La repressione e il suo piccolo mondo (it/fr)

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Alcune riflessioni per non fare di un tema particolare un punto isolato


Oggigiorno, la constatazione che viviamo sotto il regno della separazione è piuttosto condivisa e non ha nulla di molto originale. Non mancano le analisi che affrontano questo meccanismo, anche se i partigiani dell’economicismo tendono ancora a ridurlo alla sua espressione più semplice. Soprattutto, ciascuno sente in modo profondo e quotidianamente fino a che punto l’organizzazione sociale che poggia su talmente tante separazioni contribuisca a renderci estranei gli uni agli altri così come a noi stessi, quanto ci mutili del e dal nostro ambiente, quanto la divisione del tempo, dello spazio, dell’attività partecipi allo spossessamento individuale e generalizzato. È quindi logico che diverse discussioni vertano su come demolire questo stato di cose, riflettendo sugli eventuali legami da creare fra coloro che vivono questa esigenza, ma anche sulle maniere di affrontare e collegare i diversi aspetti del dominio senza gerarchizzarli. Perché, in fin dei conti, lo scopo non è forse quello di farla finita con le miserie che genera?

Eppure, non tutto è così semplice e non è raro che lotte che si pretendono radicali riproducano abbastanza rapidamente alcune forme di frammentazione. È quanto avviene, ad esempio, quando categorie inerenti il sistema che auspichiamo di veder scomparire vengono riprese tali e quali, specialmente come punto di partenza di un possibile denominatore comune. Come se fare dei lavoratori, precari, prigionieri, senza-documenti o altri «senza» degli ipotetici soggetti di lotta o di trasformazione sociale non corrispondesse esattamente a ciò che si vuole che siamo: una giustapposizione di identità parcellizzate rinchiuse in differenti scomparti, per quanto assorbenti e permeabili. Anche se queste definizioni sono legate a situazioni sociali ben reali, esse nondimeno riducono gli individui alle sole posizioni loro assegnate dalla società e in ogni caso non dicono nulla di ciò che sono, fanno, vogliono o non vogliono.

Allora, piuttosto che riprodurre all’infinito queste categorie, talvolta erette a identità, non sarebbe possibile associarsi sulla base di un comune denominatore che superi la condizione particolare di ciascuno? Un denominatore comune che non sarebbe certamente un Tutto, ma potrebbe incarnarsi in negativo come in positivo nel rifiuto, nei desideri, nelle idee condivise e portate da ciascuno. Approfondire questi aspetti contribuirebbe forse ad uscire dalla dicotomia interiorità/esteriorità inerente ad ogni soggetto/identità, ma anche ad avanzare verso progetti in tensione con le nostre aspirazioni reali, come per esempio questa volontà feroce di farla finita con tutti i compartimenti e le gabbie contro cui ci scontriamo (frontiere, reclusioni, salariato…).

 

Un altro freno alla messa in discussione di tutte le separazioni che ci sono imposte risiede anche nel concepire le nostre lotte come se fossero inevitabilmente parziali. Ora, più un terreno di lotta verrà subito strettamente definito, più gli saranno imposti limiti difficili da superare, sia a livello degli echi che potrebbe avere, sia della critica dell’insieme di questo sistema sociale. I salti qualitativi — che non sono per forza di cose quantitativi — sono oggi certamente possibili, ma allora diventa indispensabile che coloro che li auspicano agiscano concretamente affinché la lotta non ruoti su se stessa, e non si focalizzi sui soli obiettivi considerati a torto o a ragione come i più facilmente e rapidamente raggiungibili. In una prospettiva emancipatrice, perché scindere in modo arbitrario i «bisogni» (più o meno immediati secondo i criteri) dalle voglie e dai desideri che li accompagnano? Perché si dovrebbe mantenere una qualsivoglia ambiguità su ciò che pensiamo circa il funzionamento di questo sistema, e sull’antagonismo che auspichiamo di opporgli? In nome di cosa adoperarsi a difendere o a rivendicare delle briciole, invece di alimentare un possibile denominatore comune, come per esempio il disgusto per lo sfruttamento e per la schiavitù salariale ed il gusto per il sabotaggio di questo mondo; la critica dell’urbanesimo concentrazionario e le acrobazie offensive che ne conseguono? Perché isolare alcune parti da un tutto che non si tratta né di riformare né di umanizzare, bensì di distruggere?

Ovviamente, ciascuno è libero di attaccare il mostro dei rapporti alienati dall’angolazione che gli sembra più propizia o che preferisce. Tuttavia, è dal modo di condurre questi attacchi — ovviamente legato al perché — che dipenderà anche la loro dimensione sovversiva. A partire da qui si pongono tutta una serie di domande (dalle conseguenze eminentemente pratiche) relative agli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere, ai mezzi che riteniamo adeguati, a ciò a cui aspiriamo e a quanto speriamo di sviluppare più o meno a lungo termine, alle nostre prospettive generali insomma. Si tratta di questioni essenziali che fanno parte della lotta per riappropriarci delle nostre vite, e non di semplici giochi di spirito. Inoltre le risposte che ognuno dà, nel quotidiano come in qualsiasi lotta specifica, possono ben costituire una base per superare le false separazioni.

