Qualcosa che manca – Zurich 2012 (it/es/de/fr/en)

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«… rischiamo di giungere al peggio attraverso percorsi non chiari, ma poiché per il momento tutte le strade ci sono precluse, dipende da noi trovare una via d’uscita proprio a partire da qui, rifiutando in ogni occasione e su tutti i piani di cedere»

 

Alcuni decenni fa, in occasione dei disordini scoppiati a Brixton in Inghilterra, ad alcuni compagni capitò di trovarsi in mezzo alla tempesta. Gli scontri stavano avvenendo esattamente davanti alla loro casa. Cos’altro potevano fare se non andare in strada per unirsi ai rivoltosi? È quello che tentarono di fare, senza riuscirvi. I rivoltosi, infatti, li allontanarono in malo modo. Anarchici? E chi sono? Cosa vogliono? Non sono dei nostri, non parlano la nostra stessa lingua, non hanno il nostro stesso colore di pelle, non hanno i nostri stessi vestiti, non hanno i nostri stessi codici di comportamento. Davanti all’esplodere di sommosse cieche ed inconsulte, non basta essere anarchici per starvi in prima fila.

Poche settimane fa, in occasione di una protesta di operai davanti al Parlamento in una città europea, ad alcuni compagni venne in mente di recarsi sul luogo. La protesta stava avvenendo esattamente nella loro città. Cos’altro potevano fare se non scendere in strada per unirsi ai manifestanti? È quello che tentarono di fare, senza riuscirvi. I manifestanti, infatti, li allontanarono in malo modo. Anarchici? E chi sono? Cosa vogliono? Non sono dei nostri, non parlano la nostra stessa lingua, non hanno i nostri stessi problemi, non hanno le nostre stesse tute da lavoro, non hanno i nostri stessi codici di comportamento. Davanti all’esplodere di proteste sociali, non basta essere anarchici per essere in prima fila.

Perché la loro rabbia, quella degli anarchici, non scaturisce dall’esclusione da un mondo che non riconoscono e che disprezzano, non è causata dalla mancata offerta di una possibile integrazione nella società o dalla loro improvvisa estromissione dall’economia. Ad alimentarla non è un travaso di bile o un brontolio di stomaco per dei bisogni collettivi insoddisfatti. A spingerli in movimento è il battito del cuore verso desideri singolari. E i desideri degli anarchici non hanno spazio in questo mondo, che ne costituisce da tutti i punti di vista la totale negazione. Ecco cosa li spinge alla sovversione, all’insurrezione, alla rivoluzione.

Non facciamoci illusioni. Non siamo nella Spagna del 36, non ci sono decine di migliaia di compagni disposti a lottare, né milioni di persone su cui poter contare per costruire il mondo nuovo. Del resto, tutta quella forza materiale è riuscita nel suo intento di liberazione? Siamo rimasti davvero in pochi a ritenere che la vita possa e debba fare a meno del potere, che lo Stato non sia affatto il solo orizzonte perseguibile, per cui ci sembra del tutto vano pensare di poter “tenere testa” al nostro nemico. Invece di cercare di arruolare qua e là la forza numerica indispensabile per fare fronte, è meglio cercare di scoprire quali sono le nostre possibilità — studiarle, conoscerle, sperimentarle — al fine di ostacolare, rallentare, guastare, sabotare i piani del dominio. Soprattutto ora che sta attraversando uno di quei suoi periodi di mutazione che lo costringe, in parte, ad abbassare le proprie difese immunitarie.

Ad esempio, la nostra esiguità quantitativa sconsiglia prove di forza, ma permette perlomeno di muoversi con una certa agilità. E, senza consolarsi con previsioni trionfalistiche, l’interconnesione di tutte le strutture del potere rende comunque concreto l’effetto domino, foss’anche su scala ridotta.

Ora, finché la sola possibilità di intervento nei disordini sociali che si riesce ad immaginare è quella di far presenza in prima fila, fianco a fianco con ribelli e contestatori, uniti e sotto lo stesso slogan, sarà difficile evitare di venire allontanati (fallimento della partecipazione improvvisata) o di cadere nella politica (necessità della partecipazione programmata). A nostro avviso bisogna resistere alle sirene del riconoscimento, se non addirittura politico, anche solo sociale. Non siamo generali in cerca di soldati, né pastori in cerca di greggi. Non abbiamo bisogno di ricevere pacche sulle spalle e sorrisi da parte della gente. Non dobbiamo farci accettare, giacché non vogliamo convertire né guidare nessuno. Gli individui li vogliamo scatenare perché — come già confidava privatamente un principe anarchico in un lontano passato — «senza disordine, la rivoluzione è impossibile». Quindi non abbiamo bisogno necessariamente di stare in prima fila, perché non vogliamo farci (ri)conoscere né abbiamo qualcosa da dimostrare. Può capitare, giacché anche il rifiuto pregiudizievole di unirsi ad altri ha poco senso, ma non è la nostra priorità.

