È da poco disponibile l’edizione completa del libro I giorni dell’esilio di Ernest Coeurderoy. Il testo che proponiamo di seguito è l’introduzione alla prima edizione del primo volume, scritta da Alfredo M. Bonanno nel lontano 1977.
Ernest Cœurderoy
I giorni dell’esilio
3 voll., pp. 726, euro 35,00
Per richieste: edizionianarchismo@gmail.com – www.edizionianarchismo.net
Nessun libro, nessuna opera umana segna un punto definitivo a proprio vantaggio nello scontro con la realtà. Quest’ultima è sempre qualche passo in avanti. Un residuo religioso ci spinge a vedere, nelle grandi analisi e nelle grandi esperienze, la nostra “guida”, e a raccogliere e a numerare queste analisi e queste esperienze in brevi elenchi capaci, secondo noi, di indicarci la strada. Ma la realtà non accetta imitazioni bibliche.
Santificare un testo può essere utile per molti motivi, tutti funzionali alla costruzione del potere. Anche se si tratta di un “nuovo” potere, la cosa non sposta. Abbiamo, per anni, giurato su Marx. Cerchiamo di evitare, adesso, di giurare su qualcos’altro.
E a santificare i testi prestano man forte proprio gli esegeti, i prefattori, i ricercatori, i sistematori. «Dio mio! — esclamava Cœurderoy — salvatemi dai facitori di prefazioni». La sorte, fino a questo momento, gliene ha assegnato pochi. Gross e Nettlau furono i primi. Accingendosi a riesumare Jours d’exil, l’uno ne considerava, inquieto, il grande valore letterario ed artistico; l’altro immergeva il tutto nella sua nota erudizione. Era proprio il pericolo intravisto da Cœurderoy: una lunga, estenuante fatica introduttiva, che desse conto di tutti i movimenti, di tutti gli accadimenti, di tutte le faccende private dell’autore, o di tutte le pretese qualità estetiche di un linguaggio e di un’arte considerati come strumenti esterni al proprio contenuto; e ciò finendo per non dar conto di nulla e per consegnare il lettore al brutale contatto col testo, affidandolo alla propria, solitaria, sagacia interpretativa. Una chiusura tra i tempi rivoluzionari della lettura e il testo, e a far stridere il chiavistello di questa serratura a doppia mandata: proprio l’autorità indiscussa dell’erudizione del buon Nettlau.
Venne poi la riesumazione situazionista. I cimiteri sono spesso più movimentati di quanto non si creda. Vaneigem non è certamente Nettlau. Ma, per un altro verso, il suo lavoro introduttivo trova riscontro un’altra volta nelle preoccupazioni di Cœurderoy: al teorico situazionista interessa accreditare le anticipazioni e gli spunti analitici dell’internazionale situazionista, più che la valutazione della realtà rivoluzionaria e del rapporto che intercorre — oggi — tra questa realtà, quale noi la viviamo, e le esperienze registrate più di un secolo fa dall’anarchico Cœurderoy.
Una bella analisi, non c’è dubbio, quella di Vaneigem, ma a senso unico. Un’analisi che, contro il partito e contro l’ortodossia, finisce per ritrovare partito e ortodossia al di là del cerchio stalinista. Non soltanto gli stalinisti possono essere stalinisti. Anche i libertari corrono questo rischio, con in più l’aggravante che, quando vi si trovano invischiati, non se ne accorgono perché hanno l’alibi della libertà a tutti i costi.
Cœurderoy è un anarchico. Solitario nelle sue idee. Non un anarchico da tavolino, un filosofo, sia pure tagliente e consequenziale filo all’estremo, come Stirner. Un anarchico e un rivoluzionario. Ha fatto la rivoluzione del ’48 a Parigi, ha visto il sangue arrossare la Senna e i nuovi giacobini raccogliere l’eredità di Babeuf. Medico, ha visto le miserie e le grandezze dell’uomo, del corpo dell’uomo, nella gioia della vita e sul tavolo dell’obitorio. Cospiratore e agitatore. ha vissuto le meschinità e le piccolezze delle organizzazioni piene di grosse parole, di motti e di bandiere, ma anche di piccole manie di grandezza e di arrivismo. Esiliato, ha vissuto l’inconsistente vita dei movimenti rivoluzionari all’estero, le trame della polizia, i soffocanti controlli, la lotta contro la fame, il desiderio di tornare in patria. Scrittore, ha rivissuto tutte queste esperienze, con magistrale penetrazione, senza pudori, senza nascondere nulla, senza paura di ferire questa o quella persona, questa o quella organizzazione rivoluzionaria. Uomo, solo davanti a se stesso, ha deciso di uccidersi, e lo ha fatto. La logica rivoluzionaria non consente salti indietro.
«Per fare passare la Rivoluzione attraverso questo secolo come un ferro rovente bisogna fare una sola cosa: demolire l’autorità».
Questo concetto è globale, cioè presuppone la distruzione della totalità del potere, una dimensione rivoluzionaria complessiva. Quasi sempre i concetti sviluppati da Cœurderoy, come il lettore vedrà facilmente, non sono concetti strategici, ma concetti che intendono richiamarsi alla totalità rivoluzionaria. La concezione della “rivoluzione” nel senso corrente, cioè nel senso di deperimento e sostituzione di vecchie istituzioni, gli è del tutto estranea. E, ben considerando, è proprio quest’ultima concezione della rivoluzione che può essere legata al tempo, al concetto del “passare del tempo”, al principio strategico della storicizzazione. L’altra concezione, quella globalizzante, non ha, col tempo, che un raccordo sincronico. Fatti lontani nel tempo, divengono presenti, ritornano nella dimensione dell’accadere, perché sono legati a quel permanere che è una delle caratteristiche dello stesso processo temporale. Se la storia del mondo è la storia della lotta delle classi, cioè la storia dello sfruttamento, il senso dell’evolversi storico non può mettere in secondo piano il senso della totalità del mondo e dell’elemento che la caratterizza: il permanere — all’interno delle diverse modificazioni — dello sfruttamento. Quindi, quando il rivoluzionario, in nome della propria organizzazione, sviluppa (giustamente) un’analisi strategica, tiene conto, senza dubbio, di questo nemico che gli sta di fronte, ma è portato a identificarlo nelle sue connotazioni storiche precise, nelle forme che esso prende nel corso del tempo; l’altro elemento, quello globale, se non gli sfugge, gli passa in secondo piano. Invece, il rivoluzionario deve anche pensare il “tutto”, cioè deve valutare gli elementi della permanenza all’interno della modificazione, se non vuole consegnare i propri sforzi nelle mani di coloro che della permanenza dell’autorità fanno lo scopo della propria azione.
Tutto ciò, per Cœurderoy, è notevolmente facilitato. La sua lettura della realtà è quella di un poeta, il suo strumento linguistico, quello di un artista, ma la sua esperienza è quella di un rivoluzionario. La contraddittorietà dello scontro sociale gli si presenta tutta in una volta, abbagliante. Per lui è la categoria essenziale dell’agire, ben al di là della razionalità del conoscere che condiziona e codifica il modello economicista della rivoluzione autoritaria. Ma questo “senso del tutto” non gli viene da una sovrapposizione aritmetica. Un’analisi delle unità che, sommate, compongono la totalità. Il concetto di “elemento” della totalità, e il concetto di “sistema” della totalità o di “totalità sistematica” gli sono estranei. Le sue analisi sono progressivamente dirette a distruggere quest’illusione. L’uomo può imporre un suo predominio sull’evolversi contraddittorio dello scontro di classe, solo a condizione che ammetta la contraddittorietà degli stessi mezzi pratici che gli rendono possibile il predominio. In caso contrario, resterà in balia degli avvenimenti, sognando riforme impossibili, e altrettanto impossibili domini assoluti.
