Anche se potrebbe facilmente essere liquidata come il vezzo di alcuni intellettuali dell’area post-autonoma — negriani, più o meno fedeli al Maestro, che scrutano con attenzione le Derive delle moltitudini per traghettarle verso Approdi istituzionali — la teoria politica dell’esodo merita di essere oggetto di qualche riflessione. Per quel che dice, certamente, ma soprattutto per quel che tace. Per i suoi possibili sviluppi, da considerare quanto le sue origini.
Per come ricorra all’ossigeno libertario per rianimare una sinistra radicale sempre più moribonda. E per come, basandosi su di un azzardo affascinante tutto da giocare, essa riesca a tramutarlo in un melenso trucco tutto da esibire. Nonostante i richiami all’esodo contraddistinguano ormai una intera scuola di pensiero, non vi è dubbio che Paolo Virno sia il principale divulgatore di questo concetto a cui ha dedicato un saggio specifico e numerose variazioni sul tema. Ed è perciò al suo pensiero che faremo riferimento.
Di primo acchito, al di là delle differenze di stile, alla lettura di Virtuosismo e rivoluzione. La teoria politica dell’esodo (in Mondanità. L’idea di “mondo” tra esperienza sensibile e sfera pubblica, manifestolibri, 1994) è impossibile non notare la matrice comune con le teorie delegittimanti avanzate con forza a metà degli anni 80 da una parte del movimento anarchico, quella più ansiosa di affrontare la modernità con strumenti concettuali nuovi, originali, presentabili, immuni da discorsi insurrezionali dal fosco e appassito colore ottocentesco. Ci riferiamo alla paventata «possibilità di una sfera pubblica non statale» da raggiungere attraverso una «defezione di massa dallo Stato» da preferire allo scontro aperto con il dominio. Un simile argomentare prende l’avvio da quella che viene puntualmente presentata non sotto forma di ipotesi individuale tutta da discutere, ma come una constatazione indiscutibile perché oggettiva: l’utopia rivoluzionaria avrebbe perso il suo ultimo appuntamento con la storia negli anni 70. A partire dal decennio successivo, dinnanzi al vorticoso cambiamento delle condizioni sociali in ogni ambito della vita, gli orfani di questa utopia si sono trovati di fronte al compito di ripensare da cima a fondo un progetto di trasformazione sociale radicale, scontrandosi con la reticenza di molti ad abbandonare i vecchi strumenti teorici e pratici. Ciò che è stata negata non è sempre la necessità di una rivoluzione, quanto la sua origine insurrezionale. Altre sono le vie da percorrere, rispetto a quelle indicate dal passato.
Ma le affinità fra Virno e qualche anarchico finiscono qui. Ben diversi sono infatti motivazioni e scopi.
Per cogliere appieno la genealogia della riflessione di Virno basta dare un’occhiata ai suoi Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (Ombre Corte, 2002). Qui è possibile reperire il suo primo contributo teorico sull’argomento, Dell’Esodo. In questo testo, apparso sulla rivista Metropoli col titolo Il gusto dell’abbondanza, Virno si avvale dell’esegesi delle sacre scritture marxiste per valorizzare «il paradigma della diserzione», «la strategia della fuga», «l’inclinazione a truccare il mazzo mentre la partita è in corso», lamentandosi che «la sinistra non ha visto che l’opzione-exit (abbandonare, se appena possibile, una situazione svantaggiosa) diventava preponderante rispetto all’opzione-voice (protestare attivamente contro quella situazione)…Disertare significa modificare le condizioni entro cui il conflitto si svolge, anziché subirle… All’antica idea di fuggire per colpire meglio, si unisce la sicurezza che la lotta sarà tanto più efficace, quanto più si ha qualcosa da perdere oltre le proprie catene». Oggi queste parole potrebbero sembrare pressoché innocue, vecchi conati speculativi di un cattedratico universitario. Ma non è così. Per carpirne il significato e la portata vanno calate nel contesto