Certo, lo scopo non è tentare di unificare ciò che — per vere ragioni di sostanza, come visioni o prospettive antinomiche — risulterebbe inconciliabile. Del resto ciò potrebbe avvenire solo a prezzo di concessioni di ordine politico e di rinunce essenziali. L’idea è piuttosto di ricercare e di annodare complicità all’interno di percorsi di lotta contro l’autorità e quanto essa vuole imporci.

 

 

Nel vivo dell’argomento: «repressione e anti-repressione»

 

Legata alla sopravvivenza o ai desideri inappagati di vivere liberi, la repressione s’impone con diverse forme. Vista l’estensione delle repressioni esercitate da questo sistema attraverso tutti i suoi meccanismi e date le pressioni quotidiane prodotte dall’insieme dei rapporti sociali ― di cui siamo parte coinvolta e che a nostra volta riproduciamo ― c’è parecchio da fare… In questo senso, lottare contro la repressione e ciò che la sottende consiste né più né meno che nel battersi contro l’insieme dei rapporti di potere e per la libertà. Ma di solito non è questo che si intende con ciò.

Se la repressione fa certo parte della quotidianità, essa è anche una questione che si pone immediatamente in ogni lotta, particolarmente quando questa non fa mistero della sua volontà di sconvolgimento sociale. Tentare di operare direttamente per la distruzione di questo sistema ci espone ai suoi fulmini, come ci ha ricordato qualche vicenda di questi ultimi anni in Francia. Quel che è l’abituale destino in altri paesi, ovvero una repressione specifica contro idee e azioni che minacciano e mirano a rovesciare l’ordine stabilito, è quindi nuovamente all’ordine del giorno.

Tuttavia in entrambi i casi, che si tratti della quotidianità dell’addomesticamento o di lotte particolari, la maniera in cui si analizza la repressione in generale provoca la modalità con cui si decide di affrontarla pubblicamente. Con le conseguenze assai pratiche che ciò non manca di avere.

Concentrarsi unicamente su questo o quello strumento repressivo (il dna, il flash-ball, l’ennesima legge «securitaria»…) allorché l’arsenale già rifornito non cessa di aumentare, equivale spesso a porsi su un terreno stabilito dallo Stato. È questo il caso quando lo studio tecnico di certe «innovazioni» o perfezionamenti sostituisce l’analisi dei contesti in cui si inseriscono e ancor più quando la contestazione si limita a reclamarne l’abolizione, spalancando la via al riformismo. Questo può accadere anche perché si riprendono categorie create da altri, se non per rivendicarle, quanto meno per farvi riferimento in maniera esagerata. Si potrebbero citare alla rinfusa i «delinquenti di periferia», i «terroristi», i «militanti» o i «membri» di questa o quella «mouvance». Nessuno ha il monopolio di certe pratiche offensive, a meno di negare la dimensione sociale degli illegalismi. Più in generale, attaccare la repressione facendo di una mosca un elefante non permette affatto di allargare il campo di intervento verso una messa in discussione della Legge in quanto tale. Allo stesso modo, considerare come inaccettabile questa o quella repressione particolare conduce quasi inevitabilmente a tentare di dimostrarne il carattere infondato o ingiusto — in particolar modo mettendo in rilievo l’innocenza o una qualche pretesa deviazione del diritto.

Gli strilli di sdegno che ricorrono puntualmente a proposito di una sedicente «criminalizzazione del movimento sociale» ne sono un esempio banale. La «legittimità» degli accusati o di certe azioni dovrebbe evidentemente derivare dal loro carattere «militante» o dal contesto della lotta ― con la sciocchezza che un gran numero di partecipanti costituisca per di più una circostanza attenuante. Ciò significa che degli individui o delle pratiche che non rientrano in queste condizioni sarebbero legittimamente condannabili? A forza di insistere sull’aspetto collettivo di un movimento o su quello condiviso di una pratica in determinati momenti, non si finisce per spezzettare la conflittualità in tanti piccoli frammenti più digeribili dalla repressione, e soprattutto per ignorare una gran parte dell’antagonismo, quella praticata quotidianamente in maniera diffusa, che ha ragioni proprie e utilizza tutti i mezzi legati all’immaginazione e alla determinazione?

Un altro esempio di tale chiusura sul terreno dello Stato è la polarizzazione su certi tipi di procedura (come l’anti-terrorismo) considerati delle eccezioni, il che equivale a riconoscere, magari indirettamente, la legge, la giustizia e l’ordine «normale» che le sottende. In questa logica non sorprende che vengano utilizzati i classici mediatori istituzionali (partiti, sindacati, media…) per rivolgersi allo Stato, affinché quest’ultimo, messo davanti alle proprie responsabilità, si presume corregga i suoi abusi o gli errori dei suoi servitori. Tutto avviene quindi come se, in nome dell’urgenza e di una certa «gravità della situazione», si potesse di colpo sbarazzarsi della questione del funzionamento di questo sistema, mettere in primo piano le libertà formali che dovrebbero essere garantite, fare leva sull’indignazione ovvero sul recupero cittadinista, pronti a riabilitare di fatto l’idea di democrazia, di delega e di rappresentazione.

