscienza della propria totalità, tende al superamento dei propri presupposti culturali, e va verso la soppressione di ogni separazione.
182. Lo sviluppo delle conoscenze della società, che contiene la comprensione della storia come il cuore della cultura, acquista di se stesso una conoscenza senza ritorno, che è espressa dalla distruzione di Dio. Ma questa «condizione preliminare d’ogni altra critica» costituisce insieme l’obbligo preliminare di una critica infinita. Là dove nessuna regola di condotta può più mantenersi, ogni risultato della cultura la fa avanzare verso la propria dissoluzione. Come per la filosofia, nel momento in cui ha guadagnato la propria piena autonomia, ogni disciplina divenuta autonoma deve scomparire, prima di tutto in quanto pretesa di spiegazione coerente della totalità sociale, e poi anche come strumentazione parcellare utilizzabile nell’ambito dei suoi limiti. La mancanza di razionalità della cultura separata è l’elemento che la condanna a scomparire, perché in essa la vittoria del razionale è già presente come esigenza.
183. La cultura è originata dalla storia che ha dissolto il genere di vita del vecchio mondo, ma in quanto sfera separata essa non è ancora che l’intelligenza e la comunicazione sensibile rimaste parziali in una società parzialmente storica. Essa è il senso di un mondo troppo poco sensato.
184. La fine della storia della cultura si manifesta da due opposte parti: il progetto del suo superamento nella storia totale e l’organizzazione del suo mantenimento in quanto oggetto morto nella contemplazione spettacolare. Uno di questi movimenti ha legato la propria sorte alla critica sociale e l’altro alla difesa del potere di classe.
185. Ciascuno dei due lati della fine della cultura esiste in modo unitario, sia in tutti gli aspetti delle conoscenze che in tutti gli aspetti delle rappresentazioni sensibili – in ciò che era l’arte nel senso più generale. Nel primo caso si oppongono l’accumulo delle conoscenze frammentarie, che diventano inutilizzabili perché l’approvazione delle condizioni esistenti deve finalmente rinunciare alle proprie conoscenze, e la teoria della prassi, che da sola detiene la verità di tutte detenendo da sola il segreto del loro uso. Nel secondo caso si oppongono l’autodistruzione critica del vecchio linguaggio comune della società e la sua ricomposizione artificiale nello spettacolo mercantile, la rappresentazione illusoria del non-vissuto.
186. Perdendo il senso della comunità della società del mito, la società deve perdere tutti i riferimenti di un linguaggio realmente comune, fino al momento in cui la scissione della comunità inattiva può venire superata dall’accesso alla reale comunità storica. L’arte, che fu questo linguaggio comune dell’inazione sociale, dal momento in cui si costituisce come arte indipendente in senso moderno, emergendo dal proprio originario universo religioso e divenendo produzione individuale di opere separate, conosce, come caso particolare, il movimento che domina la storia dell’insieme della cultura separata. La sua affermazione indipendente è l’inizio della sua dissoluzione.
187. Il fatto che il linguaggio della comunicazione si è perduto, ecco ciò che esprime positivamente il movimento moderno di decomposizione di ogni arte, il suo annientamento formale. Ciò che questo movimento esprime negativamente è che un linguaggio comune deve venire ritrovato, non più nella conclusione unilaterale che, per l’arte della società storica, arrivava sempre troppo tardi, parlando ad altri di ciò che era stato vissuto senza dialogo reale, e ammettendo questa deficienza della vita, ma deve essere ritrovato nella prassi, che riunisce in essa l’attività diretta e il suo linguaggio. Si tratta di possedere effettivamente la comunità del dialogo e il gioco con il tempo che sono stati rappresentati dall’opera poetico-artistica.
188. Quando l’arte divenuta indipendente rappresenta il proprio mondo con dei colori brillanti, un momento della vita è invecchiato e non si lascia ringiovanire con dei colori brillanti. Si lascia soltanto evocare nel ricordo. La grandezza dell’arte non comincia ad apparire che al venir meno della vita.