Facciamo un esempio. Tutti ricordano i passi in cui Marx si lancia contro il sottoproletariato, accomunandolo ai ladri e alle prostitute, ed unendo nella stessa condanna questi ultimi a tutti coloro che non fanno parte della “classe operaia”. I motivi di questa condanna sono presto detti. La rivoluzione è possibile — secondo Marx — solo a condizione che si sviluppi una grande classe operaia, capace di abbattere la classe borghese. Ogni ritardo nello sviluppo della classe proletaria è un peso per la rivoluzione. E, in questo modo, i sottoproletari, i disoccupati, i ghettizzati e i criminalizzati, sono visti come un peso controrivoluzionario. È facile comprendere come, su questa strada, si vada diritto verso lo stalinismo e come diventino “pesi per la rivoluzione” tutti coloro che non la pensano come l’autorità in carica. Ma vediamo, al contrario, le affermazioni di Cœurderoy: «Guardati soprattutto, Proletario! di marcare con le stimmate dell’infamia i tuoi fratelli che essi chiamano ladri, assassini, prostitute, rivoluzionari, galeotti, infami. Cessa le tue maledizioni, non li coprire di fango, salva la loro testa dal colpo fatale. Non vedi che il soldato ti approva, il magistrato ti chiama a testimoniare, che l’usuraio ti sorride, che il prete ti batte le mani, che lo sbirro ti eccita? Insensato, insensato! Non sai che prima di abbattere il toro minacciante, il torero fa brillare nell’arena gli ultimi lampi della sua rabbia? E che essi si prendono gioco di te, come si gioca col toro prima d’ammazzarlo? Riabilita i criminali, ti dico, e ti riabiliterai. Non puoi sapere se domani l’insaziabile cupidigia dei ricchi ti costringerà a rubare quel tozzo di pane senza cui moriresti di fame. In verità ti dico: tutti coloro che i potenti condannano sono vittime dell’iniquità dei potenti. Quando un uomo uccide o deruba si può dire a colpo sicuro che la società dirige il suo braccio. Se il proletario non vuole morire di miseria o di fame o diventa cosa di altri, supplizio mille volte peggiore della morte; — o insorge insieme ai suoi fratelli; — o, infine, insorge da solo se gli altri rifiutano di condividere la sua sublime risoluzione. E questa insurrezione, essi la chiamano crimine. E tu, suo fratello, che lo condanni, rispondimi: hai mai visto la morte così da vicino per gettare la pietra contro il povero che sentendo l’orribile stretta, ha spinto il pugnale nel ventre dei ricco che gli impediva di vivere? La società! La società! ecco la criminale, carica d’anni e di omicidi, che bisogna giustiziare senza pietà, senza ritardo».
Il nemico è visto nella società, non perché tutti gli elementi di questa siano parimenti responsabili (banale interclassismo), ma perché essa è il prodotto di quella parte più forte che ha in pugno il dominio. Quando, in futuro, la parte che oggi è più debole, dovesse conquistare il potere ed esercitare in proprio quel dominio che per tanto tempo ha sopportato, non ci sarebbero radicali differenze. La storia avrebbe segnato il passaggio da una contraddizione dello scontro ad un’altra, se si vuole differente dalla prima, anche profondamente differente, ma non ci sarebbe stata l’eliminazione delle contraddizioni e la nascita di una società nuova. Il nemico sarebbe ancora la società, nel suo complesso, perché intimamente essa, pur nel modificare di tante cose, ha lasciato intatto lo spirito contraddittorio per eccellenza: lo spirito del potere e dello sfruttamento.
La sfida filosofica di Stirner, è ribadita da Cœurderoy con la forza dell’esperienza che viene dalle delusioni sofferte sul campo stesso dello scontro rivoluzionario. Questo è uno dei motivi per cui due autori tanto simili hanno avuto una fortuna tanto diversa. Sul “filosofo” Stirner si sono riversate tonnellate di carta, le analisi sono succedute alle analisi, spesso fuorvianti e senza conclusione ma, comunque, ci sono state. Su Cœurderoy: solo il silenzio. «Vi offro questo libro, proletari! ed impongo lo scandalo ai borghesi, questi pezzenti arricchiti da cui sono uscito. Che i rivoluzionari ottusi si lamentino di me: che i loro Giovi mi fulminino; non c’è bisogno d’essere giganti per affrontare la collera degli dèi moderni. Lo so, i partiti si scateneranno contro di me, il silenzio e l’isolamento copriranno la mia anima ardente». Certo, era meno impegnativo vedersela con Stirner, sedendosi comodamente sui resti dell’analisi di Marx, e nascondendo il proprio inquietante interesse con l’alibi della filosofia. Meno comodo occuparsi di Cœurderoy. Stare continuamente a riflettere sulle responsabilità delle “false coscienze”. Specie quando uno se l’è costruita con tanta fatica la propria falsa coscienza, gli sta proprio scomodo che qualcuno gliela scuota, incrinandone l’ottusa fermezza. E nessuno è più fermo e più ottuso di chi ha trovato un partito “rivoluzionario” come porto finale alle proprie inquietudini. Guai ad inseguirlo fin dentro la rada di questo porto: quando non sono ingiurie e calunnie, è il silenzio sprezzante quello che ci si può aspettare. «I miei contemporanei non mi comprenderanno. Non ho la pretesa di allungare la vista ai miopi. I civilizzati non vivono che nel presente, essi sono incompleti. Io non vivo che nell’avvenire e sono anch’io incompleto. Io mi sono impadronito delle grandi linee del contesto sociale; essi non comprendono che dettagli infinitamente piccoli. Noi differiamo e l’umanità non è ancora completata per l’accordo di questi contrasti. Non ci può essere un’intesa tra me e il mio secolo».
Come per Stirner, anche per Cœurderoy si pone il falso problema dell’individualismo. La lettura superficiale di qualche estratto della sua opera può condurre a conclusioni errate. La realtà è una sola: il suo distacco da interessi di parte, interessi che si collocano all’interno di un’arca di partito o di movimento e che rispondono a interpretazioni organizzativo-strategiche. Tutto questo insieme di interessi non è rintracciabile nelle sue riflessioni. Come rivoluzionario, vedendosi elemento di un tutto che si svolge sotto i suoi occhi, di un tutto che si struttura in forma di attacco contro l’autorità, senza bisogno di far ricorso alle tradizionali sistemazioni della scolastica rivoluzionaria, Cœurderoy ingigantisce il proprio essere individuale. Ma lo fa con coscienza delle proprie capacità. «L’orgoglio non mi acceca, ho fiducia in me stesso». E altrove: «La Rivoluzione m’ha dato la febbre; non mi lamento, e non prego nessuno di compiangermi. Ma non posso esigere che tutti abbiano la febbre. Volere che i civilizzati s’appassionino alla rivoluzione sociale è presentare l’acqua ai cani idrofobi». La sua lotta, non dimentichiamolo, è segnata dalle esperienze brutali, dalle delusioni, dalla diretta conoscenza delle meschinerie e delle piccolezze di tanti cosiddetti “grandi uomini”. Per questo, nelle sue pagine, c’è l’umanità del dubbio, accanto alla grandezza della sfida. Quello che in Stirner è la fredda lama del ragionamento, qui è sostituito dal contorto percorso della passione e dell’ansia, del desiderio e della delusione. Per Cœurderoy, cosciente di questi limiti e di questi ostacoli, il compito è molto più difficile che per Stirner. Il filosofo tedesco si traccia un percorso, con fredda determinazione teutonica lo compie fino in fondo, unico il suo libro, unica la sua esperienza intellettuale. Dopo di lui, il diluvio. Lo scrittore francese si porta dietro le proprie esperienze, la propria vita, i propri amori. Non riesce a staccarsi dal suo corpo, con appassionata inquietudine latina vive fino in fondo le relative contraddizioni. Eppure, il filosofo e il poeta s’incontrano nella conclusione logica della propria vita e della propria teoria. Solo quando la vita è veramente vissuta (e non lasciata vivere), solo allora, è, essa stessa, teoria, e la più grande costruzione teorica (del filosofo o del poeta, come del militante rivoluzionario), è la propria vita. Nella frattura tra vita e teoria, emerge sempre il filisteo, anche dietro gli urli e le imprecazioni, le dichiarazioni infiammate e i “distruggiamo il mondo”.
