Tesi di Cosenza. Il problema dell’occupazione. Per una critica della prospettiva anarco-sindacalista.

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di Alfredo Maria Bonanno

Tesi di Cosenza.
Cfr. Alfredo M. Bonanno, Tesi di Cosenza. Il problema dell’occupazione. Per una critica della prospettiva anarco-sindacalista, in “Anarchismo”, marzo 1987, n. 56, pp. 85-88.


Il cambiamento in corso

L’evoluzione tecnologica non è un fenomeno caratteristico soltanto di questi ultimi anni. C’è stata sempre. Dalla caverna al computer si può tracciare una linea ininterrotta di modificazioni e miglioramenti della tecnologia impiegata dall’uomo per trasformare la realtà che lo circonda e per renderla più adatta a permettere la sopravvivenza della specie umana.
Osservando questo fenomeno storico gli illuministi conclusero che esisteva un progresso nella vicenda umana e trasmisero ai pensatori del secolo successivo (utopisti compresi) la fede che questo progresso sarebbe stato ineluttabile. Da ciò la logica conclusione che una crescita e una accumulazione dei mezzi tecnologici potesse essere sempre considerata un fatto positivo. E ciò in quanto il progresso avrebbe portato, ineluttabilmente, all’avvento della società liberata (la società anarchica) e certamente sarebbe stato meglio, in questa società, avere a disposizione quanti più mezzi tecnologici possibili, naturalmente non più usati per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma impiegati per la solidarietà e la pace.
Purtroppo, una certa parte del pensiero e dell’azione anarchica è rimasta legata a concezioni di tale tipo che oggi dovrebbero – a nostro avviso – essere sottoposte ad una critica più approfondita.

La nuova tecnologia

La rivoluzione post-industriale, come è stato definito il profondo cambiamento realizzatosi in questi ultimi dieci anni, ha posto in essere una nuova tecnologia, profondamente diversa da quella precedente.
Adesso siamo davanti ad una realtà che sta velocemente consegnando a processi solo parzialmente reversibili, la gran parte degli aspetti decisionali. In altre parole, il capitale e lo Stato si stanno, sempre di più, affidando a procedimenti tecnologici che avranno conseguenze enormi sulla struttura produttiva e repressiva, determinando cambiamenti irreversibili a livello sociale.
Tutto ciò era certamente accaduto anche in passato. Basta pensare ai grandi genocidi che precedettero e resero possibile la rivoluzione industriale e all’inurbamento massiccio che ne seguì, con profonde modificazioni nel modo di vivere (e di morire).
Ma ora le cose sono diverse. Se anche la vecchia tecnologia non era “asettica”, ma produceva conseguenze sociali, quella di oggi, che possiamo riassumere con il termine di “informatizzazione”, è capace di produrre modificazioni impensabili non solo nel modo di vivere (e, quindi, di pensare); ma anche, e principalmente, nella stessa struttura di classe.

Il nemico

Ne risulta che il nemico è non solo chi impiega e realizza e perfeziona la tecnologia del dominio, ma anche la tecnologia stessa. E’ scomparso il mito della scienza “oggettiva”, strumento docile nelle mani di chi la usa. Oggi la usano i capitalisti, domani la useranno i rivoluzionari. Oggi fonte di morte, domani fonte di pace e di prosperità.
La scienza e la tecnologia che ne è la realizzazione pratica, hanno preso la strada della distruzione radicale e completa di una stragrande maggioranza del genere umano. Non sappiamo se il progetto sia cosciente o meno – come qualcuno ha suggerito -, ma sappiamo che tecnologie come quella atomica e quella elettronica, collegate in modo indissolubile, sono strumenti di morte e di oppressione e non potranno mai essere usate in modo diverso.