Questo genere di riflesso antirepressivo, anche qualora le sue intenzioni non fossero strettamente politiche, finisce col neutralizzare qualsiasi possibilità di sovversione. Esso viene generato anche e soprattutto quando la repressione, al di là di un caso specifico, viene vissuta come un momento separato, una sorta di parentesi in cui tutte le contraddizioni sarebbero abolite. Ed è così che l’azione diretta può allegramente coabitare con strategie opposte, finendo sempre con l’essere strumentalizzata a loro profitto, e che diventa possibile utilizzare come sostegno qualsiasi domestico del dominio e pompiere di servizio (eletti, preti, partiti o sindacati, poco importa). Questa logica democratica del tutto compatibile, finché si resterà ragionevoli, contribuisce per l’appunto ad integrare la contestazione, ad eliminare il dissenso e contribuisce al raggiungimento da parte dello Stato dei suoi obiettivi di contenimento. Un simile rovesciamento è particolarmente inquietante e stridente, quando una delle pretese di partenza era la messa in discussione dell’ordine esistente.

 

 

Repressione, Stato e rapporti sociali

 

Un altro modo di affrontare la questione potrebbe consistere viceversa nel non fare della repressione una eccezione dell’ordine di questo mondo, anche quando colpisce in maniera specifica coloro che sono determinati a minarne le basi.

Pur interessandosi soltanto dell’apparato poliziesco, giudiziario e carcerario, è difficile non accorgersi di tutti i mezzi di cui dispongono e fanno uso per mantenere e preservare l’ordine sociale. Che sia per difendere la sacrosanta proprietà, il monopolio della violenza, i valori e le norme dominanti erette a leggi, lo Stato si è dato da un bel pezzo i mezzi per controllare, minacciare e punire; e non ne fa a meno. Non si possono quindi attaccare sostanzialmente questi pilastri della società senza avviare una critica diretta allo Stato in sé, la cui sola esistenza implica la repressione dei desideri e delle volontà individuali nel nome di un qualche interesse superiore o di un supposto «bene comune». Un aspetto troppo spesso assente quando la lotta si ferma più o meno volontariamente sulle espressioni visibili della polizia (che non si riduce alle soli uniformi), della giustizia (che copre un campo ancora più vasto di tutti i codici penali) e della prigione (così presente al di là delle mura).

Allo stesso modo, non si può separare ulteriormente ciò che va intrinsecamente di pari passo, ovvero l’attitudine inevitabilmente coercitiva dello Stato dal suo aspetto presunto «sociale», come se questo aspetto non fosse parte integrante dell’insieme della sua gestione, come se non modellasse e non invadesse le scuole, i luoghi di lavoro, gli organismi sociali e tutti gli angoli in cui abitiamo.

L’oppressione che subiamo e contro cui occorre lottare è anche un rapporto sociale. Talvolta, ad insistere troppo sulla coercizione e sui suoi strumenti, si arriva facilmente ad esagerarne gli effetti ― già enormi ― in relazione alle possibilità di affrontarli, ma si rischia soprattutto di non prendere in considerazione altri meccanismi sociali che lavorano largamente alla pacificazione (in particolar modo nei sistemi democratici) e che pure si basano su diverse forme di consenso, adesione e partecipazione.

 

In realtà, la questione non è di rifiutare a priori qualsiasi lotta che parta da questa o quella struttura o processo repressivo nell’attaccare questo mondo, ma di fare sì che tutte le estensioni qui poste siano presenti. Per non disgiungere la repressione dalla critica dello Stato nel suo insieme, e nemmeno ridurre quest’ultima a dispositivi separati dai rapporti sociali, si può ad esempio affrontare la questione della prigione sociale, che apre ampi sbocchi teorico-pratici e possibilità di approfondimento.

Lottare contro tutte le prigioni implica infatti di considerare i meccanismi di controllo e di reclusione che attraversano la società complessivamente. Non concentrandosi più su un unico aspetto specifico della gestione carceraria o sui nuovi dispositivi repressivi o di sorveglianza, è possibile cogliere in uno stesso movimento i codici morali e sociali che costituiscono altrettanti strati partecipanti al dominio e che possono così incarnarsi concretamente… Per citarne solo alcuni, vi è il rapporto con la legge (quale essa sia) e col conflitto, la collaborazione cittadinista, il controllo sociale diffuso sui diversi aspetti della vita di ognuno. Attaccare quanto ci rende reclusi quotidianamente comporta allora una grande sfida: portare contenuti e pratiche risolutamente anti-autoritari nel cuore degli incontri che speriamo di fare in una lotta contro i tanti muri di questa prigione sociale.

Allo stesso modo, una lotta specifica contro questa o quella struttura carceraria può avere come scopo quello di attaccarla direttamente per distruggerla, ma mirando anche al «mondo che la produce». Non si tratta di una inutile parola o di un semplice slogan, quando gli obiettivi che una tale lotta si dà sono anche la diffusione di idee emancipatrici, la diffusione di maniere di auto-organizzazione che permettano a chiunque di prendere l’iniziativa al di fuori delle mediazioni istituzionali e di ogni gerarchia, così come l’estensione delle ostilità individuali e collettive in una prospettiva rivoluzionaria.

Altrettanti cose da approfondire in questo genere di lotte come in qualsiasi conflitto che desideriamo sollecitare o a cui decidiamo di partecipare.

