“Ricordiamoci in che modo gli altri popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal trattare quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto! Guardiamoci dal fare noi quello che ci è stato fatto”.
Martin Buber, 1929
Nel momento in cui scriviamo queste righe, tutto il mondo guarda ai fatti che insanguinano il Medio Oriente trattenendo il respiro. Non sappiamo se, nel momento in cui leggerete queste righe, la tensione provocata dall’occupazione militare dei territori palestinesi da parte delle truppe israeliane sarà ancora così alta, o se la pressione delle cancellerie internazionali sarà riuscita a raffreddare i bollenti spiriti militaristi del governo Sharon.
Ciò che sappiamo, ciò che ci preme dire, non può esaurirsi nei facili atteggiamenti umanitari della condanna e dell’indignazione. Di fronte a quanto è accaduto, a quanto sta accadendo e a quanto si sta preparando in quei luoghi apparentemente lontani, proviamo solo ripugnanza per chi vive nell’angoscia che la sacralità della basilica di Betlemme possa venire profanata, nella preoccupazione che la divina mangiatoia possa essere lordata dal sangue arabo; o per chi taccia di antisemitismo tutti coloro che protestano contro l’operato dello Stato israeliano, come se quest’ultimo fosse sinonimo di popolo ebreo; o per chi pretende la nostra commozione per la mancanza di luce e viveri a un palestinese aspirante capo di Stato rinchiuso nel suo bunker, circondato dai suoi nemici-rivali; o per chi cerca di mettere sullo stesso piano la violenza indiscriminata della disperazione e la violenza indiscriminata delle istituzioni, al fine di giustificare la seconda come forma di difesa dalla prima; o per chi, semplicemente, non vede l’ora che tutto questo finisca per poter continuare a rifornire di carburante la propria automobile senza spendere troppo.
Ammettiamolo. Nell’apprendere le notizie che arrivano dai territori palestinesi, la parola che ci esce continuamente dalla bocca non è quella che ci viene per prima in mente. Tutt’al più la nostra lingua dice sterminio – distruzione o soppressione spietata e talvolta metodica di un gran numero di persone – mentre il nostro cervello pensa genocidio – metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori culturali. Il genocidio è molto più dello sterminio. Ma questo è un termine che in qualche modo ci rifiutiamo di usare, perché un suo utilizzo in un contesto simile minerebbe alle fondamenta molte delle certezze su cui abbiamo costruito il nostro mondo, la sua quiete e la sua prosperità.
Come possiamo chiamare genocidio quello che sta intraprendendo il governo Sharon, dopo esserci detti e ripetuti tante volte che il genocidio è una atrocità del passato, frutto del peggiore oscurantismo, che non può trovare legittimità in una democrazia occidentale moderna (come è, in fin dei conti, quella di Israele)? E poi, essendo stati vittime del genocidio compiuto dai nazisti, avendo subìto infami persecuzioni, come possono oggi gli ebrei che si riconoscono in Israele indossare i panni dei carnefici e fare ad altri ciò che in passato sono stati costretti a subire?
Tutto ciò si scontra con le nostre sicurezze, con il nostro bisogno di ordine, con la nostra stringente logica da ragionieri che determina la nostra quieta esistenza da ragionieri. La tranquillità del nostro sonno e dei nostri affari lo esige, la propaganda statale lo conferma: non c’è nessun genocidio in corso nei territori palestinesi, c’è sola una caccia senza quartiere nei confronti di crudeli terroristi che, per tragiche quanto fatali circostanze, si sta ripercuotendo duramente anche nei confronti della popolazione civile. Ma, se le cose stanno così, che dire del numero tatuato sui prigionieri palestinesi, agghiacciante riproposizione di una delle più nauseanti pratiche naziste? Che dire della distruzione di case e interi villaggi, anche questa praticata un tempo contro gli ebrei (nello specifico, dai soldati inglesi)? Che dire di tutti quei morti – bambini, donne, vecchi – che non possono rientrare di certo nello stereotipo mediatico del terrorista fanatico inneggiante alla guerra santa? Come si vede, non ci sono molte alternative di fronte al massacro in atto: o il silenzio del consenso, al tempo stesso risultato e garanzia della pace sociale, o l’interrogativo del dissenso. Ma questo interrogativo, se portato fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze, che cosa ci riserverà? Saremo in grado di ascoltare le risposte?
