Nel distinguere il vero romanticismo da quello fasullo, Victor Hugo osservava come ogni autentico pensiero fosse spiato da un inquietante doppio sempre in agguato, sempre pronto a frapporsi all’originale. Personaggio di stupefacente plasticità che gioca sulle similitudini per racimolare qualche applauso sul palcoscenico, questo doppio ha la particolare capacità di trasformare lo zolfo in acqua santa e di farlo accettare al pubblico più recalcitrante. Anche l’insurrezione moderna, quella che fa volentieri a meno dei Comitati Centrali e dei Sol dell’Avvenire, si trova a fare i conti con la sua ombra, col suo parassita, col suo classico che la imita, che si veste dei suoi colori, ne indossa i vestiti, ne raccoglie le briciole.
Sull’onda del clamore mediatico che l’ha reso un best-seller in Francia, è ormai disponibile anche in versione italiana L’insurrezione che viene (in formato elettronico, scaricabile dall’indirizzo: http://damiel.dailyjyhad.com/2009/06/10/linsurrezione-che-viene/).
Pubblicato nel marzo 2007, a firma Comitato Invisibile, questo testo è salito alla ribalta delle cronache transalpine grazie a un’inchiesta giudiziaria che ha portato lo scorso 11 novembre 2008 nel piccolo paese di Tarnac all’arresto di 9 sovversivi, accusati di coinvolgimento in un sabotaggio contro la rete ferroviaria ad alta velocità. Come spesso accade in questi casi, il magistrato inquirente ha cercato di rafforzare il suo teorema anche dal punto di vista “teorico”, attribuendo ad uno degli arrestati la paternità del libro in questione. Stampato da una piccola casa editrice commerciale di sinistra e distribuito su tutto il territorio nazionale, già bene accolto dall’establishment al momento della pubblicazione — L’insurrezione che viene è diventato per decisione della Procura un pericoloso e temibile «manuale di sabotaggio». Da qui il suo successo, alimentato dalla discesa in campo in suo favore di alcuni chierici dell’intellighenzia (francese e non solo), preoccupati per l’indebita intrusione poliziesca nell’ambito della filosofia politica. Se è intuibile lo sconcerto di chi ha scoperto all’improvviso che il Partito potrà anche essere Immaginario, ma la polizia molto meno, lo è ancor più la soddisfazione dell’editore di questo libretto, che mai avrebbe pensato di trovare nel Ministero degli Interni un agente pubblicitario tanto efficiente. Ad ogni modo, tutti gli arrestati nel giro di qualche mese sono usciti dal carcere e si spera che lo evitino a lungo. Si può chiudere qui ogni riferimento a questa vicenda che non ha mancato di assumere connotati grotteschi, dato che l’accostamento fra L’insurrezione che viene e gli arrestati di Tarnac, in fin dei conti, è opera della magistratura francese. Non c’è quindi motivo per ora di occuparsene.
Meritevole di segnalazione è invece la breve nota introduttiva dell’edizione italiana, in cui i “Traduttori Invisibili” (quando si dice il franchising della politica…) non esitano ad usare l’inchiesta giudiziaria di cui sopra quale dimostrazione pratica del valore di questo testo. Dopo aver dato la parola al suo presunto autore, secondo cui «Lo scandalo di questo libro è che tutto quello che vi figura è rigorosamente e catastroficamente vero, e non cessa di avverarsi ogni giorno di più» (citazione tratta da un’intervista rilasciata al noto quotidiano sovversivo Le Monde), i Traduttori Invisibili giungono alla bizzarra conclusione che sia stato arrestato solo perché sospettato di aver scritto «il libro che tenete fra le mani». In preda all’eccitazione, scrivono di averlo tradotto «perché quel che dice è vero, e soprattutto, lo dice». Ragion per cui «dovremmo quasi ringraziare il triste teatrino delle leggi antiterrorismo… per aver permesso che questo libro venisse letto su così vasta scala, in maniera collettiva, e spesso da un punto di vista pratico. Se non fosse stato per loro, probabilmente la gioia propagata da questo libro non avrebbe raggiunto così tante persone». Che dire al cospetto di simili considerazioni che gareggiano in devozione con altre salivazioni di prositus memoria? Forse basterebbe ricordare che non è certo la prima volta che uno scritto sovversivo viene usato come pezza d’appoggio in una inchiesta giudiziaria, senza per questo diventare Vangelo. Sarebbe come pretendere che la detenzione di certi stalinisti dimostra la verità delle pubblicazioni marxiste-leniniste o quella di certi anarchici la verità dei libri antiautoritari. Che poi il potere francese non sobbalzi per le sommosse che infiammano le banlieu, per i periodici movimenti sociali radicali, per le azioni dirette che vanno diffondendosi in tutto il territorio, né tantomeno per un possibile incontro fra questi eventi — macchè! — quanto per un loro commentario acquistabile per 7 euro in ogni libreria… si tratta di una consolazione tipica di certi barricaderi da salotto. Il fatto che i Traduttori, Invisibili ma soprattutto Interessati, trasformino la repressione in uno spot pubblicitario non dice nulla sul conto di questo libro. Ma dice molto sul loro conto.
