Mai come oggi le tenebre mi avvolsero. E accade difatti che dopo aver vissuto per qualche ora circondato del tepore del sole, quando questo si eclissa subito un brivido di freddo ci scuote la persona.
Il freddo mi è entrato nell’animo che sogna un avvenire di tepore e che lo vede lontanissimo, o quasi irraggiungibile.
Come sono tristi queste parole . Dite alla rondine, che vola alla ricerca della primavera, che essa non la raggiungerà mai; la vedrete piegare le ali smarrita, sconfortata. Io non desisto, non mi piego. Chissà che quell’albeggiare lontano non possa raggiungerlo. Chissà!
Il mio spirito è arido come un deserto, i miei occhi ardono come per febbre. E mi pare che ogni tratto qualche cosa si spezzi dentro di me con uno schianto lugubre. Chi, chi potrebbe descrivere ciò che sento? Non posso farlo neppure io. A momenti sento la mia anima allargarsi, spandersi lieta, fiduciosa. E poi, d’un tratto, raggrinzarsi subito, con un dolore acutissimo. Che mi importa del mondo, degli uomini! Io no vedo più nessuno. I miei occhi vedono solo una cosa, un albeggiare lontano. Tutto il resto è tenebra.
La natura che ride mi irrita, poiché stride con i miei pensieri dolorosi, e par quasi mi che sbeffeggi. Vorrei che il cielo fosse tetro, lampeggiante come in questi momenti. Come il naufrago che si vede intorno la desolata vastità del mare e trema della solitudine funesta, e spia l’orizzonte per vedere se una vela amica si mostri. Pure io, smarrito in un’immensità paurosa mi sento solo, dolorosamente solo. Ma non mi lascerò vincere dai flutti. Solcherò il mare con le mie braccia vigorose alla ricerca, marinaio ardito e instancabile.
Fluctuat in porto. Il motto latino mi sprona; e io, come il nocchiero, fisso il faro che lontano lontano rompe la nebbia con il suo fascio di luce. Voglio, voglio! Non vi saranno ostacoli che me lo impediranno, né scogli, né infuriare di libecci. Io sarò forte, io arriverò. Come le carovane arabe si accingono alla traversata del Sahara e guastano l’immensità sabbiosa che dovranno attraversare, con l’ansia di restare per via, e vanno, vanno, vanno, sotto le vampe del sole, fra l’infuriare del simun, assetati, affannati, stanchi, accanto ai gibbosi cammelli che allargano le narici per rubare un po’ di frescura all’aria secca, con la visione fissa e assillante di una snella candida moschea donde il muezzin saluta La Mecca di sera, di una cittadina fresca dove riposare; così pure io vado, vado, vado con una visione unica degli occhi. L’anima geme, le palpebre mi si serrano. Sento un bisogno di pace, di riposo; una lusinga restare così sulla sabbia, svanire, scomparire sotto il sole, ritornare nel nulla.
Verrebbero gli sciacalli e farebbero festino del mio corpo, lasciando solo il mio scheletro biancheggiante, come una muta ironia alla vita. Ma io insorgo, uccido il germe di pace e proseguo. Arriverò, perché voglio. E se non arrivassi, allora il deserto s’impadronirebbe di me.
E’ la nebulosità del deserto che già con le sue brume mi attrista?
E’ un’oscura fatalità che mi minaccia? Io non so quale sia il movente di questa malinconia che su me si abbatte dilettandosi a torturarmi, strappandomi tutto quello che io mi alludo di amare e di credere.
Oh! La gioconda fede dei tempi trascorsi quando lietamente combattevo la buona battaglia per l’Idea; senza timori, senza dubbi! Ora invece tutto mi appare vano; per ogni dove scorgo l’oscurità densa e inscrutabile. Tutto, tutto ho distrutto, e ora sono rimasto solo con i miei pensieri tristi; e dubitando di tutto e di tutti. E sento questa necessità di espandere l’animo mio su questa nuda carta che non ha fremiti all’apprendere la bufera che mi tormenta. Chi leggerà queste righe? Forse nessuno. Resteranno ignote come è ignoto per chi conosco l’affannoso mio pensare.
Ieri sera come al solito stavo leggendo, quando un passo della lettura mi colpì vivamente; e io allora per riflettere cessai dal leggere. Stavo appunto cogitabondo, quando volgendo distrattamente lo sguardo per la camera, davanti mi vidi seduto sul letto. Non ero io. Ma pure ero io, perché era assolutamente come me. Stupito guardavo in silenzio e anch’esso, l’altro io, mi guardava; ma con un certo risolino ironico.
“Chi sei?” gli domandai.
“La tua ombra”, mi rispose. “Sono venuta qui per discutere un po’!”.
“E discutiamo”, dissi, allettato da una così straordinaria avventura.
“Bene, perché sei anarchico?”.
“Ma perché oggigiorno siamo sfruttati, calpestati dai dominatori”.
“Retorica, caro mio, retorica. Senti: tu sei anarchico e non sai neanche perché. Io ho sempre visto questo: che in qualunque società ci sono stati degli innovatori che finirono sul rogo o in croce. Quindi questi innovatori, con tutti i loro sogni e i loro sacrifici, fecero un buco nell’acqua; perché è fatale che qualsiasi rinnovamento immaginato da un individuo accada molto tempo dopo la morte del medesimo. E così accadrà di voialtri anarchici. Voi morrete senza vedere attuato nulla del vostro ideale, e le generazioni che verranno dopo di voi, e che forse vivranno in un regime anarchico, aneleranno un ideale più alto e per questo morranno a loro volta senza nulla ottenere. E’ un circolo vizioso, un eterno rincorrersi…”.
Bruno Filippi