Creare disordine. Allargare il disordine. Far durare il disordine. Questi sono i nostri obiettivi immediati. Il ritornello di tutti gli organizzatori di masse è che un disordine prolungato è ciò che prepara e giustifica il ritorno del potere. A loro dire il disordine deve durare il meno possibile ed è necessario mettere subito in atto misure in grado di soddisfare i bisogni di tutti, altrimenti è inevitabile che si ritorni al passato. Non siamo d’accordo. Noi invece pensiamo che un disordine momentaneo sia tollerabile, talvolta persino auspicabile, da parte del potere. Perchè concede uno sfogo in grado di allentare la pressione. L’abitudine millenaria ad inginocchiarsi non si perde in pochi giorni o settimane. E diffidiamo di chi intende organizzare non solo se stesso, ma anche gli altri. Solo un disordine prolungato può estirpare dagli individui l’abitudine all’autorità. Inoltre, chi lo dice che prima o poi l’ordine diventi necessario o auspicabile? Se il colore della libertà è il nero, allora il suo luogo può verosimilmente assomigliare più ad una giungla che ad una piazza o ad un laboratorio. E nonostante la piazza ed il laboratorio siano luoghi più comuni e più sicuri, bisogna decidersi a penetrare in quella giungla.

I disordini che verranno, qualunque sia la forma che assumeranno, ci danno una certezza: in mezzo al fragore sarà più facile rendersi irreperibili. Le forze dell’ordine si schiereranno a difesa di certi palazzi, lasciandone sguarniti altri. L’attenzione generale si concentrerà su alcuni punti, trascurandone altri. Molte vie delle città saranno paralizzate. Cosa c’è in quegli edifici che le costeggiano dove un eventuale allarme per forza di cose farebbe arrivare i soccorritori in ritardo? Quali sono quelle strutture, all’interno o lontane dalle metropoli, che ne consentono l’alienante funzionamento? E dove sono le loro diramazioni? Come bloccare, con mezzi di fortuna e senza nessuna presenza costante e quindi immobilizzante, le strade e le vie di accesso? Come allargare ed approfondire il disagio, anziché cercare di risolverlo? Tutti questi interrogativi, che per anni sono sembrati un eccentrico passatempo fra compagni, diventeranno — è questo l’auspicio — sempre più all’ordine del giorno.

E si tratta di interrogativi che potrebbero coinvolgere anche gli altri, i furibondi esclusi dalla democrazia, gli indignati delusi dalla democrazia. I primi sono sordi alle nostre parole, ma potrebbero rispettare ed anche riprodurre le nostre azioni. I secondi potrebbero in parte prestare ascolto ai nostri discorsi e magari anche attenzione ai nostri atti. Come rendersi rintracciabili, dare appuntamento alla rabbia di entrambi senza scadere nel pedagogismo e nell’opportunismo? Come accorciare una distanza che inizialmente non può che essere cospicua? Ne vale la pena o è solo una perdita di tempo e di energie? Fra tanti insoddisfatti, ci possono essere inaspettati complici con cui incontrarsi, per chi non cede alla tentazione di considerarli alleati da blandire o da tollerare in vista di stipulare affari proficui?

Se poi la situazione dovesse infine farsi incandescente, sorgeranno altri quesiti. Il corso di tutte le insurrezioni e di molte sommosse presenta alcuni tratti simili. Si ha un’esplosione che sospende la routine quotidiana, la normalità. Per un periodo di tempo più o meno lungo, l’impossibile è a portata di mano. Lo Stato indietreggia, si ritira, scompare quasi. Il movimento, in preda all’entusiasmo, tende a lasciare intatte le strutture del dominio, considerate ormai neutralizzate, per assaporare infine la gioia di nuovi rapporti. Passata la piena, iniziati i primi problemi, lo Stato ritorna e fa piazza pulita. Consapevoli di ciò, anche grazie alle lezioni della “Storia”, si può immaginare cosa fare?

Si può, ad esempio, cercare di resistere agli entusiasmi e concentrarsi su quella breve frazione di tempo in cui lo Stato abbandona il campo? Ecco, lì è l’attimo in cui giocarsi il tutto per tutto. Il momento in cui bisogna essere in grado di compiere gesti irreparabili che non permettano più un ritorno al passato. Quali sono questi gesti? Come realizzarli? Contro quali obiettivi? Il passato offre qualche spunto, ma che in sé non costituisce di certo un modello. Durante la Comune di Parigi, ad esempio, un gesto irreparabile fu senz’altro la fucilazione dell’arcivescovo. Dopo quel fatto compiuto, nessun accordo, nessuna trattativa divenne più anche solo pensabile. O scompariva lo Stato, o scompariva la Comune.

È questo uno dei problemi principali da affrontare, come ben sanno i compagni greci che si stanno interrogando da tempo su come fare per andare avanti dopo che nel corso degli ultimi anni è stato dato alle fiamme praticamente tutto. Lo Stato è assediato dai manifestanti, delegittimato, ma governa. L’economia ha perso un numero considerevole di banche e di credibilità, ma comanda. Il movimento ha dato grandi dimostrazioni di forza, ma non avanza. Manca quel qualcosa in più in grado di…

Non si tratta di usare il senno del poi per trovare nuove risposte a vecchie domande. Queste ultime sono scadute, decomposte, spazzate via dalla perdita del linguaggio e dall’erosione del significato. Ecco perché diventa importante porsi nuovi interrogativi ed iniziare ad esplorarli.

 

[un contributo dell’Incontro internazionale anarchico, Zurigo, 10-13/11/12]

 

http://www.atabularasa.org/lib/qualcosa-che-manca