Bando a questi squallori, L’insurrezione che viene non aspetta.
Ma qual è l’insurrezione in arrivo che bisogna esaminare? Quella originale partita dalla Francia, o quella sbarcata altrove preceduta da squilli di tromba? Non facciamoci ingannare dalle apparenze, giacché non si tratta affatto della stessa. La prima è l’espressione di un milieu che in un mondo di zombi punta diritto al successo resuscitando il cadavere dell’avanguardia, e per far questo si appoggia sull’industria culturale. La seconda, che ha la sventura di essere esibita in un paese dove per ora la rivoluzione non fa mercato, è costretta a coprire i lustrini della merce con il mantello della cospirazione. Gli italici lettori che leggeranno con avidità questo testo, inebriati dal profumo sovversivo spruzzatogli addosso dai flic, avrebbero fatto altrettanto se l’avessero trovato in uno scaffale della Feltrinelli con la sola raccomandazione di qualche addetto ai lavori? Ci sia permesso di dubitarne. Ma tant’è, inutile ricamarci troppo sopra. Cominciamo quindi col prendere questo testo alla lettera, fuori dal suo contesto specifico su cui torneremo brevemente alla fine. Va da sé che sono le discordanze, più delle concordanze, ad aver attirato la nostra attenzione.
Oltre che da un prologo, il libro è composto da sette cerchi e quattro capitoli. Nella prima parte il Comitato Invisibile in vesti dantesche ci fa attraversare l’inferno dell’attuale società illustrandolo con numerosi esempi. Nella seconda veniamo introdotti nel paradiso dell’insurrezione, da raggiungere attraverso una moltiplicazione delle comuni. Se la prima parte ha gioco facile nel riscuotere una certa approvazione, con una panoramica sul mondo che ci offre uno scorcio delle continue devastazioni, la seconda arranca non poco. Entrambe presentano tuttavia una caratteristica comune: una certa vaghezza, ben celata dallo stile secco e perentorio. Ma siamo sicuri che ciò costituisca un difetto e non sia, viceversa, un ingrediente fondamentale del successo di questo libro?
Per quanto redattore di un saggio di filosofia politica, il Comitato Invisibile ostenta un forte disprezzo per la speculazione ed una spiccata propensione per la pratica. E ciò è bene, soprattutto perché gli permette di intascare sia il plauso di eruditi in astinenza di vitamine che quello di attivisti assetati di sapere. Distinguendosi dalle molteplici sette marxiste, il Comitato Invisibile non ama le grandi analisi che tutto sussumono & spiegano, spiegano & sussumono. Analisi intelligenti finché si vuole, per carità, ma che dopo un secolo e mezzo hanno rotto un po’ i coglioni. Sono incerte, discutibili, talvolta anche patetiche. La critica all’esistente, preso nella sua totalità, non gli interessa. Proprio come le varie sette marxiste, però, il C.I. è voglioso di imporre la propria visione. Ma, dato che oggi un discorso che pretendesse d’esser preso sul serio perché fondato su presupposti “scientifici” susciterebbe una certa ilarità, meglio puntare su altro, meglio spacciarlo per vero in quanto basato su constatazioni. Basta con le analisi, le critiche, gli studi, largo all’evidenza ed alla sua granitica oggettività che balza subito agli occhi. Così, con affettata umiltà, il Comitato Invisibile precisa fin dall’inizio di accontentarsi «di mettere un po’ d’ordine tra i luoghi comuni di quest’epoca, tra ciò che si mormora ai tavoli dei bar, o dietro le porte chiuse delle camere da letto», cioè di «fissare le verità necessarie». I suoi membri non si ritengono nemmeno gli autori di questo libro: semplicemente «si sono fatti scribi della situazione. È privilegio delle circostanze radicali, che il senso del giusto ci porti e ci conduca, logicamente, alla rivoluzione. Basta riconoscere che tutto ciò lo si ha sotto gli occhi, senza eludere l’ovvia conclusione». Scommettiamo che non ci avevate pensato: i luoghi comuni sono le verità necessarie da trascrivere per risvegliare il senso del giusto che porta logicamente alla rivoluzione. Ovvio, no?
