Contributo all’aborto di una familiarità fittizia
di Mario Lippolis
[Quella che qui presentiamo è l’introduzione alla raccolta dei dodici numeri del bollettino centrale dell’IS, nella traduzione italiana a cura dello stesso Mario Lippolis: AA.VV., Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino, 1994]
1952: «Deliberatamente al di là del gioco limitato delle forme, la nuova bellezza sarà di situazione»(G.E. Debord) (1).
1954: «La costruzione di situazioni sarà la realizzazione continua di un gran gioco deliberatamente scelto; il passaggio dall’uno all’altro di quegli scenari e di quei conflitti di cui i personaggi di una tragedia morivano in ventiquattr’ore. Ma il tempo di vivere non mancherà più» (Internazionale lettrista) (2).
1958: «Situazione costruita: Momento della vita concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi.» (Internazionale situazionista) (3).
«La formula per rovesciare il mondo non l’abbiamo cercata sui libri, ma girando» (4). Con queste parole, vent’anni dopo, Guy Debord rievoca il periodo, e il metodo, che portarono alla formazione dell’Internazionale Situazionista. Allusione, certo, alla «deriva», inaugurata elaborando in senso ludico-costruttivo e sperimentale un aspetto centrale del modo di vivere apparso nel quartiere-labirinto di Parigi «dove il punto culminante del tempo era stato scoperto». Ma, più in generale, allusione al principio di tutti gli essenziali viaggi di scoperta, intrapresi – in un’epoca «in cui troviamo così pressanti l’obbligo e la quasi impossibilità di raggiungere, di condurre un’azione collettiva totalmente innovatrice»(5) – da alcune persone «di così commovente incapacità», ma altrettanto inesorabilmente decise a mettere in pratica il detto di Hölderlin: «Se occorre, spezzeremo le nostre lire infelici e faremo ciò che gli artisti non han fatto altro che sognare!»(6).
Base di partenza di questi viaggi e di queste scoperte, la «prodigiosa inattività» installatasi nel dopoguerra nel quartiere attorno a Saint-Germain-des-Prés, dove, assieme ai reduci di molti eserciti che si erano appena disputato il continente, si erano dati convegno i segni precursori del crollo di una civiltà(7): là dove, dunque, il vuoto prodotto dal gorgo del suo inabissamento era la prima evidenza vissuta e poteva costituirsi un gruppo umano fondato «sul rifiuto deliberato di ciò che è universalmente ammesso; e sul disprezzo completo di quello che potrà seguirne»(8).
Walter Benjamin ha chiarito la differenza profonda tra inattività ed ozio della società borghese, ha mostrato come la «pigrizia eroica» della prima, «fatta di conoscitori e amatori»(9), lasci il posto al tempo superficialmente libero dal lavoro capitalistico, ma in profondità segnato e come predisposto ad esso, del secondo: tempo di ozio che è all’origine tanto della produzione artistica della moderna bohème, quanto dell’industria dell’illusione per il consumo «culturale» che la soppianterà.
Si potrebbe dire che i gruppi da cui prese origine l’Internazionale Situazionista derivarono il loro vantaggio strategico dall’aver compiuto, in una fase decisiva di quella trasformazione, il percorso inverso, con grande tempismo e determinazione: portandovi quella prodigiosa inattività, essi distrussero dall’interno molti degli aspetti connaturati al lavoro alienato dell’ozio produttivo di forme di espressione e di rappresentazione estetico-culturale dell’impotenza della vita pratica, che il sistema si avviava a mettere direttamente e massicciamente al proprio servizio; ma, proprio per questo, ne salvarono l’istanza liberamente inventiva, sperimentale, ludico-costruttiva, di «provocazione a quel gioco che è la presenza umana»(10), trasferendola direttamente sul piano della vita quotidiana che recalcitra ad essere tale – cioè privata anzitutto di vita storica – dove il vuoto e l’inattività potevano subire una trasmutazione in premessa, ricerca, abbozzo allusivo di un’attività superiore per tutti, non specialistica né gerarchizzata.
Questo «buco positivo», prodotto nel delicato tessuto in formazione delle nuove forme di condizionamento distruttivo dell’attività umana, di necrotizzazione e sterilizzazione della creatività, permise all’Internazionale Situazionista di essere non, come tra il nuovo servitorame intellettuale qualcuno interessatamente vaneggia, il pioniere dell’affermazione sociale – perfettamente illusoria – dell’odierno pseudolavoro «creativo», ma la prima forma collettiva e organizzata di un’astensione positiva dal lavoro «produttore» di spettacolo. Come avrebbe potuto altrimenti, dieci anni dopo, essere l’unico gruppo preesistente che entrasse in risonanza fin dai prodromi con la più grande astensione dal lavoro, selvaggia e sostanzialmente senza rivendicazioni, della storia?