 

 

Anti-repressione e solidarietà

 

Una critica solitamente rivolta a coloro che fanno dell’«anti-repressione», e al riflesso anti-repressivo in generale, è la tendenza a trascurare provvisoriamente il resto delle proprie attività per limitarsi ad una stretta autodifesa. Troppo spesso infatti, quando la repressione viene a bussare alla porta, non solo paralizza le energie con i suoi effetti diretti e la sua pendente spada di Damocle, ma riesce anche a monopolizzare il terreno ed il calendario. Succede così che a forza di concentrare l’essenziale del tempo e degli sforzi su quanto capita ai compagni tutti, si giunge a perdere di vista ciò contro cui essi si battono e a trascurare, ovvero tralasciare, il perché ci battiamo. Triste paradosso a cui si oppone come effetto speculare la proposta, sfortunatamente spesso concepita in maniera troppo astratta e separata, di proseguire genericamente le lotte. Come se nulla fosse?

 

Non si tratta qui di fare una proposta di lotta anti-repressiva, ancor meno se questa dovesse sostituirsi all’offensiva contro il complesso del sistema. Sappiamo che il terreno dell’opposizione alla repressione è minato, ma grosso modo né più né meno di tutto ciò che questo mondo ci riserva, non avendone scelto noi i contorni. Come in ogni lotta che si presenti, spetta a noi decidere cosa vogliamo farne; scegliere di spostarne i termini, se sono troppo limitanti; di tentare di condurla verso i punti deboli, ove esistano possibilità di echi, ovvero di incontri complici nell’antagonismo. Pertanto, in nome di cosa si può rifiutare di prendere di petto questo aspetto dello scontro? Considerandoli nel vasto contesto della guerra sociale cui prendiamo parte, non dovrebbe essere difficile né artificiale rispondere a questo genere di colpi collegandoli alle altre oppressioni e soprattutto alle altre rivolte.

La solidarietà non si basa sul fatto repressivo in quanto tale, ma su ciò in cui ci riconosciamo in relazione ad esso, in ciò che può motivare degli individui, delle lotte, delle azioni… Molto più del sostegno a persone in mano alla repressione, la solidarietà è soprattutto una maniera di continuare a portare in avanti un antagonismo con i suoi perché. Quando lo Stato cerca di far rientrare i recalcitranti nei ranghi, sarebbe un errore spingerli in nuovi compartimenti, contribuendo ad isolarli dal resto della conflittualità sociale (ad esempio, nessun bisogno di essere «militanti» o vicini ad una «vittima di omicidi polizieschi» per riconoscersi nell’ostilità contro gli sbirri e contro il sistema che essi contribuiscono a mantenere in atto). La rabbia e la rivolta contro l’esistente si manifestano in permanenza, in molte maniere e in molti luoghi. E se animano anche noi, esprimiamole allora con parole ed azioni, in un reciproco scambio con ciò che ci parla e ci sta a cuore, come il rifiuto dell’autorità e i nostri desideri di libertà. Perché non è forse questo che desideriamo vedere diffondersi?

 

Nello stesso modo in cui il meccanismo repressivo non può essere assimilato a semplici procedure o a brutte giornate trascorse sui banchi di un tribunale, l’autodifesa ― soprattutto quando si vuole cambiare il mondo ― non può ridursi alla sola perizia, anche se condivisa, in materia giuridica. Se possiamo cogliere queste occasioni (interventi polizieschi, incarcerazioni, processi) come tante altre per fare dell’agitazione, non è con sapienti calcoli sugli effetti che tutto ciò avrà su un esito giudiziario. Lo Stato ha le sue ragioni che non sono le nostre, e in ogni modo l’idea non è quella di rivolgersi al potere, ma di tentare una volta di più di stabilire un dialogo all’interno della conflittualità. In questo senso, la nozione di rapporto di forza non si limita al tempo di una vicenda, di un processo o di una qualsivoglia «campagna». Allo stesso modo, la riuscita o il fallimento non si misurano col metro della quantità di persone che vi sono direttamente interessate o della pesantezza delle condanne, ma soprattutto col modo in cui avremo contribuito a rafforzare e ad estendere un antagonismo al tempo stesso generale e individuale. Questo è certamente difficile da valutare, fatta eccezione per gli echi vicini o più «lontani» che possono giungere a noi e che non sono trascurabili. D’altronde, spesso si cerca invano di quantificare gli effetti di tale o talaltro intervento, da tanto essi possono attraversare lo spazio ed il tempo e superarci, come il campo delle nostre conoscenze immediate. Sta a noi quindi definire i nostri propri criteri e sperimentare differenti miscugli solidali sempre più esplosivi. In quest’ottica, tentare di opporsi nella maniera più offensiva e sovversiva possibile a tutto ciò che ci rinchiude e ci distrugge giorno per giorno ― di cui polizia, giustizia, prigione costituiscono in effetti solo una parte ― non è tanto segno di una autodifesa militante, per quelli che tengono a questo termine (con quello che siamo, le nostre idee, le nostre aspirazioni e le pratiche che ne derivano), quanto di una determinata concezione di lotta.

 

La solidarietà resta una delle nostre armi da affilare contro un sistema che funziona anche sull’intimidazione e sull’atomizzazione. Con un poco di immaginazione e di creatività, associate ad una analisi del contesto sociale in cui ci si trova, si potrebbe contribuire a spezzare un po’ questi due aspetti fondamentali del dominio. Dinanzi a tutti gli ostacoli che costellano il cammino, una certa coerenza e continuità non contribuiscono soltanto ad evitare la frammentazione delle nostre attività e delle nostre individualità, ma potrebbero anche diventare un punto d’appoggio per condividere e approfondire con altri una tensione comune verso la libertà.

