«Io t’amo soprattutto quando la tua gioia fugge dalla tua fronte oppressa; quando il tuo cuore si annega ne l’orrore, quando sul tuo presente si stende la nube orribile del tuo passato.»
Carlo Baudelaire
Io sono un poeta strano e maledetto.
Tutto ciò che è anormale e perverso esercita su di me un morboso fascino.
Il mio spirito — farfalla velenosa dalle sembianze divine — è attratto dai peccaminosi profumi che emanano i fiori del male.
Oggi canto la bellezza perversa d’una «Femmina», — d’una Femmina nostra che io non ho mai posseduta e che non possiederò mai…
Ella cammina ora senza un nome, dimenticata ed ignorata, attraverso le tortuose vie della vita con chiuso nel cuore un così cupo e profondo dolore che l’innalza al di sopra della Donna e la rende divina.
Questo gran fiore del male — contaminato e contaminatore — racchiude ancora in sé tanta purezza umana da sublimare tutta una vita e divinarla.
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Femmina?
Sì; forse!…
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Intorno al suo nome circola una strana leggenda. Dice: «Il di lei corpo bello e peccaminoso spasimò tra le braccia dei vagabondi e dei ladri, dei nottambuli e dei poeti, dei ribelli e degli eroi…
Tutti i mostri della notte conoscono i voluttuosi segreti delle sue carni bianche…
Tutti gli assetati d’amore hanno bevuto i suoi baci…
Ma ovunque Ella è passata ha lasciato cuori feriti e anime sanguinanti; carni piangenti e spiriti in rivolta…
Perché Ella — la Folle — fu — come il poema di Zarathustra — un’Arpe dionisiaca di voluttà per tutti e per nessuno…
Mentre il di lei corpo peccaminoso e fremente giaceva avvolto in voluttuosi spasimi sul letto dell’amore travolto negli abissi della gran dedizione, il di lei spirito inquieto, vagabondo e ribelle, vagava attraverso le sterminate regioni dell’infinito per dar corpo e forma ad un impalpabile sogno etereo. La sua anima ammalata di solitudine e di lontananza non si lasciò mai travolgere dalla febbre spasmodica della insaziabile carne.
Ella non amò che se stessa…
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Qualcuno tra coloro che strinsero tra le loro braccia il corpo odoroso e perverso di questa «Femmina» bianca gettò nel suo grembo — purtroppo fecondo — i germi fatali di un’altra infelicissima vita. La «Femmina» sotto l’imperioso comandamento della natura divenne Madre. E la società che fu ingiusta, vendicativa e crudele, verso la Femmina, lo fu anche contro la Madre e contro lo stesso bambino. Egli — solo ed impotente — fu lanciato tra la travolgente tempesta della vita in preda alla più triste solitudine materiata di miseria e di disperazione.
La madre, sola, derisa, perseguitata, maledetta, schernita. Lui, triste e melanconico. Figlio d’una vittima, fu vittima prematura a sua volta.
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Fisso lo sguardo nell’alba misteriosa di quest’anima di Femmina strana per raccoglierne i rottami dispersi e ricostruirne il segreto.
So che sotto la dionisiaca giocondità di queste creature perverse e scapigliate, scorre quasi sempre un filo sottile di mistica malinconia…
Attraverso la mia poetica fantasia ricostruttrice la rivedo vergine adolescente quando la prima volta il sole caldo e perverso della voluttà e del piacere s’immerse come una lama d’oro nelle sue carni pulsanti di desiderio, facendole risuonare nell’anima il grido irresistibile della giovinezza esuberante: amore, amore, amore!
Forse era un’aurora tiepida e bionda; forse era un crepuscolo rosso.
Ella si concesse al primo amplesso d’amore, e da quel giorno il suo corpo bianco fu un’Arpe di voluttà, un poema di piacere in preda alle fiamme pagane; un inno d’ebbrezza cantato al di là del bene e del male, ove gli spiriti liberi celebrano il rito iconoclastico alla gioia del vivere umano.
Ma sotto la dionisiaca giocondità di questa creatura perversa e scapigliata scorreva un filo sottile di mistica melanconia.
Un giorno — forse uno di quei tristi giorni che gli astri a mezzo di quelle forze occulte e magnetiche che preannunciano all’essere l’oscura fatalità del proprio destino — in una via formicolante di popolo d’una grande città rumorosa tre o quattro colpi di pistola echeggiarono sinistramente.
Un pallido adolescente giunto sul culmine orrendo della più tragica disperazione prima di cadere esausto e vinto sul fango della via volle fare udire il rombo cupo della sua protesta all’insensibile umanità che tutto ignora.
Cosa tragica e triste.
Insieme ad un membro della colpevole umanità cadde un compagno di rivendicazione.
Chi era il pallido adolescente che tramutò la sua esile mano di giglio bianco in artiglio vendicatore?
Il figlio della Femmina ribelle: della spregiudicata!
***
Alla tragica annunciazione, la Femmina perversa si ripiegò su se stessa come un melanconico salce piangente sotto l’imperversar dell’uragano e si purificò nel gran dolore della Madre ferita a morte nel più intimo, caro e segreto, di tutti i suoi affetti! Quel voluttuoso fiore del male si lavò l’anima, forse impura ma bella, nella divina e benedetta rugiada del pianto, e divenne fiore di lilio e di bellezza pura ed incontaminata.
Quell’anima sua insensibile che forse nessuno possedette mai per intiero, era riservata a racco-gliere il grande dolore che lo stesso figlio delle sue viscere doveva arrecargli per vendicarla, mentre si vendicava.
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La «Femmina» scapigliata e gioconda è oggi la Madre solitaria che chiusa nel cerchio del proprio dolore, muta e tragica come un’impenetrabile sfinge cammina senza un nome attraverso le velenose vie della vita, forse a perdonare; forse a maledire…
La furibonda Anarchia del suo libero istinto si è fusa nella raffinata sensibilità del suo nuovo sentimento di madre, e dalla condensazione di questi due elementi profondamente umani deve ora scintillare una spiritualità così affascinante da irradiare le più sconosciute costellazioni del dolore umano.
Io spalanco la bocca verso l’ignoto e chiamo a gran voce questa Femmina-madre per salutarla col nome di Sorella!
La «donna»?
Che me ne importa?
Questa Femmina vive oggi al di sopra di lei: in una vetta più alta!
Io amo le creature scapigliate e gioconde sotto la di cui dionisiaca paganità scorre sempre un filo sottile di mistica malinconia. E le amo maggiormente quando sul loro presente si stende la nube orribile di tutto il loro passato…
Renzo Novatore