memoria raccolta da Paul Avrich
New York, 7 Novembre 1972
Nota: questa bella ed avvincente intervista-biografia è stata già pubblicata in Italia sul numero 7 (“Leggere l’anarchia”) del bollettino diffuso dal Centro Studi Libertari / Archivio Pinelli di Milano, risalente al luglio 1996.
Si tratta del racconto di un anarchico individualista sino alla fine, sempre presente in mezzo alle battaglie politiche e sociali di gran parte del XX secolo, sempre in giro per il mondo. La sua concezione di individualismo differiva in qualche punto con quella del più poetico e futurista Novatore, ma come lo stesso Arrigoni spiega nell’ultima parte dell’intervista non esistono, nell’anarchismo, vangeli da seguire e dogmi da rispettare. L’importante è seguire il cuore e il cervello, e resistere e lottare. Sempre e comunque.
Il mio vero nome è Enrico Arrigoni.
«Brand» è uno pseudonimo tratto da un personaggio di Ibsen, un individualista spinto: me l’ha dato una mia amica, quand’ero nella Foresta Nera nel 1918. Sono nato il 20 febbraio 1894 in un paese dei dintorni di Milano. Mio padre era un sarto di origine contadina. Sono diventato anarchico nel 1908, quando avevo quattordici anni. Ero l’unico anarchico in un paese di tremila anime. C’è chi dice che l’anarchia è innata e magari ha ragione. I primi sintomi cominciarono a manifestarsi nel 1900. Quando Bresci uccise Umberto I e c’era qualche bambino che lo chiamava assassino, io lo difendevo – per un atto naturale di ribellione – affermando che anch’io un giorno sarei diventato un anarchico.
Era una definizione che mi affascinava. Avevo solo sei anni. A nove anni, finita la terza elementare, andai a lavorare a Milano. Trovai lavoro da un fornaio: dalle sei di mattina andavo in giro a fare le consegne con un cordone a tracolla, sette giorni alla settimana, circa cento ore di lavoro per venti lire, più o meno quattro dollari dell’epoca, più vitto e alloggio. Ancora non esistevano leggi che vietavano il lavoro minorile. Quando tornavo al paese a trovare i miei, un prete mi dava dei libri da leggere. A quattordici anni cominciai a lavorare al tornio in una fabbrica di locomotive. Nel 1909, quando fu giustiziato Ferrer, frequentai un corso organizzato dai socialisti per i giovani, ma alla fine fui l’unico di un gruppo di venti ragazzi che si rifiutò di aderire all’organizzazione giovanile socialista. Quando avevo dodici anni avevo letto un opuscolo di Tolstoj intitolato Non posso tacere, o qualcosa del genere, che attaccava la tirannia zarista. Questo libretto mi aveva lasciato una profonda impressione. Da quando avevo nove anni ero affamato di letture. Leggevo due o tre libri alla settimana, me li portavo dietro nel mio giro di consegne, li leggevo per la strada, camminando: un’abitudine che mi è rimasta tuttora. Arrivato all’età di quattordici anni avevo già letto centinaia di storie, romanzi, racconti di avventure. Quando un insegnante socialista mi chiese perché non volevo iscrivermi, gli risposi che consideravo il socialismo l’ultima fase del capitalismo e io volevo essere un anarchico…
Così, a quattordici anni, già mi consideravo un anarchico. Ma non avevo ancora avuto alcun contatto con i gruppi o con la stampa anarchica. Cominciai a cercarla in giro e presi a leggere i giornali e i libri anarchici. I primi anarchici in carne e ossa li incontrai a una grande manifestazione di protesta in seguito alla fucilazione di Ferrer. Per uno o due giorni le strade si riempirono di dimostranti. Era quasi una rivolta. E lì incontrai gli anarchici. La mia prima azione da anarchico fu la partecipazione a uno sciopero in fabbrica per ridurre l’orario del sabato da dieci a otto ore (gli anni che precedettero la Grande Guerra furono un periodo di forti agitazioni operaie in Italia). Gli operai non volevano restare fuori, così io e altri due o tre giovani anarchici ci mettemmo davanti alla porta impedendo a tutti di entrare. Lo sciopero andò bene, ma ovviamente noi fummo licenziati. Ce lo aspettavamo: non avevamo paura. Era un onore essere licenziati… e così giovani!