Titolo originale: La répression et son petit monde in SubversionS , revue anarchiste de critique sociale, n. 1, settembre 2012
Tradotto dal francese su Finimondo.org , inizio 2013

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La répression et son petit monde

Quelques réflexions pour ne pas faire d’un thème particulier un point isolé

Aujourd’hui, le constat que nous vivons sous le règne de la séparation est plutôt partagé, et n’a rien de bien original. Les analyses qui pointent ce mécanisme ne manquent pas, même si les partisans de l’économicisme tendent encore à le réduire à sa plus simple expression. Surtout, chacun, chacune éprouve profondément et au quotidien à quel point l’organisation sociale qui repose sur tant de séparations contribue à nous rendre étrangers les uns aux autres ainsi qu’à nous-mêmes, combien elle nous mutile de/avec notre environnement, combien la division du temps, de l’espace, des activités participe de la dépossession individuelle et généralisée. Il est donc logique que des discussions portent sur comment battre en brèche cet état de choses, en réfléchissant aux éventuels liens à créer entre celles et ceux qui vivent cette nécessité, mais aussi aux manières d’aborder et de relier sans les hiérarchiser les divers aspects de la domination. Car en fin de compte, le but n’est-il pas d’en finir avec les misères qu’elle engendre ?

Pourtant, tout n’est pas si simple, et il n’est pas rare que des luttes qui se veulent radicales reproduisent assez vite certaines formes de morcellement. C’est par exemple le cas lorsque des catégories inhérentes au système que nous souhaitons voir disparaître sont reprises telles quelles, notamment comme point de départ d’un possible commun. Comme si faire des travailleurs, des précaires, des prisonniers, des sans-papiers ou autres «sans» d’hypothétiques sujets de lutte ou de transformation sociale ne correspondait pas justement à ce qu’on aimerait faire de nous : une juxtaposition d’identités parcellaires enfermées dans différentes cases, bien que poreuses et perméables. Même si ces définitions sont liées à des situations sociales bien réelles, elles n’en réduisent pas moins des individus aux seules positions que la société leur assigne, et ne disent en tout cas rien de qu’ils sont, font, veulent ou ne veulent pas.

Alors, plutôt que de reproduire à l’infini ces catégories, parfois érigées en identités, ne serait-il pas possible de s’associer sur la base d’un commun qui dépasserait la condition particulière faite à chacun ? Un commun qui ne serait certainement pas un Tout, mais pourrait s’incarner en négatif comme en positif dans des refus, des désirs, des idées partagées et portées par chacun. Approfondir ces aspects contribuerait sans doute à sortir de la dichotomie intériorité/extériorité inhérente à tout sujet/identité, mais aussi à avancer vers des projets en tension avec nos aspirations réelles, comme par exemple cette volonté farouche d’en finir avec toutes les cases et cages auxquelles nous nous heurtons (frontières, enfermement, salariat …).

Un autre frein à la remise en cause de toutes les séparations qui nous sont imposées réside certainement aussi dans le fait de concevoir nos luttes comme étant nécessairement partielles. Or, plus un terrain de lutte sera d’emblée défini étroitement, et plus lui seront imposées des limites difficiles à dépasser, tant au niveau des échos qu’il pourrait rencontrer, que de la remise en question de l’ensemble de ce système social. Les sauts qualitatifs – qui ne sont pas nécessairement quantitatifs – sont certes toujours possibles, mais il reste alors indispensable que celles et ceux qui les souhaitent oeuvrent réellement à ce que la lutte ne tourne pas sur elle-même, ou ne se focalise pas sur les seuls objectifs considérés à tort ou à raison comme plus facilement et rapidement atteignables. Dans une perspective émancipatrice, pourquoi en effet détacher arbitrairement les « besoins » (plus ou moins immédiats selon les critères) des envies et des désirs qui les accompagnent ? Pourquoi devrait-on maintenir une quelconque ambigüité sur ce que nous pensons du fonctionnement de ce système, et l’antagonisme que nous souhaitons lui opposer ? Au nom de quoi se mettrait-on à défendre ou à revendiquer des miettes, au lieu de porter un possible commun, comme par exemple le dégoût de l’exploitation et de l’esclavage salarié et le goût du sabotage de ce monde ; la critique de l’urbanisme concentrationnaire et les débrouilles offensives qui en découlent ? Pourquoi isoler certaines parties d’un tout qu’il ne s’agit ni de réformer ni d’humaniser, mais bien de détruire ?

Bien sûr, libre à chacun d’attaquer le monstre des rapports aliénés par les angles qui lui paraissent les plus propices ou lui tiennent le plus à coeur. Cependant, c’est de la manière de porter ces attaques – évidemment liée aux pourquoi – que dépendra aussi leur dimension subversive. C’est à partir de là que se posent toute une série de questions (aux conséquences éminement pratiques) quant aux objectifs que nous nous proposons d’atteindre, aux moyens que nous pensons adéquats, ce à quoi nous aspirons et ce que nous espérons développer à plus ou moins long terme, à nos perspectives générales en somme. Il s’agit là de questions essentielles qui font partie de la lutte pour nous réapproprier nos vies, et pas de simples jeux d’esprit. En outre, les réponses que chacun, chacune y apporte au quotidien comme dans n’importe quelle lutte particulière, pourraient bien constituer une base pour dépasser les fausses séparations.