Nessun patrimonio

Attraverso questa tecnologia stanno rapidamente adeguando la cultura proletaria alla flessibilità, al cambiamento, all’accettazione, all’accomodamento.
La contrapposizione netta non sarà più possibile. I valori che tradizionalmente appartenevano al proletariato saranno, a poco a poco, spazzati via. Al loro posto subentreranno valori prefabbricati nei laboratori elettronici. Una cultura inferiore, codificata in modo semplice, sostituirà le vecchie passioni determinate dalla mancanza e dalla sofferenza. Uno stato di apatia e di sonnolenza andrà lentamente a sostituirsi all’attuale e al passato stato di cosciente contrapposizione.
Lo sviluppo stesso della nuova tecnologia sottrarrà il passato patrimonio che poteva essere disponibile per un eventuale uso rivoluzionario. In un mondo in cui gli oppressi sapranno a mala pena schiacciare i pochi bottoni necessari all’utilizzo dei terminali che li riguardano, restando poi come stupidi imbecilli davanti ai prodotti forniti dalla minoranza di potere, come si potrà mai ipotizzare un uso rivoluzionario e liberatore di mezzi che saranno chiaramente al di là della stessa comprensione degli sfruttati?
La nuova tecnologia, nel proprio sviluppo, ha quindi programmato anche l’impossibilità di un uso diverso di se stessa. Questo rientra nei programmi di controllo e di difesa che vengono accuratamente realizzati fin da adesso.

La lotta per l’occupazione

In una prospettiva del genere diventa chiaramente una lotta contraddittoria.
Da un lato mantiene le sue caratteristiche tradizionali di lotta difensiva diretta a rendere possibile un futuro allargamento della lotta stessa in quanto consente la sopravvivenza del lavoratore (altrimenti, si dice, condannato all’inazione). Dall’altro, invece, indirizza verso falsi obiettivi le forze proletarie, mascherando obiettivi reali che potrebbero e dovrebbero essere colpiti prima.
In effetti, le recenti ristrutturazioni e quelle in corso, veramente colossali, stanno insegnando che il capitale – tramite l’intervento regolativo dello Stato – ha capito bene che esiste uno stretto legame tra livello occupazionale e potere d’acquisto della moneta. Per cui riducendo l’occupazione anche col ricorso “provvisorio” ad espedienti assistenziali, si ottiene il risultato di “fare andare meglio le cose”. Da ciò il pericolo di lotte sociali, determinate dalla riduzione dell’occupazione, viene cancellato o, almeno, attenuato da un più generale senso di sicurezza che la classe media e una parte non trascurabile del proletariato, riescono ad avere. Dopo tutto una parte amplissima dei lavoratori continua a riscuotere la paga, anche se le possibilità di lotta che si vanno prospettando sono sempre più marginali e irrisorie.
Il risultato immediato è quello di creare una fascia, in continuo aumento, di desalarizzati che viene sospinta verso l’improbabile (ma teoricamente possibile) ricerca di un’attività autonoma (arrangiarsi in mille modi non è poi tanto male). Questa fascia non ha la carica sovversiva del vecchio sottoproletariato in quanto, potenzialmente, e di certo in linea di tendenza sta assorbendo la cultura dell’adattamento e della flessibilità attraverso i terminali della cultura di potere.
La seconda fascia – quella salarizzata – sta per essere condizionata in modo più pesante all’accettazione della tecnologia di supporto. In altri termini, questa fascia resterà per sempre lontana dalla comprensione della tecnologia dominante. Le sarà fornito un linguaggio subordinato, essenzializzato, adatto al funzionamento di strumenti semplificati e terminali. A suo modo questa fascia salarizzata sarà obbligata ad accettare una logica d’impresa. Da ciò il malinconico tramonto della centralità operaia e la sua sostituzione con la “centralità dell’impresa”. Non è un “tradimento” che il sindacato ha maturato all’ombra del potere. E’ una logica conseguenza della realtà post-industriale.
In questo senso, quali significati dare alla lotta per l’occupazione? Come distinguere la posizione dei lavoratori dell’Alfa Romeo e, perché no, della Breda o dell’Oto Melara? Forse che la gestione del capitale finanziario é meno pericolosa della fabbricazione e messa in commercio di cannoni carri armati e missili?