Se pure il genocidio nazista nei confronti degli ebrei è stato il primo ad essere condannato giuridicamente, tuttavia non è stato il primo ad essere perpetrato. La storia dell’espansione colonialista occidentale nel XIX secolo – che ha portato alla creazione di grandi imperi da parte dei maggiori e più potenti Stati europei – è innanzitutto una catena di sistematici massacri di popolazioni indigene (il maggiore dei quali è stato il genocidio delle popolazioni amerinde avvenuto dopo il 1492).
In poche parole, il genocidio è una arma da sempre impiegata dagli Stati. E sarebbe un grosso errore pensare che il ricorso allo sterminio di massa da parte dello Stato potesse avvenire solo in tempi passati, quando l’ambizione di conquistare nuovi mercati economici spingeva le teste coronate europee a lanciare i propri sudditi in avventurose imprese al di fuori dei propri confini. In realtà, sebbene durante l’espansionismo coloniale la pratica del genocidio risultasse più facilmente visibile, essa si verificava – come avviene tuttora – anche all’interno dei confini che uno Stato si era dato, nel corso della sua costituzione così come del suo consolidamento.
La storia degli Stati Uniti è in tal senso esemplare. Anche i gloriosi e democratici Stati Uniti sono nati da un genocidio, quello dei nativi americani, compiuto da un esercito mandato a proteggere coloni di origine europea in nome di una “libertà” ottenuta distruggendo villaggi e trucidando intere popolazioni di indiani (scatenandone naturalmente la resistenza che, a volte, assunse toni feroci anche contro la popolazione civile). Tutti sappiamo come è andata a finire: il governo statunitense si è impadronito di tutto il territorio un tempo posseduto dagli indiani, mentre ai pochi sopravvissuti è stato concesso di vivere in anguste ed insalubri riserve, storditi da svariati generi di consumo degli occidentali, ridotti a fenomeno folcloristico e ad attrazione turistica.
Gli stessi Stati europei, prima di conoscere la relativa omogeneità odierna, hanno dovuto fare i conti con la resistenza di numerose minoranze etniche. Se la questione basca o quella irlandese sono ancora di una certa attualità, è solo perché la lotta di questi popoli è riuscita a prolungarsi fino ai giorni nostri.
Ma cos’è che rende lo Stato intrinsecamente genocida? È la sua pretesa di costringere in una sorta di fittizia unità ciò che di fatto è separato. La soppressione delle differenze rientra nel naturale funzionamento della macchina statale, la quale procede sistematicamente all’uniformazione dei rapporti sociali: lo Stato non riconosce individui diversi fra loro, ed in quanto tali unici, ma solo cittadini uguali davanti alla sua autorità, perciò identici. Uno Stato si può dire costituito, e proclamarsi detentore assoluto ed esclusivo del potere, solo laddove e quando la popolazione sulla quale esercita il proprio dominio parla la sua lingua, rispetta le sue leggi, segue le sue usanze, usa la sua moneta, pratica il suo credo religioso. Quando questa riduzione, questa omologazione, non può essere imposta con metodi formalmente “pacifici”, lo Stato esercita la violenza. Attraverso il genocidio lo Stato non fa che portare a termine l’eliminazione dell’Altro, momento indispensabile per imporre la propria autorità e realizzare così l’unità che gli è necessaria.