Tuffatevi pure nei sette cerchi che suddividono l’inferno sociale contemporaneo e troverete ben poche idee su cui riflettere, però molti stati d’animo da condividere. Come già detto, gli autori/redattori di questo testo evitano di basare il proprio discorso su una qualsivoglia teoria. Per non correre il rischio di risultare stantii, gli scribi preferiscono registrare il vissuto nella sua ordinarietà, ove tutto diventa familiare, come un luogo comune appunto. In questo nitido e ben articolato fluire di banalità quotidiane — fatto di aneddoti, facezie, slogan pubblicitari, sondaggi e via intristendo — ognuno vi trova del suo e vi si riconosce. Nel prendere atto con toni apocalittici della fine del mondo incombente, nel passare in rassegna i diversi ambiti sociali in cui essa si sta consumando, il Comitato Invisibile si sofferma sugli effetti più immediatamente percepibili, tacendo le possibili cause. Infatti, ci informa, «il malessere generale smette di essere sostenibile, dal momento in cui appare per quello che è: un malessere senza causa, né ragioni». Senza causa né ragioni? Non aspettatevi critiche radicali all’esistente, magari mescolando quelle comuniste al capitalismo con quelle anarchiche allo Stato: è un vecchiume che va evitato, se si vuole apparire originali. Di questa civiltà vengono sì attestati l’impotenza politica, la bancarotta economica, il decadimento sociale, ma sempre visti dall’interno. Senza delusione per ciò che è, ma pure senza slancio per ciò che potrebbe essere. Questo perché L’insurrezione che viene, dopo esser nato sotto forma di merce editoriale, è pensato e scritto per raggiungere il “grande pubblico”. E il “grande pubblico” è composto da spettatori avidi di emozioni da consumare sul momento, nel corso di situazioni, ed è refrattario alle idee che possono dare senso ad una vita intera. Al “grande pubblico”, se lo si vuole sedurre, bisogna propinare immagini facili in cui sappia rispecchiarsi senza troppa fatica (come dichiarano compiaciuti gli impareggiabili traduttori italiani, «senza promesse di comprensioni da raggiungere al termine di chissà quali interpretazioni»).
È quasi banale osservare come il fantasma di Guy Debord infesti questo testo, che a tratti ricorda Fight Club. Sì, proprio il celebre film tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, noto per lo stile «asciutto e innovativo, con contenuti nichilistici». Il Comitato Invisibile ci fa venire in mente l’azzimato Edward Norton seduto sul cesso con il catalogo Ikea in mano, sul punto di esplodere e tramutarsi in un selvaggio Brad Pritt. Stessa “schizofrenia”, stesse frasi ad effetto sparate a bruciapelo.
— Questa è la tua vita e sta finendo un minuto alla volta.
— Dopo la lotta ogni altra cosa nella vita si abbassava di volume. Potevi affrontare tutto!
— Era davanti agli occhi di tutti, Tyler e io l’avevamo solo reso visibile. Era sulla punta della lingua di tutti, Tyler e io gli avevamo solo dato un nome.
— Omicidi, crimini povertà. Queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con cinquecento canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci per capelli, il viagra, poche calorie.
— È solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa.
— Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.
— Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene.
— Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!
— Perché questi edifici? perché le società di credito? – Se si cancella la traccia dei debiti allora torniamo tutti a zero. Si crea il caos totale.
… e avanti così fino al crollo delle metropoli.
Su questa stessa aria nichil-estetica, ne L’Insurrezione che viene la fine della convivenza civile è raffigurata con la distanza che separa il sentimentalismo delle canzonette dal bellicismo del rap più militante. La fine della famiglia si evince dal clima di noia e imbarazzo che incombe sulle rituali cene comuni. La fine dell’economia è leggibile nelle barzellette che circolano fra gli stessi manager. La fine delle città si concretizza sotto forma di manifesto pubblicitario. Arrivati alla fine del settimo cerchio, la conclusione è scontata: come il duo Norton/Pitt, il Comitato Invisibile merita gli applausi. Che non sia così difficile essere convincenti quando ci si limita a descrivere l’orrore quotidiano di cui siamo tutti vittime, poco importa. Che poi qua e là questa lunga sequela di constatazioni oggettive lasci trapelare qualche tic soggettivo, a chi interessa? Su, non siate pedanti. Non ringhiate davanti alla reiterata apologia del Noi collettivo accompagnata dall’incalzante disprezzo per l’Io individuale. Già liquidato come ispiratore della Reebok, l’individuo si ritrova poi contrabbandato come sinonimo di «identità», «problema», «camicia di forza». Agli aspiranti pastori piace crogiolarsi nel lezzo del branco. Per farli felici basta l’evocazione di una banda di strada o di un collettivo politico, coi relativi gregari a fare rissa e corteo per il controllo rackettistico del «territorio». L’unicità va respinta perché non fa massa di manovra. Il grado zero di coscienza è il silenzio in cui rimbombano più forte gli slogan, la carta bianca su cui sono stampati gli Appelli all’arruolamento.
