Christian Ferrer
Il codice insanguinato
Fin dai tempi antichi la forca è stata considerata una pena ignominiosa. Se si medita sulla sua familiarità strutturale con la gogna si comprende perché sia ubicata sullo scalino più alto riservato alla denigrazione di una persona. Ad essa accedevano i bassi strati sociali delinquenziali o refrattari: a chi non piegava le ginocchia gli si piegava la testa con la forza.
Alcuni famosi giustiziati dell’era moderna erano martiri: ogni primo di maggio ricordiamo debolmente Parson, Spies e i loro compagni di patibolo. Però pochi ricordano il nome di James Towle, che nel 1816 fu l’ultimo “distruttore di macchine” al quale venne spezzata la nuca. Egli cadde nel pozzo della forca cantando un inno luddista fino a quando le sue corde vocali vennero strette in un solo nodo. Un corteo funebre di tremila persone intonò al suo posto la fine dell’inno a cappella. Tre anni prima, su quattordici patiboli allineati barcollavano altrettanti accusati di praticare il “luddismo”, denominazione del nuovo crimine appena codificato. In quel tempo esistevano decine di tipi di delitti i cui autori entravano nel regno dei cieli passando per la cruna di una fune. Assassinio, adulterio, furto, blasfemia, dissidenza politica, molti erano gli atti per i quali si poteva perdere il filo della vita. Nel 1830 un bambino di soli nove anni fu impiccato per aver rubato alcuni gessetti colorati, e così fino al 1870, quando un decreto umanitario collocò tutti questi in quattro sole categorie. Le dure leggi che le contemplavano tutte furono conosciute come “The Bloody code”.
Però il luddismo costituì un insolito delitto capitale: dal 1812, maltrattare una macchina in Inghilterra poteva costare la pelle. In realtà pochi ricordano i luddisti, i “ludds”, titolo con il quale si riconoscevano fra di loro. Di tanto in tanto, le immagini di quella sollevazione popolare che divenne famosa grazie alla distruzione delle macchine vengono riprese da tecnocrati neoliberali o da storici progressisti ed esibite come modello esemplare dell’assurdo politico: «rivendicazioni reazionarie», «tappa artigianale della coscienza lavoratrice», «rivolta operaia tessile imbevuta di tinte contadine». Insomma, niente che si avvicini alla verità. Gli uni e gli altri si spartiscono le quote della condanna del movimento luddista, rifiuto che nel primo caso è interessato e nel secondo frutto dell’ignoranza e del pregiudizio.
L’immagine dei luddisti che a casaccio è stata costruita è quella di una tumultuosa orda scimmiesca di pseudocontadini iracondi che colpiscono e schiacciano i fiori di ferro sui quali libano le api del progresso. In breve: il confine dell’ultima ribellione medievale. Di là la paleontologia, di qua un bestiario.
