Di là dall’oceano, dalla terra dei morti, ci giunge il grido di migliaia di compagni provati a tutte le tempeste della lotta.
La reazione non li ha piegati, saldi nella fede che li anima, tenaci nei propositi di rivendicazione.
I compagni di Detroit accolgono quel grido e ci chiamano all’opera buona della solidarietà che educa, eleva e determina all’azione spregiudicata e iconoclasta, che significa giustizia e vendetta di tutti i misfatti di cui si è oggetto.
Cecità od apatia possono indurre le classi lavoratrici a trascurare l’alto monito che l’invito include e, magari, un certo senso di apparente sicurezza e benessere nella nozione di una minore oppressione può lasciare indifferenti per le sventure di chi è lontano. Se fosse vero che l’uomo è intimamente e bestialmente egoista, sino ad irridere al male altrui e a trovare al male proprio un lenimento nella constatazione dell’altrui maggiore miseria.
Se fosse vero che il sentimento di simpatia comune agli uomini per il dolore rappresentasse un’acquisizione determinata dagl’insegnamenti morali e religiosi. Ma noi presumiamo che la solidarietà degl’interessi sia guida sociale istintiva, compressa e non determinata e non migliorata dall’ufficiale educazione. Basterà togliere le barriere fittizie che ne vorrebbero essere guide e norme perché essa si lanci naturale alle maggiori esercitazioni tra esseri viventi la stessa grama vita, assillati dagli stessi bisogni, aspiranti alle stesse gioie ed alla stessa felicità.
Solidarietà dunque, fraterna, consapevole, con uno scopo preciso per gli ignavi e per i… bennati: valorizzare tutti gli atti di rivolta, individuali o collettivi, coronati dal trionfo o conchiusi nel sacrificio apparentemente inutile, al di sopra e al di fuori di tutti i sinedri di tutti i conclavi che predispongono e curano l’armonica messa d’insieme per rimandare alle calende greche le soluzioni, e rintuzzano con la disapprovazione e con la condanna tutte le irruenze individuali, tutti gli atti che sconfinano dalle tradizioni morali di un’onestà catalogata nei decaloghi del buon cittadino e del perfetto lavoratore tesserato, sempre in regola con la sua congrega, sempre ubbidiente agli ordini dei pontefici eletti.
Valorizziamo l’individuo!
Quando la tempesta travolge le speranze che parevano alle porte della realizzazione, e spazza le facili illusioni create da una ventata ed un acquazzone favorevole, le folle ignare – come quelle che han sempre visto ogni loro atto riprovato dai sapienti di ogni classe e di ogni categoria e non hanno mai avuto che l’insulto ladino della prosopopea in pantofole di scienza – e quelle altre cosiddette consapevoli perché irreggimentate in un’unione di mestiere o in un partito politico, s’accasciano e, anziché tentare la resistenza, fiduciose nella clemenza del nemico, offrono alla mannaia il capo, il dorso alla verga, indossano il cilicio della penitenza e rientrano nell’ovile in branco a belar le lodi dell’ultimo trionfatore. E i pastori ne rimangono scossi, gridano alla vigliaccheria ed invocano l’azione: i pastori che pur ieri ne hanno tradito le speranze più care e condannato le azioni più intrepide e generose, facendo funzionare tutte le pompe dissuaditrici a raffreddare il calore della mischia, il proposito d’azione, quanto più questa appariva travolgente, impetuosa, senza rispetto alla religione di ieri e senza riguardo alle cose consacrate di oggi. Perché le folle, nel concetto dei giacobini di tutte le rivoluzioni, han bisogno della guida per muoversi e della diana squillata dall’alto d’un seggio pontificale in nome ed a difesa del lavoro educato ed organizzato; e del dittatore, non fosse altro che per combattere le forze deleterie del passato che si attardano a sparire tra i ricordi della storia.
E per chi ha tra i suoi programmi la conquista del potere è logico.
Non può essere logico per l’anarchico deprimere l’individuo, aspettando da un lontano o vicino movimento di masse il rinsavimento degli uomini che reggono e malversano i destini umani.
Nella netta divisione degli uomini in due campi distinti – quello degli sfruttati e quello degli sfruttatori – non si è voluto vedere che masse, che una differente valutazione del contributo degli uni e degli altri, tenendo specialmente conto del maggior rendimento dei primi e del minor godimento della vita di fronte alla massima gioia degli ultimi senza alcuno sforzo di produzione. E si è stabilito per le masse che ascendono verso una vita più naturale, più libera, più larga di gioie la tendenza rivoluzionaria, mentre è ineluttabile nei privilegiati, che della vita godono ogni bene, l’istinto di conservazione naturalissimo in chi, avendo conquistato un posto comodo nell’esistenza, ha massimo interesse a costringere nell’inamovibilità del presente tutto quanto il genere umano.
