Canenero, speciale repressione, gennaio-marzo 1997
Giovedì 16 gennaio doveva tenersi a Roma, presso l’aula bunker del carcere di Rebibbia, la prima seduta dell’udienza preliminare fissata dal gip Claudio D’Angelo per decidere il rinvio a giudizio di 68 indagati, fra cui numerosi anarchici, accusati di “banda armata” e di altri reati nell’ambito dell’inchiesta promossa dal Pubblico ministero Marini. L’udienza è durata pochi minuti, giusto il tempo di rinviarla nuovamente soprattutto per soddisfare la richiesta dei magistrati inquirenti, Antonio Marini e Franco Ionta, i quali intendono interrogare Giovanni Barcia e Michele Pontolillo — i due anarchici arrestati lo scorso 18 dicembre in Spagna dopo una rapina in una banca — entrambi inclusi nell’elenco degli indagati. Le nuove date in cui si terrà l’udienza preliminare sono: 19, 20, 22 e 24 marzo prossimo, sempre a Roma, sempre nell’aula-bunker del carcere di Rebibbia.
Dopo di che si saprà, forse, quale piega prenderà questa vicenda iniziata ufficialmente oltre due anni fa, in seguito a una rapina finita male.
La giustizia al lavoro
È il 19 settembre 1994 quando cinque anarchici (Antonio Budini, Jean Weir, Christos Stratigopulos, Carlo Tesseri ed Eva Tziutzia) vengono arrestati a Serravalle di Trento, accusati di aver svaligiato una banca. Il processo di primo grado finisce con la condanna di Antonio, Jean, Christos e Carlo (i quali ammettono di aver compiuto la rapina, e di averlo fatto per necessità personale) a 5 e 6 anni di reclusione e con l’assoluzione di Eva. Questo verdetto viene poi modificato dalla Corte d’Appello di Trento che condanna in un secondo tempo tutti gli imputati (Eva inclusa) a 3 anni e 4 mesi di reclusione, eccetto Carlo che, in quanto recidivo, è condannato a 4 anni.
Fin dai giorni seguenti il loro arresto, in tutta Italia esplodono diverse iniziative di solidarietà nei confronti degli arrestati. Fra le tante, alla vigilia del processo d’appello, una cinquantina di anarchici organizza una rumorosa presenza sotto il carcere con lancio di botti e petardi. Ma, come è consuetudine degli inquirenti in casi come questi, una condanna non è ritenuta sufficiente per colpire i fuorilegge.
Fin dall’aprile ’95 il giudice Carlo Ancona fissa il rinvio a giudizio dei quattro anarchici per altre due rapine, avvenute nella stessa zona il 20 luglio 1994. Le sedute di questo nuovo processo si protraggono stranamente per diversi mesi, finché il 16 novembre un’ondata di perquisizioni nelle case di decine di anarchici sparsi in tutta Italia porta alla luce l’inchiesta Marini. Agli anarchici perquisiti viene contestata una infinità di reati, fra cui quello di “banda armata”, e in quella occasione i carabinieri dei Ros visitano anche le celle di tutti gli anarchici che sono detenuti per i motivi più svariati. Immediata è la reazione di molti anarchici, che lo stesso giorno cominciano a diffondere volantini e affiggono manifesti per denunciare quanto sta accadendo, senza per altro possedere ancora un’adeguata consapevolezza della portata di questa operazione poliziesca. Viene anche stampato un manifesto nazionale dedicato all’artefice di questo progetto repressivo, Antonio Marini, ed è proprio l’attenzione suscitata da questo manifesto a costringere la Procura di Roma ad emettere un comunicato sull’inchiesta in corso. Il 3 gennaio 1996 quasi tutti i quotidiani nazionali danno grande risalto alla notizia, descrivendo gli anarchici indagati come “sequestratori” e “terroristi”, e portando a sostegno delle accuse le dichiarazioni di una misteriosa “pentita”.