storico in cui sono state scritte — nel lontano settembre 1981. Militante di Potere Operaio dalla costituzione allo scioglimento di questa organizzazione, parte anche dell’esecutivo, Paolo Virno è stato arrestato nel giugno del 1979 nell’ambito dell’inchiesta nota come “7 aprile”, volta a colpire l’Autonomia Operaia. Anni in cui la repressione statale si abbatteva sul movimento, provocando non pochi sbandamenti. Nel maggio del 1980 alcuni fuoriusciti da Prima Linea avevano cominciato a sostenere dalle pagine di Lotta Continua la necessità di abbandonare l’esperienza armata, invitando alla “Diserzione”. Un anno dopo, nell’aprile 1981, Toni Negri inviò un proprio contributo a un convegno tenutosi a Genova sulla repressione (poi pubblicato su Il Manifesto) in cui teorizzava il concetto di “dissociazione”. Nell’agosto del 1982, venne redatto il famoso documento “Una generazione politica è detenuta” che darà il via ufficiale alla dissociazione, alla presa di distanza dall’assalto al cielo condotto negli anni precedenti, al mercanteggiamento con lo Stato (l’abiura in cambio di uno sconto di pena). Fra i 51 primi dissociati che sottoscrissero questo documento c’era anche Virno, assieme a tutti i suoi più stretti amici e compagni. Con i suoi inviti in chiave filosofica alla fuga e alla diserzione, Virno prendeva quindi chiara posizione nel dibattito che allora infiammava il movimento fra chi auspicava una “soluzione politica” mirante ad aprire un dialogo con lo Stato e chi intendeva proseguire la lotta contro lo Stato.
È perciò del tutto evidente quale fosse (ed è tuttora) lo scopo della discettazione virniana. Presentare la scelta della contrattazione con le istituzioni come se si trattasse di un passo in avanti, una conquista sul terreno del riconoscimento politico, anziché di uno indietro, un rinnegamento dei propri intenti più radicali. Invece di ammettere la sconfitta del proprio progetto politico, Toni Negri ed i suoi portaborse lo hanno rilanciato attraverso una delle tante arguzie della ragione. Hanno trasformato i dissociati in astuti disertori che abbandonano sì il campo, ma solo come manovra diversiva per poter meglio combattere il nemico da un’altra postazione. Va da sé che, secondo questa ottica, chi viceversa ha continuato a rimanere in trincea non è altro che un fanatico militarista, un “giapponese” sperduto che non si è accorto della fine delle ostilità: insomma, un povero fesso. Si tratta di un salto mortale dialettico con doppio avvitamento che stupisce, sbalordisce, ma non riesce ad offuscare alcune autentiche banalità di base: che la guerra sociale non ha comitati strategici che la aprono e la chiudono a proprio piacimento e convenienza; e che disertore è quasi sempre un coscritto che in piena libertà decide di abbandonare una guerra che non è mai stata la sua. Il volontario che lo fa dopo essere caduto nelle mani del nemico, in cambio di un trattamento di favore, è assai più vicino alla figura del traditore.
Con la teoria dell’esodo Virno non fa altro che proseguire il percorso iniziato con la dissociazione, sbandierando una fraseologia radicale messa al servizio di una finalità riformista.
Tutti hanno in mente cosa sia un esodo: è l’emigrazione volontaria di una comunità, motivata da ragioni che possono essere morali, religiose o politiche. L’esempio tipico è quello biblico, l’uscita degli ebrei dall’Egitto sotto la guida di Mosé. Quindi l’esodo necessita di una condizione preliminare irrinunciabile: l’esistenza di un altrove. Senza un altro luogo dove andare, senza una terra promessa verso cui dirigersi, non ci può essere esodo ma solo un peregrinare in tondo ad una medesima desolazione. Ma è sufficiente illustrare il dominio planetario della gerarchia e del capitale per confutare la teoria dell’esodo? No, non basta, perché l’altrove sostenuto dai suoi teorici non è certo un punto rintracciabile sulle mappe geografiche.