Ci guadagnammo in questo modo i galloni di rivoluzionari. Noi giovani anarchici partecipavamo attivamente a molti scioperi e manifestazioni di strada; tiravamo su i sampietrini dal pavé e li tiravamo contro i poliziotti. Eravamo il gruppo più militante e i giovani socialisti ci venivano dietro. Eravamo anarchici individualisti, perché Milano era un centro dell’individualismo anarchico; chi stampava il più diffuso giornale anarchico era appunto un individualista e la prima traduzione italiana de L’Unico e la sua proprietà fu pubblicata proprio a Milano.
Quando scoppiò la guerra avevo vent’anni.
Non appena la mia classe fu chiamata alle armi, cercai di fuggire dall’Italia con un amico. Andammo a Genova e ci imbarcammo su una nave (non sapevamo nemmeno dove fosse diretta), ma fummo presi e arrestati. Il mio primo arresto era avvenuto nel 1909 o nel 1910, mentre distribuivo un foglio anarchico a un concerto per banda in un parco di Milano: restai in prigione per otto giorni e poi fui rilasciato.
Avevo lasciato il mio lavoro da operaio, non sopportando la routine e l’atmosfera claustrofobica della fabbrica, e campavo vendendo frutta per la strada (non avevo voluto fare il sarto, come mio padre, perché detestavo i lavori sedentari).
All’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, molti socialisti e radicali cambiarono strada a favore dell’impegno bellico.
Ma gli anarchici milanesi si opposero fino all’estremo alla guerra. Non seguimmo Kropotkin e gli altri, ma fino all’ultimo mantenemmo il nostro impegno antimilitarista.
L’ultima grande manifestazione contro la guerra a Milano fu organizzata da noi anarchici. Stampammo cinquemila volantini: «Tutti in piazza del Duomo per protestare contro la guerra!». In un gruppetto girammo da una fabbrica all’altra per distribuirlo e due di noi furono arrestati. Ma il successo fu grande. La piazza era stracolma di giovani operai che gridavano «Abbasso la guerra!». Si venne allo scontro e io persi due denti [Brand mi fa vedere due denti finti: tutti gli altri sono ancora i suoi!]. Gli scontri andarono avanti per cinque ore, fino all’una di notte.
Poco dopo mi arrivò la cartolina di leva, ma in quanto esperto meccanico mi fu permesso di lavorare in una fabbrica (in uniforme) e fare le esercitazioni ogni sabato.
Fu allora che mi organizzai per scappare dal Paese. I miei compagni Ugo Fedeli e Francesco Ghezzi (che più tardi cercammo invano di far uscire dalla Russia) lavoravano nella stessa fabbrica, ma per il momento io ero l’unico con l’uniforme. Dopo due mesi di militare io e altri decidemmo di indire uno sciopero, e io fui nominato a capo del comitato di sciopero.
La fabbrica era sotto il comando militare (produceva riflettori per l’esercito) e così fui costretto a fuggire. Mi ci vollero due giorni per attraversare le Alpi e arrivare in Svizzera. Riuscii a raggiungere Ginevra, ma dopo una manifestazione contro la guerra fui arrestato anche là con tre compagni e rimasi tre mesi in prigione.
Una volta, mentre passavo una scatola di sardine a un amico che stava sotto di me, un cane da guardia sentì l’odore e si mise a latrare. Così mi ficcarono nel buco dove Luccheni, a quel che mi raccontò il secondino, aveva passato sei anni. In quattro facemmo lo sciopero della fame e Luigi Bertoni lanciò una campagna per la nostra liberazione, che alla fine ebbe successo.
In quei giorni c’era qualche centinaio di disertori italiani in Svizzera e metà di questi erano anarchici.
Avevo deciso di imparare il tedesco e per questo andai a Lucerna dove lavoravo come tornitore sotto la stretta sorveglianza della polizia elvetica. Ogni giorno i poliziotti mi scortavano da casa al lavoro e dal lavoro a casa. Dopo tre mesi mi spostai a Zurigo e lavorai ancora in una fabbrica, per circa un anno. Alla fine del 1917, dopo la rivoluzione bolscevica, a noi anarchici italiani di Zurigo venne in mente di fare anche lì la rivoluzione organizzando una manifestazione contro la guerra che si sarebbe dapprima diffusa per tutta la Svizzera e poi fino alle nazioni belligeranti. L’idea oggi sembra fantasiosa, ma a quel tempo c’era un diffuso malcontento contro la guerra e un altrettanto diffuso sentimento di ribellione nei confronti dell’ordine sociale di tutta l’Europa.