Mentre in fondo la divisione è, e dev’essere, molto più radicale: tra l’individuo che vuol camminare e l’insieme – sia pure la società nostra – che lo deprime, lo opprime, lo coercizza entro lamiere di tradizioni, di morale, di doveri, lasciando al diritto la speranza di affacciarsi in un avvenire più o meno lontano.
Sfrondiamo di ogni espressione letteraria, più o meno truffaldina e sempre tradizionale, la vita. Scopo, istintivo o consapevole, di ogni essere è quello della maggior somma di godimento di contro al minor fardello di sofferenze. Perciò centro e leva della vita stessa, proposito e causa di ogni movimento è l’essere singolo. A meno che non si voglia eternare l’inganno religioso, ormai distrutto da tutte le indagini vittoriose del pensiero umano, della natura ordinata, prestabilita, finalistica, creata da un padreterno che ne fu il legislatore e ne è il reggitore.
L’insieme sarà la risultante di tutti questi scopi individuali e sarà tanto più umano e più felice, quanto più umani e più felici saranno i singoli. Non s’intenda qui per umano la virtù floscia del credente che le sue azioni regola secondo l’aggrottar delle ciglia di una divinità e conoscerà solo le virtù cristiane che l’uomo deturpano e deformano. Sono attributi eminentemente umani: fierezza, dignità, indipendenza; senza di che si è pecore o castrati, mai uomini.
Ora, per la salute dell’insieme, per il cosiddetto bene dell’umanità nelle caligini profonde del passato si sono create norme, scritte e non scritte, di vita che sono di questi attributi umani la negazione. E mentre il primo istinto è la ribellione, si è creata la rassegnazione, antesignana dell’umiltà, prima virtù del credente, rimanendo indiscusso anche oggi agli occhi di tutti i ben pensanti, che se non si è credenti si è perlomeno bestie. Con la rassegnazione e l’umiltà si esercita ed invigorisce l’abitudine a strisciare – comune ai rettili ed agli anfibi – e l’ipocrisia. Per cui non saprete ben vivere se non saprete usare tattica e politica ed il tatto è la prima e più essenziale dote degli uomini politici. L’educazione di molti secoli – da quando il cristianesimo, tutto livellando e accomunando e creando il tipo unico di perfezione, il santo imbelle e pidocchioso, riuscì a strozzare le poche umane derivazioni del paganesimo – ha proclamato questa menzogna: l’uomo è chiamato a vivere, non per sé e per la sua gioia, ma per tutta quanta l’umanità, così astrattamente considerata e adorata da comportare il sacrificio di tutto il suo piccolo mondo (le lacrime della sposa arrovellata dal bisogno quotidiano, i dolori insofferenti e lamentosi del vecchio reumatizzato, gli spasimi dei ventri vuoti dei bimbi, la sua abiezione e la sua apatia incurante e bestiale a se stesso e agli altri). Ottenendo, alla mente dell’uomo, naturale che dell’ansare penoso dell’operaio, della sua inesausta fatica, di tutta la sua potenza di animale da produzione e della magra remunerazione si sostanzino le ricchezze di Henry Ford e della United States Steel Co. e le glorie della grande repubblica ipocrita e dissanguatrice.
Menzogna contro cui dobbiamo ergerci se pensiamo che ove manchino individualità energiche, iconoclaste, impetuose, cedano più facilmente le masse al cozzo del nemico e ritornino al basso, lasciando calpestare le aspirazioni secolari e travolgendo nella disperazione energie e forze e decadi di umano benessere e felicità.
Non condanniamo, né comprimiamo della nostra disapprovazione l’individuo in rivolta, sia la rivolta inquadrata in una manifestazione eminentemente rivoluzionaria che per la causa della rivoluzione accampi una vendetta ed un atto di giustizia, contro la morale del privilegio e della tirannide, sia essa esercitata da un reprobo tetragono alle suggestioni della onesta morale cristiana che conchiude al rispetto della roba altrui.
L’insorto, comunque s’affacci, ha sempre diritto alle simpatie di coloro che dell’insurrezione fanno professione di fede.