In tempi più recenti Virno ha così riassunto il suo pensiero in proposito: «L’esodo è una azione collettiva che fa leva sul principio paralogistico del tertium datur. Anziché sottomettersi al faraone o ribellarsi apertamente al suo dominio (A o non-A), il popolo ebreo intravede, e poi realizza, una possibilità ulteriore, che esulava dal novero delle alternative computabili all’inizio: la fuga dall’Egitto. Né A né non-A, né acquiescenza rassegnata né lotta per impadronirsi del potere in un determinato territorio, ma un eccentrico B, enucleabile solo a patto di introdurre surretiziamente altre premesse nel sillogismo dato. La secessione dalla “casa della schiavitù e del lavoro iniquo” avviene nel preciso momento in cui si individua una strada laterale, non segnata sulle carte sociopolitiche» (Motto di spirito e azione innovativa, Bollati Boringhieri, 2005).
Da queste istruttive parole si possono cogliere almeno tre punti: a) come già accennato, la teoria dell’esodo nasce dalla negazione della necessità di una rottura rivoluzionaria. Che sia perché è sinonimo di sconfitta, o solo perché rievoca spiacevoli ricordi a qualche cauto docente universitario, è comunque meglio evitare di «ribellarsi apertamente» al dominio; b) per Virno la ribellione al faraone coincide con la «lotta per impadronirsi del potere». Una rivolta anarchica è una possibilità che non lo sfiora minimamene, non essendo una «alternativa computabile» né all’inizio né alla fine della sua riflessione; 3) il suo altrove non è di natura geografica, bensì «sociopolitica». È uno spazio pubblico strappato al dominio dello Stato nel corso dei conflitti sociali.
La prospettiva qui espressa, che in un certo senso prende spunto dall’analisi di Marx sul movimento cooperativo come apertura di una breccia nella società capitalista, è quella di una trasformazione sociale da attuare mediante l’allargamento e la moltiplicazione di spazi e forme di libertà che si trovano ad operare in compresenza con l’autorità; creare cioè una situazione di alternativa sociale nella convinzione che alla fine lo Stato — esautorato, delegittimato, abbandonato — dovrà cedere il posto al proprio antagonista. La trasformazione sociale non prenderà più la forma che storicamente ha sempre assunto, quella cioè di una rottura rivoluzionaria violenta, ma quella di un esodo di massa.
Animata della certezza determinista che conta sul meccanismo oggettivo del processo storico, questa teoria risponde maldestramente all’atroce dilemma in cui si dibatte chi della trasformazione radicale della società fa il proprio fine ma ne teme i mezzi: come far sorgere il nuovo mondo senza essere costretti a spazzare via quello vecchio? Per uscire da queste ambasce giunge in soccorso l’antica arma della dialettica, abituata a risolvere ogni problema capovolgendone i termini. La “sfere pubbliche non-statali” — o consigli operai, comuni libere, municipi libertari o come li si voglia chiamare — diventano così le prime realizzazioni pratiche dell’utopia infine «concreta» di una società senza classi. La rivoluzione si trasforma in organizzazione non gerarchica della società, nel suo insieme completamente diversa. In questo modo si pensa di far traghettare l’umanità dal vecchio al nuovo mondo senza doverla — e soprattutto, senza doversi — bagnare nelle acque torbide e pericolose dell’insurrezione, dello scontro diretto contro l’apparato statale.