Ned Ludd, fantasma
Tutto cominciò il 12 aprile 1811. Durante la notte, trecentocinquanta uomini, donne e bambini assaltarono una fabbrica di filati del Nottinghamshire distruggendo i grandi telai a colpi di mazza e appiccando il fuoco alle installazioni. Quel che successe, presto sarebbe diventato folklore popolare. La fabbrica apparteneva a William Cartwright, fabbricante di filati di cattiva qualità ma equipaggiato di nuove macchine. La fabbrica era in se stessa un nuovo fungo spuntato in quegli anni nel paesaggio: abitualmente il lavoro veniva eseguito in piccole officine. Altri settanta telai furono distrutti quella stessa notte in altri villaggi dei dintorni. L’incendio e i colpi delle mazze si spostarono quindi verso le contee vicine di Derby, Lancashire e York, cuore dell’Inghilterra del principio del XIX secolo e centro di gravità della rivoluzione industriale. Il rigagnolo sgorgato dal villaggio di Arnold corse incontrollato per il centro dell’Inghilterra per due anni, inseguito da un esercito di diecimila soldati al comando del generale Thomas Maitland. Diecimila soldati? Wellington ne comandava assai meno quando iniziò le sue manovre contro Napoleone dal Portogallo. Più che contro la Francia? Ha senso: la Francia intimidiva con la sua vicinanza; però non era la Francia napoleonica il fantasma che percorreva la corte inglese, bensì quella assemblearia. Solo un quarto di secolo era trascorso dall’anno primo della rivoluzione. Diecimila. Il numero è indicativo di quanto fosse difficile farla finita con i luddisti. Forse perché i membri del movimento si confondevano con la comunità. In due sensi: contavano sull’appoggio della popolazione ed erano la popolazione. Maitland e i suoi soldati cercarono disperatamente Ned Ludd, il loro leader. Ma non lo trovarono. Non avrebbero mai potuto trovarlo, perché Ned Ludd non è mai esistito: era un nome inventato dagli abitanti dei villaggi per depistare Maitland. Altri leader che scrissero lettere di burla, di minaccia o di richiesta si firmavano “Mr. Pistol”, “Lady Ludd”, “Peter Plush” (Peter felpa), “General Justice”, “No King”, “King Ludd” e “Joe Firebrand” (Joe l’incendiario). Da qualche missiva si capiva che il timbro postale era stato impresso nella vicina Foresta di Sherwood. Una mitologia in formazione si sovrapponeva ad un’altra più antica. Gli uomini di Maitland si videro obbligati a ricorrere all’uso di spie, agenti provocatori ed infiltrati, che fino a quel momento costituivano una risorsa inessenziale della logistica utilizzata nei casi di guerra esterna. In questo caso si trattava di una riorganizzazione anticipata di quella forza poliziesca che oggigiorno chiamiamo servizi segreti.
Se gli eventi che riuscirono a tenere con il fiato sospeso il Paese e il parlamento sono stati divorati dall’inceneritore della storia, è proprio perché l’obiettivo dei luddisti non era politico ma sociale e morale: non volevano il potere ma volevano poter deviare la dinamica dell’industrializzazione accelerata. Un’ambizione impossibile. Rimase appena qualche testimonianza: alcune canzoni, atti di processi, informative di autorità militari o di spie, notizie giornalistiche, centomila sterline di perdita, una sessione del parlamento dedicata a loro, poco più. E i fatti: due anni di lotta sociale violenta, mille e cento macchine distrutte, un esercito inviato a “pacificare” le regioni insorte, cinque o sei fabbriche bruciate, quindici luddisti morti, tredici confinati in Australia, altri quattordici impiccati di fronte alle mura del castello di York, e qualche colpo di coda finale.
Perché sappiamo così poco sulle intenzioni dei luddisti e sulla loro organizzazione? È la stessa fantasmagoria di Ned Ludd che lo spiega. Fu una sollevazione senza capi, senza organizzazione centralizzata, senza libri capitali e con un obiettivo chimerico: discutere da pari a pari con i nuovi industriali. Però nessuna sollevazione “spontanea”, nessuno sciopero “selvaggio”, nessuna “esplosione” di violenza popolare nasce dal nulla. Porta con sé anni di incubazione, generazioni che si trasmettono un’eredità di maltrattamenti, popolazioni intere che macerano il sapere della resistenza. A volte interi secoli esplodono in un solo giorno. Il detonatore, generalmente, lo fornisce l’avversario.
Verso il 1810, l’aumento dei prezzi, la perdita di mercati a causa della guerra e un complotto dei nuovi industriali e dei distributori di prodotti tessili di Londra perché non si acquistassero mercanzie nelle officine dei piccoli villaggi tessili, diede fuoco alla miccia. D’altra parte, le riunioni politiche e la libertà di stampa erano state proibite con la scusa della guerra contro Napoleone e la legge proibiva ai tessitori di emigrare, sebbene stessero morendo di fame: l’Inghilterra non doveva consegnare il suo expertise al mondo.