E se il gesto di Angiolillo, o di Caserio, di Bresci o di Shinas culmina nella soppressione d’un tiranno o d’un oppressore, non è meno ammonitore ed efficace il gesto di Vaillant, o la vendetta di Henry, o la belluina insurrezione violenta di Ravachol e la… deprecata e vilipesa esplosione del Diana. Come non fu meno ribelle e meno degno Renzo Novatore che la sua guerra contro la società dei vampiri condusse spietata e senza quartiere sin nelle tane dove la vita è ebbrezza insultante alle miserie proletarie.
Né cerchiamo di sofisticare sul maggior o minor bene apportato alla causa della rivoluzione e sui gradi più o meno alti di disinteresse e di altruismo che ha provocato l’atto e sui granucci più o meno numerosi di anarchismo usati nell’affermazione.
L’importante è che chi si sente ribelle possa muoversi in un’atmosfera di simpatia da parte dei suoi compagni di dolore e di pena ed abbia dietro approvante la legione dei ribelli. Solo così il suo esempio sarà ammonimento non isolato né insignificante e avrà imitatori nelle folle, da cui solo può uscire l’iconoclasta intrepido che faccia con un solo gesto mille vendette e ricordi ai dominatori come la vita possa essere insidiata in ogni suo attimo, rendendo sempre più eloquente e sempre più frequente la protesta individuale che a lungo andare, dal suo primo carattere di avvisaglia e di avamposto, diventa corpo e realtà di battaglia e di guerra di masse, sino allo sterminio finale del nemico.
L’atto che Canui e Rosati tentarono ed effettuarono a Torino sottraendo armi e vettovagliamenti per la guerra allora imminente, malgrado l’abbandono delle fabbriche, ripetuto ed approvato avrebbe potuto far trovare il proletariato ben diversamente armato e pronto a rintuzzare gli orgogli e le albagie rinascenti delle guardie bianche della borghesia. Invece il loro atto, condannato, prima che dai giudici borghesi, dai canonici delle unioni e dei partiti legalitari, è rimasto isolato ed inefficace. Come inefficace rimane il gesto di quei marinai che a Trieste, come in altri porti d’Italia, tendeva a smontare i piroscafi e a danneggiare gli armatori; gesto anch’esso condannato dai concili dell’unione dei marinai sino ad imporre la restituzione dei pezzi sottratti, pena l’espulsione dai ranghi del proletariato organizzato.
I compagni di Detroit vogliono di questa necessità farsi interpreti e sostenitori, dedicando più specialmente ai grandi ribelli gli sforzi della solidarietà dei compagni d’America.
Giustamente se si pensa che vi sono vittime cadute per un incerto del mestiere; le vittime veramente innocenti che sono con dio e col diavolo e che in fondo non rappresentano che la zavorra di tutti i movimenti d’avanguardia. E se un sentimento di commiserazione può farci voltare ai loro lamenti, sappiamo anche che son le vittime men degne… Noi abbiam bisogno di testimoniare la nostra solidarietà specialmente a chi consapevolmente ha affrontato l’uragano con propositi decisi ed intendimenti precisi. Perché la solidarietà deve educare, deve tendere a preparare le immancabili esplosioni del domani, altrimenti non sarebbe che un atto cristiano di più e un’offesa all’ideale di cui ci sentiamo proseliti e soldati.
«La vita del nostro movimento richiede l’assistenza finanziaria e la vita di esso dipende da quella dei compagni relegati nelle galere».
Ricordino i compagni, nell’accogliere col consueto fervore l’appello e l’iniziativa degli ottimi compagni di Detroit, questo proponimento che è di essenziale importanza per l’avvenire della nostra guerra, che divamperà domani più gagliarda alla definitiva liberazione, passando sui ruderi di millenarie miserie e di più antichi privilegi, per inalberare sulle roccaforti del capitale e della tirannide il vessillo garrente ai venti la sinfonia virile, umana, gagliarda della libertà proteggente il lavoro efficacemente produttivo di benessere, di gioia, di felicità a tutti i nati di donna.
E rivolgano il pensiero ai grandi che s’immolarono per un’affermazione di fierezza che non volle essere contaminata da grinfie di sbirro, come Renzo Novatore, e dicano la loro entusiastica simpatia a chi affoga nel sangue d’un camelot du roi, le marce imperialistiche della Francia capitalista, come Germaine Berton; e siano con la loro solidarietà ovunque un uomo si erge vendicatore, giustiziere, espropriatore per sé e per gli altri.
[da L’Adunata dei Refrattari, anno II, n. 22 del 7-7-1923]