Questa teoria si impantana però in una contraddizione interna insuperabile. «Sfera pubblica non-statale» e Stato non si trovano l’una accanto all’altro come merci sullo scaffale di un supermercato, disponibili alla libera scelta dei consumatori. Non si può passare dal secondo al primo, a proprio piacimento, qualora ci si convincesse della sua migliore qualità. Finché sussiste un’autorità istituita dall’alto, le esperienze di gestione dal basso di qualsivoglia struttura sociale o economica non sono esempi di “autogestione” bensì di “cogestione”. Non esistono oasi felici nel deserto del capitalismo. Queste comunità di pionieri non possono esistere nel pieno della loro potenzialità liberatoria, né possono espandersi come isole separate in seno all’attuale società di classe. Una «sfera pubblica non-statale» può nascere solo nei momenti di rottura della normalità imposta, nei momenti cioè in cui lo Stato viene apertamente messo in discussione, contrastato, allontanato e posto nella condizione di perdere il suo potere. Fra i due non può sussistere una pacifica convivenza, una leale concorrenza, ma solo guerra aperta. Invece la particolarità della teoria dell’esodo è proprio quella di garantire l’elusione dello scontro diretto con lo Stato, con il faraone, attraverso una fuga. Se presa sul serio, una simile ipotesi scade nel patetico, in un idealismo umanistico quasi imbarazzante sulla bocca di tronfi materialisti. Sarebbe come dire che il fascio di luce emanato da questa “sfera pubblica non-statale” è tale da illuminare in un lampo l’intero mondo. Non solo d’un tratto la gente comune si sbarazzerà del fardello di una secolare obbedienza, ma i politici smetteranno di governare, gli industriali cesseranno di sfruttare, le forze dell’ordine finiranno di reprimere. Perché, se così non fosse, se viceversa non si ritenesse possibile una simile conversione nello spazio di una notte, pensando che richieda comunque tempi molto più lunghi, ciò significherebbe che si ritiene plausibile che lo Stato possa consentire a questa «sfera pubblica non-statale» di radicarsi, diffondersi, moltiplicarsi, federarsi, di mettere a serio rischio la propria sovranità, senza colpo ferire.
Purtroppo è risaputo che lo Stato non si estingue né si suicida. Può talvolta ritirarsi, eclissarsi, su pressione di forti contestazioni — come è accaduto nel maggo 68 in Francia — ma solo per tornare ben presto a rioccupare il terreno momentaneamente perso. Il motto mussoliniano che ancora campeggia su alcune questure — Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato — va ancora oggi preso alla lettera. Per cui, delle due l’una: o la teoria dell’esodo è palesemente una delle tante tiritere riformiste che pur ostentando un linguaggio estremista caldeggiano un ammodernamento delle istituzioni e l’instaurazione di un buon governo, oppure si tratta in realtà di un cavallo di Troia, di una teoria verbalmente non-insurrezionale che mira però a smentire nei fatti le sue parole. Nel qual caso non si tratterebbe più di negare l’ipotesi della rottura rivoluzionaria, quanto di travestirla per fini strategici. Si assicura il faraone d’essere già in marcia verso la terra promessa, soltanto per comunicargli in seguito che la vera meta è il territorio su cui regna. Fra gli anarchici c’è forse chi guarda alla “sfera pubblica non-statale” con gli occhi di chi all’inizio del 900 guardava allo sciopero generale come ad una risorsa mobilitatrice, senza preoccuparsi troppo del fatto che la descrizione del placido tramonto dello Stato ha l’effetto di disarmare chi in realtà si vorrebbe preparare alla battaglia. Quanto a Virno, non v’è dubbio che propenda per l’interpretazione filoistituzionale.
Non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che, per costruire il proprio edificio teorico dal sapore autoritario, egli si appropri di materiale di chiara natura libertaria. Allo scopo di prendere «congedo dall’ordinamento statale», potrà anche sollecitare una «disobbedienza radicale» che «deve mettere in discussione la stessa facoltà di comandare dello Stato». Ciò non toglie che per lui questa disobbedienza non nasce affatto dal desiderio di negare la sovranità, ma dall’esigenza di risolvere la sua attuale crisi (non a caso, Virno considera il «modello politico dell’esodo» di «straordinaria pertinenza nell’epoca in cui si consuma la crisi dello Stato moderno»). Allo stesso modo è inutile, dopo aver identificato l’Esodo con «la fondazione di una Repubblica», che egli precisi «Se Repubblica, non più Stato». Che diavolo significa? La Repubblica è solo una delle possibili forme statali, e in