Allo stesso modo non corrucciatevi al cospetto del bizantino distinguo fra la politica e il politico, dell’affannoso tentativo di salvare il salvabile dopo aver preso atto del naufragio in corso. Il fuoco che incenerisce qualsiasi rivendicazione, come il furore che si sottrae ad ogni civile confronto, hanno senz’altro un significato politico. Ma per chi? Non per gli anonimi insorti che vogliono fare tabula rasa di quanto li circonda, ai quali basta dare libero corso ai propri desideri. Ogni preoccupazione politica appartiene solo agli «pseudopodi di Stato». E non sbuffate di fronte alla riproposizione di tiritere dialettiche, immancabili giochi ad incastro che trasformano il susseguirsi di eventi in un meccanismo ben oliato (se per Marx ed Engels «la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte», per il Comitato Invisibile «la metropoli produce anche i mezzi della sua stessa distruzione»). Se tutto ciò vi ricorda qualcosa di vecchio e lugubre, è solo perché siete imbevuti di pregiudizi ideologici vecchi e lugubri.
Drammaticamente consapevole che «Non ci si sbarazza di ciò che ci ostacola senza perdere, nel momento stesso dell’atto di disfarsene, l’oggetto sul quale le nostre forze potrebbero essere esercitate», il Comitato Invisibile si tiene ad accorta distanza da ogni irriducibile alterità. Meglio non eccedere in «disaffiliazione», meglio che essa rimanga «politica». Questa società è diventata invivibile, viene detto e ripetuto, ma solo dopo averne constatato gli insuccessi nel mantenere le proprie promesse. Viene da chiedersi: altrimenti? Chissà, forse se non fossimo «stati espropriati della nostra lingua dall’insegnamento», o «delle nostre canzoni dagli spettacoli di varietà», o «delle nostre città dalla polizia»… potremmo ancora essere felici di vivere nel nostro mondo. In attesa di riappropriarci di qualcosa che non abbiamo mai posseduto, possiamo campare & lottare sfruttando i nostri genitori («Di ciò che vi è di incondizionato nei legami di parentela, noi contiamo di farne l’armatura di una solidarietà politica, impenetrabile dall’ingerenza dello Stato quanto può esserlo un accampamento di gitani. Non vi è nessuna, tra le interminabili sovvenzioni che numerosi genitori sono obbligati a versare alla loro progenie proletarizzata che non possa divenire una forma di mecenatismo in favore della sovversione sociale»), o magari partecipando alla fiera elettorale («Quelli che votano ancora, danno l’impressione di non avere più altro obiettivo che non sia far saltare le urne a forza di votare, per pura protesta. Si comincia a pensare che sia proprio contro lo stesso voto che si continua a votare»). Questi filosofi radicali, che mattacchioni! Tanto da maltrattare i più conformisti fra i loro lettori, spaventandoli con l’evocazione degli incendi dell’inverno 2005, minacciandoli con l’apologia della teppa di periferia, stupendoli con l’affermazione dell’inutilità pratica dello Stato, arrivando ad accusarli di invidiare la vita dei poveri.
Tutto ciò per arrivare dove? Per il Comitato Invisibile, questa civiltà non ha più nulla da offrire. Solo che si tratta di un tramonto che non annuncia nessuna aurora. Come in tutte le forme di nichilismo — ed è risaputo come nulla ecciti i filosofi radicali più del nichilismo — è la tensione utopica a farne le spese. Al di fuori di questo mondo c’è solo questo mondo. Non c’è soluzione, non c’è futuro. Rimane solo un presente in rapida decomposizione, al cui interno sopravvivere alla meno peggio. Non stupisce quindi se per gli scribi «Divenire autonomo» significa semplicemente «imparare a battersi nelle strade, ad accaparrarsi case vuote, a non lavorare, ad amarsi follemente e a rubare nei supermercati»: sopravvivere alla meno peggio, appunto.