Il fatto, a malapena credibile nell’attuale temperie, è che i gruppi che sarebbero stati all’origine dell’I.S. avevano deciso fin dall’inizio che avrebbero «lavorato» davvero solo «alla instaurazione cosciente e collettiva di una nuova civiltà»(11) ,che avesse alla base un’idea di felicità ben diversa da quella, prevalente fin dai tempi di Saint Just, dell’abbondanza di mezzi di sopravvivenza; idea che, comune alle destre e alle sinistre, è responsabile dei fallimenti della rivoluzione e «ha disfatto il movimento operaio dei paesi industrializzati»(12).
Solo quell’idea avrebbe potuto costituire il fulcro di un progetto rivoluzionario, la stella polare di ogni insurrezione che concernesse i viventi, «anche se» – proprio perché – essi l’avevano «conosciuta perdente»(13): l’abbandono e lo scacco tanto dei tentativi di instaurare la libertà da parte dei movimenti rivoluzionari nella società e nella cultura dei primi decenni del secolo, quanto dei tentativi dei primi anni di vita dell’individuo di vivere pienamente nella serietà del gioco e della creatività senza tempo morto, quale comune riscatto reclamavano?
La ricerca di una «partecipazione immediata ad una abbondanza di passioni della vita, attraverso il cambiamento di momenti deperibili deliberatamente predisposti»(14): ecco ciò che guidava le sperimentazioni convergenti nell’uso e nel rimodellamento del tempo e dello spazio urbani, in funzione di una società senza classi, dei delegati (Bernstein e Debord per l’Internazionale lettrista, Rumney per il Comitato psicogeografico di Londra, Jorn, Pinot Gallizio, Olmo, Simondo e Verrone per il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista) che il 28 luglio 1957 si ritrovarono a Cosio d’Arroscia per fondare l’Internazionale Situazionista.
«Avevamo alla fine incontrato l’oggetto della nostra ricerca? Bisogna credere che l’avessimo almeno fugacemente intravisto; perché è comunque lampante che da quel momento ci siamo trovati in grado di comprendere la vita falsa alla luce della vera, e possessori di un ben strano potere di seduzione: perché nessuno ci ha da allora avvicinato senza volerci seguire; e dunque avevamo posto mano sul segreto di dividere ciò che è unito. Quel che avevamo compreso, noi non siamo andati a dirlo alla televisione. Non abbiamo aspirato ai sussidi della ricerca scientifica, né agli elogi degli intellettuali da giornale. Noi abbiamo portato olio là dov’era il fuoco»(15).
Dove avrebbero trovato il fuoco coloro che si proponevano di realizzare l’arte, oltre che la filosofia, sul terreno di una vita quotidiana che si ribella ad essere definitivamente colonizzata (16) e non si riconosce nella prosecuzione fittizia di quelle istanze nella cultura spettacolarizzata?
Già un’ottantina di anni era passata da quando F. Nietzsche si era domandato con inquietudine a quali effetti avrebbe portato la repressione, da parte della «pseudocultura del presente» (17), di bisogni come quelli che «nel tumultuoso periodo della gioventù» nascono «dalla scoperta dell’ambiguità dell’esistenza», in cui «quasi tutti gli avvenimenti personali si rispecchiano in una duplice luce, come esemplificazioni di una realtà quotidiana e al tempo stesso come esemplificazioni di un problema eterno» e spingono dunque ad una ricerca istintiva che nel suo principio è identica a quelle che hanno presieduto all’arte e alla filosofia. E così descriveva la miseria che da quella repressione risulta:
«Nessuno dei giovani più nobilmente dotati è rimasto estraneo a quel bisogno incessante, logorante, imbarazzante e snervante di cultura: nel tempo in cui è apparentemente l’unica persona libera in una realtà di impiegati e di servitori, egli paga quella grandiosa illusione di libertà con tormenti e dubbi che si rinnovano continuamente. Egli sente di non poter guidare sé stesso, di non poter aiutare sé stesso: si affaccia allora senza speranze nel mondo quotidiano e nel lavoro quotidiano. La più banale operosità lo circonda e le sue membra si afflosciano fiaccamente (…). Lo terrorizza il pensiero di precipitare così presto in una ristretta e misera specializzazione e cerca ora di afferrarsi a colonne e punti di appoggio, per non venir trascinato su quella strada. Invano. Questi appoggi vengono meno, perché i suoi appigli erano falsi ed egli aveva afferrato fragili canne».
