Renzo Novatore
(da «Iconoclasta!», Pistoia, a. I, 2a s., n. 1, 1 gennaio 1920) in memoria di Bruno Filippi
Le persone che desiderano essere
se stesse non sanno mai dove vanno.
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Il risultato ultimo della sapienza
consiste nel riconoscere che
l’anima di un uomo è inconoscibile.
OSCAR WILDE
Senza essere un simulatore di rabbioso “cinismo” papiniano o un superficiale e profumato “voluttuoso” alla Guido Da Verona; senza sentirmi sulle labbra l’ironico scetticismo e la dolorosa amarezza di Mario Mariani, sento ed affermo che la vita non può essere degna di tutto questo nome se non è vissuta da Artisti, da Ribelli e da Eroi!
Schopenhauer ne’ suoi poderosi e paurosi volumi di metafisica, si sofferma a dimostrare che la vita è dolore e che per ciò non meriterebbe la pena di viverla. Ma l’Arte attinge dall’umano dolore i più profondi e lirici palpiti per sublimare la Bellezza eroica che nella divinatoria esaltazione del simbolo trasfigurato dalla gioia creatrice ci insegna la purezza selvaggia che irradia lo spirito amante, che insegna ad amare follemente la vita.
Se la politica, il socialismo, il cristianesimo, la logica, la coerenza, il diritto, il dovere, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, la verità e la giustizia, sono ormai cose noiose, vuote e sonnecchianti, larve impallidite e svanite sotto il sole, antropocentrico dell’unico negatore, parodie di una morente civiltà che ci ispirano nausea, ripugnanza e disprezzo: l’Arte c’insegna il grande amore alla vita. Abbiamo il bisogno di amarla “fino all’annientamento dell’essere”. Il Dolore e lo Strazio sono per l’Arte pure sorgenti di palpitante Bellezza.
È negli abissi sulfurei del Dolore che l’Arte tiene abbarbicate le sue luminose radici per poter lanciare la verdeggiante felicità delle sue fronde su in alto fra il misterioso contrasto dei venti in una danza di Sole e di Luce ove i sogni, la speranza e la Bellezza si fondono in un tragico canto di felicità e di Grandezza.
Sì! Ogni culmine che, bianco di neve, canta polifoniche sinfonie di musica e di poesia, d’amore e di bellezza, su in alto, fra la purezza eterea della luce e le dorate e bionde carezze del Sole, viene pure da un abisso di tenebra.
Così è la Vita!
Il Dolore è il nostro abisso creatore; la Gioia e la Felicità è il nostro sogno possente!
Anche se il Dolore non ci rendesse migliori “io penso – dice Nietzsche – che ci renderebbe più profondi”. E nella misteriosa profondità dell’essere nostro si travaglia e si nasconde l’inconoscibile enigma che, ora per ora, istante per istante, si tramuta da incognita emozione, in cognito pensiero luminoso e splendente che folgoreggia i suoi raggi saettanti sui vergini e purpurei culmini della conoscenza rivelatrice. Ed allora come vaste e scintillanti teorie di stelle vaganti nella tersità di una notte serena, si specchiano nell’azzurrità profonda di un mare tranquillo, così la felicità da noi, e per noi stessi creata, si specchierà sorridente nel mare triste del nostro dolore: di quel nostro dolore che ci ha dato la Vita!
“Noi dobbiamo incessantemente partorire i nostri pensieri dal nostro dolore, e dare a loro materialmente ciò che in noi è di sangue, di cuore, di fuoco, di piacere, di passione, di tormento, di conoscenza, di destino e di fatalità.
“Vita è per noi mutare in luce e fiamma tutto ciò che noi siamo e tutto ciò che ci tocca, senza mai poter altro fare”.