«Non mi abbandonare fiducia in me stesso, prima delle qualità. Nero scoraggiamento, resta sotto i miei piedi. Non voglio più sentire la voce della disperazione. Voglio sapere quello che l’organizzazione umana può sopportare come lavoro, come febbre e come delusione. Avanzerò nel dominio del Pensiero, fino al regno della Follia; saggiando i limiti della Rivolta, fino al Crimine, bevendo il contenuto della coppa di fiele. Soltanto allora potrò dire chi è pazzo o criminale nella Babilonia che crolla».
L’esaltazione dell’io, in Cœurderoy, è un grido disperato. In Stirner, era una deduzione logica da premesse riconosciute sufficientemente salde. L’umanità dell’avventura intellettuale di Stirner è nascosta tra le righe di uno stile filosofico, l’umanità di Cœurderoy esplode poeticamente con ondate successive, sconvolgendo il lettore. Nell’atmosfera dell’Unico ci si può anche abbandonare alla tesi dell’autore, sospendere il proprio giudizio, lasciar fare. Nell’atmosfera degli scritti di Cœurderoy ci si trova coinvolti fin dall’inizio, o si abbandona la lettura o si è obbligati a prender parte, a condividere o respingere le sue idee. La consequenzialità logica è sottoposta al sentimento, il dilacerarsi della volontà predomina sulla nettezza dei risultati, la ragione dogmatica perde colpi davanti all’emergere della ragione del cuore che, da sola, possiede più ragioni di quante la prima non ne arrivi a contenere.
L’individualismo di Cœurderoy è quindi il prodotto di una grande e contraddittoria esperienza. Il laboratorio delle idee, con tutte le cose al suo posto, con gli scaffali pieni delle presenze letterarie del passato, con gli strumenti lucidi della logica in bell’ordine, gli è estraneo. «È nella natura dell’uomo considerarsi il centro del movimento universale e di rapportare tutto a se stesso. La storia, è lui; l’arte, è lui; la poesia, è lui; ogni cosa è in lui; egli è dappertutto. L’egoismo è la salute degli esseri; l’amore di sé regge l’umanità». Ma, poco più avanti scrive: «Le foglie d’autunno coprono la terra d’un mantello di porpora, gli alberi abbandonano la veste e il sangue e allo stesso modo i miei anni s’involano come foglie disseccate: eccomi a contare li giorni. La mia impresa non avanza come vorrei, l’esecuzione segue troppo lentamente le rapide ali del desiderio. Oh! quali angosce soffro quando sento la terra tremare sotto i miei piedi e il tuono percorrere il cielo grondante!».
È la rivoluzione un fatto progressivo? Un fatto di conquiste parziali che si sommano le une alle altre e si sviluppano nel tempo? Anche, la rivoluzione è anche questo. Ma non è soltanto questo. La Francia, dopo la più grande delle rivoluzioni ha saputo tornare altre volte sulle barricate. Cœurderoy ha vissuto le giornate del ’48. Per lui quelle furono l’ultimo grido della rivoluzione giacobina. Dopo quel sussulto, nessuna altra illusione è più possibile, la prossima rivoluzione o sarà quella sociale o non sarà affatto una rivoluzione; o sarà la rivoluzione dei cosacchi che distruggeranno questa civiltà, o sarà un altro inutile bagno di sangue. «[Il 1848] non fu una sommossa di bottegai, ma una rivolta di angeli ribelli che poi non si risollevarono più. Tutto ciò che il proletariato di Parigi racchiudeva d’energia invincibile e sublime poesia cadde in quei giorni nefasti, soffocato dalla reazione borghese, come il frumento dall’erba sterile».
Gli spiriti candidi, come il buon Nettlau, possono uscire impauriti dalla lettura di Cœurderoy, e cercare disperatamente di salvare il salvabile, in quanto, nella loro ingenuità, pensano che la tesi famigerata dei “cosacchi”, sia da valutarsi come tesi del “tanto peggio tanto meglio”. Nell’Introduzione al secondo volume dell’edizione Stock, Nettlau non sa a che santo votarsi per trovare una via di uscita. «Questa idea è stata evidentemente ispirata a Cœurderoy dall’attitudine della stampa reazionaria di Parigi che, all’epoca della repressione della rivoluzione ungherese da parte della Russia, faceva continuamente appello allo zar Nicola, in cui vedeva il salvatore dell’ordine. Alle notizie d’invasione che si avevano nell’aria, Cœurderoy applica il suo metodo traditore dell’analogia, e, paragonando la civiltà romana della decadenza a quella del suo tempo, il cristianesimo al socialismo, i barbari Germani di allora agli Slavi di oggi, conclude che, come allora, anche ai nostri giorni il progresso dell’umanità sarebbe possibile solo con una generale distruzione, come quella che mise fine all’Impero romano. Ecco quindi questa famosa teoria dei Cosacchi di Cœurderoy, teoria che ha tanto contribuito a farlo considerare come un semplice eccentrico e a non farlo prendere sul serio». O santa ingenuità. Era proprio questo genere di pericoli che lo stesso Cœurderoy preannunciava quando scriveva: «Dio mio, salvatemi dai facitori di prefazioni».
In realtà tutto il suo sforzo è diretto a separare due concezioni, contrarie l’una all’altra e nonostante tutto complementari, della rivoluzione. La prima si avvolge nell’illusione del quantitativo. La crescita numerica degli adepti è il suo scopo immediato, tutti gli sforzi che essa compie sono diretti a far propaganda (in tutti i modi) per aritmetizzare la gente. La seconda, pur tenendo conto dell’importanza del numero nelle faccende militari dello scontro, insiste nell’affermazione che la rivoluzione sociale è questione più ampia e complicata di una semplice crescita quantitativa e che, spesso, questa crescita non corrisponde col realizzarsi delle condizioni rivoluzionarie ma, per quanto strano possa apparire, ne costituisce un peso e un ostacolo.
I rivoluzionari del primo tipo sono quelli autoritari, ma, e qui risiede la cosa più pericolosa, comprendono anche quei libertari che si lasciano intrappolare dal metodo politico. Per i partiti cosiddetti rivoluzionari la cosa è legittima. Per gli anarchici e i libertari è assurda. La dimensione di lotta di questi ultimi è quella sociale, la rivoluzione che devono poter realizzare è quella sociale, il movimento rivoluzionario di cui preoccuparsi è il movimento che nasce dagli sfruttati e non si trova imprigionato né all’interno di una sigla, né all’interno di una espressione geografica. È il concetto di ciò che Bakunin chiamava: “il movimento anarchico delle popolazioni”. Ed è anche la negazione dei partiti e di ogni altra organizzazione quantificante. È anche la negazione del metodo politico.
Spesso i compagni si preoccupano che una data azione non procuri una “crescita” politica nelle masse, non abbia come conseguenza la politicizzazione di strati di sfruttati che — più o meno a ragione — essi considerano disponibili per la rivoluzione. Le esperienze più recenti [1981], particolarmente in Italia, ci hanno insegnato, tra l’altro, come non sia possibile fissare un rapporto specifico, determinabile a priori, tra un’azione rivoluzionaria, programmata e realizzata dalla minoranza, e le conseguenze “politiche” che questa azione sviluppa nella massa degli sfruttati. Si è andato dietro, per anni, ad un modello di lavoro politico, mutuato dagli stalinisti, insistendo nel tentativo d’imporre alla massa il portato analitico e pratico di una minoranza, attraverso comunicazioni di vario tipo (presenze fisiche ed elaborazioni letterarie). Per accorgersi dell’errore si è impiegato quasi un decennio. Ma, siccome si usciva da un periodo di quasi pace sociale, è più che giustificato che si facessero quelle esperienze. Meno giustificato è che si ritorni, oggi, ad insistere sugli stessi errori del passato, non vedendo, o facendo finta di non vedere, dove risiedono le cause di quegli errori.
Il nostro progetto rivoluzionario è quello sociale, esso considera lo stato attuale della politicizzazione degli sfruttati come uno degli elementi per l’intervento nella realtà delle lotte, uno degli elementi che condizionano la strategia nel suo globale disporsi, ma che non costituisce lo scopo esclusivo dell’intervento stesso. È ovvio che una data situazione di politicizzazione rende possibile un certo intervento, o, almeno, rende possibile un intervento all’interno di una parte degli sfruttati anziché di un’altra. Ma nulla di più.