189. Il tempo storico che pervade l’arte si è espresso prima di tutto nella sfera stessa dell’ arte, a partire dal barocco. Il barocco è l’arte di un mondo che ha perduto il proprio centro: l’ultimo ordine mitico riconosciuto dal Medioevo, nel cosmo e ne! governo terreno – l’unità della Cristianità e il fantasma di un Impero – è caduto. L’ arte del cambiamento deve portare in sé il principio effimero che si scopre nel mondo. Essa ha scelto, dice Eugenio d’Ors, «la vita contro l’eternità». Il teatro e la festa, la festa teatrale, sono i momenti dominanti della realizzazione barocca, nella quale ogni espressione artistica particolare non acquista il proprio senso se non nel riferimento allo scenario di un luogo costruito, ad una costruzione che dev’essere per se stessa il centro dell’unificazione: e questo centro è il passaggio, che è iscritto come un equilibrio minacciato nel disordine dinamico del tutto. L’importanza, talvolta eccessiva, acquisita dal concetto di barocco nella discussione estetica contemporanea, traduce la presa di coscienza dell’impossibilità di un classicismo artistico: gli sforzi in favore di un classicismo o neoclassicismo normativo, dopo tre secoli, non sono stati che delle brevi costruzioni artificiali parlanti il linguaggio esteriore dello Stato, quello della monarchia assoluta o della borghesia rivoluzionaria vestita alla romana. Dal romanticismo al cubismo, si ha alla fine un’arte della negazione sempre più individualizzata, rinnovantesi perpetuamente fino alla dispersione e alla negazione completa della sfera artistica, quella che ha seguìto il corso generale del barocco. La scomparsa dell’arte storica, che era legata alla comunicazione interna di un’élite, che aveva la propria base sociale semindipendente nelle condizioni parzialmente ludiche ancora vissute dalle ultime aristocrazie, traduce anche il fatto che il capitalismo conosce ii primo potere di classe che si mostra spogliato di ogni qualità ontologica: e la cui radice del potere, posta nella semplice gestione dell’ economia, è ugualmente la perdita di ogni padronanza umana. L’insieme barocco, che per la creazione artistica è esso stesso una unità da lungo tempo perduta, si ritrova in qualche modo nel consumo attuale della totalità del passato artistico. La conoscenza e il riconoscimento storico di tutta l’arte del passato, retrospettivamente costituita in arte mondiale, la relativizzano in un disordine globale, che costituisce a sua volta un edificio barocco a un livello più elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa di un’arte barocca e tutte le sue risorgenze. Le arti di tutte le civiltà e di tutte le epoche, per la prima volta, possono essere tutte conosciute e ammesse insieme. E’ un «repertorio di ricordi» della storia dell’arte che, divenendo possibile, è anche la fine del mondo dell’arte. E’ in quest’epoca di musei, quando nessuna comunicazione artistica può più esistere, che tutti i trascorsi momenti dell’arte possono essere ugualmente ammessi, perché nessuno di essi patisce più della perdita delle proprie condizioni particolari di comunicazione, nella perdita presente delle condizioni di comunicazione in generale.
190. L’arte nell’epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo teso al superamento dell’arte in una società storica in cui la storia non è ancora vissuta, è allo stesso tempo un’arte del cambiamento e l’espressione pura del cambiamento impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di essa. Quest’arte è necessariamente d’avanguardia, e non lo è. La sua avanguardia è la sua scomparsa.
191. Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che hanno segnato la fine dell’arte moderna. Essi sono contemporanei, anche se in modo relativamente cosciente, dell’ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario; e la sconfitta di questo movimento, che li ha lasciati rinchiusi nello stesso campo artistico di cui avevano proclamato la caducità, è la ragione fondamentale della loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono allo stesso tempo storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione, che costituisce anche ciascuno di loro la parte più conseguente e radicale del loro apporto, appare l’insufficienza interna della loro critica, sviluppata unilateralmente dall’uno come dall’altro. Il dadaismo ha voluto sopprimere l’arte senza realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l’arte senza sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di un unico superamento dell’arte.