Due possibilità

In questa prospettiva cade la logica anarco-sindacalista come cade qualsiasi logica che parta da una difesa delle condizioni presenti nella speranza (o nella certezza) di un loro possibile capovolgimento in senso rivoluzionario (o banalmente migliorativo ).
Restano due possibilità. Diverse, ma che conducono allo stesso risultato perché accomunate dalla medesima pulsione alla rivolta.
La prima è la possibilità di quella parte di “esclusi” che sono, di già, o lo saranno nei prossimi anni, tagliati fuori dal processo di salarizzazione. Non sarà una possibilità di rivolta basata solo sulla “miseria” nel senso tradizionale cui siamo stati abituati. Anzi, lo Stato e il capitale faranno di tutto per realizzare condizioni se non proprio assistenziali almeno di parziale riduzione delle tensioni più gravi. Ma sarà una rivolta basata sull’inutilità della propria vita, sull’insofferenza ai controlli militari che per forza di cose saranno sempre più soffocanti, sulla noia davanti la meccanica ripetitività degli stessi gesti e degli stessi passatempi.
La seconda è la possibilità di quella parte di “esclusi” che resteranno nell’aria della salarizzazione. Fin quando il linguaggio “ridotto” che stanno costruendo non avrà tagliato definitivamente il contatto con l’altra parte del muro (dove si trovano gli “inclusi”), qui sarà ancora possibile una lotta sulla rivendicazione e sul desiderio insoddisfatto. Non una vera e propria lotta per l’occupazione quanto una lotta basata sull’odio per coloro che posseggono la cultura, il gusto, la qualità della vita che invece vengono negati in modo molto più drastico di quanto una volta non si negasse il pane.
Due possibilità, due diversi modi di intervento.

Un destino comune

Per quanto oggi possa sembrare radicale la differenza tra la situazione di chi ha un lavoro e quella di chi é disoccupato, questa differenza, nei prossimi anni, tenderà ad affievolirsi.
ln un modo o nell’altro, non sarà il salario a distinguere gli “esclusi” ma la loro diversa cultura, il loro più modesto linguaggio, i loro gusti e i loro desideri, tutti circoscritti e preconfezionati nei laboratori del dominio.
Per i non salarizzati si troveranno soluzioni di accomodamento. Lavori piccoli, autonomi, neri, parziali, scarsamente remunerativi, assolutamente inutili. Lavori che li metteranno in grado di sopravvivere – anche con parziali sistemi di assistenza statale -.
Ma in che cosa questa situazione sarà diversa da quella dei salariati? In che modo questi ultimi troveranno un senso alla propria vita, nella giungla di bottoni da spingere, sempre più semplificati e sempre meno degni di un impiego della propria intelligenza.
E ciò mentre tutti saranno sempre di più immersi in una cultura generale di massa basata su messaggi codificati in cui mancherà una sia pur tenue luce critica. La musica, le arti collettive, gli stimoli assembleari, le discussioni prive di senso, gli sports di massa, la cura del proprio corpo, le pratiche religiose orientali (ed anche occidentali, ma più sofisticate del becero cattolicesimo), tutto ciò costituirà la cornice di fondo.
Dall’altro lato, nel castello teutonico dove si arroccheranno in modo sempre più inespugnabile gli “inclusi”, ci sarà solo da prendere le decisioni in merito a quale sorte destinare questo esercito, sempre crescente, di “esclusi”.
Procedere a delle grandi eliminazioni di massa? Potrebbe essere possibile. La tecnologia attuale lo permette. Le guerre del passato (e di un recente passato) sono simili a piccoli giochi tanto per tenere in esercizio generali e gente del genere. Comunque, non è questo un problema immediato. Quello che più ci interessa, anche in questa sede, è sottolineare che il destino comune delle due fasce di “esclusi”, le porterà ad una comune azione contro gli oppressori, almeno fin quando questa azione sarà comprensibile, cioè fin quando non avranno “tagliato” la comunicazione.
E questa azione sarà la rivolta.

Rivolta spontanea o insurrezione organizzata

La funzione della minoranza anarchica rivoluzionaria dovrebbe essere pertanto quella di trasformare le rivolte spontanee in azioni insurrezionali coscienti. Le prime, motivate da un senso vago e generico di insoddisfazione, di inutilità, di insofferenza, stanno scoppiando e continueranno a scoppiare. Le seconde sono un elemento fondamentale del futuro progetto rivoluzionario.