Nel senso contrario, mettendo da parte il mero calcolo aritmetico, non è possibile in nessun modo valutare le conseguenze politiche di un’azione. Si tratterebbe di reggere la coda alle masse, non di svolgere quella funzione di stimolo che gli anarchici hanno come compito primario, e di svolgerla all’interno delle masse. Si possono valutare, invece, le conseguenze sociali e rivoluzionarie dell’azione, andando anche al di là di quella che è, oggettivamente parlando, la situazione politica in cui le masse si trovano. In caso contrario, che senso avrebbe il tanto parlare che si fa d’iniziativa rivoluzionaria come compito storico degli anarchici?
«Lavoro come il seminatore, secondo il tempo e il cielo. Quando c’è il sole canto, e quando piove grido… Siate meno violento! mi cantano nell’orecchio destro le persone come si deve, vi troveremo un editore. — Siate più francese e più democratico! mi soffiano nell’orecchio sinistro le persone un po’ meno come si deve, la nostra approvazione l’avete di già. — Lasciate da parte la filosofia, la forma biblica, magica, fate della buona polemica, un libretto terra terra; ammucchiate, bruciate, distruggete tutto; restituiteci Marat e Camille! mi urlano a bocca aperta persone come non si deve, e potete contare sul nostro appoggio». Gli allettamenti sono diversi. Ogni tendenza del quantitativo ha le sue necessità propagandistiche e sollecita le analisi. Ogni rivoluzionario che coglie la giusta importanza della teoria, si preoccupa di trarre i dovuti insegnamenti dalla realtà dello scontro di classe. Questi insegnamenti, però, possono essere utilizzati nei due modi sopra descritti. Da una parte, per spingere all’incremento delle forze rivoluzionarie dirette alla conquista del potere; dall’altra, per rendere intelligibile la composizione del fronte di classe, allo scopo di lavorare nel senso della rivoluzione sociale. Ora, questa tendenza, se vuole essere liberatoria definitivamente, e non vuole illudersi con la sostituzione di un potere vecchio con uno nuovo, deve partire dall’autorganizzazione delle lotte degli sfruttati. Questa autorganizzazione è di già in atto, e costituisce, da sola, la proposta teorica più interessante che questi ultimi anni di lotte ci hanno fornito. Spetta alla minoranza rivoluzionaria anarchica non tentare — ancora una volta — di imporre a questo processo di strutturazione autorganizzato, forme organizzative che gli sono estranee.
Le esperienze del passato, specie se drammatiche come quelle vissute da Cœurderoy, debbono servire da insegnamento in questo senso.
Smettiamola con le inutili discussioni sull’individualismo e sulla sua contrapposizione agli organizzatori anarchici. Una tesi del genere non è solo superata dai tempi, ma è contraria allo sviluppo delle lotte. Non sarà certo il nuovo “partito” anarchico quello che risolverà i problemi della rivoluzione sociale, ma gli sfruttati autorganizzati, con la presenza degli anarchici, in quanto portatori, in senso specifico, delle più chiare tesi concrete intorno ai mezzi e alle possibilità dell’autorganizzazione. Questa presenza anarchica potrà essere fattiva solo a condizione che non pretenda imporre, dall’esterno, un modello preordinato di interpretazione della realtà, modello che, in quanto tale, solo per definizione verbale potrà dirsi libertario.
Spezzando il cerchio magico della rivoluzione giacobina ed autoritaria, si ridà vita alle capacità autorganizzative degli sfruttati, si abbattono i miti della religiosità del lavoro, della insopprimibilità della guida, della moralità della sofferenza, della temporaneità del dominio. Il compromesso cade. Davanti allo sfruttato si delinea il meccanismo sfruttatore in tutta la sua allucinante rarefazione. «No, il destino dell’uomo sulla terra non è quello della bestia che conduce al lavoro. E i filantropi che gli mostrano all’orizzonte corpi dimagriti, anime disperate, patiboli e torture, apostoli del Dovere e del Sacrificio, non riescono nemmeno a farsi sentire dai più semplici. La Felicità è lo scopo verso il quale tutti gli esseri si dirigono, quando ascoltano la grande voce della natura». Se il lavoro è il punto di partenza per la distinzione di classe, e non poteva essere diversamente per Cœurderoy, che aveva davanti la realtà della borghesia francese nel rigoglìo del proprio sviluppo, non è visto come lo scopo supremo dell’uomo. Onore al lavoratore, condanna per il dissipatore fannullone, che viene giustamente identificato con il borghese che ingrassa sulle spalle del produttore. Ma la vita, al di là del lavoro, la vita che una nuova società dovrà pure schiudere, la vita liberata, per cui lottiamo e per cui i nostri fratelli sono morti sulle barricate, non potrà mai essere regolata dall’orologio del tempo, dal meccanismo della fabbrica, dal levare e dal tramontare del sole sui campi che richiedono il sudore del contadino. La vita deve essere anche Felicità. «Affermo sulla mia anima, il Suicidio decimerà gli uomini fin quando non avranno trovato la via che conduce alla Felicità». E altrove, approfondendo meglio: «Vi sarà sempre dolore nell’umanità, ne convengo. Ma non sarà più imposto da una classe sull’altra. Questo dolore colpevole, vero peccato originale, scomparirà grazie alla scienza della giustizia e dell’armonia, perché esso viene dall’ignoranza, dalla discordia e dalle iniquità».
È l’alternativa problematica che esperienze recenti, dolorose e intime, hanno aperto davanti a molti compagni. È legittimo il sacrificio di tutto, anche di se stessi, per il proprio ideale? Oppure questo sacrificio, così visto, non è altro che la rimozione psicologica di un ostacolo reale che altrimenti non si riesce a spostare, cioè l’ostacolo dello scontro di classe che, almeno fino a questo momento, vede vincenti gli sfruttatori? La domanda non è trascurabile. La storia ha registrato spesso ondate successive di entusiasmi rivoluzionari e di riflussi. Cœurderoy vive il riflusso che succedette all’entusiasmo del 1848, e lo vive fino in fondo, fino al suicidio. Lo vive ponendosi questa straziante domanda: è legittimo il sacrificio di se stessi? È legittimo spingere l’azione tanto al di là del livello reale dello scontro di classe, anche se si è soli, fino al punto in cui si è costretti a concludere la sfida a livello personale, nella sola conclusione possibile, cioè quella del suicidio?
È chiaro che tutte queste domande intendono aprire la riflessione su di un argomento e non suggerire risposte obbligate, in un senso o nell’altro. Al momento presente dello scontro, sarebbe troppo facile fornire risposte di repertorio, che sarebbero anche giuste, ma che non aiuterebbero per nulla a uscire dal dilemma: vale o non vale la pena di vivere la vita? Il rivoluzionario cosciente, che lotta per la liberazione, il rivoluzionario anarchico, non grida mai “viva la morte”. Egli sa benissimo che il primo valore è la vita, la vita per tutti, ed anche per se stesso, la vita veramente vissuta; e sa pure che la lotta viene condotta per viverla questa vita, e per abolire quei simulacri di vita che non sono altro che morte.«E l’Uomo libero, Dio del futuro sarà bello, robusto, intelligente, buono e felice. Non avrà più interesse a fare il male, più pregiudizi, più terrori paralizzanti; svilupperà, nella loro pienezza, le facoltà e le sublimi passioni, ragionerà con l’attività della sua forza e con l’apertura del suo genio sulla natura vinta. E privo del sostegno celeste, il nero edificio della schiavitù cadrà. E della sua caduta risuonerà l’Inferno».