192. Il consumo spettacolare che conserva la vecchia cultura congelata, compresa la ripetizione recuperata delle sue manifestazioni negative, diviene apertamente nel suo settore culturale ciò che è implicitamente nella sua totalità: la comunicazione dell’incomunicabile. La distruzione estrema del linguaggio vi si può trovare piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale, perché si tratta di esibire una riconciliazione con lo stato dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è proclamata allegramente assente. La verità critica di questa distrazione, in quanto vita reale della poesia e dell’arte moderne, è evidentemente nascosta, perché lo spettacolo, che ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura, applica nella pseudonovità dei suoi mezzi modernisti la strategia stessa che lo costituisce in profondità. Può così accadere che venga a spacciarsi per nuova una scuola di neoletteratura che ammette semplicemente di contemplare lo scritto per se stesso. Oppure, a fianco della semplice proclamazione della sufficiente bellezza del dissolvimento del comunicabile, la tendenza più moderna della cultura spettacolare – e la più legata alla pratica repressiva dell’organizzazione generale della società – cerca di ricomporre, con dei «lavori collettivi», un ambiente neoartistico complesso a partire da elementi decomposti; in particolare nelle ricerche di integrazione dei frammenti artistici o degli ibridi estetico-tecnici nell’urbanismo. Questa è la traduzione sul piano della pseudocultura spettacolare, del progetto generale del capitalismo sviluppato, che mira a riprendere il lavoratore parcellare «come personalità ben integrata nel gruppo»: tendenza descritta dai recenti sociologi americani (Riesman, Whyte ecc.). Dappertutto è lo stesso progetto di una ristrutturazione senza continuità.
193. La cultura diventata integralmente merce deve anche divenire la merce-vedette della società spettacolare. Clark Kerr, uno degli ideologi più avanzati di questa tendenza, ha calcolato che il complesso processo di produzione, distribuzione e consumo delle conoscenze, accaparra negli Stati Uniti già annualmente il 29% del prodotto nazionale: e prevede che la cultura debba tenere nella seconda metà di questo secolo il ruolo motore nello sviluppo dell’economia, ruolo che fu quello dell’automobile nella prima metà, e delle ferrovie nella seconda metà del secolo scorso.
194. L’insieme delle conoscenze che continua attualmente a svilupparsi come pensiero dello spettacolo deve giustificare una società senza giustificazioni e costituirsi come scienza generale della falsa coscienza. Essa è interamente condizionata dal fatto che essa non può e non vuole pensare la propria base materiale nel sistema spettacolare.
195. Il pensiero dell’organizzazione sociale dell’apparenza è esso stesso oscurato dalla sottocomunicazione generalizzata che esso difende. Non sa che il conflitto è all’origine di tutte le cose del suo mondo. Gli specialisti del potere dello spettacolo, potere assoluto all’interno del suo sistema di linguaggio senza risposta, sono assolutamente corrotti dalla loro esperienza del disprezzo e del successo del disprezzo; perché essi trovano il loro disprezzo confermato dalla conoscenza dell’uomo disprezzabile che è veramente lo spettatore.
196. Nel pensiero specializzato del sistema spettacolare si opera una nuova divisione dei compiti, man mano che il perfezionamento stesso di questo sistema pone dei nuovi problemi: da una parte la critica spettacolare dello spettacolo è intrapresa dalla moderna sociologia, la quale studia la separazione con l’ausilio dei soli strumenti concettuali e materiali della separazione; dall’altra l’apologia dello spettacolo si costituisce come pensiero del non-pensiero, in oblio titolato della pratica storica, nelle diverse discipline in cui si radica io strutturalismo. Tuttavia, la falsa disperazione della critica non-dialettica e il falso ottimismo della pura pubblicità del sistema sono identici in quanto pensiero sottomesso.
197. La sociologia che ha incominciato a mettere in discussione, prima di tutto negli Stati Uniti, le condizioni di esistenza originate dallo sviluppo attuale, malgrado abbia potuto apportare molti dati empirici, non conosce affatto la verità del proprio oggetto, perché non trova in esso la critica che gli è immanente. Di modo che la tendenza sinceramente riformista di questa sociologia non poggia se non sulla morale, sul buon senso, su richiami aleatori quanto totalmente inadeguati al fine ecc. Un tale modo di criticare, dal momento che non conosce il negativo insediato al centro del suo mondo, non fa che insistere sulla descrizione di una sorta di eccedenza negativa che gli sembra deplorabilmente ingombrarlo alla superficie, come una proliferazione parassitaria irrazionale. Questa buona volontà indignata, che anche in quanto tale non riesce a biasimare se non le conseguenze esteriori del sistema, si crede critica dimenticando il carattere essenzialmente apologetico dei suoi presupposti e del suo metodo.