Ma allora, l’insurrezione? Che diamine, ora ci si arriva. Dopo aver descritto un malessere sociale senza causa né ragioni, eccoci giunti alla seconda parte, quella in cui si annuncia una insurrezione senza contenuto. Anche qui, fin dall’inizio, spicca un’approssimazione buona per accontentare tutti i palati. Un’insurrezione, esordisce il Comitato Invisibile, «non immaginiamo nemmeno più da dove cominci». Da una sommossa — è stato fatto notare con irritazione. Naaah, troppo preciso. Meglio lasciare la questione in sospeso, così da attrarre quanti più curiosi è possibile, e spiccare pindarici voli per scansare i punti su cui solitamente gli animi si dividono. Pensate che i rapporti fra sovversivi debbano basarsi sulla affinità (cioè su un’assodata condivisione di prospettive generali e di idee) o piuttosto sulla affettività (cioè su una momentanea condivisione di situazioni particolari e di sentimenti)? Niente paura, al Comitato Invisibile basta un salto acrobatico per superare con non chalance l’ostacolo e dondolare su una sensazionale sovrapposizione («Ci siamo abituati a un’idea neutra dell’amicizia, come un puro affetto senza conseguenza. Ma qualsiasi affinità è affinità a una verità comune»). Il trucco è semplice. Anziché partire dai desideri individuali, per forza di cose molteplici e divergenti, basta partire da contesti sociali facilmente percepibili come comuni. Al Comitato Invisibile non garbano le idee che si possiedono, preferisce le verità che ci possiedono: «Una verità non è un’opinione sul mondo, ma quello che ci tiene legati ad esso in una maniera irriducibile. Una verità non è qualcosa che deteniamo, ma qualcosa che ci sostiene». La verità è esterna ed oggettiva, univoca, al di fuori di ogni discussione. L’imminenza della fine del mondo che ci circonda, ad esempio (ignorando quindi un possibile prolungamento artificiale di questa agonia). Basta condividere il sentimento di questa verità per ritrovarsi a fare comunella su banalità del tipo «bisogna organizzarsi». Non rompete l’incantesimo. Date per buona questa verità, secondo cui il vicolo cieco in cui si trova l’ordine sociale si tramuta in un’autostrada per l’insurrezione, e non osate chiedere: organizzarsi come? per fare cosa? con chi? e perché?
Siete fra quelli che ritengono che la distruzione del vecchio mondo sia un momento inevitabile e preliminare ad un’autentica trasformazione sociale? o forse siete persuasi che la nascita immediata di nuove forme di vita riuscirà ad esautorare i vecchi modelli autoritari, rendendo superfluo ogni scontro diretto con il potere? Nessun problema, ancora una volta il Comitato Invisibile, con le sue estremità in tutte le staffe, è in grado di conciliare tensioni da sempre contrapposte. Mentre auspica «una molteplicità di comuni, che si sostituisca alle istituzioni della società: la famiglia, la scuola, il sindacato, il club sportivo, e così via», teorizza di «Non rendere visibile, ma volgere a nostro vantaggio l’anonimato in cui siamo stati relegati e, attraverso la cospirazione, l’azione notturna o a volto coperto, farne un’inattaccabile posizione di attacco». La mancanza di imbarazzo degli scribi-che-constatano-evidenze è imbarazzante. È vero che la storia del movimento rivoluzionario è un immenso arsenale, teorico e pratico, da saccheggiare. Ma la disinvoltura con cui sciolgono nodi secolari lascia allibiti da tanto è frutto di una grossolana manipolazione. Osserviamo come trasformano il concetto di «Comune» in un passepartout ideologico in grado di spalancare (loro) ogni porta. Pur di raccattare consensi in tutto il variegato campo degli insoddisfatti, fra i nemici di questo mondo (per cui la Comune è sinonimo della Parigi insorta del 1871) come fra gli alternativi a questo mondo (per cui la Comune è l’oasi felice nel deserto del capitalismo), essi si fanno i cantori di una “Comune” che vedono dappertutto: «Ogni sciopero spontaneo è una comune, ogni casa occupata collettivamente su delle basi chiare e precise è una comune, i comitati di azione del ‘68 erano delle comuni come lo erano i villaggi di schiavi neri negli Stati Uniti, o ancora Radio Alice a Bologna nel 1977». E poi cos’altro? «La comune è l’unità elementare della realtà partigiana. Un’ondata insurrezionale non è forse nient’altro che una moltiplicazione delle comuni, dei loro legami e della loro articolazione. A seconda del corso degli eventi, le comuni si fondono in entità di più ampio respiro, o al contrario si frazionano. Tra una banda di fratelli e sorelle legati “per la vita e per la morte” e la riunione di una molteplicità di gruppi, di comitati, di squadre per organizzare l’approvvigionamento e l’autodifesa di un quartiere, come di una regione in sollevazione, non vi è che una differenza di scala, esse sono indistintamente delle comuni». Certo, indistintamente tutte le vacche sono grigie.