Quando il 9 gennaio 1996 si apre l’ennesima udienza del processo di Trento per le due rapine rimaste irrisolte, il pubblico ministero Bruno Giardina annuncia che Mojdeh Namsetchi, l’ex ragazza di Carlo Tesseri, sta collaborando da qualche mese con la procura di Roma e Trento. Ora i contorni dell’inchiesta condotta da Marini cominciano a farsi più chiari, e appare evidente lo scopo del magistrato romano: utilizzare questa ragazza per costruire un castello accusatorio che gli consenta di mettere a tacere una volta per tutte alcuni individui considerati indesiderabili.
Ma torniamo al processo di Trento. Durante l’udienza del 16 gennaio, la ragazza — che nessuno conosce e che mai ha partecipato alle iniziative del movimento — dichiara di aver commesso le due rapine assieme agli anarchici accusati. L’amnesia da cui è colpita è rivelatrice della falsità delle sue accuse: questa ragazza non ricorda assolutamente nulla di quanto è avvenuto nel corso della rapina che afferma aver compiuto. «Ero troppo emozionata» dirà ai giudici di Trento. La sola cosa che ricorda sono i nomi di altri tre anarchici (Guido Mantelli, Roberta Nano ed Emma Sassosi), fino a quel momento del tutto estranei a questa vicenda, dei quali denuncia la partecipazione alle due rapine. Senza la minima esitazione il 31 gennaio 1996 il tribunale condanna Antonio, Jean e Christos a sei anni e mezzo e Carlo a sette anni di reclusione, mentre polizia e carabinieri caricano gli anarchici accorsi a portare la loro solidarietà ai compagni sotto processo.
Con questo verdetto di colpevolezza il tribunale di Trento convalida l’attendibilità della collaborante di giustizia Mojdeh Namsetchi, dando quindi via libera a Marini per il proseguimento della sua inchiesta. Intanto le iniziative degli anarchici si susseguono. Pochi giorni prima del termine del processo di Trento, il 25 gennaio, decine di anarchici occupano la redazione romana del quotidiano Il Manifesto, che si era distinto particolarmente nella poco lodevole arte di ricopiare le veline degli inquirenti. Un dossier, stampato in 25.000 copie, viene distribuito in tutta Italia, mentre anche all’estero gli anarchici cominciano a mobilitarsi per denunciare l’operazione della Procura di Roma.
Nel febbraio e nel marzo ’96 due attentati — a Roma contro il ministero dell’aeronautica militare e a Firenze contro la caserma sede dell’Eurofor — vengono rivendicati da anarchici. Nella rivendicazione gli ignoti autori definiscono le due azioni come un “regalo” a Vigna e a Marini. L’inchiesta relativa a questi due episodi viene affidata ad un altro magistrato romano, Franco Ionta, che da questo momento affiancherà Marini nelle indagini.
Passano i mesi e tutto tace. L’attenzione si affievolisce, le acque sembrano chetarsi, ci si comincia a chiedere cosa stiano aspettando i signori magistrati a far fruttare la collaborazione di Mojdeh Namsetchi. Come era stato scritto nel manifesto diffuso a Trento prima della fine del processo contro i quattro anarchici — «se il 31 gennaio la Corte del tribunale di Trento dovesse emettere un verdetto di colpevolezza, consentirebbe alla procura di Roma di dare il via alla più clamorosa ed infame retata di anarchici avvenuta in Italia dai tempi di piazza Fontana». Ed è proprio questo che avviene all’alba di martedì 17 settembre 1996, quando i carabinieri dei Ros irrompono nelle abitazioni di una sessantina di anarchici, per eseguire perquisizioni e arresti. Il gip Claudio D’Angelo ha acconsentito a firmare 29 ordini di custodia cautelare contro altrettanti anarchici. Di questi, 9 sono già detenuti per altri fatti, 12 vengono tratti in arresto, mentre 8 sono irreperibili. Qualche ora più tardi, Marini e Ionta tengono una conferenza stampa per illustrare l’esito della brillante operazione. Si vantano di aver sgominato una pericolosa banda armata denominata “Orai” (Organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionalista), nome esotico