Se già nell’antichità lo Stato era genocida, le cose non sono di certo cambiate con l’avvento del capitalismo, il quale, fondato sulla ricerca continua del profitto, tende a spostare sempre in avanti i propri confini. La tanto denunciata globalizzazione, cioè il capitalismo transnazionale che sta trasformando l’intero pianeta in un unico immenso ipermercato, ne è un perfetto esempio. Al giorno d’oggi, anziché sterminare fisicamente le popolazioni indigene, si preferisce convertirle culturalmente, dopo averle sottomesse economicamente e politicamente: laddove è possibile, al genocidio si preferisce l’etnocidio. La società capitalista non è solo il più formidabile meccanismo di produzione mai creato dall’uomo, è anche la più terrificante macchina di distruzione e livellamento. Cultura, società, individuo, spazio, natura…: tutto viene sfruttato, tutto deve essere sfruttato. Ecco spiegato perché lo Stato non dà tregua a organizzazioni sociali che abbandonano il mondo alla sua tranquilla improduttività originaria. Il fatto che immani risorse giacciano non sfruttate è intollerabile per la cultura occidentale, che nel corso della storia ha imposto alle altre culture il consueto dilemma: o incamminarsi sulla strada della produttività oppure sparire.
La civiltà del capitale destruttura e distrugge tutte le forme sociali non-capitaliste, imponendo ovunque il modello del cittadino atomizzato – fondamento della democrazia – incapace di possedere una esistenza sociale al di fuori della mediazione astratta ed omologante del denaro, del lavoro e dello Stato. Se oggi i soldati israeliani si comportano con i palestinesi più o meno nello stesso modo in cui sessant’anni fa i soldati tedeschi si comportavano con gli ebrei non è perché, come vorrebbe una becera propaganda antisemita, ebrei e nazisti si assomigliano tra loro, ma perché in tutte le epoche i soldati si assomigliano. È compito dell’esercito distruggere tutto ciò che potrebbe causare la rovina dello Stato. Hitler riteneva che gli ebrei rappresentassero una minaccia per la Germania, e per questo li voleva sterminare. Sharon pensa che i palestinesi costituiscano una minaccia per Israele, e per questo li vuole sterminare. Ieri il problema non era il popolo tedesco, ma il suo Stato. Oggi il problema non è il popolo ebreo, bensì lo Stato di Israele. Domani, se le cose dovessero ipoteticamente rovesciarsi, il problema non sarà il popolo palestinese, ma il suo Stato (che, se ne avrà la possibilità, cercherà probabilmente di sterminare gli ebrei). In altre parole, non si riuscirà mai a trovare una soluzione al conflitto ebraico-palestinese finché si rimarrà all’interno delle logiche istituzionali, delle mediazioni politiche, dei trattati fra Stati.
Dopo gli attentati dello scorso 11 settembre – giacché nell’immaginario del mondo occidentale il “kamikaze arabo” incute lo stesso terrore che alla fine dell’ottocento suscitava lo “scotennatore pellerossa” – il governo di Israele ha deciso di approfittare della situazione che si è venuta a creare per fare un ulteriore passo in avanti verso la soluzione finale della questione palestinese. Se gli Stati Uniti, in nome della lotta al terrorismo arabo, bombardano l’Afghanistan, perché mai Israele, in nome della lotta al terrorismo arabo, non potrebbe radere al suolo i territori palestinesi?
Si capisce meglio come i governi occidentali non possano che pendere a favore dello Stato israeliano. Come impedirgli di fare ciò che loro stessi hanno fatto (contro i nativi americani, contro gli amerindi, contro gli abitanti delle Indie, contro i neri africani, contro gli algerini, per non parlare delle belle abissine con le loro faccette nere)? Come proibirgli di fare ciò che loro stessi stanno facendo? Come possono i governi occidentali condannare lo Stato ebraico dopo tutto quello che i loro predecessori hanno fatto agli ebrei?