Tra i falsi appigli e le fragili canne, un altro attento nemico della società, che vuole «allevarsi quanto prima è possibile utili impiegati, e assicurarsi della loro incondizionata arrendevolezza»(18), Siegfried Kracauer, annoverava, quasi cinquant’anni dopo,
«una giovane intellettualità radicale che attacca il capitalismo in riviste e libri, in una maniera piuttosto violenta e uniforme. Ad uno sguardo superficiale essa appare come un serio avversario di tutte le forze che, diversamente da essa, non cercano di ottenere immediatamente un ordinamento razionale della società umana. E tuttavia, anche se la sua protesta può essere autentica e spesso anche feconda, è però troppo facile. Perché di solito si leva contro casi estremi: la guerra, i madornali errori della giustizia, i tumulti di maggio… senza considerare la vita normale nel suo inappariscente errore. Non è spinta al gesto della ribellione dalla stessa struttura di questa esistenza, ma solo ed unicamente da alcune delle sue emanazioni più visibili. E quindi non tocca interamente il nucleo della realtà data, si limita ai simboli; stigmatizza certe degenerazioni vistose e dimentica la serie dei piccoli eventi di cui si compone la nostra vita sociale normale e di cui quelle degenerazioni debbono essere considerate come il risultato. Il radicalismo di questi radicali avrebbe un peso maggiore se penetrasse veramente nella struttura della realtà, invece di prendere le sue disposizioni dal piano nobile. Come può cambiare la vita quotidiana, se non la prendono in considerazione neanche coloro che avrebbero il compito di sommuoverla?»(19).
Come due coordinate in negativo, queste profetiche pagine consentono di situare con esattezza, e quasi ne modellano il calco vuoto, il bacino di influenza dell’Internazionale Situazionista, esse svelano il perché della forza di infiltrazione – che qualcuno ha paragonato a quella dell’acqua pesante – di un gruppo così esiguo numericamente, ma che aveva fatto del qualitativo che scinde «il nucleo della realtà data», la sua force de frappe, specie a fronte dello sviluppo quantitativamente considerevole di una «nuova sinistra» intellettuale di rumorosa quanto inconsistente faciloneria militante, così simile a quella descritta da Kracauer.
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«Durante tutti gli anni che seguirono, vennero individui di venti paesi per entrare in questa oscura cospirazione dalle esigenze illimitate. Quanti viaggi frettolosi! Quante lunghe dispute! Quanti incontri clandestini in tutti i porti d’Europa!
«Così fu tracciato il programma che meglio poteva colpire di suspicione completa l’insieme della vita sociale: classi e specializzazioni, lavoro e divertimento, merce e urbanismo, ideologia e Stato, noi abbiamo dimostrato che tutto era da buttare. E un simile programma non conteneva nessun’altra promessa che quella di un’autonomia senza freni e senza regole. (…) Esisteva sì allora qualche individuo che si trovava d’accordo con maggiore e minor conseguenza, sull’una o sull’altra di queste critiche, ma per riconoscerle tutte non c’era nessuno; e tanto meno per saperle formulare, e aggiornare. È per questo che nessun altro tentativo rivoluzionario di questo periodo ha avuto la minima influenza sulla trasformazione del mondo»(20).
Ecco perché la trasformazione del mondo che è seguita ai tentativi rivoluzionari di venticinque anni or sono – che ha come intima ratio quella di renderli non solo definitivamente irripetibili, ma finanche inconcepibili – fa sì che l’I.S. resti, specie in Italia, in massima parte sconosciuta, proprio mentre curiosamente si direbbe che «i situazionisti» siano in qualche modo famosi. Tanto che noi, giovani di venticinque anni fa che in quel tempo, certo più permeabile di questo, contro le difficoltà frapposte dall’ottusità ostile e dalla sottovalutazione irridente, cercammo di far conoscere – cioè di mettere in pratica, là dove ci trovavamo e autonomamente – quelle idee, se non conoscessimo le mascherine non crederemmo letteralmente ai nostri occhi. Mentre allora i fedeli delle varie menzogne burocratiche concorrenti, dallo stalinismo più o meno togliattizzato al maoismo più o meno destalinizzato, passando per il populismo più o meno operaista, cercavano di metterci a tacere come provocatori e invocavano, a seconda dei rapporti di forza, la chiave inglese o la polizia, oggi non passa giorno senza che programmisti televisivi, pubblicitari, opinionisti, intrattenitori, esperti in «tematiche giovanili» e professori della neouniversità – e non di rado si tratta delle stesse persone di allora salite sul carro che credono vincitore – facciano mostra di conoscere, usare, approvare addirittura l’apporto situazionista, e perfino dichiarino di esser stati tali in gioventù.
«Credono di poter parlare facendo dimenticare da dove essi parlano, loro, gli inquilini mal installati del territorio dell’approvazione?» chiedeva beffardamente G. Debord negli anni iniziali di questo losco «successo»(21). Anche senza aver fatto dimenticare da dove parlano, fatto sta che da allora è diventato impossibile parlare da qualsiasi altro posto, e anche solo far sapere che, mentre loro parlano, come recita la novella di Pirandello, «c’è qualcuno che ride».