che nessuno ha mai sentito e che non ha mai rivendicato nessuna azione. Questa “banda” si sarebbe autofinanziata con i proventi di rapine e sequestri, denaro che sarebbe servito alla pubblicazione di alcuni giornali e riviste anarchiche: Anarchismo, Provocazione, Canenero, Gas. Marini ci tiene a precisare che non si tratta di un attacco all’idea anarchica, no: «In una vera democrazia, chiunque può esprimere le opinioni che vuole, comprese quelle più critiche. Anche gli anarchici, se fanno politica in maniera onesta, possono portare il loro contributo a un potere rispettoso dei diritti individuali». Certo, molti anarchici sono persone oneste, ma evidentemente non quelli inquisiti. Quelli non sono che pericolosi criminali con una inspiegabile tendenza alla sovversione dell’ordine democratico. Come ogni “banda” che si rispetti, anche questa disporrebbe di un capo: si tratta di Alfredo Bonanno, anarchico conosciuto da anni. L’organizzazione agirebbe con un doppio livello: “il primo, palese e pubblico, rappresentato dall’attività politica nell’ambito del movimento, dai dibattiti nei cosiddetti “centri occupati”, da manifestazioni, pubblicazioni e convegni; il secondo, occulto e compartimentato, finalizzato al compimento di attività illegali come attentati, rapine, sequestri di persona ed altri reati”.
Questo teorema terrorista permette in un unico colpo d’accusare di complicità tutti coloro che frequentano gli spazi occupati, diffondono la stampa sovversiva, hanno rapporti d’amicizia e solidarietà con gli individui considerati “pericolosi”, cioè tutti coloro che non sono cittadini, soddisfatti e rassegnati. Dopo gli arresti avvenuti in settembre si possono finalmente sapere i nomi di tutti gli inquisiti, 68 in tutto, e prendere visione dei vari incartamenti giudiziari come gli interrogatori della “pentita”, colmi delle affermazioni più esilaranti. Il quadro che ne emerge è a dir poco aberrante. Cosa ha fatto il signor Marini? Ha preso tutti gli anarchici detenuti in Italia per vari reati, ha aggiunto gli anarchici che in un passato più o meno lontano sono stati coinvolti in qualche inchiesta, ha incluso poi gli anarchici che insistono a presenziare alle varie udienze nei tribunali, che sono in corrispondenza con i detenuti, che pubblicano giornali, che in qualche maniera sono conosciuti per le loro attività, e ha incriminato tutti per “banda armata”, utilizzando come puntelli le dichiarazioni rilasciate da alcuni pentiti. Mojdeh Namsetchi è troppo giovane per poter essere utilizzata retroattivamente, quindi le sue dichiarazioni servono per lo più a “fare luce” sugli ultimi anni di vita di questa strana “banda armata”. Per alcuni fatti specifici del passato c’è pronta una intera famiglia di pentiti, quella degli Sforza, le cui “rivelazioni” si sono già mostrate utili agli inquirenti per ottenere la condanna degli imputati — fra cui anche alcuni anarchici — del processo per il sequestro di Mirella Silocchi, sentenza per altro da poco annullata dalla Cassazione di Roma. Infine, tutto viene ricucito dalle tesi degli inquirenti che riescono a produrre un teorema fra i più grotteschi.
Quindi, ricapitolando. In Italia ci sono anarchici condannati per rapina, anarchici condannati per sequestro, anarchici condannati per attentati. E ci sono anarchici che si trovano ancora in libertà, ma che si ostinano a fare giornali, scrivere ai detenuti, organizzare iniziative, occupare case vuote, ed altro ancora. Ecco, il modo per punire definitivamente i primi e sbarazzarsi dei secondi, è di incriminarli tutti assieme per “banda armata”, e far pesare su tutti quei reati che prima erano stati contestati solo ad alcuni. Quanto al nome di questa “banda armata”, il bravo Marini non si è affaticato troppo. Non ha avuto bisogno di rivendicazioni, o di risoluzioni strategiche: lo ha estratto da una conferenza pubblica tenuta in Grecia e la cui trascrizione è apparsa sulla rivista Anarchismo.
