La Chateau Rouge. Bruno Filippi

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L’avevano vista una mattina uscire dalla sua villetta nascosta dai cespi di rose, ed avviarsi pe’ sentieruoli montani umidi di rugiada e soffici di musco. E l’avevan seguita attratti dal potere malefico della sua bellezza.

Camminava canticchiando, tra i raggi del sole che le facevano fulgere i capelli e la circondavano come di un’aureola di luce. E vista così, candida, con tutto

quell’oro intorno alla testa, faceva pensare ad una visione di sogno, impossibile nella realtà.

Lei, dopo un lungo giro, si era ritrovata dinanzi alla sua villettina. Loro non si erano accorti nella contemplazione di essersi troppo avvicinati, sì che essa li scorse, e vistili così singolari nelle persone e negli abiti, era rimasta un istante sbigottita, poi aveva dato in una risata, ed era scomparsa fra i rosai.

Essi eran rimasti lì, muti, con un’ultima visione d’oro e di bianco, e con quella risatina squillante che s’ostinava a tintinnar loro nelle orecchie.

 

* * *

 

Le Chateau Rouge, sorgeva in una radura affatto deserta di que’ monti. Era un vecchio rudere, ormai, pittoresco e melanconico. Era bello nella sua rovina, ricoperto d’edere e di muschi, con una cupa boscaglia per sfondo, che fittissima si distendeva a perdita d’occhio. I montanari dei dintorni evitavano quei paraggi con la solita paura degli spiriti, quindi la solitudine e il silenzio più profondo vi regnavano. Era notte. La luna illuminava il castello con un pittoresco gioco d’ombre. Si vedevan vani oscuri, merlature minacciose, ferrate massicce; e l’orecchio attendeva il suono d’una mandola o l’all’erta della scolta.

A un tratto dei profili strani spiccarono nella penombra. S’udirono fischi, passi, poi più nulla.

 

* * *

 

Siamo nei sotterranei del castello; una singolare adunanza di persone è ivi riunita. Uno d’essi parlava:

– Ho scorto in voi, compagni, il turbamento. Ho chiaramente letto nei vostri occhi l’ammirazione. Quella donna per noi è un simbolo, deve esser nostra, lo sarà. Ma compagni, siete voi sicuri che l’egoismo individuale non rinasca, e ognuno la desideri sua, solamente sua? Perchè allora il nostro piccolo mondo dovrebbe scomparire per causa d’una donna. Pensateci; compagni.

E tacque. Un fremito passò su quegli uomini. Un singhiozzo s’udì. Era il più giovine che piangeva. Nessuno se ne meravigliò. Tutti sentivano in sè stessi un po’ di quel pianto. Il piangente si fece avanti:

– Ascoltami, Baco, ascoltatemi compagni. Sono un vile. Mi son lasciato ammaliare da quella femmina e sento che qualsiasi cosa farei per lei. Vi tradirei perfino. Compagni, punitemi.

E rimase in attesa.

Una commozione profonda era in tutti. Nessuno osava rimproverarlo. Quelle parole e quell’angoscia erano in tutti i cuori. Baco s’alzò e disse:

– Occorre che lasciate fare a me. Guardate però che io vi chiuderò in questo sotterraneo fino al mio ritorno.

Tutti gli strinsero melanconicamente la mano, ed egli partì. Loro tristemente pensavano, mentre le torce si consumavano sfavillando.

 

* * *

 

Due settimane erano scorse e nel sotterraneo l’attesa rodeva tutti. Passeggiavano febbrilmente tendendo le orecchie. Il timore, l’ansia, il sospetto, tumultuavano nell’animo di ognuno.

Ma verso le undici di notte s’udì uno stridore di serrature. Tutti balzarono.

Bacherozzolo entrò. Alla luce delle torce tutti scorsero un cambiamento notevole in lui. Più curvo ancora, con gli occhi infossati e cerchiati e una piega triste e ironica sulle labbra. Tutti, in silenzio, gli strinsero la mano e attesero.