Bien sûr, le but n’est pas de tenter d’unifier ce qui, pour de vraies raisons de fond, comme des visions ou des perspectives antinomiques, s’avèrerait inconciliable. Cela ne pourrait d’ailleurs s’opérer qu’au prix de concessions d’ordre politiques ou de renoncements essentiels. L’idée serait plutôt de chercher et de nouer des complicités à l’intérieur de parcours de lutte contre l’autorité et ce qu’elle veut nous imposer.

Dans le vif du sujet : « répression et anti-répression »

Liée à la survie ou aux désirs inassouvis de vivre libres, la répression s’impose sous bien des formes. Vue l’étendue des répressions qu’exerce ce système à travers tous ses rouages et des pressions quotidiennes que produisent l’ensemble des rapports sociaux – dont nous sommes partie prenante et que nous reproduisons aussi – il y a de quoi faire… En ce sens, lutter contre la répression et ce qui la sous-tend ne consiste ni plus ni moins qu’à se battre contre l’ensemble des rapports de domination et pour la liberté. Mais ce n’est généralement pas ce que l’on entend par là.

Si la répression fait certes partie du quotidien, c’est aussi une question qui se pose immédiatement dans toute lutte, particulièrement lorsqu’elle ne fait pas mystère de sa volonté de bouleversement social. Tenter d’oeuvrer directement à la destruction de ce système nous expose à ses foudres, comme quelques affaires nous l’ont rappelé ces dernières années en France. Ce qui est le lot habituel dans d’autres pays, c’est-à-dire une répression spécifique contre des idées et des actes menaçant et visant à renverser l’ordre établi, est donc à nouveau à l’ordre du jour.

Dans les deux cas pourtant, qu’il s’agisse du quotidien de la domestication ou des luttes particulières, c’est de la manière dont on analyse la répression en général que découle comment on décide de l’affronter publiquement. Avec les conséquences très pratiques que cela ne manque pas d’avoir.

Se focaliser uniquement sur tel ou tel outil répressif (l’ADN, le flash-ball, l’énième loi «sécuritaire» … ) alors que l’arsenal déjà fourni ne cesse de s’agrandir, revient souvent à se placer sur le terrain défini par l’Etat. C’est ainsi le cas lorsque l’étude technique de certaines « innovations » ou perfectionnements supplante l’analyse des contextes dans lesquels ils s’insèrent et plus encore quand la contestation se borne à réclamer leur abolition, ouvrant grand la voie au réformisme. Cela peut aussi passer par le fait de reprendre des catégories créées par d’autres, si ce n’est pour les revendiquer, tout au moins en s’y attachant exagérément. On pourrait citer pêle-mêle les «délinquants de banlieue», les «terroristes», les «militants» ou les « membres » de telle ou telle « mouvance ». Personne n’a le monopole de certaines pratiques offensives, à moins de nier la dimension sociale des illégalismes. Plus généralement, attaquer la répression par le plus petit bout de la lorgnette ne permet guère d’élargir le champ d’intervention vers une remise en cause de la Loi en soi. De même, considérer comme inacceptable telle ou telle répression particulière amène presque inévitablement à tenter d’en démontrer le caractère infondé ou injuste – en mettant notamment en avant l’innocence ou quelque prétendue déviation du droit.

Les cris d’orfraie qui reviennent régulièrement à propos d’une soi-disant « criminalisation du mouvement social » en sont un exemple banal. La « légitimité » des accusés ou de certains actes devrait manifestement découler de leur caractère « militant » ou du contexte de lutte – avec la carotte qu’un grand nombre de participants constituerait en plus une circonstance atténuante. Cela signifie-t-il que des individus ou des pratiques qui ne rempliraient pas ces conditions seraient légitimement condamnables ? A force d’insister sur l’aspect collectif d’un mouvement ou celui partagé d’une pratique à des moments donnés, ne finit-on pas par découper la conflictualité en petites tranches plus digérables par la répression, et surtout par ignorer une grande partie de l’antagonisme, celle pratiquée quotidiennement de manière diffuse, qui a ses raisons propres et utilise tous types de moyens liés à l’imagination et la détermination ?

Un autre exemple de cet enfermement sur le terrain de l’Etat est la polarisation sur certains types de procédures (comme l’anti-terrorisme) vues comme des exceptions, ce qui revient à reconnaître, ne serait-ce qu’en creux, la loi, la justice et l’ordre «normal» qui les sous-tend. Il n’est pas étonnant dans cette logique que les médiations institutionnelles classiques (partis, syndicats, médias…) soient utilisées pour s’adresser à l’Etat, puisque celui-ci, mis face à ses responsabilités, serait supposé rectifier ses abus ou les erreurs de ses serviteurs. Tout se passe donc comme si, au nom de l’urgence et d’une certaine « gravité de la situation », on pouvait soudain évacuer la question du fonctionnement de ce système, mettre en avant les libertés formelles qu’il est censé garantir, jouer sur l’indignation voire la récupération citoyenne, quitte à réhabiliter de fait l’idée de démocratie, de délégation et de représentation.