I luddisti inventarono una logistica d’emergenza. Questa comprendeva un sistema di posta umana e di delegati che percorrevano le quattro contee: giuramenti segreti di lealtà, tecniche di camuffamento, sentinelle, organizzatori di furti d’armi negli accampamenti nemici, segnali sulle pareti. E in più emerse l’antica arte di comporre canzoni di guerra, chiamate inni. In una delle poche che sono state trascritte si può ancora ascoltare: «Lei ha un braccio/ e benché ne abbia uno solo/ c’è magia in questo unico braccio/ che ne crocifigge milioni/Distruggiamo il Re Vapore, il Selvaggio Moloc», e in un’altra: «Notte dopo notte, quando tutto è quieto/ e la luna ha già attraversato la collina/ marciamo a compiere la nostra volontà/ con ascia, picca e fucile!». Le mazze che utilizzavano i luddisti provenivano dalla fabbrica Enoch. Per questo cantavano «La Grande Enoch andrà al fronte/ la trattenga chi osa, la trattenga chi può/ Avanti uomini gagliardi/ Con ascia, picca e fucile!». L’immagine della mazza trascenderà la breve epopea luddista. Nell’iconografia anarchica d’inizio secolo, alcuni Ercole sindacalizzati sono sempre sul punto di schiacciare con una gran mazza non più macchine ma il sistema industriale tutto intero. Tutti questi blues della tecnica non devono farci perdere di vista che le autorità non volevano solo schiacciare la sollevazione popolare, ma cercavano anche di impedire l’organizzazione di sette operaie, in un’epoca in cui soltanto gli industriali erano uniti. Carbonari, congiurati, la Mano Negra di Cadice, sindacalisti rivoluzionari: nel secolo passato la forca fu l’orizzonte per molte temerarietà sediziose.
“Fair Play”
Nessuno ricorda più quel che significavano in altri tempi le locuzioni “giusto prezzo” o “salario decoroso”. Allora come adesso, una strategia di ristrutturazione, di accelerazione tecnologica e di spostamento forzato delle popolazioni contorceva il paesaggio. Roma fu costruita in venti secoli, Manchester e Liverpool in soli vent’anni. Più avanti, in Asia e in Africa verranno costituite enclave in un paio di settimane soltanto. Nessuno era preparato ad un simile cambiamento. La mano invisibile del Mercato ha un tatto diverso da quello degli affari pattuiti in mercati visibili e alla buona.
L’introduzione inconsulta di nuovi macchinari, lo sfratto quasi obbligato dai villaggi e la concentrazione in nuove città industriali, l’estensione del principio del lucro indiscriminato e il violento cambiamento delle abitudini di vita furono il brodo di coltura della ribellione. Però il luogo comune non è mai esistito. I luddisti non rinnegavano tutta la tecnologia, ma quella che rappresentava un danno morale comune, e la loro violenza era diretta non contro le macchine in se stesse (ovvio: non rompevano le proprie, abbastanza complesse, macchine) ma contro i simboli della nuova economia politica trionfante (concentrazione in fabbriche urbane, macchinari impossibili da acquistare e da amministrare da parte della comunità). E in ogni modo non inventarono neanche la tecnica che li rese famosi: distruggere le macchine ed attaccare la casa dei padroni erano gesti di una tattica abituale usata da almeno cento anni per imporre un aumento salariale. Molto presto si sarebbe appreso che i nuovi ingranaggi potevano essere afferrati da lavoratori dalle mani inesperte e dalle tasche vuote. La violenza fu attuata contro le macchine, ma il primo sangue corse ad opera dei fabbricanti. Ciò che allarmò veramente dell’attività luddista fu la nuova modalità simbolica della violenza. Così, una conseguenza inevitabile della ribellione fu un’unione più stretta tra i grandi industriali e l’amministrazione statale: un patto che non si romperà.