– Compagni, tutto è fatto. Riuscii a conoscere «Lei», l’accompagnai nella città tempestosa che noi abbiamo fatto tremare. E seppi chi era…. Era una cocotte! Una cocotte celebre, privilegio dell’alta borghesia. Sì, compagni, quella bellezza si concedeva per dei biglietti di banca. Io quando seppi ciò inorridii. Non ho, nè abbiamo pregiudizi, ma quel simbolo di bellezza che noi inseguivamo doveva essere qualche cosa di puro, di superiore….

«Una volta ancora la realtà vinse. La vidi sui boulevard, in tiro a due, sorridere alla folla incilindrata e incaramellata, accanto a uno stupido vanesio finanziere. La vidi nelle cene e nei bagordi, seminuda, suscitare la libidine del convito.

«E colmo di disgusto, seppi che l’amante di quella donna era un orrido deforme, del quale ella era pazza!

«Immaginate, compagni, sul seno divino di quella donna quel sudicio sgorbio della natura…?!»

La voce inesorabile ed acuta martellava le parole con odio, con livore. L’uditorio fremeva. Egli riprese:

– Io vidi tutto ciò, e in quell’istante avrei voluto essere un dio per fulminare questa schifosa società che così insozza le nostre illusioni. Dio non ero, ma egualmente agii. A un tratto Ella scomparve. Il suo amante fu trovato sgozzato nel letto.

«La città fu a rumore; poi nella furia degli avvenimenti tutto fu dimenticato. «Ella era con me in una casuccia un po’ fuori dell’abitato. Ella era mia prigioniera.»

La voce prese un’intonazione trionfale, gioiosa; gli altri anelanti ascoltavano.

– Ella era mia prigioniera. La vidi in tutta la sua bellezza, nuda, coi lunghi capelli biondi sulle spalle. Una sera mentre ella dormiva ed io vegliavo guardandola la scoprii tutta e la baciai per tutto il corpo, in un’orgia d’adorazione.

«Ella s’era svegliata e negli occhi trionfava.

«Ma al pensiero dei baci mercenarî, che prima di me sul suo corpo eran passati, il poeta si ribellò, si ribellò, ed io la uccisi!…»

La voce aveva urlato tragicamente l’ultima frase. L’uditorio inerte vedeva come in sogno tutto, e ansava.

La voce riprese sepolcrale: – L’uccisi d’un veleno rapido, la vidi contorcersi, morire… E allora trionfai. Avevo vinto. Ed ora è nostra. Voi la vedrete.

Egli scomparve, fischiò, due uomini entrarono con una cassa sulle spalle. La deposero e Bacherozzolo senza togliere i veli che la ricoprivano, riprese:

– Compagni, il più gran dono vi faccio. La bellezza pura che non sia femmina. Ho purificato la cortigiana con la febbre del mio pensiero.

Strappò di colpo i veli. Oltre i cristalli comparve il corpo nudo di lei che viva pareva. Tutti eran caduti in ginocchio e la fissavano mormorando parole sconnesse con gli occhi pieni d’una nuova luce. Bacherozzolo pronunciò le ultime parole, trionfante, gioioso, con una musicalità nuova nella voce:

– Compagni, essa è qui, immortale, pura, nostra. In lei potranno posarsi i nostri occhi senza disgusto perchè ormai essa appartiene al sogno e in esso vive. Essa è dei Cavalieri dell’Illusione!

 

* * *

 

Le stagioni si succedono ininterrottamente su que’ monti, e venti e tempeste urlano intorno e Le Chateau Rouge. La villettina delle rose è abitata da pacifici borghesi, e la bella madonnina, come la chiamavano i montanari, è dimenticata.

Talvolta strani individui, qualunque tempo faccia, s’arrampicano su quelle balze verso il castello.

Noi possiamo dire che sono i Nei e Cicisbei,che vanno a dimenticare i musi incipriati e volgari che vedono nelle città, ammirando la pura bellezza, la bellezza senza corpo, la bellezza che vive nel sogno.

 

Bruno Filippi