Ma, per il momento, la lotta al coltello continua. Il potere è sicuro sulle proprie basi, i padroni ingrassano, gli sfruttati sopportano il peso della repressione. La lotta, in queste condizioni, è una lotta terribile, che trascina con sé la violenza, l’unico strumento con cui si può cercare di frenare lo strapotere della repressione. Di già l’uso stesso della violenza è qualcosa che il rivoluzionario compie a malincuore. In fondo, a nessuno di noi piace che si sia costretti a sparare sui criminali togati, sui giornalisti al servizio dei padroni, sui padroni stessi e che si sia costretti ad attaccare e distruggere quelle ricchezze prodotte dai lavoratori che, sotto altra veste, potrebbero essere distribuite a questi ultimi. È chiaro che tutto questo comporta un senso di amarezza. Da ciò, da questo sentimento iniziale, alla necessità che sentiamo urgere dentro di noi, di trasferire sugli altri questa nostra insoddisfazione, il passo è breve. Diventiamo, allora, inflessibili con noi stessi e con gli altri nostri compagni. Accomuniamo, nella stessa legge della colpa e della condanna, sfruttati e sfruttatori. Insistiamo perché le nostre organizzazioni, delegate a porre in pratica la giustizia proletaria, si fortifichino militarmente per essere in grado di realizzare gli scopi cui sono dirette. Perdiamo di vista i pericoli di tutto ciò, le conseguenze che solo incautamente consideriamo marginali. Ci trasformiamo, a poco a poco, in automi, schiacciamo la nostra umanità, la nostra problematicità, ci facciamo forza, spegniamo dentro di noi il disgusto. Quanto prima facciamo ciò, tanto più bravi ci consideriamo. Tanto prima i nostri compagni fanno lo stesso, tanto più bravi ed efficienti li consideriamo. Tutto ciò ha troppo l’odore del cimitero. «Niente è più pericoloso dell’astuzia sistematica. Nella rivoluzione, i più abili diplomatici ricevono lezione dagli operai; in duello i migliori tiratori si fanno uccidere dai principianti. Non acuminate la lama del pugnale, non allevate lupi, non accarezzate aspidi, non mettete la mano sul fuoco, non giocate alla polizia con le spie».
Il gioco alterno della vendetta e della guida è un gioco pericoloso. La vendetta è una strada diritta, facile a percorrersi: ha un solo difetto, alla fine della strada troviamo sempre un’indicazione obbligatoria: il vendicatore si è trasformato in nuovo tiranno. Adesso pretende essere ripagato per i sacrifici sostenuti e per i risultati raggiunti. Non ammette discussioni. Quando la nostra vita costa poco, non c’importa poi tanto se alla fine della corsa radiosa e vendicatrice troviamo l’ostacolo del vendicatore trasformatosi in guida permanente. Nella vacuità imposta dalle leggi del capitalismo, ci siamo abituati a vivere giorno per giorno, quindi siamo già contenti della corsa, i risultati finali passano in secondo piano. Ma non possiamo andare avanti così. La logica ferrea della rivoluzione finisce per trasformarci in automi, rivoluzionari ma sempre automi. La fuga dall’alienazione si conclude nel regno di una nuova alienazione. «Quando il presente è secco e vuoto come l’involucro d’una nocciola divorato dall’insetto perforante, dove abiterò? Quando trovo nel passato solo ricordi dolorosi, quando l’avvenire mi appare come il velo della notte, mi rassegnerò a non scoprirlo mai sotto un altro punto di vista? No. Perché se resto così ho la certezza d’essere infelice, inutile, un peso per me stesso e per gli altri. Perché il male distruggerà le mie facoltà. Languirò, morirò tutti i giorni senza mai essere morto».
L’inutilità dell’esistenza impostaci dal capitale alimenta le legioni della vendetta, altrettanto e forse più della penuria e della miseria. Come regolarsi? Non è possibile denunciare a chiare lettere l’equivoco che si nasconde dietro la vendetta, l’unilateralità di questo sentimento, i pericoli della fredda razionalità che lo anima. Non è possibile denunciare questo perché le masse oppresse avvertendo lo stimolo, la necessità imperiosa di vendicarsi non accetterebbero dubbi in merito; considererebbero come controrivoluzionari tutti coloro che portassero in piazza questi dubbi. I residui religiosi che permangono fra gli sfruttati rendono possibile la strumentalizzazione del sentimento della vendetta da parte di ogni demagogo di bassa lega. Gli autoritari e le loro teorie non avrebbero spazio alcuno senza questo residuo religioso. Non importa precisare che l’origine di questo sentimento di vendetta è da ricercarsi nello sfruttamento stesso e che, quindi, risulterebbe legittimato. Non è la vendetta, presa in sé, quella che ci preoccupa, non è l’uccisione dei padroni e degli sbirri di ogni colore che ci impensierisce. Che muoiano una buona volta, che paghino pure il prezzo dei loro crimini; quello che ci preoccupa è la strumentabilità di questo sentimento, e la difficoltà oggettiva di denunciarne i pericoli senza correre il rischio di essere mal compresi.
La rivoluzione razionale, quella dei dare e degli avere, quella dell’aritmetica, è condannata preventivamente al fallimento. I contabili, dopo aver contato i cadaveri, passeranno a contare le proprietà e le ricchezze; e chi è delegato all’amministrazione (di cadaveri o di ricchezze) sa come fare aumentare, a proprio profitto, gli uni e le altre. Il fanatismo e la malvagità, ignari l’uno dell’altra, confinano pacificamente. Come sarà possibile costruire la società del futuro, libera e giusta, se i nostri attacchi contro la situazione presente, contro i responsabili dello sfruttamento attuale, sono condotti in nome di una religiosità ottusa che ci impedisce di vedere i limiti e le oggettive possibilità degli stessi attacchi, facendoci ingigantire, davanti ai nostri occhi, i risultati e gli sbocchi di questi ultimi? Autoingannandoci non risolviamo nulla. I comunicati che rivendicano le nostre azioni sembrano bollettini di guerra, hanno il sapore delle sentenze dei tribunali. Quando mettiamo fine alla vita di una carogna di padrone, di sbirro, di giudice o di politico, ci sentiamo investiti della carica di carnefice e di boia. Chissà che non ci scorra nella schiena l’abietto brivido che deve pur sentire il massacratore autorizzato dal governo. Questo mi chiedo. Quando giustiziamo una di queste carogne, siamo personalmente e direttamente convinti di quello che facciamo, oppure rimuoviamo sul mito dell’organizzazione il nostro gesto, oppure lo addebitiamo, nel suo insieme, alla “rivoluzione”, facendo carico a quest’essere astratto le responsabilità della nostra decisione? E, agendo in questo modo, non facciamo la stessa cosa — sebbene per opposti motivi — di quella che fa il carnefice quando si ritiene autorizzato ad uccidere il condannato a morte per il semplice fatto che un giudice imbecille ha dato l’ordine?
Se la rivoluzione è questa, siamo davanti ad un equivoco. La razionalità risiede soltanto nell’organizzazione, nella religiosità residua degli atteggiamenti della massa, nella delega della mia vita. No. Questa non è altro che fantasia religiosa, trasformata in pseudorazionalità. Non ci accorgiamo che, in questo modo, mimiamo gli atteggiamenti del potere, i suoi tribunali, le sue dichiarazioni di guerra, i suoi proclami, le sue esecuzioni, la sua religiosità, la sua razionalità. Allora occorre battersi per una rivoluzione illogica.
Occorre spiegare, chiarire, fare ogni sforzo possibile perché cadano tutti gli equivoci. Occorre parlare ed agire in modo chiaro. Occorre che gli sfruttati comprendano che il lungo patire, i morti sulle strade e sul posto del lavoro, la secolare violenza esercitata dai padroni, la schiavitù delle fabbriche e delle campagne, e, per ultimo, il terrore della criminalizzazione, dei ghetti, della disoccupazione, della fame; tutto ciò costituisce il fondamento morale, l’autorizzazione ad ereditare il mondo. I borghesi hanno perduto ogni possibilità di sopravvivere in quanto tali. La società si sta modificando. Ma bisogna fare di tutto perché i loro princìpi — ultimo veleno — non penetrino nella nuova società, ultima freccia del parto.