Dopo il 17 settembre, due degli anarchici arrestati vengono rilasciati dal Tribunale della libertà, mentre ad altri cinque sono concessi gli arresti domiciliari. Gli altri restano in prigione. Nel frattempo si svolge a Trento il processo d’appello per quella doppia rapina addebitata ai quattro anarchici, che vede nuovamente salire alla ribalta Mojdeh Namsetchi. Lo scorso 13 dicembre questa ragazza si ritrova ancora una volta davanti ai giudici a sostenere la sua parte e per la seconda volta ripete di non ricordarsi nulla di quanto è avvenuto durante quella rapina, collezionando nuove contraddizioni. Al termine dell’interrogatorio, Mojdeh Namsetchi abbandona l’aula in lacrime circondata da quattro energumeni dei Ros, mentre un imbarazzatissimo procuratore generale chiede una condanna a tre anni — considerando la continuazione di reato — per Antonio, Christos e Carlo e l’assoluzione per Jean. Ma i maggiordomi della Corte di Trento, al servizio della procura romana, condannano tutti e quattro a due anni di reclusione confermando, nelle motivazioni della sentenza, l’attendibilità di Mojdeh Namsetchi. Di più, con notevole arguzia e disprezzo di ogni logica, nelle motivazioni della sentenza precisano malignamente che le palesi contraddizioni in cui cade la ragazza non costituiscono affatto una prova della sua estraneità alla rapina, ma al contrario dimostrano che afferma proprio la verità, in quanto se davvero fosse stata istruita da qualche solerte carabiniere la sua testimonianza risulterebbe priva di pecche. Perciò, qualunque cosa dica, Mojdeh Namsetchi ha sempre ragione.
Pochi giorni dopo, il 18 dicembre, mentre a Roma la Corte di Cassazione annullava il verdetto di colpevolezza del processo Silocchi — ottenuto grazie a un mostruoso teorema accusatorio che poggia sulle dichiarazioni di pentiti, fra cui quegli Sforza usati ora anche da Marini —, in Spagna venivano arrestati dopo una rapina in una banca Giovanni Barcia e Michele Pontolillo, entrambi indagati in questa inchiesta, il primo dei quali era latitante da anni proprio perché accusato di aver partecipato al sequestro di Mirella Silocchi, benché fosse stato assolto dopo il primo grado del processo. E proprio il loro arresto — e la successiva necessità di interrogarli manifestata da Marini — come dicevamo all’inizio, è stato uno dei motivi che hanno causato l’ulteriore rinvio dell’udienza preliminare davanti al gip, il quale dovrà decidere quale dei 68 imputati mandare sotto processo, e che si terrà i prossimi 19, 20, 22 e 24 marzo.
L’ennesimo episodio di questa farsa.
E noi, fuori dal gregge?
Alla notizia degli arresti di Cordoba pare che il giudice Marini non abbia saputo nascondere la propria soddisfazione: due dei quattro erano già indagati nella sua inchiesta e il loro arresto per rapina non può, a suo avviso, che confermare il teorema accusatorio.
La scena è più o meno quella di sempre. Quando alcuni anarchici vengono colti con le mani nel sacco, prima di tutto si tenta di attribuire loro altri fatti criminosi avvenuti nella zona rimasti senza colpevoli, e quindi si cerca di allargarne la responsabilità al più gran numero di anarchici possibile, come se dietro ad ogni avvenimento ci fosse un’organizzazione ed una precisa strategia specifica.