I luddisti ci pongono ancora alcune domande. Ci sono limiti? È possibile opporsi all’introduzione di macchinari o di processi lavorativi quando questi sono dannosi per la comunità? Sono importanti le conseguenze sociali della violenza tecnica? Esiste uno spazio di ascolto per le opinioni comunitarie? Si possono discutere le nuove tecnologie della “globalizzazione” in base a presupposti morali e non solamente in base a considerazioni statistiche e pianificatrici? L’innovazione e la velocità operativa sono valori? A nessuno può sfuggire l’attualità di questi argomenti. Sono tra noi. Il luddismo percepì intensamente l’inizio dell’era della tecnica, per questo pose il “problema delle macchine”, che è una questione più politica e morale che tecnica. A quel tempo gli industriali e gli squires possidenti accusavano i luddisti del crimine di Giacobinismo, oggi i tecnocrati accusano i critici del sistema industriale di essere nostalgici. Però i Ludds sapevano di non scontrarsi solo con avidi fabbricanti di tessuti ma con la violenza tecnica della fabbrica. Futuro anteriore: pensarono la modernità tecnologica in anticipo.
Epiloghi
Il 27 febbraio 1812 fu un giorno memorabile per la storia del capitalismo, ma anche per la cronaca delle battaglie perdute.
Quello dei poveri violenti è un argomento da parlamento: in genere l’ordine del giorno li contempla unicamente nel caso si legalizzino e si limitino conquiste già conseguite di fatto, o quando si limano alcuni spigoli eccessivi di duri pacchetti rivendicativi, ma molto più comunemente quando si dibatte di misure esemplari da applicare.
Quel giorno Lord Byron entrò nel parlamento per la prima ed ultima volta. Nessuno aveva mai osato entrare nella Camera dei Lords con l’intento di contraddirli, a parte Guy Fawkes, che si diede da fare per farli saltare in aria. Durante la sessione presieduta dal primo ministro Perceval, si discusse l’opportunità di inserire la sanzione per un nuovo reato fino a quel momento mancante nel codice penale, che verrà conosciuta come “Framebreaking bill”: la pena di morte per la distruzione di una macchina. Lords contro Ludds: cento contro uno.
In quel tempo Byron lavorava intensamente al suo poema “Childe Harold”, però si prese del tempo per visitare le zone sediziose e farsi una propria idea della situazione. Il progetto di legge era già stato approvato dalla Camera dei Comuni. Il futuro primo ministro William Lamb (Guglielmo Pecora) votò a favore, non senza consigliare al resto dei suoi pari di fare lo stesso giacché «la paura della morte ha un’influenza poderosa sulla mente umana». Lord Byron provò a fare una difesa ammirevole ma inutile. In un passo del suo discorso, nel punto in cui descriveva i soldati come un esercito di occupazione, parlò dell’ostilità che questi avevano suscitato nella popolazione: «Marce e contromarce! Da Nottingham a Bulwell, da Bulwell a Banford, da Banford a Mansfield! E quando i distaccamenti arrivavano a destinazione, con tutto l’orgoglio, la pompa e la circostanza proprie di una guerra gloriosa, facevano solo in tempo a far da spettatori di quel che era stato fatto, a testimoniare la fuga dei responsabili, a raccogliere frammenti di macchine distrutte e a tornare ai propri accampamenti tra le burla delle vecchie e i fischi dei bambini». E aggiunse una supplica: «Non c’è ancora abbastanza sangue nel vostro codice legale per versarne dell’altro ancora che ascenda al cielo a testimoniare contro di voi? E come si potrà applicare questa legge? Si collocherà una forca in ogni paese e di ogni uomo si farà uno spaventapasseri?». Però nessuno lo appoggiò. Byron decise di pubblicare in un periodico un pericoloso poema nel quale, tra gli ultimi versi, si legge:
«Alcuni pensarono, senza dubbio, che è scioccante
Quando la Fame invoca e la Povertà geme
Che la vita sia valutata ancor meno di una merce
E che rompere un telaio
conduca a rompere le ossa
Se almeno questo mostrasse d’essere, lo spero, un segno
(e chi rifiuterebbe di condividere questa speranza)
Che le carcasse degli sciocchi saranno le prime ad essere rotte.