Nessun impedimento, nessuna condanna, quindi, solo inviti alla moderazione e blande critiche. Alla peggio, l’applicazione di qualche sanzione: “se sterminate un popolo, si potrebbe magari sospendere temporaneamente l’importazione dei vostri pompelmi”. Ma poiché il tentativo di genocidio dei palestinesi è in corso e nessuno può ignorarlo, ai vari governi occidentali non resta che una strada da percorrere. Salvare la Palestina trasformandola in Stato, offrire ai palestinesi lo stesso risarcimento offerto agli ebrei dopo la seconda guerra mondiale. Che un governo stermini fino all’ultimo esponente una popolazione non sottomessa è cosa giustificabile ed ampiamente giustificata dalla ragione di Stato: la storia, come abbiamo visto, abbonda di esempi analoghi. Ma nel mondo contemporaneo non è consentito il cannibalismo fra Stati (il che spiega la fretta dimostrata da Sharon di “sgomberare” definitivamente i territori occupati… dai palestinesi). Se vogliono sopravvivere, insistono i democratici occidentali, i palestinesi devono diventare simili a loro. Bisogna aiutarli in modo che anch’essi abbiano il proprio parlamento, la polizia, la magistratura, le fabbriche, i centri commerciali, i McDonald’s, il campionato di calcio, la televisione con tante belle soap-opera e, perché no?, magari il proprio Festival della canzone.
“Due popoli, due Stati” è l’aberrante slogan che sta circolando in questi giorni, come panacea del conflitto in corso. In questa maniera i palestinesi si trovano fra l’incudine ed il martello: o spariscono dalla faccia della terra soccombendo sotto il bastone dell’esercito israeliano, o si convertono alla civiltà capitalista mangiando la carota delle diplomazie statunitense ed europee. In entrambi i casi, il risultato non cambia: i palestinesi non possono scegliere da soli come vivere.
È qui che entra in scena Arafat, il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che da accorto politico sta lavorando da decenni alla costituzione di uno Stato palestinese. Malgrado l’odio che nutrono nei suoi confronti i dirigenti israeliani (ed anche alcuni arabi) e l’ostracismo di quelli statunitensi, Arafat continua ad avere un ruolo centrale nel percorso verso la normalizzazione. Non a caso tutti i governi del mondo hanno invitato Sharon a non toccarlo. Hanno ragione. Così come un padrone illuminato preferirà sempre discutere con dei sindacalisti piuttosto che vedersela con un’orda di scioperanti arrabbiati, allo stesso modo i dirigenti occidentali più intelligenti preferiscono trattare con un borghese illuminato come Arafat piuttosto che con una banda di scalmanati ribelli alla ragione moderna. Nonostante tutto, egli rimane il leader della sola organizzazione capace di inquadrare la popolazione palestinese in rivolta.
L’Olp trae la propria forza dalla sua natura ambigua. Con le sue armi, la potenza finanziaria della diaspora palestinese, i suoi appoggi internazionali ed i suoi uffici alle Nazioni Unite, l’Olp è un embrione e una caricatura dello Stato, con tutto ciò che questo comporta di sordidi appetiti, di lotte tra funzionari e, nelle zone che amministra, di oppressione diretta e di repressione feroce dei dissidenti. Ma essa è anche l’organizzazione politica al cui interno – non essendosi ancora costituita in Stato-Nazione – i rapporti umani conservano il segno di un’antica solidarietà. Un suo dirigente, che nel futuro Stato palestinese non sarà null’altro che un politicante avido di potere, riesce a mantenere ancora oggi un rapporto diretto con i combattenti che si riconoscono in lui. Ciò che è vero per l’Olp lo è ancor di più per l’organizzazione che si è data sul posto la popolazione: i quadri dei comitati popolari sono il più delle volte costituiti da militanti usciti dai diversi partiti o simpatizzanti dell’Olp, ma l’insieme dei compiti (sorveglianza dei movimenti dell’esercito, approvvigionamento, prime cure mediche…) viene svolto da tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, e la mistica della morte in battaglia serve da cemento.
Malgrado sia vista con diffidenza dagli stessi ribelli palestinesi, e sempre più dopo l’arresto di numerosi estremisti come segnale di buona volontà lanciato verso l’opinione pubblica occidentale, l’Olp rimane tuttavia il punto di riferimento identitario centrale per la popolazione palestinese.