Ma dopo due o tre giorni di manifestazioni e di scontri violenti con la polizia fummo costretti a rinunciare. Quando si approvò una legge che stabiliva che tutti i disertori dovevano essere internati fino alla conclusione del conflitto, decidemmo di riparare, attraverso la Germania, in Olanda. Si era all’inizio del 1918.
Mentre attraversavamo la Germania in treno, vicino a Karlsruhe fui arrestato e rimasi diverse settimane in prigione. Poi mi lasciarono andare e mi concessero di lavorare come tornitore in una piccola fabbrica nella regione della Foresta Nera. Sabotai il mio tornio, come atto di sabotaggio contro la guerra, e finii di nuovo in carcere a Karlsruhe. Rischiavo la fucilazione, perciò cominciai a
pensare a come venirne fuori. Smisi di mangiare, per debilitarmi, nella speranza che mi trasferissero in ospedale. Di proposito mi graffiai la testa sul pavimento e, sanguinante, finsi di essere svenuto. Arrivò un medico, mi visitò e disse: «È un po’ malnutrito, ma per il resto sta benissimo!».
Allora scrissi al comando militare di Karlsruhe chiedendo di essere processato o rilasciato. Per mancanza di prove decisero di lasciarmi andare. Tornai al lavoro, prima a Karlsruhe e poi a Francoforte, dove rimasi fino alla fine della guerra, sempre lavorando da tornitore.
Finita la guerra, noi anarchici italiani ardevamo dalla voglia di andare a Berlino, prevedendo che lì sarebbe scoppiata una rivoluzione. Avevo imparato da solo a suonare il violino e, spacciandomi per musicista, me ne andai in treno a Berlino per «tenere un concerto». Berlino era nel pieno delle agitazioni rivoluzionarie. Per campare vendevo la «Rote Fahne» di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Quando nel gennaio 1919 esplose la rivolta spartachista, io con altri anarchici e socialisti italiani partecipai all’occupazione della redazione del «Vorwaerts», mentre altri spartachisti occupavano la stazione ferroviaria e altri punti strategici intorno alla città. L’occupazione durò otto giorni e io fui l’unico che riuscì a sfuggire all’arresto da parte delle truppe di Noske perché ero stato mandato a cercare abiti puliti. Al ritorno, quando mi accorsi che le truppe avevano circondato il palazzo del «Vorwaerts», mi finsi uno del posto (ormai parlavo un ottimo tedesco). Mi nascosi in diversi posti (soprattutto in case di spartachisti) per otto giorni. A qualcuno venne l’idea di mandare me e un altro compagno in Russia come prigionieri di guerra rimpatriati.
Restammo in Russia per tre mesi. Si era all’inizio del 1919. Non avevamo documenti, così a Mosca ci prese la Cheka, che pensò che fossimo spie. Ma io mi ricordai della Balabanova, che era stata in Italia, e chiesi di incontrarla. Bastò che citassi il suo nome e come per magia fummo immediatamente rilasciati.
Mentre eravamo laggiù, era stata infatti fondata la Terza Internazionale (marzo 1919), della quale la Balabanova era la segretaria. Lei ci accolse con cordialità (amava l’Italia e gli italiani) e ci aiutò a lasciare il Paese. Era già delusa del regime bolscevico e molto pessimista sulla sorte della rivoluzione. Ci mandò come corrieri in Italia, con documenti dell’Internazionale, facendoci passare per prigionieri di guerra ungheresi da rimpatriare. Arrivammo a Budapest in tempo per la rivoluzione di Bela Kun. Per noi fu una sorpresa totale. Incontrammo Kun in persona e gli mostrammo i documenti dell’Internazionale.
Poi raggiungemmo Vienna e ci recammo al consolato italiano, dichiarando di essere stati prigionieri italiani in Ungheria. Così, rientrammo in patria da eroi e non da disertori! Una volta a Milano, dovetti restare nascosto per quattro mesi perché lì ero ricercato come disertore. Tornai a Berlino per sei mesi, dove per campare insegnavo l’italiano alla Berlitz School. Andai a trovare Rudolf Rocker, che mi aiutò a raggiungere Parigi, dove restai per poco più di un anno, per poi trasferirmi in Spagna. Lì lavorai per un breve periodo in una fabbrica di Barcellona (eravamo nel 1920), ma ebbi dei guai con la polizia e mi imbarcai clandestinamente su una nave per l’Argentina.