In ogni caso, oltre a far credere a datori di lavoro ed «utenti» che nulla, neppure le esperienze più perigliose, eterodosse e meno catalogabili, sfugge alla loro competenza del tutto presuntiva ed autocertificata di esperti improvvisati, il messaggio principale che tante vaghe citazioni e tanti riconoscimenti, per lo più compunti quanto circospetti, comunicano ai consumatori della parola pubblica monopolizzata è: «I situazionisti sono, per noi addetti ai lavori, un punto di riferimento abituale, anche se non abbiamo ritenuto di dovervi abituare i nostri utenti; sono dei classici insomma, così universalmente noti nella nostra repubblica particolare, così sviscerati, discussi, giudicati per il loro valore e per i loro limiti, e così bene assimilati a suo tempo, da poter essere poi tranquillamente riposti – secondo i rispettivi settori di competenza: tendenze artistiche, filosofiche, politiche, massmediologiche, giovanili, eccetera – sugli scaffali più alti e meno accessibili, lontano dalle attuali preoccupazioni, di cui sono al più dei precorritori. I nostri odierni discorsi ne tengono già conto, ma vanno al di là, molto oltre; parlarne direttamente è cosa ormai per eruditi, per filologi; al grosso pubblico basti quel che ne diciamo noi».
Mentre i classici della cultura prespettacolare poterono per lungo tempo essere conosciuti prima di venire resi incomprensibili e di essere disinnescati dalla notorietà di sintesi – quando minacciavano di reagire in modo incontrollato con la vita quotidiana proletarizzata messa a nudo -, i situazionisti avrebbero così il dubbio privilegio di essere tra i primi «classici» decretati dalla cultura puramente spettacolare iuxta propria principia, cioè dei classici sostanzialmente segreti da sempre, per definizione negati alla conoscenza effettiva del pubblico e riservati agli specialisti: all’inizio ostentatamente ignorati e taciuti, poi falsificati e resi incomprensibili(22), e infine rivestiti d’autorità di una notorietà ufficiale ripugnante, confusionista e compromettente.
«Un successo ufficiale non può essere tributato che a forme di restrizione umana», constatava alla vigilia dell’avventura situazionista un partecipante che per la sua incoerenza ci ha fatto dimenticare il suo nome: gli specialisti attuali dell’organizzazione dell’apparenza lo sanno bene per esperienza personale e credono, tributando ai situazionisti questo successo ufficiale che li coinvolgerebbe nella loro ignominia, finalmente giunta e definitivamente stabilizzata l’epoca in cui potersi vendicare dell’esistenza di qualcosa come l’Internazionale Situazionista e del moto storico cui essa si legò. Era già noto da tempo che ciò che è familiare non per questo è anche conosciuto, e che anzi la familiarità può disincentivare la conoscenza proprio in quanto la dia per acquisita. Ma ci voleva l’attuale società per produrre industrialmente un effetto di familiarità artificiale al preciso scopo di impedire la conoscenza. L’astuzia nel nascondere La lettera rubata del personaggio di E.A. Poe, collocandola nel luogo più visibile e scontato, è stata opportunamente messa a frutto e sviluppata dal proliferare di tecniche di guida dello sguardo: metterla continuamente proprio sotto il naso di ciascuno è il modo più sicuro perché nessuno, assuefatto e annoiato dall’mpressione di conoscerla già, la veda veramente, né tanto meno pensi di leggerla.
Nonostante l’I.S., molti han dovuto così attendere fatti come la guerra del Golfo per accorgersi che la familiarità equivoca che il sordido «villaggio globale» procurava con azioni e persone fatte rientrare nel suo cerchio di luce, era inversamente proporzionale alla conoscenza che ne consentiva, ma se ne sono già dimenticati, sopraffatti da altre urgenti familiarizzazioni.
L’effetto di familiarizzare gli spettatori con una cosa come «i situazionisti» è già stato, anche se in ambiti ancora ristretti, parzialmente raggiunto, e dunque, come tante altre, per gli spettatori specializzati è d’obbligo fingere di conoscerla. Più che negli showmen che mentono freddamente quando dichiarano di esser stati tali, nei businessmen della «poesia» che fanno finta di poterne annoverare qualcuno nei loro lottizzati allestimenti(23) , nei vecchi gauchistes riciclati che vorrebbero farli credere semplici precursori delle loro tardive trovate sul «postindustriale» e il «postmoderno»(24), l’«odore specifico dello spettacolo» lo si può avvertire nella «falsificazione ingenua» e nell’«approvazione incompetente»(25) di sinceri militanti a corto di militanza, convinti che «i situazionisti» siano diventati per lo più, nel frattempo, dei pubblicitari, di benintenzionati professori che li amalgamano ai Lyotard, Baudrillard e altri consimili apologeti delle tendenze più «attuali», di adepti delle «subculture giovanili» che li arruolano tra gli specialisti di non si sa quale «guerriglia mediatica», di speranzosi «artisti» che si iscrivono, ignari, alla loro «corrente», di intemporali anarchici che li cooptano nelle loro rivolte cartacee.