La nostra non è, quindi, una vendetta ma un atto di giustizia. Non un atto tipico della giustizia dei padroni, che è sempre vendetta, ma un atto di giustizia proletaria. Le carogne che cadono sotto il fuoco proletario, il poliziotto, il giudice, il giornalista, il politico, non cadono perché devono “pagare” per quello che hanno fatto, non cadono perché le abbiamo registrate nel libro della contabilità dalla parte dei debiti. Esse cadono perché costituiscono oggettivamente un ostacolo sulla strada verso la liberazione definitiva. Quando facciamo fuoco su di loro, quando attacchiamo le fonti della ricchezza borghese, non intendiamo dare corpo agli istinti religiosi residui nella massa. A questo ci pensa l’alimentazione del carisma che viene portata avanti dal partito comunista. Noi vogliamo solo fare un passo avanti verso la liberazione. In questo modo, quando realizziamo un’azione del genere, quando partecipiamo ad un’azione di massa di tipo insurrezionale (ad esempio, un esproprio proletario), non intendiamo “vendicare” nessuno. È una strana teoria ed un ancor più strano modo di fare, quello di mettere in prima fila i nomi dei compagni caduti. Come se i proletari avessero bisogno di giustificare con la presenza dei propri martiri l’azione che compiono. I compagni caduti sono nei nostri cuori, ci indicano una strada, ma non possiamo registrarli nella contabilità dalla parte delle entrate, non costituiscono un nostro credito, spendibile quando vogliamo. Noi dobbiamo rifiutarci di utilizzare i nostri caduti per sollecitare gli istinti religiosi nella massa. Anche se questa può sembrare la strada più breve e più semplice, la strada più efficace per spingere gli sfruttati alla rivolta, è una strada che conduce diritto al pericolo della guida e del carisma. Non è necessario tener presente i nostri morti quando spariamo sul poliziotto, sul giudice, sull’uomo politico. Se spariamo è perché vogliamo andare avanti, perché vogliamo liberare la società del futuro dai lacci che la imprigionano in un presente pieno di equivoci e di confusione.
Ciò vale anche per noi stessi. Anche per le decisioni che prendiamo riguardo quello che vogliamo fare di noi stessi, di come vogliamo disporre della nostra persona. Il potere ci offre continuamente un modello di utilizzo di noi stessi. Nel momento che lo rifiutiamo, superiamo una soglia che ci porta all’interno di una dimensione diversa. Dobbiamo sapere, con chiarezza, perché siamo entrati in questa nuova dimensione, che non è la dimensione di tutti, che non è la stessa di chi passa la sera davanti al televisore, segue appassionatamente le cronache dello sport e si sbalordisce per l’aumento della violenza sperando in cuor suo che lo Stato riesca presto a mettere tutti in prigione questi sovvertitori dell’ordine, prima che qualcuno arrivi a bussare alla sua porta disturbandolo mentre guarda il televisore. Perché abbiamo fatto questo passo? Perché dovevamo vendicare qualcuno? Perché gli operai muoiono nelle fabbriche e i padroni ci guadagnano sopra? Anche per questo, ma non solo per questo: non stavamo bene in quell’altra dimensione, perché ci va bene così; allora, cerchiamo di fare chiarezza e di non strumentalizzare un elemento che, se fa parte del problema, non è l’elemento più importante, anche se è uno dei più chiari. Abituiamoci alla chiarezza. Non cerchiamo la strada del minimo sforzo. I risultati immediati e appariscenti non sempre sono quelli più duraturi.
Ora, se siamo noi i responsabili di noi stessi, se le decisioni che abbiamo prese e che prenderemo, le dobbiamo riportare solo alla nostra coscienza di rivoluzionari, perché dovremmo far carico all’organizzazione di alcune nostre azioni? Perché quando decidiamo di vivere diversamente siamo noi che decidiamo e quando premiamo il grilletto del fucile per uccidere una carogna di sfruttatore, è l’organizzazione che ci dice di premerlo? Forse perché l’organizzazione ha sempre ragione, o, almeno, più ragione del singolo? No, la cosa non è convincente.
«Mi sono impegnato su di una strada sapendo bene dove mi condurrà; ma mi sono detto: trascinare la mia vita nell’oziosità dell’esilio è come morire ogni giorno ancora più dolorosamente, e con meno coraggio. Pertanto, marcerò senza paura. Fino alle officine dove l’uomo soffre, fino alle bicocche dove la vergine si prostituisce, fino agli orfanotrofi dove si martirizzano i poveri bambini… andrò. E perseguiterò i governi nel loro prestigio, i partiti nella loro ipocrisia, i privilegi nel loro furto, i giudici e i carnefici nel loro crimine legale, la famiglia nella sua prostituzione, le nazioni nel loro isolamento, gli uomini nel loro servilismo. Fin quando la mia voce potrà essere sentita, oserò; fin quando la mia energia vivrà, oserò; fin quando dureranno le mie forze, oserò sempre».
Il dramma è proprio qui. Quando vado avanti, spinto dalla mia decisione, tutto va bene, sono io che decido e sono cosciente di decidere. Quando sorgono gli ostacoli, quando sono costretto a combattere contro la violenza e il terrorismo dello Stato con le armi della violenza, cosa che ripugna a tutti perché uccidere è cosa ripugnante, allora ho bisogno di un sostegno più ampio alla mia decisione, e mi faccio scudo con l’organizzazione, con la religiosità, con la vendetta, con il mito. Quando prendo la suprema decisione nei confronti di me stesso, agisco perché sono io a decidere, ma ho bisogno di un alibi, anche davanti a me stesso, oltre che davanti agli altri. Il mio sacrificio non può apparire solo come frutto della mia decisione, occorre che venga considerato come un fatto di cui tutti gli altri sono responsabili. Non mi basta che per me sia un passo avanti verso la liberazione, mi occorre anche che lo sia per gli altri, per l’organizzazione, per l’opinione corrente, almeno all’interno della dimensione nuova in cui mi sono venuto a trovare. Quando dispongo di me stesso non lo faccio perché voglio realizzare una vendetta, anche se a riconoscere fondata questa vendetta siano centomila o cento milioni di compagni. Lo faccio perché ritengo di fare avanzare la lotta per la liberazione, non solo di tutti, ma anche mia. È anche la mia lotta, per liberare me stesso, quella che deve fare un passo avanti. Non posso sacrificarmi per liberare gli altri se questo sacrificio non è, per me, una liberazione da uno stato di sofferenza che era ben peggiore del sacrificio stesso. «Per distogliermi dal suicidio non ditemi che devo compiere una missione, quella di vivere, e che devo farlo fino in fondo. Perché avere un carico simile vuol dire essere condannato, obbligato, schiavo. Perché faccio solo quello che mi piace, salvo forza maggiore; e ho, almeno, per consolazione in questa vita, la certezza di potermene sbarazzare quando lo giudicherò utile. Per altro vi domando: chi avrebbe avuto la missione d’impormi questa missione? A chi devo riconoscerne il diritto? Quando e come?».
Ma non bisogna pensare che quando cerchiamo di fondare il nostro atteggiamento sulla religiosità residua degli sfruttati, quando agitiamo davanti a loro il drappo rosso della vendetta, quando saliamo sul podio per fare i nostri infuocati discorsi, capaci di smuovere le masse; non bisogna pensare che lo facciamo solo perché siamo agitatori di professione, perché abbiamo bisogno di contare e di valutare la crescita quantitativa di coloro che ritengono necessario e improrogabile battersi per distruggere il dominio degli sfruttatori. Questo è, senza dubbio, uno dei motivi. Ma ce n’è un altro, non meno importante. Noi abbiamo bisogno di fondare sugli altri la nostra opinione, abbiamo la necessità di non sentirci soli. Anche se abbiamo deciso di entrare in una dimensione diversa da quella imposta dal potere, abbiamo bisogno che in questa dimensione vi si trovino altri compagni. La presenza dei compagni ci è indispensabile, ci rende più forti, più convinti, più saldi nelle nostre decisioni. Quale altro motivo avrebbero le riunioni periodiche, i convegni, i congressi, i dibattiti pubblici, se non quello di vedersi, di parlare insieme, di “stare insieme”? Il motivo di discutere le tesi teoriche e di prendere decisioni è, spesso, decisamente secondario, davanti al motivo principale di sentirsi uniti e insieme.