È incredibile dover ricordare che il dibattito sul rapporto fra rottura rivoluzionaria e sperimentazione di forme di vita alternative al modello unico imposto dai rapporti sociali dominanti risale perlomeno alla fine dell’ottocento. In Italia si manifestò soprattutto nelle discussioni attorno alla Colonia Cecilia, mentre in Francia si incarnò nelle scelte esistenziali di due fratelli, Emile e Fortuné Henry (scusate, ma ognuno ha una sua Storia da tramandare. A differenza del Comitato Invisibile, a noi vengono in mente gli anarchici). Il primo dei fratelli, sottoscrivendo le parole di Alexandre Herzen secondo cui «Noi non costruiamo, noi demoliamo; noi non annunciamo nuove rivelazioni, noi distruggiamo le vecchie menzogne», salì sul patibolo dopo aver compiuto alcuni attentati dinamitardi; il secondo fondò la colonia di Aiglemont. I termini della questione da allora sono rimasti pressoché immutati: una nuova forma di vita si può palesare solo nel corso di fratture insurrezionali, oppure può verificarsi anche al di fuori di esse? Sono le barricate a rendere possibile l’impossibile attraverso la sospensione di abitudini, pregiudizi e divieti secolari, oppure questo impossibile può essere assaporato e alimentato quotidianamente a margine dell’alienazione dominante?
Il Comitato Invisibile è come la virtù: sta sempre nel mezzo. Come gli odierni sostenitori della “sfera pubblica non-statale” (dai militanti anarchici più bolsi ai “disobbedienti” negriani più scaltri), sostiene che «L’auto-organizzazione locale, imponendo la propria geografia alla cartografia dello Stato, la sconvolge, l’annulla: produce la sua propria secessione». Ma mentre i primi vedono nella progressiva diffusione di esperienze di autorganizzazione una alternativa all’ipotesi insurrezionale, il Comitato Invisibile propone una integrazione strategica di vie giudicate fino ad ora separate. Non più il sabotaggio o l’orto, bensì il sabotaggio e l’orto. Di giorno a piantare patate, di notte ad abbattere tralicci. L’attività diurna è giustificata dall’esigenza di non essere dipendenti dai servizi oggi forniti dal mercato e dallo Stato e di garantirsi così una certa autonomia materiale («Come nutrirsi una volta che tutto è stato paralizzato? Saccheggiare i negozi, come è stato fatto in Argentina, ha i suoi limiti»), quella notturna dall’esigenza di interrompere i flussi del potere («Il primo gesto per permettere che qualcosa sorga dal bel mezzo della metropoli, perché si aprano nuove possibilità, è arrestare il suo perpetuum mobile»). Trascinati dall’entusiasmo per questa brillante combinazione che mai nella mente di nessun rivoluzionario aveva fatto capolino, dopo aver prescritto che «Il movimento espansivo di costituzione delle comuni deve doppiare a livello sotterraneo quello della metropoli», gli scribi si domandano: «Perché le comuni non dovrebbero moltiplicarsi all’infinito? In ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni scuola. Finalmente, eccolo il regno dei comitati di base!». La risposta a questo interrogativo è un’evidenza facilmente constatabile a Tarnac, l’11 novembre 2008: la polizia che viene. Senza alcuna originalità, il Comitato Invisibile rimastica la vecchia illusione attiva negli anni 70 di una «Comune Armata», di una Comune cioè che non si arrocchi in difesa del proprio spazio liberato ma vada all’attacco degli altri spazi rimasti in mano al potere. Solo che questo non è realizzabile, per almeno due ordini di motivi.
Il primo è che, al di fuori di un contesto insurrezionale, una comune vive in uno degli interstizi lasciati vuoti dal dominio. La sua sopravvivenza è legata alla sua inoffensività. Finché si tratta di coltivare zucchine in orti biologici, di sfornare pasti in mense popolari, di curare malati in ambulatori autogestiti, va tutto bene. Alle volte serve qualcuno che rimedi alle carenze dei servizi sociali. In fondo fa comodo un’area di parcheggio per emarginati lontana dalle sfavillanti vetrine del centro cittadino. Ma, non appena si esce per andare in cerca del nemico, le cose cambiano. Prima o poi la polizia bussa alla porta e la comune finisce, o per lo meno si ridimensiona. Altro che «doppiare» la metropoli! Tutte le Comuni che hanno aggredito l’esistente hanno avuto vita breve.