198. Coloro che denunciano l’assurdità o i pericoli dell’incitamento allo spreco nella società dell’abbondanza economica, non sanno a che cosa serva lo spreco. Essi condannano con ingratitudine, in nome della razionalità economica, i buoni guardiani irrazionali senza i quali il potere di questa razionalità economica crollerebbe. E Boorstin, per esempio, che descrive in L’immagine il consumo mercantile dello spettacolo americano, non raggiunge mai il concetto di spettacolo, perché egli crede di poter lasciare al di fuori di questa disastrosa esagerazione la vita privata o la nozione di «onesta merce». Egli non comprende che la merce stessa ha fatto le leggi la cui applicazione «onesta» deve condurre sia alla realtà distinta della vita privata, che alla sua ulteriore riconquista attraverso il consumo sociale delle immagini.
199. Boorstin descrive gli eccessi di un mondo che ci è diventato estraneo, come eccessi estranei al nostro mondo. Ma la base «normale» della vita sociale alla quale egli si riferisce implicitamente, quando qualifica il regno superficiale delle immagini in termini di giudizio psicologico e morale come il prodotto delle «nostre stravaganti pretese», non ha nessuna realtà, né nel suo libro, né nel suo tempo. E’ per il fatto che la vita umana reale di cui parla Boorstin è per lui nel passato, compreso il passato della rassegnazione religiosa, che egli non può comprendere tutta la profondità di una società dell’immagine. La verità di questa società non è altro che la negazione di questa società.
200. La sociologia che crede di poter isolare dall’insieme della vita sociale una razionalità industriale funzionante a parte, può anche arrivare ad isolare dal movimento industriale globale le tecniche di riproduzione e trasmissione. E’ così che Boorstin individua la causa dei risultati che egli dipinge nell’infelice incontro, quasi fortuito, tra un eccessivo apparato tecnico di diffusione e un’eccessiva attrazione degli uomini della nostra epoca per lo pseudosensazionale. Così lo spettacolo sarebbe dovuto al fatto che l’uomo moderno è troppo spettatore. Boorstin non comprende che la proliferazione degli «pseudoeventi» prefabbricati che denuncia, è originato semplicemente dal fatto che gli uomini, nella massificata realtà dell’ attuale vita sociale, non vivono gli avvenimenti in modo autonomo. E’ per il fatto che la storia stessa ossessiona la società moderna come uno spettro, che si ritrova della pseudostoria costruita a tutti i livelli del consumo della vita per preservare l’equilibrio minacciato dell’attuale tempo congelato.
201. L’affermazione della stabilità definitiva di un breve periodo di congelamento del tempo storico costituisce la base innegabile, inconsciamente e consciamente proclamata, dell’attuale tendenza ad una sistematizzazione strutturalistica. Il punto di vista da cui si pone il pensiero antistorico dello strutturalismo è quello dell’eterna presenza di un sistema che non è mai stato creato e che non finirà mai. Il sogno della dittatura di una struttura preliminare inconscia su ogni prassi sociale ha potuto essere abusivamente ricavato dai modelli di struttura elaborati dalla linguistica e dall’etnologia (ovvero dall’analisi del funzionamento del capitalismo), modelli già abusivamente compresi in queste circostanze, semplicemente perché un pensiero universitario di quadri medi, presto soddisfatti, pensiero interamente preso nell’elogio meravigliato del sistema esistente, riporta piattamente ogni realtà all’esistenza del sistema.
202. Come in ogni scienza sociale storica, bisogna sempre tenere d’occhio, per la comprensione delle categorie «strutturalistiche», che le categorie esprimono forme e condizioni di esistenza. Come non si può valutare il valore di un uomo, secondo la concezione che egli ha di se stesso, non si può valutare – e ammirare – neanche questa determinata società accettando come indiscutibilmente veridico il linguaggio che essa parla a se stessa. «Non si possono giudicare tali epoche di trasformazione secondo la coscienza che se ne ha al momento: al contrario, si devono spiegare queste forme di coscienza con le contraddizioni della vita materiale…». La struttura è figlia del potere presente. Lo strutturalismo è il pensiero garantito dallo Stato, che pensa le presenti condizioni della «comunicazione» spettacolare come un assoluto. Il suo modo di studiare il codice dei messaggi in sé non è che il prodotto e il riconoscimento di una società in cui la comunicazione esiste sotto forma di una cascata di segnali gerarchici. Non è lo strutturalismo quindi che serve a provare la validità metastorica della società dello spettacolo: è invece al contrario la società dello spettacolo, nel momento in cui s’impone come realtà di massa, che serve a provare il sogno freddo dello strutturalismo.