Per noi, nemici di ogni Stato e di ogni patria, è facile cadere nella tentazione di opporre radicalmente il sollevamento delle masse palestinesi alle trattative ed anche alle azioni armate condotte dai vari gruppi legati all’Olp, cioè distinguere il popolo palestinese dai racket che pretendono di rappresentarlo. In realtà è innegabile che la rivendicazione nazionalista occupa il cuore dei ribelli palestinesi, così come è difficile nascondersi che le azioni militari più eclatanti hanno contribuito a creare, in tutta la popolazione ed in particolare fra i più giovani, quella mistica del martirio che ha contribuito ad eccitare gli animi e a generalizzare quel coraggio che si è potuto vedere all’opera nella prima intifada (quella delle pietre), e che ora nutre la seconda. Ciò non toglie che l’esistenza di una simile mistica è, al tempo stesso, uno dei segni più evidenti dei limiti di questa rivolta di stampo nazionalista dall’anima sociale.
Si può comprendere come lunghi decenni di tirannia e la mancanza di ogni prospettiva di vita possano trasformarsi in amore per la morte in battaglia. Ma comprendere non significa condividere. L’atto di farsi esplodere in mezzo ad un supermercato, non porta solo al suicidio di qualche singolo combattente, porta al suicidio dell’intera lotta dei palestinesi per la libertà. Oltre ad essere eticamente ripugnante, è tatticamente deleterio.
Non siamo fra quelli che affermano che il suo errore è di scatenare la repressione dell’esercito israeliano, che non ha certo bisogno di simili pretesti per manifestare la propria violenza, né di fare fallire le trattative di pace, poiché non ci può essere pace laddove regna l’oppressione; è piuttosto quello di annullare e mistificare le ragioni della lotta palestinese, che sono universali malgrado le bandiere e i testi sacri in cui vengono avvolte, dietro alla rabbia della disperazione. La disperazione è cieca, capace di forza inaudita ma priva di sbocco. Il terrorismo palestinese – a differenza di quello israeliano, espressione di potere – è sinonimo di impotenza, nell’immediato perché non è in grado di distruggere lo Stato israeliano, in prospettiva perché finirà con l’allontanare la solidarietà dei ribelli sparsi per il mondo, compresi quelli presenti in Israele. Quando fanno strage fra i passeggeri di un autobus o fra i frequentatori di un mercato, quei palestinesi non colpiscono affatto lo Stato di Israele, bensì la popolazione. Dando corpo ad una violenza indiscriminata, non fanno che confermare le accuse di antisemitismo che viene loro attribuito, rinchiudendosi sempre più in un vicolo cieco nazionalista.
Ottenebrati da un comprensibile odio, centinaia di palestinesi sono pronti a morire senza domandarsi né come, né perché, né contro chi, né per che cosa. La cecità sui metodi rende ciechi anche sulle finalità della lotta, per cui si diventa o soldati dell’esercito palestinese (Olp), o devoti al Partito di Dio (Hezbollah), oppure strumenti di uno sceicco e del suo ardore (Hamas). Ciò non è dovuto affatto ad una presunta “natura” degli arabi, considerazione che vorrebbe celare il suo razzismo – gli arabi, si sa, sono reazionari! – dietro al riconoscimento delle differenze culturali.
La Palestina è stata per secoli un crocevia di popoli, luogo dalle mille culture che sapevano coabitare senza sbranarsi a vicenda. Se è diventata la terra del fanatismo più oltranzista, è perché questa situazione rispondeva a determinati interessi. E mentre una ragazza di sedici anni va a farsi saltare in aria, i leader politici e religiosi che l’hanno indottrinata aspettano di riscuotere questi interessi, frutto anche del suo sacrificio. Il terrorismo palestinese finisce dunque per essere funzionale solo allo Stato: a quello israeliano perché gli consente di demonizzare i palestinesi, a quello futuro palestinese perché invoca il proprio riconoscimento come unico mezzo per scongiurare il terrore.
Tra il potenziale di rivolta contro l’insieme di un mondo che ha prodotto le insopportabili condizioni di esistenza dei palestinesi, e gli sforzi di strappare, a partire da questa rivolta, una nicchia all’interno di questo mondo (lo Stato palestinese), esiste naturalmente una linea di frattura.