L’altro motivo che vanifica il tentativo di una generalizzazione di “Comuni Armate” fuori da un’insurrezione, è dato dalle difficoltà materiali in cui si dibattono simili esperienze, che di solito vedono sorgere davanti a sé una miriade di problemi accompagnata da una cronica mancanza di risorse. Dato che solo pochi privilegiati sono in grado di risolvere ogni seccatura con la velocità con cui si firma un assegno (o lo si fa firmare da mamma e papà mecenati della sovversione), i partecipanti della comune quasi sempre sono costretti a dedicare tutto il tempo e le proprie energie al suo “funzionamento” interno. Insomma, per restare nella metafora, da un lato l’attività diurna con le sue esigenze tende ad assorbire tutte le forze a scapito dell’attività notturna; dall’altro, l’attività notturna con le sue conseguenze tende a mettere in pericolo l’attività diurna. Alla fine, queste due tensioni si vengono a scontrare. Fortuné Henry, nel momento in cui iniziò una intensa attività propagandistica che lo portò ad assentarsi da Aiglemont, vide il suo esperimento sociale naufragare in pochissimo tempo (e nessuno lo rimpianse). Gli anarchici illegalisti francesi di inizio novecento avevano sì convissuto nella colonia di Romanville, ma fu solo dopo il collasso di questo tentativo comunitario e il loro ritorno a Parigi che diventarono i «banditi in automobile».
Che sia chiaro. Ciò non vuol dire negare l’importanza e il valore di simili esperimenti. Significa solo non sovraccaricarli di un significato e di una portata che non possono avere. Come Malatesta nel 1913, «Noi non abbiamo niente da obiettare al fatto che alcuni compagni cerchino di organizzare la loro vita nel modo che la intendono e trarre il miglior partito che possono dalle circostanze in cui si trovano. Ma protestiamo quando dei modi di vita, che non sono e non possono essere che degli adattamenti al sistema attuale, si vogliono presentare come cose anarchiche e, peggio ancora, come mezzi per trasformare la società senza ricorrere alla rivoluzione». Un esperimento in vitro, limitato e circoscritto, è senz’altro in grado di fornire buone indicazioni e di tornare più che utile in determinate circostanze; ma non costituisce di per sé la liberazione.
Estendere il concetto di Comune a tutte le manifestazioni ribelli ed equiparare la loro somma a un’Insurrezione, come fa il Comitato Invisibile, è una trovata strumentale per aggirare la questione e far accogliere ovunque il proprio slogan pubblicitario. Se l’insieme di pratiche sovversive è l’insurrezione, allora questa non sta affatto arrivando: è già presente, lo è sempre stata. Non ve ne siete accorti? Più che una constatazione che diffonde gioia, ci sembra una consolazione che diffonde compiacimento. In gergo retorico si potrebbe forse definire, scusandoci per la trivialità, una metonimia. Detto terra terra, uno scambio di termini come quello che consiste nell’usare il nome della causa per quello dell’effetto, del contenente per il contenuto, della materia per l’oggetto… Si tratta di un confusionismo utile al Comitato Invisibile, che gli consente di blandire sia chi mira alla soddisfazione di bisogni quotidiani e sia chi punta alla realizzazione di desideri utopici (del resto, «non si sarebbero mai dovute slegare rabbia e politica»), di accarezzare sia chi è dedito a «comprendere la biologia del plancton» e sia chi si pone problemi quali «come rendere inutilizzabile una linea dell’alta velocità, o una rete elettrica? Come trovare i punti deboli delle reti informatiche, come offuscare le onde radio e mandare in panne il piccolo schermo?». Attraverso lo sfoggio del proprio essere pratico — nobile intento cui nessuno oserebbe opporsi — il Comitato Invisibile glissa su ogni questione che potrebbe sollevare discordia, sfregandosi le mani per la «fecondità politica» così raggiunta. Strepita a voce alta contro questa civiltà e non dice una parola su ciò per cui si batte. Il risultato pratico di questo atteggiamento? «Noi abbiamo l’ostilità a questa civiltà per tracciare solidarietà e dei fronti comuni su scala mondiale». In effetti, se l’ostilità a questa civiltà si accompagnasse alla passione per un’esistenza priva di ogni forma di dominio, tutti questi fronti comuni non sarebbero poi possibili: chi stringerebbe un’alleanza con un concorrente del potere?