Al medesimo effetto deve concorrere un’altra caratteristica «stranezza»: mentre i «situazionisti» sembrano così noti come pluralità, di fatto nessuno nomina, al riguardo, gli apporti di Chtcheglov, di Jorn, di Gallizio, di Constant, di Vaneigem e nei circuiti dell’informazione ogni pulsazione del macchinario rimette sempre in circolo il nome del solo Debord. Non però per il ruolo eminente da lui giocato nell’operazione storica di suscitare e indirizzare l’Internazionale Situazionista, che anzi è messo in ombra, ma nel tentativo, invero poco convinto oltre che poco convincente, di presentarlo come una vedette tra le altre dell’intellettualità «teorica» di servizio(26): si lascia intendere, in altre parole, che, per quanto bizzarramente ombroso e riservato, egli sarebbe un esemplare fra gli altri della fauna che striscia da un giornale a una TV, che si arrampica da un talk show ad una cattedra, senza far mancare i suoi consigli a qualche uomo di partito o di sindacato, e che magari pretende di elaborare nel frattempo la critica dello stato di cose presente, con le sovvenzioni o su commissione diretta dello Stato. Poiché però nessuno lo ha mai visto o incontrato in simili luoghi e compagnie, è logico che questa mossetta obbligata non sortisca grande effetto e che di conseguenza, per chi è fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori di alcune specializzazioni – non tutte culturali o politiche -, la sua stessa esistenza resti un’immagine sfocata, una semplice ipotesi sgradevole, e non solo nel cinema.
Il fatto è che fra i truccatori di cadaveri della cultura moderna («La morte ti fa bella!»), il «grande ispiratore segreto dell’arte mondiale per una decina d’anni», come scrisse Asger Jorn(27), «non è mal conosciuto; è conosciuto come il male». «Non esistono “geni misconosciuti”, innovatori naturalmente mal conosciuti. Esistono solo coloro che rifiutano di essere persone conosciute a condizione di sottoporsi al trucco, in patente disaccordo con ciò che sono in verità. Coloro che non vogliono lasciarsi manipolare per apparire in pubblico del tutto irriconoscibili, e per ciò stesso alienati, ridotti allo stato di strumenti ostili alla propria causa, o impotenti, nella grande commedia umana». Da quando poi, con la fine dell’I.S., Debord si è trovato ad agire e a parlare solo in prima persona e a dover gestire una notorietà allargata, anche se «clandestina e cattiva», la sua prima operazione, dichiaratamente, è stata quella di dimostrare che si poteva farlo fuori e contro tutte le usanze dominanti in materia. «È noto che questa società firma una sorta di pace con i suoi nemici più dichiarati, quando fa loro un posto nel suo spettacolo. Ma io sono precisamente, in questi tempi, il solo che abbia qualche celebrità, clandestina e cattiva, e che non si sia riusciti a far apparire su questa scena della rinuncia.» E «io troverei altrettanto volgare divenire un’autorità nella contestazione della società che divenirlo in questa società stessa»(28).
Si comprenderà perciò facilmente quale improbo lavoro richieda il confondere le tracce, il citare, ad esempio, gli scritti apparsi nella veste – apparentemente rassicurante – di semplici Commentari ad una società dello spettacolo che si può lasciar credere teorizzata da altri e in senso men che radicalmente distruttivo, badando però a tacere accuratamente la poco promettente stesura di un «rapporto sul proprio tempo» (parole, azioni, scelte concrete) iniziata col primo volume di Panégyrique; oppure il presentare come antesignano e alfiere dello strato dei «piccoli agenti specializzati» nei servizi al sistema produttivo di «gestione, controllo, manutenzione, ricerca, insegnamento, propaganda, distrazione e pseudocritica», proprio l’autore di una dantesca descrizione della loro condizione che dovrebbe essere sufficiente, da sola, a spingerli a suicidi di massa o a jacquerie sanguinose, se non fossero per lo più «dei salariati poveri che si credono proprietari, degli ignoranti mistificati che si credono istruiti, e dei morti che credono di votare»(29).
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È dunque proprio per risparmiare a noi tutti l’impatto ambientale di un «lavoro mentale» di tal fatta; per provocare un po’ di disoccupazione creatrice nei ranghi di ricercatori che, come è stato detto, si negherebbero come tali – interrompendo il flusso dei finanziamenti – se trovassero davvero qualcosa, e che pongono perciò dei problemi solo per poterne trovare degli altri, esattamente come si fabbrica un’automobile solo per sostituirla con un’altra; è per questi motivi che ci è sembrato un atto dovuto di disinfestazione elementare tradurre e pubblicare, senza tagli, aggiunte, commenti e apparati parassitari qualsivoglia, i dodici numeri di Internazionale Situazionista, in cui è depositata la traccia di per sé eloquente di un’iniziativa senza eguali in questo mezzo secolo. E, aggiungo – solo per completare la demoralizzazione di quelli che rimpiangeranno una così bella occasione di carriera perduta e di quelli che vorrebbero tanto ma non possono mai fare analoghi gesti di «amore del mondo» – un simile gesto naturalmente non ci avrebbe attratto tanto se non fosse stato completamente gratuito e privo di qualunque sovvenzione dall’alto.