A Buenos Aires restai per un anno e mezzo, facendo l’operaio e il carpentiere (1920-21). Per cinque mesi divisi una stanza con [Diego Abad de] Santillán, mio compagno di lavoro, più giovane di me di tre anni. Entrai nella redazione de «La Protesta» (vado sempre a trovare quelli della redazione quando sono in Argentina).
Un giorno si unì a noi un compagno tedesco di nome Wilckens, che era stato espulso dagli Stati Uniti (Wilckens più tardi sparò al capo della polizia di Buenos Aires e Santillán si distinse nella guerra civile spagnola). «La Protesta» mandò Santillàn a Berlino come corrispondente. Lì imparò il tedesco, fece amicizia con Rudolf Rocker e sposò la figlia di Fritz Kater, che sta ancora con lui a Buenos Aires. A Wilckens, che lavorava al porto come spedizioniere, raccontai del mio desiderio di andare negli Stati Uniti ed egli riuscì a nascondermi su un mercantile inglese che mi scaricò a Tampico.
Era il 1921. Attraversai il Rio Grande a piedi ed entrai negli Stati Uniti. Ma fui preso, messo in prigione per sette mesi e poi spedito a New York dalle autorità dell’Immigrazione che mi espulsero rimandandomi in Italia come immigrante illegale (ottobre 1922). In Italia (si era a pochi giorni dall’ascesa al potere di Mussolini) mi toccava ancora scontare una condanna a diciassette mesi di carcere. Saltai giù dalla nave a Palermo e in qualche modo raggiunsi Roma, dove Malatesta pubblicava «Umanità Nova». Mi aiutò ad attraversare il confine riparando in Francia.
Rimasi a Parigi fino al 1924, poi per vari mesi fui a Cuba (scrivevo su un giornale anarchico dell’Avana con lo pseudonimo di «Brand»). Su un mercantile tedesco raggiunsi poi New Orleans: il mio secondo ingresso clandestino negli Stati Uniti.
Restai a New York (illegalmente) dal 1924 al 1928, per poi rientrare a Parigi.
Nel 1930 ero di nuovo negli Stati Uniti e da allora sono rimasto qui (anche se ho fatto diversi viaggi all’estero).
A New York nel 1924 avevo trovato lavoro come tornitore in una fabbrichetta di Harlem. Mi impegnai subito nel movimento anarchico, soprattutto nel gruppo spagnolo e in quello che si chiamava Road to Freedom , sulla Ventitreesima Strada, ma anche in quello italiano di Brooklyn, il Circolo Volontà . Di tanto in tanto scrivevo per «L’Adunata dei Refrattari», per «Cultura Obrera» (pubblicato, dopo la morte di Pedro Esteve, dall’argentino Roberto Muller, che poi collaborò a «Eresia») e con qualche breve pezzo in inglese anche per «The Road to Freedom». Frequentavo soprattutto quest’ultimo gruppo (volevo imparare l’inglese in fretta) e quello spagnolo (la lingua l’avevo imparata nei miei soggiorni in Spagna, Argentina e Cuba e la mia compagna, che morì poco dopo, era spagnola).
In pratica non sono mai stato membro del gruppo italiano, mentre mi sentivo del tutto a mio agio con gli ispanici. Fondai il giornale «Eresia» (Brooklyn 1928-1932), una rivista eclettica con forti tendenze individualiste, anche se tra i collaboratori c’erano comunisti anarchici come Ugo Fedeli, vecchio compagno del periodo milanese. Joe Conti, che faceva l’amministratore, mi insegnò anche il lavoro di muratore. Io ero il redattore e mi firmavo «Brand» o «Harry Goni» (cioè Arrigoni). I disegni li faceva un altro muratore del New Jersey. Tiravamo duemila copie della rivista. Ghezzi, un altro dei vecchi compagni italiani, mi spediva articoli dalla Russia, mentre noi cercavamo disperatamente e senza risultato di farlo uscire di lì. Più tardi collaborai con regolarità a «Controcorrente», pubblicato a Boston da Felicani, e partecipai alla fondazione di «Intesa Libertaria», verso la fine degli anni Trenta. Cercavo di mettere insieme le varie tendenze anarchiche, ma senza successo. L’«Adunata» non volle collaborare, anche se qualcuno di quel gruppo ci aiutò a titolo individuale. Carlo Tresca in un primo tempo collaborò, ma ben presto si tirò indietro, e il giornale chiuse poco tempo dopo.