E quando con noi ci sono anche le masse, la forza che questa moltitudine ci infonde è veramente incredibile. Quante concessioni non siamo disposti a fare pur di sentircela accanto, oppure pur di sentirci all’interno della massa, partecipi di un movimento unitario di azione, di una forza collettiva in movimento verso un obiettivo che confusamente identifichiamo come liberatorio. Spesso queste concessioni sono gravi, ma non ce ne accorgiamo, vi passiamo sopra, attirati dal calore umano, dal momento collettivo, dalla forza delle grandi manifestazioni di massa, dalla speranza che si verifichi un subitaneo salto qualitativo, una colossale presa collettiva di coscienza di classe. Ma quelle concessioni pesano, diventano catene, causano gravi conseguenze. Lo abbiamo visto in Spagna, potremmo vederlo un’altra volta a breve scadenza. Non ce ne curiamo. Siamo anche pronti a dare una piccola spinta in avanti alla religiosità residua delle masse, a sopportare l’emersione di piccoli leader, a dare spazio a pallidi personalismi. Speriamo che tutto si aggiusterà, che l’unione ci renderà forti, immuni dai pericoli del contagio. Non ci rendiamo conto che da certe malattie non ci si salva.
Certo è bello essere tra compagni, sentirsi compartecipi di un’affinità elettiva che raccoglie tutti in un unico fascio, è bello finalmente essere in una dimensione tanto diversa da quella cui la gestione capitalista ci ha abituati, dell’uno contro l’altro, dell’antagonismo. La solidarietà e il reciproco affetto si sostituiscono alla concorrenza spietata e ci fanno sentire bene, fisicamente a posto. Ma non bisogna dimenticare, anche in queste situazioni ottimali, che per prima cosa noi dobbiamo essere a posto con noi stessi, che se abbiamo dubbi o tentennamenti, approssimazioni o compromessi, non sarà certo la presenza dei compagni che li farà sparire. Ci faremmo una pia illusione. La fermezza delle nostre idee potrà fortificarsi nella presenza dei compagni, mai nascere dal nulla, senza nessuno sforzo da parte nostra. Se noi, personalmente, non siamo convinti di quello che siamo e di quello che facciamo, finiremo per farci trascinare dalla situazione, e, proprio per questo, pretenderemo che l’insieme dei compagni, quella collettività che tanta forza umana emanava per il semplice fatto di trovarsi insieme, si trasformi in un organismo ufficiale, in un’organizzazione capace di assumersi quelle responsabilità che, in quanto singoli, non sappiamo o ci rifiutiamo di assumere.
È proprio qui che ci aspetta il potere. Esso sa attendere quanto basta per coglierci soli, sa agire per isolarci, sa macchinare per metterci in cattiva luce davanti agli sfruttati, sa scagliarci gli uni contro gli altri. Una volta isolati può scegliere tra due strade: criminalizzarci rinchiudendoci in carcere o squalificarci decretando che siamo pazzi. Tra queste due istituzionalizzazioni totali, la tendenza del potere moderno è quella di scegliere la seconda. I pazzi non si ribellano: sono pazzi e basta. Dobbiamo essere preparati alla solitudine, all’isolamento, alla pazzia. Se le nostre uniche forze consistevano nell’organizzazione, nel sentirci insieme agli altri, quando questo non dovesse essere più possibile, il potere ci distruggerà facilmente.
Cœurderoy, che tanta forza manifesta in diverse occasioni, ha parole di paura e di sgomento per questa eventualità. «Pazzo! Questa parola mi spaventa; non voglio diventarlo. Mille morti piuttosto che una parola di pietà sprezzante, piuttosto che la dittatura materiale dei medici o le divagazioni psichiche dei sapienti! No, non lascerò la mia anima a questa torturante dissezione! A vent’anni ero interno alla Salpètrière e vi curavo i pazzi: mi chiamavano filosofo. Oggi, se mi rinchiudessero a Bicêtre, mi chiamerebbero pazzo. Lavorate dieci anni della vostra vita per arrivare a questo risultato!».
Queste paure sono anche nei nostri cuori e non possiamo esorcizzarle rinviando le responsabilità del nostro agire sull’organizzazione, camuffandoci nelle vesti del vendicatore. Il potere ci colpisce perché vogliamo liberarci e, per questo vogliamo distruggerlo liberando tutta l’umanità. Questo è il senso della rivoluzione, la quale, in quanto sovvertitrice delle condizioni della razionalità che ha reso possibile lo sfruttamento, è una vera e propria rivoluzione illogica.
Il principio della rivoluzione che procede ritmicamente, scandito dalle vicende della dialettica marxiana, è svanito sanguinosamente davanti alla realtà dei fatti. Dalle concessioni fatte dai teorici marxisti alle manie di grandezza del partito socialdemocratico tedesco è uscita l’alleanza con Bismarck. Dalle prospettive di conquista del potere di Lenin sono usciti lo stalinismo e i campi di lavoro. Il popolo russo è passato dal dispotismo degli zar al dispotismo dei funzionari del partito comunista. In tutto questo, l’ombra dei socialismo è apparsa solo su iniziativa del popolo, nelle lotte e nelle organizzazioni spontanee degli sfruttati. Ma è stata immediatamente ricacciata indietro dai funzionari e dagli uomini del potere, inneggianti alla razionalità e alla scienza, all’ordine e alla dittatura del proletariato. Quante cose sono state fatte in nome degli sfruttati! Gli antichi despoti uccidevano in nome di Dio e del Popolo, i despoti moderni, esercitando la dittatura in nome del proletariato, uccidono nascondendosi dietro la bandiera rossa. Ognuno si camuffa come meglio crede. Tutto avviene all’insegna della razionalità, dell’efficienza e della scienza.
Il vecchio Marx aveva sollecitato amorosamente un idillio col vecchio Bismarck, illudendosi che dalla crescita della borghesia tedesca si avesse, per effetto dialettico, la crescita del proletariato tedesco. Niente da fare. Le questioni della logica sono sempre legate a faccende quantitative. In esse vi mette sempre mano il potere che con l’aritmetica sa lavorarci bene. L’irrobustirsi dello Stato — diceva Bakunin — è sempre un fatto negativo per gli sfruttati. Sembrerebbe una verità tanto chiara che quasi non ci sarebbe bisogno di metterla in discussione. Ma i sofisti tedeschi, degni discepoli del sommo padre Hegel, non la pensano così. Nel 1872 Bakunin scriveva: «In questo momento non ci sono che due forze capaci di rovesciare questo mondo corrotto dell’Occidente politico e borghese. Sono i barbari esterni, gli Slavi forse, guidati dai Russi, e seguendo la strada che avranno loro preparata e mostrata i Tedeschi prussianizzati; o meglio i barbari interni, il proletariato. Se saranno i barbari slavi che saranno destinati a rendere questo ultimo servizio al vecchio mondo dell’Europa come lo avevano reso i barbari germanici, quindici secoli fa, al mondo greco-romano, è certo che la civiltà umana retrocederà di alcune centinaia d’anni, almeno. Ciò sarà un fatto naturale, come lo fu l’invasione conquistatrice dei Germani, ma nello stesso tempo un’immensa disgrazia, per i conquistatori non meno che per i popoli vinti… Dunque nell’interesse dell’umanità, della civiltà e dell’emancipazione universale, dobbiamo tendere con tutti i nostri sforzi affinché l’inevitabile rovesciamento del mondo politico e borghese sia compiuto non per mezzo di un’invasione di Slavi, ma per l’insurrezione del proletariato; affinché la prima, che non potrà mancare di riversarsi sull’Occidente se la seconda non arriva o arriva troppo tardi, sia prevenuta dalla seconda. Tanto questa opera di distruzione, se sarà fatta con l’invasione dei barbari dall’estero, sarà funesta alla civiltà umana, quanto essa le sarà salutare se sarà compiuta dai barbari di dentro, dallo stesso proletariato dell’Occidente». (Ai compagni della Federazione delle sessioni internazionali del Giura).