Ristabilire semplicemente ciò che ha veramente detto e fatto l’I.S. è solo una delle precondizioni – da cui non ci attendiamo mirabolanti effetti – di un suo buon uso: siamo ben consci che «tutte le idee sono vuote quando la grandezza non può più essere incontrata nell’esistenza di ogni giorno»(30); ma «è proprio perché le nostre conoscenze sono in sé banali che possono giovare agli spiriti che non lo sono»(31). Il loro uso pieno, e quindi la loro correzione, rimane sospeso alla grandezza effettiva che una contestazione che risorgesse apertamente potrebbe imprimere all’esistenza e all’attrazione che sarebbe in grado di esercitare sugli spiriti non banali.
Interrogandosi nel 1970 sulle ribellioni endemiche di quegli anni, Hannah Arendt scriveva: «È verissimo che i disordini nei ghetti e le ribellioni nelle università fanno sì che gli individui sentono di star agendo insieme in maniera che raramente è loro possibile. Non sappiamo se tali avvenimenti segnino l’avvento di qualcosa di nuovo – il «nuovo esempio»(32) – oppure siano i sussulti mortali di una facoltà che il genere umano è in procinto di perdere». L’andamento di questi anni successivi ha indotto a chiedercelo anche noi, che a quelle ribellioni partecipammo e che allora eravamo assolutamente certi di quale dei due corni dell’alternativa si sarebbe di lì a poco rivelato vero. Ma, qualunque sia la risposta che le future ribellioni daranno a questo interrogativo (che è l’unico dei mille interrogativi di questa fine secolo che abbia davvero senso, perché tutti gli altri vi sono subordinati), è certo che questo sommamente spiacevole intermezzo, di cui ancora non si vede la fine, ha dimostrato che non ci sarà risposta positiva che prescinda dalla riappropriazione del progetto, consapevole, dichiarato ed organizzato nell’I.S. come in nessun altro gruppo umano, nel cuore del momento critico precedente, di dare un nuovo esempio di appropriazione della propria storia nel senso, che la Arendt avrebbe potuto sottoscrivere, di «conoscenza e godimento degli avvenimenti vissuti» attraverso la «comunicazione pratica fra coloro che si sono riconosciuti come possessori di un presente singolare, che hanno provato la ricchezza qualitativa degli avvenimenti come loro attività e loro stessa dimora.»(33)
Venticinque anni fa nel nostro paese i più lucidi e i più coraggiosi si impadronirono giocoforza soprattutto degli esiti, che sembravano provvisori ma erano finali, dell’offensiva dell’Internazionale Situazionista; fecero proprie le proposte immediate, insieme allo spirito ed al tono in cui erano state formulate, in cui essa si traduceva. Dovettero trascurarne, per il momento, le origini e il tragitto, perdendo molto, quindi, dello spessore storico concreto della sua iniziativa e della sua direzione sensibile, oltre ad ignorare la ricchezza dei numerosi progetti parziali che l’I.S., sotto la pressione delle circostanze ostili, aveva via via dovuto abbandonare lungo il cammino. Il repentino cambiamento d’epoca che seguì alla sconfitta, l’incapacità generale a reinventare quel progetto nei termini della nuova fase – mentre l’I.S. si rinchiudeva in uno sterile autocompiacimento mitizzante che ne annunciava la fine – lasciarono loro in mano quella «perfezione» di un momento trascorso conchiusa in sé e sempre più inutilizzabile e incomunicabile come tale nelle nuove condizioni. I conati di rivolta delle nuove generazioni degli anni ‘70 ed ‘80 poterono quindi tornare, quasi senza ostacoli, ad imboccare i vecchi sentieri ciechi, separati ed appaiati, dell’espressione culturale e della gestione politica dell’impotenza e della protesta contro questa impotenza(34), forme di rassegnazione immediata alla propria incapacità anche solo di porsi, fosse pure nella maniera sommaria e sprovveduta del ‘68 italiano, il problema della appropriazione totale della propria storia nella soppressione effettiva delle strutture sociali che la impediscono. Era solo la società costituita a preoccuparsi di materiare davvero l’anticostruzione di situazioni che impedissero per sempre all’Europa ogni ritorno al suo passato rivoluzionario.
I sintomi attuali di sgomento incredulo, di inesprimibile insoddisfazione e di latente rifiuto – anche se ormai quasi acefali e afoni – di fronte all’accumularsi di disastri di ogni genere, che discendono dal disastro generale dell’autoperpetuazione senza più oppositori di una società che si pretende postindustriale, postmoderna ed altri innumerevoli post, solo per non confessare che è semplicemente postuma; questi sintomi portano naturalmente alla necessità, per il sistema di menzogne dominante e per i «conciliatori» con esso, di «trattare» in qualche modo, per renderle degradabili ed assimilabili dal suo tessuto necrotico, non più le false opposizioni burocratiche legate agli infami stati «socialisti», ma le sole critiche reali ed irriducibili che si sono manifestate e che, pur se sconfitte, non hanno potuto essere compromesse. Ma, anche se mette in scena – diluite in dosi omeopatiche – alcune delle critiche che gli sono state portate, lo spettacolo oscurantista di questa notte di fine millennio, per mantenersi, deve poi soprattutto chiamare contraddittoriamente a raccolta i morti viventi, che i suoi precedenti travestimenti modernisti non avevano mai seppellito, di tutte le più arcaiche nefandezze, dai nazionalismi alle religioni, dagli etnicismi ai naturalismi di ogni tipo. Altrettanto, ma unitariamente e senza confusione, nel «tempo-ora» della sua irruzione, la realtà critica avrà bisogno di tutti i germi di futuro dimenticati nel proprio passato.