quanto tale non è affatto espressione e garanzia di molteplicità. Nel puntualizzare il significato di res publica, Cicerone ne sottolineava il tratto distintivo: il consenso a una legge comune. La Repubblica si oppone perciò alla Monarchia quanto all’Anarchia, alla legge di Uno come all’anomia, ai governi tirannici come ai nemici dei governi, in nome di un governo dei molti. Certo, Virno fa simpatia quando si esprime a favore delle «minoranze agenti» anziché del Partito, a favore della Moltitudine che «ostruisce e dissesta i meccanismi della rappresentanza politica» anziché del Popolo «riverbero» dello Stato, ma poi scopre i suoi altarini nell’indicare che queste Moltitudini «interferiscono conflittualmente con gli apparati amministrativi dello Stato, al fine di corroderne le prerogative e di assorbirne le competenze». Anche qui, come si vede, non si manifesta alcuna alterità nei confronti dello Stato, nessuna reale intenzione di abbandonare il suo terreno di gioco: si interferisce per appropriarsi delle sue funzioni, si entra cioè in competizione con la sua mera amministrazione. Queste «minoranze agenti» contrappongono «uno stile operativo di gran lunga più complesso, centrato sull’Esempio e sulla riproducibilità politica». Ma non siamo di fronte alla grottesca variante post-autonoma di una propaganda del fatto intellettuale, giacché «Esemplare è l’iniziativa pratica che, esibendo in un caso particolare la possibile alleanza tra general intellect e Repubblica, ha l’autorevolezza del prototipo, non la normatività del comando». Se si considera che prototipo è il modello-base cui ispirarsi in futuro, il punto di partenza di una produzione seriale, si comprenderà in quale conto Virno tenga davvero la differenza della molteplicità. Del resto, è lui a chiarire che la sua apologia del Contr’Uno è solo una difesa d’ufficio formale, poiché la sua Moltitudine «non è un vortice di atomi cui ancora difetti l’unità, ma la forma di esistenza politica che si afferma a partire da un Uno radicalmente eterogeneo allo Stato: l’Intelletto pubblico». Capito cosa bolle in pentola? Il solito, stantio, marcio matrimonio fra intellighenzia e potere, ritornello leninista riveduto e corretto alle luci al neon del terzo millennio. Bisogna disobbedire all’Uno dello Stato costituito, ma solo per adeguarsi al «prototipo mentale» dettato dall’Uno dell’Intelletto pubblico, intenzionato a fondare la Repubblica costituente.
Ai semplici di spirito verrebbe da porsi alcune domande impertinenti: come è possibile evitare ogni scontro con le truppe del faraone se si rimane comunque sul suo territorio? Inoltre, se si tratta di abbandonare anche solo metaforicamente il mondo dello Stato, se bisogna determinare «la solitudine del re» che riduce «la compagine statale a una privatissima banda di periferia, prepotente e però marginale», non si deve come minimo evitare ogni forma di collaborazionismo? Per rispondere in maniera dissuasiva a queste domande, Virno sostiene che bisogna riconoscere innanzitutto «un mutamento nella geometria dell’ostilità. Il “nemico” non figura più come la retta parallela, o l’interfaccia speculare, che si contrappone punto per punto alle trincee e alle casematte occupate dagli “amici”, ma come il segmento che interseca più volte una sinuisodale linea di fuga» (ancora una volta Virno dà per scontato l’identità fra i due nemici, la loro «interfaccia speculare»). In effetti, se il nemico non sta più di fronte agli “amici” di Virno, ma li interseca, è meglio rivedere «la gradazione dell’ostilità» e far decadere «l’inimicizia assoluta» che porta solo alla guerra civile. Dovendo muoversi in «uno stato intermedio fra pace e guerra», meglio adottare una inimicizia «illimitatamente reattiva» che «alterna la rottura alla trattativa, l’intransigenza che non esclude alcun mezzo ai compromessi necessari per ritagliare zone franche e ambiti neutrali».
E la violenza? È lecita contro il faraone? Avendola ammessa nel passato solo in vista della (fallita) conquista del potere, Virno può accettarla nel presente solo come mezzo per proteggere la fuga, per la «salvaguardia», il «rispetto», la «persistenza» di quanto «si è abbozzato». A suo stesso dire, «si tratta, dunque, di una violenza conservatrice». Una violenza che difende, ma che non attacca. Una legittima difesa, insomma, come ci insegna la giurisprudenza medioevale attraverso lo jus resistentiae. Un Diritto alla Resistenza che non va confuso con «una sollevazione generale contro il potere costituito: netto è il discrimine nei confronti della seditio e della rebellio». Sia chiaro a tutti i novelli Calogero.