Ce type de réflexes antirépressifs, même quand leurs intentions ne sont pas strictement politiciennes, n’en neutralisent pas moins toute portée subversive. Ils se produisent aussi et surtout, au-delà de chaque cas particulier, quand la répression est vécue comme un moment séparé, une sorte de parenthèse où toutes les contradictions seraient abolies. Et c’est ainsi que l’action directe peut allègrement cohabiter avec des stratégies opposées, finissant toujours par être instrumentalisée à leur profit, et qu’on pourrait utiliser en soutien n’importe quels larbins de la domination et les pompiers de service (élus, prêtres, partis ou syndicats, peu importe). Cette logique démocrate du tout compatible tant qu’on reste raisonnables, contribue précisément à intégrer la contestation, à éliminer le dissensus et participe à ce que l’Etat puisse atteindre ses objectifs de contention. Un tel renversement est particulièrement troublant et criant quand l’une des prétentions de départ était la remise en cause de l’ordre existant.

Répression, Etat et rapports sociaux

Une autre manière d’affronter la question pourrait à l’inverse consister à ne pas faire de la répression une exception à l’ordre de ce monde, y compris quand elle frappe de manière spécifique celles et ceux qui sont déterminés à saper ses bases.

Même en ne s’intéressant qu’aux seuls appareils policier, judiciaire et carcéral, il est difficile de ne pas se rendre compte de tous les moyens dont ils disposent et font usage pour maintenir et préserver l’ordre social. Que ce soit pour défendre la sacro-sainte propriété, le monopole de la violence, les valeurs et les normes dominantes érigées en lois, l’Etat s’est donné depuis belle lurette les moyens de contrôler, de menacer et de punir ; et il ne s’en prive pas. On ne peut donc attaquer fondamentalement ces piliers de la société sans mener une critique directe de l’Etat en soi, dont la seule existence signifie la répression des désirs et volontés individuelles au nom de quelque intérêt supérieur ou d’un supposé « bien commun ». Un aspect trop souvent absent lorsque le combat s’arrête plus ou moins volontairement sur les expressions visibles de la police (qui ne se réduit pas aux seuls uniformes), de la justice (qui couvre un champ plus large encore que tous les codes pénaux) et de la prison (si présente au delà des murs).

De même, on ne peut séparer une fois de plus ce qui va intrinsèquement de pair, c’est-à-dire l’aspect nécessairement coercitif de l’Etat de son côté prétendument « social », comme si cet aspect ne faisait pas partie intégrante de l’ensemble de sa gestion, comme s’il ne modelait et n’envahissait pas les écoles, les lieux de travail, les organismes sociaux et tous les endroits où nous habitons.

L’écrasement que nous subissons et contre lequel il s’agit de lutter est aussi un rapport social. A trop insister parfois sur la coercicion et tous ses instruments, on en vient facilement à exagérer ses effets –déjà énormes– par rapport aux possibilités de les affronter, mais on risque surtout de passer à la trappe d’autres mécanismes sociaux qui travaillent largement à la pacification (notamment dans les systèmes démocratiques) et qui reposent aussi sur diverses formes de consentement, d’adhésion et de participation.

En réalité, la question n’est pas de refuser a priori toute lutte qui prendrait telle ou telle structure ou processus répressif comme point de départ dans l’attaque de ce monde, mais de faire en sorte que l’ensemble des dimensions posées ici soient présentes. Pour ne pas détacher la répression de la critique de l’Etat dans son ensemble, et ne pas réduire non plus cette dernière à des dispositifs séparés des rapports sociaux, on pourrait par exemple aborder la question de la prison sociale, qui ouvre de vastes débouchés théorico-pratiques et des possibilités d’approfondissement.

Remettre en cause toutes les prisons implique en effet de se pencher sur les mécanismes de contrôle et d’enfermement qui traversent l’ensemble de la société. En ne se concentrant plus uniquement sur un aspect particulier de la gestion carcérale ou sur la mise en place de nouveaux dispositifs répressifs ou de surveillance, on peut dans un même mouvement se saisir des codes moraux et sociaux qui constituent autant de strates participant à la domination et peuvent aussi s’incarner très concrètement… Pour n’en citer que quelques unes, il y a le rapport à la loi (quelle qu’elle soit) et au conflit, la collaboration citoyenne, le contrôle social diffus sur les différents aspects de la vie de chacun, chacune. S’attaquer à ce qui nous enferme au quotidien comporte alors un défi de taille : porter des contenus et des pratiques résolument anti-autoritaires au coeur des rencontres que nous espérons faire dans une lutte contre les différents murs de cette prison sociale.

De même, une lutte spécifique contre telle ou telle structure carcérale peut avoir pour but de l’attaquer directement pour la détruire, mais avec en ligne de mire le « monde qui la produit ». Ce n’est en effet pas un vain mot ou un simple slogan, lorsque les objectifs que se donne une telle lutte sont aussi la diffusion d’idées émancipatrices, la propagation de manières de s’auto-organiser qui permettent à chacun, chacune de prendre l’initiative en dehors des médiations institutionnelles et de toute hiérarchie, ainsi que l’extension des hostilités individuelles et collectives dans une perspective révolutionnaire.

Autant de choses à creuser dans ce genre de luttes comme dans n’importe quel combat que nous souhaitons impulser ou auquel nous décidons de participer.