Di quelli che, quando gli si domanda un rimedio,
Raccomandano una corda».
Forse Lord Byron provava simpatia per i luddisti o forse — dandy da capo a piedi — detestava l’avarizia dei commercianti, però sicuramente non arrivò a rendersi conto che la nuova legge rappresentava, invero, la nascita simbolica del capitalismo. Vivrà il resto della propria vita sul continente. Poco prima di abbandonare l’Inghilterra pubblicherà un poema occasionale nelle cui note di stampa si legge «Down with all the kings but King Ludd» («Abbasso tutti i re tranne Re Ludd»).
Nel gennaio del 1813 venne appeso George Mellor, uno dei pochi capitani luddisti agguantati, e pochi mesi dopo fu il turno di altri quattordici che avevano attaccato la proprietà di Joseph Ratcliffe, potente industriale. Non ci sono precedenti in Inghilterra di tanti ospiti sulla forca in un sol giorno. Anche questo dato è indicativo. Il governo aveva offerto succulente ricompense nei loro paesi d’origine in cambio di qualche informazione incriminante, ma tutti i paesani che si presentarono per la retribuzione diedero informazioni false e usarono il denaro per pagare la difesa degli accusati. Nonostante questo, la possibilità di un giudizio giusto era fuori discussione, malgrado le labili prove contro di loro. I quattordici giustiziati di fronte alle mura di York si incamminarono verso la propria ora suprema intonando un inno religioso (“Behold the Savior of Mankind”). La maggioranza era metodista.
Man mano che la ribellione si estese ai quattro angoli della regione tessile si complicò anche il mosaico dei partecipanti: democratici seguaci di Tom Paine — chiamati “painisti” —, religiosi radicali — alcuni dei quali ereditavano lo spirito delle sette esaltate nel secolo precedente: levellers, ranters, southscottians, eccetera —, i primi organizzatori delle Trade Unions (tra i luddisti catturati non c’erano solo tessitori ma gente di tutti i mestieri), emigranti irlandesi giacobini. Succede sempre: l’internazionalismo è antico e in epoche precedenti lo si conobbe come spartachismo.
Tutti i giorni le città inghiottono migliaia e migliaia di nomi, tutti i giorni nella memoria si slogano le sillabe di innumerevoli cognomi del passato umano. Le loro storie sono state immolate in pozzi oscuri. Ned Ludd, Lord Byron, Cartwright, Perceval, Mellor, Maitland, Ogden, Hoyle, nessun nome deve perdersi. Il generale Maitland fu ben ricompensato per i suoi servigi: gli si concesse il titolo nobiliare di Baronetto e venne nominato Governatore di Malta, quindi Comandante in capo del Mar Mediterraneo e infine Alto commissario per le isole Ioniche. Prima di andarsene definitivamente, trovò ancora il tempo di schiacciare una rivoluzione in Cefalonia. Perceval, il Primo Ministro, venne assassinato da un pazzo ancor prima che fosse arrestato l’ultimo luddista. William Carthwright continuò con la sua lucrativa industria prosperando, e il modello industriale andò in metastasi. Uno dei suoi figli si suicidò niente meno che nel Palazzo di Cristallo durante l’esposizione mondiale dei prodotti industriali del 1851, ma il tuonare dalla sala delle macchine in movimento ammortizzò il rumore dello sparo. Quando alcuni anni dopo i fatti morì una spia locale — un giuda — che era rimasta nelle vicinanze, la sua tomba venne profanata e il corpo esumato venduto ad alcuni studenti di medicina. Alcuni luddisti furono visti vent’anni dopo quando vennero fondate a Londra le prime organizzazioni della classe operaia. Altri che erano stati confinati in terre stravaganti lasciarono qualche traccia in Australia e in Polinesia. Itinerari simili possono essere rintracciati dopo la Comune di Parigi e la Rivoluzione Spagnola. Ma la maggioranza degli abitanti di quelle quattro contee sembra che abbia fatto un patto di anonimato, la riproposizione di quella omertà precedente chiamata “Ned Ludd”: nelle valli nessuno tornò a parlare della propria partecipazione alla rivolta. La lezione era stata dura e la legge della tecnologia lo fu ancor di più. Chissà, di tanto in tanto, in qualche taverna, qualche parola, qualche canzone: frammenti che nessuno raccolse. Furono un aborto della storia. Nessuno apprezza questo tipo di spoglie.