Dovrei anche ricordare che sono stato in Spagna durante la guerra civile: ci rimasi cinque mesi scrivendo due articoli alla settimana per «Cultura Proletaria» di New York. Fui anche arrestato e fu Emma Goldman che andò dal console americano per farmi rilasciare. Infine, ho scritto diversi brevi pezzi per il teatro, pubblicati in Italia dopo la seconda guerra mondiale col mio vero nome, Enrico Arrigoni.
Negli ultimi vent’anni mi sono impegnato nel Libertarian Book Club di New York, unico individualista del gruppo.
Sono sempre stato un anarchico individualista.
Noi crediamo a organizzazioni temporanee, per fini specifici, organizzazioni che, una volta realizzato lo scopo, si dissolvono.
Non accettiamo organizzazioni permanenti, perché tendono a diventare autoritarie nonostante le buone intenzioni di chi ne fa parte. Ma non siamo contro qualsiasi tipo di organizzazione: anche Stirner credeva in un’Unione degli Egoisti.
Non è solo la questione organizzativa che ci separa dai comunisti anarchici. Abbiamo anche un’idea diversa di libertà. Per noi la libertà è il bene più grande, e con la libertà non facciamo compromessi. Perciò respingiamo qualsiasi istituzione che abbia anche una minima traccia di autorità.
Comunque, ogni anarchico deve seguire la tendenza che meglio si adatta alla sua psicologia. Per questo non sono contro i comunisti anarchici. Né ho intenzione di convertirli! L’anarchismo individualista non è meglio del comunismo anarchico.
Dipende tutto dal carattere, dalla psicologia. L’anarchismo individualista va bene per me, ma non va bene per altri.
La mia concezione dell’anarchia non è molto cambiata negli anni. Santillán invece, per citarne uno, è arrivato a respingere la rivoluzione, proprio come facciamo noi individualisti.
Noi mettiamo l’accento sull’educazione.
Qualcuno di noi ha partecipato alla rivoluzione, nell’illusione che potesse venirne fuori qualcosa di meglio. Ma con la rivoluzione violenta non si apre la strada all’anarchia. Le rivoluzioni sono intrinsecamente autoritarie. Per di più, nei Paesi più progrediti, come gli Stati Uniti, abbiamo molti mezzi di propaganda pacifica e non abbiamo bisogno di una rivoluzione.
Se dovessi scegliere, preferirei sempre il capitalismo al comunismo, perché sotto il capitalismo io posso almeno scrivere, parlare, fare riunioni, fondare cooperative e così via. Quando vedo che gli anarchici si mettono insieme ai comunisti, me ne dispiaccio, perché non si rendono conto di quel che fanno. Su «Controcorrente» ho portato avanti una campagna per evitare qualsiasi rapporto o contatto con i comunisti.
Sono individualista per natura. Tra gli autori anarchici, quello che più mi ha influenzato è Stirner. Gli altri (come Armand, per esempio) non hanno sviluppato nuove idee, ma sono essi stessi stirneriani. In realtà non si può andare oltre Stirner, perché egli ha respinto qualunque forma di autorità. È stato l’unico anarchico capace di smascherare ogni manifestazione di autorità, sia istituzionale sia concettuale…stato, religione, dovere, onore, patria: tutta la tradizione presunta sacra. Per Stirner sono tutte immagini vuote.
Fu l’unico che non ha fatto compromessi di alcun tipo, l’unico che ha mirato a un individuo completo, un individuo che realizzi la sua piena personalità e raggiunga una totale libertà. Ciò detto, posso stare benissimo in mezzo agli anarchici di altre tendenze, anche se probabilmente sono l’unico individualista che rimane oggi tra gli anarchici italiani.
[Nel febbraio 1984 il Libertarian Book Club di New York festeggiò il novantesimo compleanno di Brand con una torta e una festa. Brand morì domenica 7 dicembre 1986 nel suo appartamento nelle ILGWU Houses di New York. I suoi vecchi compagni Valerio Isca e Pasquale Bono trovarono il suo corpo steso a terra accanto al letto. Aveva novantadue anni.
Lasciava due figlie (una a Brooklyn e una in Florida), una ex-compagna (in Florida) e un fratello, l’ultimo, in Italia. Le sue passioni erano stati i viaggi e l’opera lirica. Lasciò i suoi libri e la sua raccolta di dischi al Libertarian Book Club. Il suo corpo fu cremato l’11 dicembre 1986].
http://www.novatore.it/Archivio%20leggimi/Enrico_Arrigoni.htm