È noto da tempo – per chi ha voluto saperlo – fino a che punto i tutori del primo proletariato fossero riusciti a tenergli nascosta l’eredità cruciale della filosofia che Marx gli aveva trasmesso, riuscendo fraudolentemente a farsi riconoscere come esecutori testamentari di quel lascito. Oltre a riattualizzare quell’eredità ormai perduta, l’I.S. ha dimostrato che il nuovo proletariato è altresì l’erede dell’avventura dell’arte moderna fino al suo autodafé. Nonostante che gli scopritori di questa seconda eredità, sia perché ammaestrati dall’esperienza precedente, sia per la natura stessa del lascito, abbiano preso precauzioni molto maggiori per impedire il ripetersi di quello storno e garantirsene la trasmissione; nonostante che gli aspiranti alla tutela del nuovo proletariato – ai quali la società, che se la è assunta in prima persona, lascia solo posti di infimo caporalato e di intrattenimento – versino in uno stato di debilitazione storica rispetto alle precedenti burocrazie operaie; tuttavia, il consapevole possesso e l’uso anche di questa seconda eredità rischia di sfuggire al destinatario: la debilitazione storica generale, che non lo ha risparmiato, ne è il motivo principale, ma la lotta contro il governo dei ricordi ad opera dei falsari e dei confusionari è appunto un mezzo alla portata di tutti per combatterla.
Mario Lippolis
febbraio 1993
Note
1. In AA.VV., Fragments de recherche d’un comportement prochain, «Internationale lettriste» n.2, Parigi.
2. M.Bernstein, A.F.Conord, M.Dahou, G.E.Debord, J.Fillon, Véra, G.J.Wolman,
«…une idée neuve en Europe», «Potlatch» n.7, 3 agosto 1954, Parigi.
3. Definizioni, in «Internazionale situazionista» n.1, giugno 1958, Parigi.
4. G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, film, 1978, Parigi (trad. it. in Opere cinematografiche complete 1952-1978, Roma, 1980). Da questo film autobiografico sono tratte anche, salvo indicazione diversa, le successive citazioni del medesimo autore relative alla storia dell’I.S.
5. Il détournement come negazione e come preludio, «Internazionale situazionista» n.3, dicembre 1959, Parigi.
6. Lettera a Neuper, novembre 1794.
7. Cfr. G. Debord, Panégyrique, Tome premier, 1989, Parigi.
8. G. Debord, In girum…, op. cit.
9. W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, 1986, Torino. «Amateurs professionels» era la definizione che Asger Jorn proponeva per sé ed i suoi compagni di sperimentazioni. E, a proposito delle «sorprese» provocate dalla guerra, che avevano loro fatto apparire improvvisamente gli choc delle avanguardie come giochi puerili, racconta questo aneddoto: «Un giovane surrealista, Christian Dotremont, che aveva passato strane giornate nei sobborghi di Dunkerque, in una taverna vuota dove giocava a biliardo con se stesso, solo sotto i bombardamenti dell’esercito inglese, entrando qualche anno più tardi nella sala dell’esposizione surrealista a Parigi, poteva vedere André Breton che cercava di stupire i visitatori dell’esposizione giocando da solo ad un tavolo da biliardo. Era la fine del surrealismo». (Forme et structure. Sur le culte du ‘nouveau’ dans nôtre siècle, in Pour la forme, Internationale Situationniste, 1958, Parigi).
10. Manifesto, in «Internazionale Situazionista» n.4, giugno 1960, Parigi.
11. Potlatch, in «Potlatch» n.1, 22 giugno 1954, Parigi.
12. Il crollo degli intellettuali rivoluzionari, in «Internazionale Situazionista» n.2, dicembre 1958, Parigi.
13. G. Debord, Pour en finir avec le confort nihiliste, in «Internationale lettriste » n.3, agosto 1953, Parigi. Vibra nell’idea stessa di felicità, fa notare W. Benjamin (op. cit.), l’idea di redenzione di ciò che è già stato nostro e ciò dà ragione della mancanza di invidia del futuro insita in essa.