Ma questa linea è sottile ed in continua modificazione. Si snoda all’interno delle organizzazioni di base, dei gruppi sociali, dei momenti di lotta ed attraversa gli stessi individui, i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro attività. Ma per adesso, inutile nasconderlo, questa frattura non ha molte possibilità di verificarsi, vista la mancanza di movimenti sociali non-nazionalisti a cui collegarsi. A pesare è soprattutto l’assenza di ogni prospettiva di lotta comune con gli sfruttati israeliani. Sarebbe un errore infatti pensare ad Israele come ad una società omogenea e monolitica. In realtà, la sua struttura è fortemente differenziata.
Dietro alla bella retorica sull’unità del popolo ebraico, si nasconde ad esempio la divisione fra ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti (per non parlare degli israeliani arabi, all’ultimo gradino della piramide sociale). I primi sono quelli originari dai paesi del Mediterraneo, e costituiscono le fasce più povere della popolazione, i secondi sono quelli originari dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti, e costituiscono l’elite politica ed economica. A quale di queste due classi appartengono i coloni ebrei che attualmente vivono sui confini dei territori occupati e che sono i più esposti alle rappresaglie palestinesi? Sono ebrei sefarditi, naturalmente. Come nei secoli passati il colonialismo serviva egregiamente agli Stati europei anche come metodo per stornare le tensioni sociali presenti al loro interno, creando una valvola di sfogo esterna, così oggi lo Stato di Israele trova la sua unità nazionale nella lotta contro i palestinesi.
Finché gli sfruttati ebrei e quelli palestinesi non riconosceranno la loro reciproca condizione, cioè non si riconosceranno tra di loro, la lotta di entrambi risulterà monca, priva della possibilità di incidere in senso rivoluzionario nel conflitto in corso. Quanto a noi, nell’affermare la nostra solidarietà con gli oppressi palestinesi, non abbiamo alcuna intenzione di romanticizzare la loro condizione bensì di mostrare ciò che c’è di universale nella loro resistenza e opporre al pacifismo che vuole una dolce transizione verso il silenzio eterno dei mercati, la guerra sociale contro tutti coloro che sostengono il genocidio dei palestinesi (lo Stato di Israele in primo luogo, i cui interessi non sono poi così lontani da noi) o il loro civile addomesticamento istituzionale (tutti gli altri Stati, compreso l’Olp).
Come si vede non si tratta affatto di sostenere lo Stato palestinese. Non vogliamo scoprirci un giorno solidali con antiche vittime divenute carnefici, con un capitalismo nazionale che opprime per proprio conto i proletari, con dirigenti che furono compiacenti nei confronti dell’intifada poi trasformatisi in burocrati sfruttatori e torturatori. Non vogliamo sostenere uno Stato palestinese che, seguendo l’esempio di quello israeliano, tragga dal costante ricordo delle sventure del passato la giustificazione delle sue atrocità future. La questione quindi non è quella di costringere lo Stato di Israele a rispettare i diritti dei palestinesi, né di sostenere la costituzione di un nuovo Stato, quello palestinese; bensì di cominciare a praticare la diserzione, il rifiuto, il sabotaggio, l’attacco, la distruzione di ogni autorità costituita, di ogni potere, di ogni Stato.
Che la Chiesa di Betlemme venga pure rasa al suolo, se questo servirà a liberare i palestinesi; che Arafat crepi di fame e di sete, se questo segnerà la fine dell’autorità palestinese; che la disperazione si scateni con rabbia, se saprà indirizzarsi sull’esercito israeliano; che le nostre automobili rimangano ferme in mezzo alla strada, se questo sconvolgerà la nostra rassegnata complicità con il genocidio in corso. Che la questione ebraico-palestinese che accende gli animi in Medio Oriente diventi la questione sociale capace di divampare in tutto il pianeta, se questa è la sola possibilità di farla finita con la schiavitù imposta ovunque dal denaro e dal potere.
Amici di Al-Halladj
[Tratto da Guerra Sociale, aprile 2002]