Questo è il cerchio – forse troppo stretto – della Vita, ove noi incessantemente ci dibattiamo senza mai poterne uscire se non attraverso le silenziose vie della Morte! Non è la Morte però che ci mette spavento o terrore! Anzi…
Noi che veniamo verso l’Ignoto dell’eternità ed andiamo verso l’eternità dell’Ignoto, abbiamo imparato a considerare la Morte come un istante qualsiasi della nostra Vita. Ed è questo il nostro più bello, il nostro più sublime mistero! Questa è l’ultima delle conoscenze. L’inconoscibile!
Ed è da questa nostra inconoscibile unicità che si sprigiona la possente voce diabolica delle nostre fameliche brame.
Brame di giovane carne avida di piacere, grido dello spirito anelante a libertà sconfinate, a voli folli dell’anima attraverso l’Ignoto inesplorato e lontano; a urli e a feroci bestemmie del nostro galoppante e vagabondo pensiero cozzante nei muri troppo misteriosi dell’eternità con canti trionfali e dioniasiaci d’una Vita intravista attraverso il delirio di un sogno: di un sogno composto di un Tutto, disperso e vagante in un Nulla. E nel Nulla ci attende la Morte.
Quella Morte è nostra come nostra è la Vita. Quella Morte che amiamo!
Ma non si può scendere nella tomba col cuore gonfio di tristezza e di pianto. Occorre prima avere intensamente vissuto da Artisti, da Ribelli e da Eroi, senza essersi bagnati mai nelle amare acque del pentimento che scorrono nei fiumi cristiani. Il vero peccatore originale e geniale non può morire affogato nei gorghi melmosi d’un più melmoso rimorso, ma bensì avvolto nella rossa fiammata di un più grande peccato. Prima di morire occorre avere consumato fin l’ultima guizzante scintilla del nostro rigoglioso pensiero, aver fatto del mondo una festa e dell’Azione un godimento infinito.
Prima di morire – come dice Emerson – bisogna sentire tutte le cose divenire familiari, tutti gli eventi utili, tutti i giorni santi, tutti gli uomini divini. Poi? “Poi viene la nausea, la ripugnanza, lo schifo”, dice Bruno Filippi, e allora “si osa”, e osando si va, con lo spirito sereno e terso, verso il regno silente della Morte ove l’anima si disperde nell’immensa pace del Nulla e la materia si scompone per vivere negli atomi un’altra forma di vita sconosciuta. Ma anche la Morte deve essere per noi una vigorosa manifestazione di Vita, d’Arte e di Bellezza!
L’Eroe della Vita va verso la Morte accompagnato dalla marcia tragicamente trionfale della dinamite e il capo cinto di fiori.
Sì, chi ha voluto e saputo vivere da Ribelle e da Eroe vuole la libertà d’essere arso in una bella fiammata accesa da un più grande peccato acciò che il preludio della Morte altro non sia che un verso melanconico e dolce baciante una rossa aurora ove risuona la voce d’Orfeo sintesi dei singhiozzi di Prometeo e delle risa bacchiche e scroscianti di Dionisio.