Voci
Perché soffermarsi sulla storia di Ned Ludd e dei distruttori di macchine? I loro atti furiosi sopravvivono vagamente in brevissime note a pie’ di pagina del grande libro autobiografico dell’umanità e la consistenza della loro storia è anonima, molto fragile e quasi assurda, cosa che a volte stimola la curiosità ma più sovente il disinteresse verso ciò che non merita dinastia.
Questo non è un secolo adatto alla riflessione: il borghese del secolo scorso poteva darsi il lusso di svagarsi pigramente con un romanzo d’appendice, ma gli spettatori di questo secolo dispongono appena di un paio d’ore per sfogliare la programmazione televisiva. Viviamo nell’epoca della tachicardia, com’è stata sarcasticamente definita da Martínez Estrada. Ripercorrere la storia contromano tanto da potersi riposare nell’occhio dei suoi cicloni è compito che solo un Orfeo può affrontare. Lui si aprì il passo nel mondo dei morti con melodie che scardinavano serrature perfette. Noi possiamo soltanto farci guidare dalle spettrali fiammate di polvere che si sollevano da vecchi libri: soffi d’agonia tra stracci linguistici. Qualsiasi altra traccia si è già dissolta negli elementi. Ma se gli elementi fossero capaci di articolare un linguaggio, potrebbero restituirci la memoria nascosta di tutto quel che è circolato nel loro “corpo” (per esempio, i remi che hanno lacerato l’aria in ogni tempo, o gli zoccoli che hanno calpestato la terra, e così via). Venuto il suo turno, l’aria ci restituirebbe tutte le voci lanciate dalle gole di tutti gli umani esistiti dall’inizio dei tempi. In verità, sono milioni le parole dette in ogni minuto. Però nessuna si perderebbe, nemmeno quelle dei muti. Tutte rimarrebbero incise nella trasparenza atmosferica, la cui relazione con le capacità uditive umane è ancora da scoprire: è come quando le dita dei bambini scarabocchiano imperiosi graffiti o cuori nervosi sui vetri appannati dal proprio alito. Se si potesse tradurre questo archivio orale nel nostro linguaggio, allora tutte le cose dette tornerebbero in un solo istante a comporre la voce di una runa maggiore della memoria totale della storia. Nel vento sono state disseminate voci spinte di epoca in epoca; e qualunque udito può cogliere il frutto di quel che in altri tempi fu tempesta. Il vento è un così buon conduttore di memorie perché quel che è stato detto era tanto necessario quanto involontario, o anche perché a volte ci si sente più vicini ai morti che ai vivi.
Di tante cose dette, io non voglio né posso smettere di ascoltare quel che Ben, un vecchio luddista, disse ad alcuni storici della Contea di Derby cinquant’anni dopo i fatti: «Mi amareggia molto che la gente d’oggigiorno interpreti male le cose che abbiamo fatto noi, i luddisti». Ma come poteva qualcuno, allora, in piena euforia per il progresso, prestare ascolto alle verità luddiste? Non c’era, e non c’è ancora, attenzione possibile per le profezie degli sconfitti. Il lamento di Ben rappresentò l’ultima parola del movimento luddista, eco a sua volta dei gemiti degli impiccati del 1813. E chissà che io non abbia scritto tutto questo solo per ascoltare meglio Ben. Mi aggrappo all’esile filo della sua voce e mi faccio tirare come farebbe chiunque altro che, come me, percorresse questo labirinto.
[da Diavolo in corpo n. 1, dicembre 1999]