Si tratta praticamente della tesi di Cœurderoy, che Bakunin non conobbe ma di cui sentì certamente parlare da Herzen che era entrato in contatto con l’anarchico francese. Il richiamo ai barbari è contenuto in due libri di Cœurdeory: La Rivoluzione nell’Uomo e nella Società, che è del 1852, e Hurrah! o la Rivoluzione con i cosacchi, del 1854. Ma la tematica della distruzione che i barbari realizzeranno della nostra civiltà, è portata avanti in I giorni dell’esilio. «Non ho sistemi o conclusioni da presentare; non posso e non voglio: non desidero nulla. E qualora volessi stabilire un governo tipo Licurgo o tipo Icaria, o qualche organizzazione di lavoro — cosa molto facile — non lo potrei. Guardate cosa resta dei magnifici piani di riedificazione dei Signori: Owen, Etienne Cabet e Louis Blanc! Di Fourier restano soltanto le sue giuste critiche, le analogie universali e le grandi predizioni. Chi si occupa di scienza sociale può fare soltanto una cosa: sottolineare con una matita rossa gli edifici che devono sparire. L’uomo è troppo limitato per comprendere l’insieme degli oggetti e dei secoli che concorrono alla ricostruzione sociale. Solo l’umanità nel suo insieme può ricostruire; eterna e signora della propria azione».
E la scienza? Il grande mito della razionalità che regge il dominio dei potenti? Non è forse facile cadere nell’equivoco di costruire la rivoluzione sul modello della ragione dogmatica e onnipresente o su quello della ragione dialettica che tutto è capace di assorbire, anche se stessa? Non è forse altrettanto facile gettare la croce addosso a coloro che non accettano gli ordini “scientifici”, che avanzano dubbi e che hanno il coraggio di mettere in discussione le opinioni dei sapienti?
«Ho morso, pieno di avidità, il frutto della scienza e mi sono rotto i denti. I dottori ridono, loro che tagliano i frutti saporosi con coltelli d’argento dorato e lasciano il nocciolo ai segretari». «Uomo, guardati dall’analisi. L’affanno è al fondo di ogni esame troppo approfondito di se stessi, come la feccia nel fondo del liquore puro. Questo avvoltoio si accanisce sull’uomo, ghiaccia il suo ardore e beve il suo sangue». «L’Avvenire rinnegherà la Scienza di oggi! — La Scienza pedante che taglia, innervosisce, paralizza, abbrutisce! La Scienza diplomata dal Privilegio, gelosa delle sue prerogative, facile ai potenti, dura per i poveri! La Scienza idropica, pletorica, titubante, livida, che diffonde nel mondo il delirante balbettìo, le tenebre della cecità, la miopia e gli sguardi cattivi! La Scienza che si chiude a doppia mandata nel santuario infetto dove accatasta storte, catene, veleni, cadaveri e malati! La Vecchia calva che si trascina, vergognosa, a rimorchio della giovane Scoperta dalle trecce profumate! La noiosa, la testarda, l’addormentata che sragiona! L’ignorante, la superba, che nasconde la propria impotenza sotto le lunghe frasi avvolte negli abiti smessi dei Greci! L’Intrigante, l’avara, la ladra, la falsaria, l’usuraia, la plagiaria, che si appropria dei lavori dei nemici e li snatura traducendoli nel suo spaventoso libro magico! L’antica, l’accademica, la vecchia prostituta che separa la propria cassa da quella dell’umanità, che specializza, insozza, strangola tutti i problemi che tocca separandoli dalle grandi questioni d’interesse generale! La Scienza codarda che prende sempre a calci le vittime dell’ingiustizia sociale!».
Ecco le condizioni del rovesciamento, le condizioni della rivoluzione. Se la scienza è quella dei potenti, potrà diventare la scienza rivoluzionaria non solo con un uso diverso, ma anche con un metodo diverso. Non sarà utile ed anche indispensabile alla rivoluzione perché saranno altre persone ad utilizzarla, ma lo sarà solo a condizione che il suo interno organizzarsi, la sua ragione d’essere, le sue prospettive e la sua metodologia saranno profondamente modificati. E questa è opera rivoluzionaria che non potrà mai venire dagli stessi sapienti, tutti presi a disputarsi il frutto della scienza, che, al momento presente, è frutto di potere, capacità di ricchezza, modo di sfruttare i deboli e gli indifesi. Questa nuova metodologia dovrà venire dall’esterno. Essa sarà — secondo Cœurderoy — la metodologia distruttiva dei barbari, la stessa che scatenerà la rivoluzione contro la civiltà che ha eretto i cimiteri al posto delle città.
È la stessa razionalità del monopolio che ha reso schiava la donna. La razionalità della famiglia, base prima dello sfruttamento. Non possiamo fare di questa stessa razionalità la base della rivoluzione. Il risultato sarebbe spaventoso.
«Uomini, l’avvenire vi punirà, perché avete fatto la legge perfettamente a vostra immagine: senza delicatezza, senza amore e senza giustizia; perché l’avete redatta totalmente in vostro favore: vigliacca, oppressiva per la donna, infallibile, irrevocabile, indiscutibile, irreversibile; insulto alla natura, obbrobrio all’umanità! Ignoranti insensibili, che tramite le vostre assemblee, i vostri concili, i vostri preti e i vostri oratori, avete osato dichiarare che la donna, la divina donna, è di natura inferiore alla vostra, d’argilla più grossolana, d’essenza meno eterea! — Bruti, che cercate di convincerla che è venuta al mondo per curarvi con zelo, servirvi con obbedienza, frizionarvi con amore, quando piaccia a voi! — Ignobili, cupidi, che la vendete come vostra schiava o vostro possesso! Vigliacchi che la rinchiudete, l’incatenate, la deformate, la mutilate, l’imbavagliate, l’annichilite, la ripudiate, la schiaffeggiate, la battete con mille colpi, la lapidate con mille pietre, la torturate con mille torture!… Saggi, e sapienti, e santi, e galanti, e Frrrancesi che la tenete sotto perpetua tutela!».
E la distruzione di tutto ciò sarà fatta solo capovolgendo la base che giustifica e regge lo sfruttamento: quella razionalità codificata dalla scienza borghese. La rivoluzione sarà profondamente illogica per la logica dei padroni, mentre apparirà chiaramente logica per la logica degli sfruttati. La barbarie dei distruttori, di quelli che erediteranno il mondo, la barbarie di quelli che il mondo hanno costruito col proprio sudore per consegnarlo nelle mani dei padroni e che, proprio per questo, possono in qualsiasi momento ricostruirlo, ma su basi diverse; questa barbarie sarà il fondamento della nuova rivoluzione, della rivoluzione definitiva, della rivoluzione sociale.
«Rivoluzionari anarchici — diciamolo altamente — non abbiamo altra speranza che nel diluvio umano, non abbiamo altro avvenire che nel caos… Il Disordine è la salvezza, è l’Ordine. Che cosa temiamo dal sollevamento di tutti i popoli, dallo scatenamento di tutti gli istinti, dalla distruzione di tutte le dottrine?… Esiste forse disordine più spaventoso di quello in cui siete ridotti, voi e le vostre famiglie, e una povertà senza rimedio e una mendicità senza fine? Esiste confusione di uomini, di idee e di passioni che possa essere più funesta della morale, della scienza, delle leggi e della gerarchia di oggi? Esiste guerra più crudele di quella della concorrenza in cui vi accanite disarmati? Esiste morte più atroce di quella per inazione che vi è fatalmente riservata?». «Non ci sarà più rivoluzione finché i Cosacchi non caleranno… Se voi mi dite che sono dei Cosacchi, vi risponderò che sono uomini. Se mi dite che sono ignoranti, vi risponderò che è meglio non sapere nulla che essere dottore o vittima dei dottori. Se mi dite che sono curvi sotto il Dispotismo, vi risponderò che hanno solo bisogno di raddrizzarsi. Se mi dite che sono barbari, vi risponderò che sono più vicini al socialismo […]».
Questo il senso più alto dell’esperienza di Cœurderoy. Nel cambiamento che si verifica nella storia, si annida un pericoloso permanere; nella razionalità che il progresso sviluppa, si nasconde un pericoloso elemento di potere. Come si può lottare per il cambiamento rivoluzionario evitando il cristallizzarsi dell’autorità? Come si possono controllare i pericoli della razionalità, spinta freddamente fino alle sue estreme conseguenze? Questi i grandi quesiti di Cœurderoy, che poi sono gli stessi che la vita ci pone davanti tutti i giorni, che le nostre esperienze rivoluzionarie attuali indicano come decisivi per le sorti della liberazione.