Anti-répression et solidarité

Une critique classique adressée à celles et ceux qui feraient de « l’anti- répression », et au réflexe anti-répressif en général, est la tendance à délaisser provisoirement le reste de ses activités pour se restreindre à une stricte autodéfense. Trop souvent en effet, quand la répression vient frapper à la porte, elle paralyse non seulement des énergies par ses effets directs et son épée de Damoclès, mais elle parvient aussi à monopoliser le terrain et le calendrier. Il arrive ainsi qu’à force de concentrer l’essentiel du temps et des efforts sur ce qui arrive aux compagnons ou camarades, on en vienne à perdre de vue ce contre quoi ils se battent et à négliger, voire abandonner, le pourquoi nous nous battons. Triste paradoxe, auquel s’opposerait comme un effet miroir, la proposition malheureusement souvent conçue de manière bien trop abstraite et détachée, de poursuivre génériquement les luttes. Comme si de rien n’était ?

Il ne s’agit pas de faire ici une proposition de lutte anti-répressive, encore moins si celle-ci devait se substituer à l’offensive contre l’ensemble de ce système. Nous savons que le terrain de l’opposition à la répression est miné, mais à peu de choses près, ni plus ni moins que tout ce que ce monde nous réserve, car nous n’en n’avons pas choisi les contours. Comme dans tout combat qui se présente, c’est donc à nous de décider de ce que nous voulons en faire ; de choisir d’en déplacer les termes, s’ils sont par trop enfermants ; de tenter de le porter là où le bât blesse, où existent des possibilités d’échos, voire de rencontres complices dans l’antagonisme. Dès lors, au nom de quoi refuserait-on de prendre à bras le corps cet aspect de l’affrontement ? Si nous les envisageons dans le vaste contexte de la guerre sociale à laquelle nous prenons part, il ne devrait pas être si difficile ni artificiel de répondre à ce genre de coups en les reliant aux autres oppressions et surtout aux autres révoltes.

La solidarité ne se base pas sur le fait répressif en tant que tel, mais sur ce en quoi nous nous reconnaissons, dans ce qui peut motiver des individus, des luttes, des actes… Bien plus que du soutien à des personnes en butte à la répression, la solidarité est surtout une manière de continuer à porter en avant un antagonisme avec ses pourquoi. Quand l’Etat essaie de faire rentrer les récalcitrants dans le rang, une erreur serait de les pousser dans de nouvelles cases, en contribuant ainsi à les isoler du reste de la conflictualité sociale (nul besoin d’être «militant» ou proche d’une «victime de bavures policières» pour se reconnaître dans l’hostilité contre les keufs et contre le système qu’ils contribuent à maintenir en place, par exemple). La rage et la révolte contre l’existant se manifestent en permanence, de bien des manières et en bien des endroits. Et si elles nous animent aussi, exprimons-les alors en mots et en actes, dans un échange avec ce qui nous parle et nous tient à coeur, comme le refus de l’autorité et nos désirs de liberté. Car n’est-ce pas ce que nous souhaitons voir s’étendre ?

De la même façon que le mécanisme répressif ne peut être résumé à de simples procédures ou à de sales journées passées sur les bancs d’un tribunal, l’autodéfense – surtout quand on veut changer le monde – ne peut se réduire à la seule expertise, y compris partagée, en matière juridique. Si nous pouvons nous saisir de ces occasions-là (interventions policières, incarcérations, procès) comme de tant d’autres pour faire de l’agitation, ce n’est pas avec de savants calculs sur les effets que cela aurait sur une issue judiciaire. L’Etat a ses raisons qui ne sont pas les nôtres, et de toute façon l’idée n’est pas de s’adresser au pouvoir, mais de tenter une fois de plus d’établir un dialogue au sein de la conflictualité. En ce sens, la notion de rapport de force ne se limite pas au temps d’une affaire, d’un procès ou de n’importe quelle «campagne». De même, la réussite ou l’échec ne se mesureront pas à l’aune de la quantité de gens qui s’y seront directement intéressés ou de la lourdeur des condamnations, mais notamment à la manière dont nous aurons contribué à renforcer et à étendre un antagonisme à la fois général et individuel. Cela est certes bien difficile à évaluer, excepté les quelques échos proches ou plus « lointains » qui peuvent nous parvenir et ne sont pas négligeables. C’est d’ailleurs souvent en vain que l’on chercherait à quantifier les effets de telle ou telle intervention, tant ils peuvent traverser l’espace et le temps et nous dépasser, comme le champ de nos connaissances immédiates. A nous donc de définir nos propres critères et d’expérimenter différents mélanges solidaires toujours plus explosifs. Dans cette optique, tenter de s’opposer de la manière la plus offensive et subversive possible à tout ce qui nous enferme et nous détruit au jour le jour –dont police, justice, prison ne constituent effectivement qu’un pan– ne relève pas tant d’une autodéfense militante, pour ceux qui tiennent à ce terme (avec ce que nous sommes, nos idées, nos aspirations et les pratiques qui en découlent), que d’une certaine conception de la lutte.

La solidarité reste une de nos armes à affûter contre un système qui fonctionne aussi sur l’intimidation et sur l’atomisation. Avec un peu d’imagination et de créativité, associées à une analyse du contexte social dans lequel on se trouve, on pourrait même aider à briser quelque peu ces deux aspects fondamentaux de la domination. Face à tous les obstacles qui jalonnent le chemin, une certaine cohérence et continuité ne contribuent pas seulement à éviter le morcellement de nos activités et de nos individualités, mais pourraient aussi devenir un point d’appui pour partager et approfondir avec d’autres une tension commune vers la liberté.

Paru dans Subversions n°1 (Paris), revue anarchiste de critique sociale, septembre 2012

http://www.atabularasa.org/lib/la-repression-et-son-petit-monde-fr