203. Senza dubbio, il concetto critico di spettacolo può anche venire volgarizzato in una qualsiasi forma vuota della retorica sociologico-politica per spiegare e denunciare astrattamente tutto, e servire così alla difesa del sistema spettacolare. Perché è evidente che nessuna idea può portare al di là dello spettacolo esistente, ma soltanto al di là delle idee esistenti sullo spettacolo. Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo, ci vogliono degli uomini che mettano in azione una forza pratica. La teoria critica dello spettacolo non è vera se non unificandosi con la corrente pratica della negazione nella società, e questa negazione, la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria, diventerà cosciente di se stessa sviluppando la critica dello spettacolo, che è la teoria delle sue reali condizioni, delle condizioni pratiche dell’oppressione attuale, e che inversamente svela il segreto di ciò che essa può essere. Questa teoria non attende miracoli dalla classe operaia. Essa affronta la nuova formulazione e la realizzazione delle esigenze proletarie come un compito di lungo respiro. Per distinguere artificialmente lotta teorica e lotta pratica – dato che, sulla base qui definita, la costituzione stessa e la comunicazione di una teoria del genere non possono concepirsi senza una pratica rigorosa – è certo che il cammino oscuro e difficile della teoria critica dovrà avere lo stesso destino del movimento pratico agente sul piano della società.
204. La teoria critica deve comunicarsi nel proprio linguaggio. E’ il linguaggio della contraddizione, che dev’essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto. Esso è critica della totalità e critica storica. Non è un «grado zero della scrittura», ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione.
205. Nel suo stesso stile, l’esposizione della teoria dialettica è uno scandalo e un abominio per le regole del linguaggio dominante e per il gusto che esse hanno educato, perché nell’impiego positivo dei concetti esistenti esso include contemporaneamente l’intelligenza della loro fluidità ritrovata, della loro necessaria distruzione.
206. Questo stile che contiene in sé la propria critica deve esprimere il dominio della critica presente su tutto il suo passato. Attraverso di esso, le modalità di esposizione della teoria dialettica testimoniano dello spirito negativo che è in essa. «La verità non è come il prodotto in cui non si trovano più tracce dell’utensile» (Hegel). Questa coscienza teorica del movimento, nella quale la traccia stessa del movimento dev’essere presente, si manifesta attraverso il rovesciamento delle relazioni stabilite fra i concetti e con il détournement di tutte le acquisizioni della precedente critica. Il rovesciamento del genitivo è l’espressione delle rivoluzioni storiche, registrata nella forma del pensiero, che è stata considerata come lo stile epigrammatico di Hegel. Il giovane Marx, preconizzando, secondo l’uso sistematico che ne aveva fatto Feuerbach, la sostituzione del soggetto col predicato, è giunto all’impiego più conseguente di questo stile insurrezionale che, dalla filosofia della miseria, ricava la miseria della filosofia. Il détournement riporta alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state stereotipizzate in verità rispettabili, cioè trasformate in menzogne. Già Kierkegaard ne ha fatto un uso deliberato e quindi anche la denuncia: «Ma nonostante il rimestare, la marmellata va a finire sempre in dispensa, finisci sempre per far scivolare una parolina che non è tua e che turba con il ricordo che risveglia» (Briciole filosofiche). E’ l’obbligo della distanza, verso ciò che è stato falsificato in verità ufficiale che determina quest’impiego del détournement, così delineato da Kierkegaard nello stesso libro: «Una sola osservazione ancora a proposito delle tue numerose allusioni, miranti tutte al fatto che io mescolo ai miei discorsi espressioni prese a prestito altrove, lo non lo nego qui, e non nasconderò neanche il fatto che era voluto, e che in un nuovo seguito a questa brochure, se mai lo scriverò, ho intenzione di nominare l’oggetto con il suo vero nome e di rivestire il problema di un costume storico».
207. Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella una falsa idea, la sostituisce con l’idea giusta.
208. Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto che è divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento e infine dalla sua epoca, come riferimento globale, e dall’opzione precisa che essa era all’interno di tale riferimento, esattamente riconosciuto o erroneo. Il détournement è il linguaggio fluido dell’antideologia. Esso appare nella comunicazione che sa di non poter pretendere di detenere nessuna garanzia in se stessa e definitivamente. E’, nel suo punto più alto, il linguaggio che nessun riferimento antico e sovracritico può confermare. Al contrario, è proprio la sua coerenza, in se stesso e con i fatti praticabili, che può confermare il vecchio nucleo di verità che vi riporta. Il détournement non ha fondato la propria causa su nulla di esterno alla propria verità come critica presente.
209. Ciò che nella formulazione teorica si presenta apertamente come détourné, smentendo ogni autonomia durevole della sfera della teoria espressa, e facendovi intervenire mediante questa violenza l’azione che sconvolge e ribalta ogni ordine esistente, ricorda che questa esistenza della teoria non è nulla in se stessa, e non può riconoscersi che nell’azione storica e con la correzione storica che è la sua vera fedeltà.
210. La negazione reale della cultura è la sola che ne conserva il senso. Essa non può più essere culturale. Pertanto, essa è ciò che resta, in qualche modo, al livello della cultura, anche se in un’accezione molto diversa.
211. Nel linguaggio della contraddizione, la critica della cultura si presenta unificata: in quanto essa domina l’insieme della cultura – la conoscenza come la poesia – e in quanto non si separa più dalla critica della totalità sociale. E questa critica teorica unificata la sola che va incontro alla pratica sociale unificata.
1. In A. Ruge-K. Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di G.M. Bravo, Massari editore, Bolsena 2001, pp. 49 e 52 [n.d.r.].
La società dello spettacolo
Guy Debord
9. L’IDEOLOGIA MATERIALIZZATA
La coscienza di sé è in sé e per sé in quanto e perché è in sé e per sé per un ‘altra coscienza di sé: ciò vale a dire che essa non è se non come qualcosa di riconosciuto.
(Hegel, Fenomenologia dello Spirito)
212. L’ideologia è la base del pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia. I fatti ideologici non sono mai stati delle semplici chimere, ma la coscienza deformata delle realtà e, in quanto tali, dei fattori reali esercitanti di ritorno una reale azione deformante: a maggior ragione la materializzazione dell’ideologia – originata dal successo concreto della produzione economica divenuta autonoma, nella forma dello spettacolo – confonde praticamente con la realtà sociale un’ideologia che ha potuto ritagliare tutto il reale sul proprio modello.
213. Quando l’ideologia, che è la volontà astratta dell’universale e la sua illusione, si trova legittimata dall’astrazione universale e dall’effettiva dittatura dell’illusione nella società moderna, essa non è più la lotta volontaristica del parcellare, ma il suo trionfo. Da qui la pretesa ideologica acquisisce una specie di piatta esattezza positivistica: essa non è più una scelta storica, ma un’evidenza. In una tale affermazione, i nomi particolari delle ideologie sono svaniti. La parte stessa del lavoro propriamente ideologico al servizio del sistema non si concepisce più se non come riconoscimento di uno «zoccolo epistemologico» che si vuole di là da ogni fenomeno ideologico. L’ideologia materializzata è essa stessa senza nome, così come è senza programma storico enunciabile. Il che equivale a dire che la storia delle ideologie è finita.
214. L’ideologia, la cui logica interna portava verso l’«ideologia totale», nel senso di Mannheim, dispotismo del frammento che s’impone come pseudosapere di un tutto congelato, visione totalitaria, è ora compiuta nello spettacolo immobilizzato della non-storia. Il suo compimento è anche la sua dissoluzione nell’insieme della società. Con la dissoluzione pratica di questa società deve scomparire anche l’ideologia, l’ultima irragionevolezza che blocca l’accesso alla vita storica.
215. Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale. Lo spettacolo è materialmente «l’espressione della separazione e dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo». La «nuova potenza dell’inganno» che vi si è concentrata ha la sua base in questa produzione, dalla quale «con la massa degli oggetti cresce… il nuovo regno di enti estranei cui l’uomo è asservito». E’ lo stadio supremo di un’espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. «Il bisogno del denaro è dunque il vero bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo bisogno che essa produce» (Manoscritti economico-filosofici). Lo spettacolo estende a tutta la vita sociale il principio che Hegel, nella Realphilosophie di Jena, concepisce come tipico del denaro: «La vita di ciò che è morto, muoventesi in se stessa».