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Io ammiro Corrado Brando con iconoclastico entusiasmo e atea religiosità, anche se il suo creatore non ha saputo morire a tempo ed ha lasciato cadere sulla sua anima ardente la pioggia lunga del tempo che lo ha miracolosamente logorato ed avvizzito; anche se, per crearlo, ha avuto bisogno di ubbriacarsi alle vergini e pericolose sorgenti zarathustriane zampillanti sui misteriosi culmini della gaia e gioconda solitudine nietzschiana; anche se innanzi a Lui fuggono inorriditi i catoncelli stercorarii di quella Taide putrida, di quella Circe odiosa che nomasi Morale. Perché “Corrado Brando non à glorificato il delitto come pretendono i grassi e sottili Beoti, ma son manifeste – con i segni propri dell’arte tragica – l’efficacia e la dignità del delitto concepito come virtù prometea”. Ma mentre ammiro questa vigorosa creatura sbocciata rigogliosamente a traverso il pagano mistero dell’arte omericamente tragica che, simbolo di sublime bellezza eroica, s’innalza sopra il cielo dell’Ombra e della Notte come fatale annuncio d’una splendente aurora di sangue, di fuoco e di luce, vedo staccarsi dalla grigia penombra della realtà «L’Individuo anarchico», “colui che non obbedisce che alla propria legge” per “aprirsi il passo a colpi di bombe” e vivere la propria vita gridando come il Dio della parabola ryneriana: “Io t’amo e liberamente ti voglio o mia NECESSITÀ”. È Bruno Filippi! Lo spirito si è fatto Pensiero, il Pensiero si è fatto carne per ritornare simbolo! Il tragico Eroe dell’azione si è fatto l’artista della vita per tramutarsi in Poeta del fatto, forte ed implacabile come la fatalità del Destino. Anch’Egli, colla sua azione, ha detto come l’Eroe dannunziano: “La prova della mia dignità è nel miracolo invisibile”. E come in Corrado Brando era in Lui l’ebbrezza della volontà accumulata simile alla frenesia dionisiaca. Anch’Egli come il protagonista del Più che l’amore insegna a noi il furore e il turbine, perché è anche in Lui “la tempesta ha sollevato tutte le forze dell’anima ed agitandole le ha sbattute e schiacciate contro un solido muro di granito”. Egli, come tutti i pochi frenetici amanti della Vita, fu un Poeta eroico del fatto che nell’autodistruzione di sé e del suo Male à creato un tragico canto al “trionfo della volontà imperitura” al culto della Gioia eterna e dell’eterna Bellezza.
Egli ha votata tutta la fiamma corrodente e luminosa della sua anima ardente dolorosa e straziata. Egli, Bruno Filippi, nel delirante impeto del proprio annientamento, ha voluto far confessare alla Vita il più intimo e sublime Peccato. Poi si è disciolto nel Nulla rimanendo per noi un Tutto luminoso e vagante che mormorava incessantemente: «Osare, osare!». Ed al grido disperatamente sereno di questa simbolica voce ventenne ci sembra che la pagana terra romanticamente profumata ci sorrida di un lirico ed amoroso sorriso dicendoci: “affrettate il destino e venite a riposare sul mio turgido seno gonfio di germi fecondi”. Bruno Filippi questa voce l’udì poiché era un Poeta. L’udì e le rispose: «O buona terra!… verrò, verrò il gran giorno e tu mi accoglierai fra le braccia, buona terra odorosa, e farai germogliare sul mio capo le timide viole!». Ora che Bruno Filippi ha portato nel sepolcro tutte le rose e i pensieri germinati nel vermiglio giardino dalle sue venti primavere esultanti di forza e giovinezza, di volontà e di mistero, noi diciamo con l’autore del poema eroico: «O Terra, riprendi questo corpo e ricordati che fu potente pe’ tuoi futuri travagli». Poiché rivedo in Lui la “necessità del crimine che grava su l’uomo deliberato di elevarsi fino alla condizione titanica”.
Chi era? Dove andava?
Stolti! E voi dove andaste? E voi dove andate?
Egli si spezzò spezzando le catene che voi nella vostra molteplice qualità di pericolosi dementi vigliaccamente e odiosamente coalizzati ribadiste logicamente e moralmente ai suoi ribelli polsi ventenni per infrangere la sua Unicità, il suo mistero perché era a voi inconoscibile come appunto deve essere l’anima complicata di chi si sente perfetto.
Bruno Filippi odiava. Ma le forze dell’Odio non infransero in Lui le potenze dell’Amore. Egli s’immolò in un amplesso fecondo colla Morte poiché amava follemente la Vita. Di Lui abbiamo il bisogno ed il diritto di dire quello che fu detto del simbolico eroe dannunziano.
«Che gli schiavi della piazza si voltino in su e si ricordino! ».
Renzo Novatore