Quando non ci si esprime né sul perché né sul cosa, figurarsi se si affronta la questione del come! Anche qui l’elusione viene rivestita con la stoffa dello stile: «Quanto a decidere l’azione, il principio potrebbe essere questo: che ciascuno vada in ricognizione, che si raccolgano le informazioni, e la decisione verrà da sola, prendendo noi piuttosto che venendo presa da noi». Inutile quindi perdere tempo in noiosi dibattiti sul metodo da adottare e sulla finalità da perseguire, che hanno per di più la disdicevole conseguenza di produrre dissapori: andiamo tutti a zonzo e la decisione verrà da sola. Bella, luminosa e valida per tutti. Se poi avete bisogno di qualche precisazione, date un’occhiata ai loro riferimenti storici e sforzate un po’ l’immaginazione. Sebbene a parole «L’incendio del novembre 2005 ne offre il modello», l’azione che hanno in mente gli scribi sembra assomigliare più a quella di un Partito delle Black Panthers guidato da Blanqui. Se ritenete che assomigli ad un guazzabuglio autoritario di tipo avanguardista, allora tocca constatare che siete irrimediabilmente vecchi e superati. Incapaci di accontentarvi di doti evanescenti quali la «densità» relazionale o lo «spirito» comunitario, magari siete anche capaci di trovare stucchevole la descrizione letteraria di cosa potrebbe accadere in una insurrezione, quella con cui si conclude il libro! Abbiamo già accennato alla scarsa precisione con cui è redatto questo testo, la quale non costituisce affatto il suo difetto maggiore, il suo lato debole, come qualcuno ha sostenuto nel recensirlo. Al contrario, appare il suo punto di forza. L’insurrezione che viene è al passo coi tempi, perfettamente alla moda. Possiede le caratteristiche più richieste del momento, è flessibile ed elastico, si adatta a tutte le circostanze (in ambito sovversivo). Si presenta bene, ha stile e risulta simpatico a chiunque perché dà un po’ di ragione a tutti, senza scontentare fino in fondo nessuno. Da questo punto di vista, è un libro decisamente politico.
Infine, due parole sul contesto da cui proviene questo libro. La Francia è notoriamente la patria della rivoluzione e dell’amore. Ma anche delle avanguardie culturali. Là è stato pubblicato il Manifesto del Futurismo, considerato il capostipite dell’avanguardia, là era attiva l’Internazionale Situazionista, considerata la sua ultima espressione. Il Comitato Invisibile è il negromante di questa putrida tradizione che vorrebbe coniugare tensioni rivoluzionarie e incassi di drogheria (solitamente mettendo le prime al servizio dei secondi). Come i suoi predecessori, non fa che pubblicizzare questioni che sono state sempre affrontate da individui e gruppi lontano e al riparo dal palcoscenico culturale e politico. Dopo aver attinto alle fonti più disparate del patrimonio rivoluzionario, dopo aver ben miscelato i singoli elementi prescelti, presenta con cipiglio questo frizzante mix sovversivo ad un pubblico di consumatori di brividi radicali, vantandone l’originalità. Pur istruito sulle contraddizioni in cui erano caduti i suoi padri/padrini, il Comitato Invisibile li segue nei fatti come nelle parole. Il risultato è un testo che viene sì pubblicato da una casa editrice commerciale, ma che nel contempo mette in guardia contro «gli ambienti culturali» il cui compito «è di recuperare le intensità nascenti e di sottrarvi, esponendolo, il senso di ciò che fate». Da un lato viene eletto libro del mese dalla FNAC, dall’altro ammonisce che «La letteratura è in Francia lo spazio che è stato da sempre accordato dall’alto come svago dei castrati. Essa è la libertà formale concessa a chi non si cura della negazione della propria libertà reale». Ma, come è già stato fatto notare, un movimento rivoluzionario animato da una volontà di arrivare ad una rottura con l’esistente non ha nessun bisogno della conferma dell’ordine sociale che critica. Lasciamo agli opportunisti di ogni colore l’ipocrisia di spacciare per spregiudicata incursione in territorio nemico quello che è in realtà collaborazionismo. È una strana idea di secessione e autonomia dalle istituzioni quella che consiglia di mettervi piede e parteciparvi senza remore.
Ci rendiamo conto che i fan di questo libro hanno i loro buoni motivi per gongolare: dopo che l’edizione statunitense stampata dalla Semiotext(e), specializzata nella french theory post-strutturalista, sarà distribuita dal M.I.T Press (a soli 12.95 dollari), il suo successo si preannuncia planetario. E a cosa è dovuto questo successo? Malgrado le assonanze che vi si possono trovare, L’Insurrezione che (s)viene nelle vetrine di tutte le librerie non è che la caricatura e la mercificazione di quell’insurrezione che potrebbe spaccarle tutte.
[da Machete n. 5, novembre 2009]