216. Al contrario del progetto riassunto nelle Tesi su Feuerbach (la realizzazione della filosofia nella prassi che supera l’opposizione fra idealismo e materialismo), lo spettacolo conserva contemporaneamente, e impone nello pseudoconcreto del suo universo, i caratteri ideologici del materialismo e dell’idealismo. L’aspetto contemplativo del vecchio materialismo che concepisce il mondo come rappresentazione e non come attività – e che, in ultima analisi, idealizza la materia – è realizzato nello spettacolo, in cui delle cose concrete sono automaticamente padrone della vita sociale. Reciprocamente, l’attività sognata dell’idealismo si realizza ugualmente nello spettacolo, attraverso la mediazione tecnica di segni e di segnali che alla fine materializzano un ideale astratto.
217. Il parallelismo fra ideologia e schizofrenia stabilito da Gabel (La falsa coscienza) dev’essere collocato in questo processo economico di materializzazione dell’ideologia. Ciò che l’ideologia era già, la società lo è divenuta. Il separarsi della prassi e la falsa coscienza antidialettica che l’accompagna. Ecco ciò che è imposto ad ogni momento della vita quotidiana sottomessa allo spettacolo, che bisogna comprendere come un’organizzazione sistematica della «perdita della facoltà di incontro», e come la sua sostituzione con un fatto allucinatorio sociale: la falsa coscienza dell’incontro, l’«illusione dell’incontro». In una società in cui nessuno può più essere riconosciuto dagli altri, ogni individuo diviene incapace di riconoscere la propria realtà. L’ideologia è a casa sua; la separazione ha edificato il suo mondo.
218. «Nei quadri clinici della schizofrenia», afferma Gabel, «decadenza della dialettica della totalità (la cui forma estrema è la dissociazione) e decadenza della dialettica del divenire (la cui forma estrema è la catatonia) sembrano ben connessi». La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, limitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale la sua vita è stata deportata, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente con la loro merce e con la politica della loro merce. Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo «segno dello specchio». Qui si mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo generalizzato.
219. Lo spettacolo, che cancella i limiti dell’io e del mondo con l’annientamento dell’io, assediato dalla presenza-assenza del mondo, cancella ugualmente i limiti del vero e del falso con la rimozione di ogni verità vissuta sotto la presenza reale della falsità assicurata dall’organizzazione dell’apparenza. Chi subisce passivamente la propria sorte quotidianamente estranea è dunque spinto verso una follia che reagisce illusoriamente a questa sorte con il ricorso a tecniche magiche. Il riconoscimento e il consumo delle merci sono al centro di questa pseudorisposta ad una comunicazione senza risposta. Il bisogno di imitazione che prova il consumatore è precisamente il bisogno infantile, condizionato da tutti gli aspetti del suo spossessamento fondamentale. Secondo i termini che Gabel applica ad un livello patologico diverso, «il bisogno anormale di rappresentazione compensa qui un sentimento torturante di essere ai margini dell’esistenza».
220. Se la logica della falsa coscienza non può conoscere veracemente se stessa, la ricerca della verità critica sullo spettacolo deve anche essere una critica vera. Essa deve lottare praticamente fra i nemici irreconciliabili dello spettacolo, e ammettere di essere assente, laddove essi sono assenti. Sono le leggi del pensiero dominante, è il punto di vista esclusivo dell’attualità, che la volontà astratta dell’efficacia immediata in effetti riconosce, quando essa si getta sui compromessi del riformismo o dell’azione comune dei detriti pseudorivoluzionari. Attraverso questa via il delirio si è ricostituito nella posizione stessa che pretende di combatterlo. Invece, la critica che va al di là dello spettacolo deve saper aspettare.
221. Emanciparsi dalle basi materiali della verità rovesciata, ecco in che cosa consiste l’autoemancipazione della nostra epoca. Questa «missione storica d’instaurare la verità nel mondo», né l’individuo isolato, né la folla atomizzata e sottomessa alle manipolazioni possono compierla, ma lo può ancora e sempre la classe che è capace di attuare la dissoluzione di tutte le classi riportando tutto il potere alla forma disalienante della democrazia realizzata: il Consiglio in cui la teoria pratica controlla se stessa e vede la propria azione. Solo là dove gli individui sono «direttamente legati alla storia universale», solo là dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni.
http://www.scienzepostmoderne.org/Libri/SocietaDelloSpettacolo/SocietaDelloSpettacolo.html