14. G. Debord, Tesi sulla rivoluzione culturale, in «Internazionale Situazionista» n.1, giugno 1958, Parigi.
15. G. Debord, In girum…, op. cit.
16. In questo volume il lettore potrà trovare, ad esempio, da dove provengano le idee di «colonizzazione della sfera vitale» e di fuoriuscita dal ventesimo secolo malamente indossato di recente da «pensatori» con marchio di garanzia statale.
17. Che egli imputava all’atteggiamento contemplativo di fronte alla storia – allo spettacolo della storia, potremmo dire grazie all’I.S. – della cultura storica di origine hegeliana, alla falsa autonomia «costruita sulla base argillosa dell’odierna cultura liceale», e in definitiva agli uomini di cultura in tal modo degenerati, «spinti da un’intima disperazione ad una furia ostile nei confronti della cultura, il cui accesso nessuno aveva voluto mostrar loro», fra i quali «giornalisti e gazzettieri» non erano nemmeno peggiori. (F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, (1872), Milano, 1975).
18. F. Nietzsche, Ivi.
19. S. Kracauer, Gli impiegati, (1930), Torino, 1980.
20. G. Debord, op. cit.
21. G. Debord, Confutazione di tutti i giudizi, tanto ostili che elogiativi, che sono stati finora dati sul film «La Società dello Spettacolo», film, 1975 (trad. it. in Opere cinematografiche… cit.).
22. Un solo esempio valga per tutti, ma la storia della ricezione dell’I.S., cui le traduzioni appartengono, sarebbe molto istruttiva. Un testo chiave per la concezione dell’azione propria dell’I.S. (L’operazione controsituazionista in vari paesi, n.8, gennaio 1963) che afferma: «Nous n’organisons que le détonateur, l’explosion libre devra nous échapper à jamais», cioè: «Noi organizziamo solo il detonatore, l’esplosione libera dovrà sfuggirci definitivamente», viene tradotta dall’«esperta» ufficiale M. Bandini (L’estetico il politico, Roma, 1977, p.23) con: «Noi non organizziamo che il detonatore, l’esplosione libera non dovrà mai sfuggirci»! Anche se le parole successive, guarda caso dimenticate dalla nostra esperta, non aggiungessero: «e sfuggire a qualsiasi altro controllo», una sia pur superficiale scorsa ai principali testi dell’I.S. che non fosse dettata dallo scopo di far vedere che li si è letti, ma da quello ormai in disuso, è vero, di capirli, dovrebbe portare chiunque, anche la persona più ottenebrata dal pensiero politico dominante dell’ingegneria sociale, a intuire il senso.
23. Cfr. J. Fallisi, Dialogo tra due amici che non dimenticano. A proposito di situazionisti e «situazionismo», rivolta e recupero, Nuova Ipazia, Ragusa, 1990.
24. Cfr. R. d’Este, Quando l’oro si trasforma in carbone, in «Invarianti», n.17-18, Estate-Autunno 1991.
25. G. Debord, op. cit.
26. «Hanno l’aria di credere, oggi, i piccoli uomini, che io abbia preso le cose per la teoria, che sia un costruttore di teoria, sapiente architettura che non resterebbe più che da andare ad abitare dal momento che se ne conosca l’indirizzo» (G. Debord, In girum… cit.). Un’eccezione, che è intervenuta nelle more della pubblicazione del presente volume, è rappresentata dal libro di A. Jappe, Debord, Edizioni Tracce, Pescara, 1993.
27. A. Jorn, Guy Debord et le problème du maudit, Prefazione a Contre le cinéma, Guy Debord, Institut Scandinave de Vandalisme Comparé, Aarhus, 1964.
28. G. Debord, op. cit.
29. Ivi.
30. Ivi.
31. R. Vaneigem, Saper vivere. Trattato ad uso delle giovani generazioni, (1967), Genova, 1972.
32. H. Arendt si riferisce all’invocazione di un «nuovo esempio» nel 1968 da parte del cecoslovacco Pavel Kohout affinché «i prossimi mille anni» non diventassero l’era di «un uomo ridotto a pollo o a topo» dominato da un’«élite» che deriva il suo potere «dai sapienti consigli di… aiutanti intellettuali» che di fatto credono che gli uomini nei think tanks siano pensatori e che i computer possono pensare” (Sulla violenza, Milano, 1971).
33. G. Debord, La società dello spettacolo, (1967), Firenze, 1979.
34. Come se non fosse mai esistita la dimostrazione, data dall’I.S., della ormai radicale inadeguatezza di ogni forma culturale in quanto mera espressione, come di ogni forma politica in quanto mera gestione, al movimento che sorge direttamente dalla possibilità di abolire quell’impotenza realizzando, in tutti gli aspetti dell’esistenza effettiva, quel dialogo tra desideri, pensieri ed azioni che cultura e politica si erano per lo più limitati a rappresentare. Per questo il movimento italiano del ‘77 non trovò ad interpretarlo che un patetico «mao-dadaismo», somma di due arretratezze studentesche, che a buon diritto oggi può rivendicare la primogenitura rispetto alle attuali debolezze di pensiero e trasversalità dell’inazione.