Questa non è una semplice prassi che i giudici utilizzano per rinchiudere il maggior numero di anarchici e il più a lungo possibile, sfruttando la legislazione sui reati associativi, ma significa qualche cosa di più. L’aspetto tecnico lo lasciamo nelle aule dei tribunali — e ciascuno sceglierà se e come affrontarlo — ma un minimo di chiarezza sul concetto di responsabilità andrebbe comunque fatto. Non ad uso, lo ripetiamo, dei giudici — cosa oltreché ridicola assolutamente inutile — ma ad uso nostro, perché tanto spesso alcuni equivoci rimangono irrisolti. L’unica responsabilità che riconosciamo è quella individuale. Ognuno, sulla base dei propri desideri, delle proprie inclinazioni, delle proprie possibilità, fa quello che ritiene più opportuno, al di fuori di qualsiasi logica di area o di gruppo. Per questo può mettersi d’accordo con chi gli garba, con chi ha sperimentato con lui percorsi di affinità. Il resto del mondo, il resto del movimento, il resto “dell’area” non è responsabile delle scelte di ciascuno. Questa riflessione sulla responsabilità dovrebbe essere già chiara a tutti ed è frutto di dibattiti di settant’anni fa. Tanto che anche gli anarchici che mantengono prospettive organizzative di sintesi (la FAI ad esempio) ne fanno, almeno formalmente, un principio cardine del proprio agire.
I giornali, le assemblee, gli incontri sono strumenti e occasioni per accrescere — anche se tanto spesso succede il contrario — la conoscenza fra gli individui, per far circolare analisi per meglio attaccare, per coordinare interventi specifici. Non per costruire identità di gruppo.
Se così è, allora, perché parlare ancora di area di insurrezionalisti? Il motivo ci rimane oscuro ma vediamo abbastanza chiaramente l’insieme dei pericoli e degli equivoci che ne possono derivare. Se per insurrezionalisti si intendono semplicemente quei compagni che, a differenza di tanti altri, sostengono la necessità dell’insurrezione va tutto bene: partendo da prospettive comuni i singoli troveranno il modo di portare avanti con chi preferiscono progetti, giornali, attacchi e tutto ciò che ritengono sia meglio in base alle situazioni e, appunto, alle prospettive. Tanti attacchi, tanti fogli di carta, tante occasioni di approfondimento e di sovversione, tanti rapporti che si intrecciano, si sovrappongono e si divaricano. Tante possibilità, senza sensi di appartenenza e senza garanzie.
Se invece si parla di area insurrezionalista come di un insieme rappresentato da un giornale dal quale tutti si aspettano una linea, da un solo progetto che tutti assieme seppur confusamente si porta avanti, come una identità ed una appartenenza da difendere, è un altro discorso. Anche senza volerlo, di fatto ci troveremmo di fronte ad un gruppo che collettivamente fa scelte teoriche ed operative, con tutti i limiti caratteristici delle aree e dei gruppi. C’è chi scrive e c’è chi volantina, c’è chi attacca e chi applaude, c’è chi fa le scelte e chi le esegue. Poi spuntano le circolari interne, le prese di posizione, e tutto il resto del vecchio armamentario politico. Fintanto che il giornale della nostra area dice alcune cose applaudiamo, magari senza averle neanche capite tanto bene, e quando quelle stesse cose arrivano alle più ovvie conseguenze frignamo e ci atteggiamo ad amanti delusi se quelle conseguenze non ci piacciono: perché il giornale deve parlare per tutti, perché in fondo deve prendersi responsabilità… collettive. E se il giornale parla per tutti, tutti possono parlare per il giornale, ovviamente. E come fare per far sì che l’area si possa assumere le responsabilità per tutti i singoli e che i singoli si prendano le responsabilità per l’area? Ognuno deve essere d’accordo con gli altri su quasi tutto. E come fare per evitare brutte sorprese? L’unico modo sensato è — di delirio in delirio — che qualcuno sia delegato a vigilare sul comportamento di tutti. E poi, tutti chi? Come stabilire se qualche d’uno è dell’area — obbediente e controllato — o meno? Semplicissimo anche questo, con le tessere. Inutile andare avanti. Oramai il cerchio è chiuso e ritorniamo al gregge, per quanto si dica “rivoluzionario”, ma pur sempre gregge.
Insomma, o ci decidiamo a chiarire bene che cosa significa essere insurrezionalisti e, di conseguenza, cosa pensiamo della responsabilità e di tante altre faccende, oppure passo passo potremmo finire col trovarci in situazioni abbastanza spiacevoli.
E non solo perché un giudice romano si ostina a vedere sacrificio dove c’è rivolta, specialismo dove c’è vita, livelli e bande dove non ce ne stanno