Eccoci qua: lotta e dissociazione, rottura e trattativa, intransigenza e compromesso, diritto di resistenza e rifiuto della guerra civile, fusi nello stesso crogiuolo intellettuale. E non si pensi che l’accusa di opportunismo risulti offensiva alle orecchie di Virno, tutt’altro: «Opportunista è colui che fronteggia un flusso di possibilità sempre intercambiabili, tenendosi disponibile per il maggior numero di esse, piegandosi alla più prossima e poi deviando con prontezza dall’una all’altra. È questa, una definizione strutturale, sobria, non moralista dell’opportunismo. In questione è una sensibilità acuminata per le mutevoli chances, una dimestichezza con il caleidoscopio delle opportunità, una intima relazione con il possibile in quanto tale. Nel modo di produzione postfordista, l’opportunismo acquisisce un indubbio rilievo tecnico. È la reazione cognitiva e comportamentale della moltitudine al fatto che la prassi non è più ordinata secondo direttrici uniformi, ma presenta un alto grado di indeterminismo…. L’opportunismo si fa valere come indispensabile risorsa ogni qual volta il concreto processo di lavoro è pervaso da un diffuso “agire comunicativo”, senza più identificarsi, dunque, con il solo” agire strumentale” muto… In fondo, che altro è l’opportunismo se non una dote dell’uomo politico?»(La Moltitudine come soggettività in Grammatica della Moltitudine, Rubbettino, 2001). E se lo dice lui…
Eppure c’è un aspetto presente nella teoria dell’esodo, un sottofondo si potrebbe dire, che rischia di essere perso davanti al frastuono delle sue aberrazioni più evidenti. È la somiglianza, seppur stravolta, con l’intuizione fourieriana sulla necessità di uno scarto assoluto rispetto a quanto già si conosce. L’esempio questa volta è dato da Cristoforo Colombo, il quale ha scoperto un nuovo mondo andando dove nessuno era andato, uscendo da confini considerati inviolabili, prendendo una direzione che portava apparentemente al nulla. Però il suo è stato un viaggio solitario, accompagnato dal sarcasmo di chi restava chiuso dentro i confini del già dato. L’esodo ha una natura politica, è un mito costituente di una sovranità che ha la sua guida e il suo popolo. Lo scarto assoluto appartiene invece all’individuo, ma può avere conseguenze enormi e imprevedibili su chiunque.
Ma la radice è la medesima. Etimologicamente, esodo significa fuori strada. Scrive Virno: «L’esodo non è cosa diversa dal cambiare discorso mentre la conversazione è già avviata su binari ben definiti». In effetti, in un mondo a senso unico andare fuori strada, cambiare discorso, è una premessa indispensabile per arrivare ad una rottura radicale con l’ordine dominante. Solo che un conto è costeggiare il sentiero battuto, prendere un viottolo laterale più o meno parallelo alla via maestra. Altra cosa invece è andare in tutt’altra direzione, magari alla deriva, ma alla ricerca di mete straordinarie. Uno scarto assoluto concettuale e immaginativo generalizzato — ammesso che quello che è sempre stato un viaggio individuale possa riuscire a trasformarsi in avventura collettiva — produrrebbe effetti diametralmente opposti a quelli auspicati da Virno. Per lui cambiare discorso è un «motto di spirito» che può solo fare «balenare un diverso modo di applicare le regole del gioco», riducendosi così ad essere «un’azione innovativa». Non considera che cambiare discorso potrebbe essere premessa a ben altro: mettere fine al gioco e alle sue regole. Uno scarto assoluto dallo Stato segnerebbe l’abbandono del suo linguaggio, dei suoi valori, delle sue istituzioni, di tutto il suo mondo (da cui Virno pesca a piene mani). Da qui una estraniazione assoluta nei confronti dell’esistente, estraniazione irriducibile a ogni ricatto e lusinga. Un altrove immaginario e immaginifico, intangibile al tatto ma non alla sensibilità. E a chi non si accontenta di un esilio interiore non rimane che andare alla ricerca della materialità che gli manca nel solo modo possibile: straripando nella realtà sociale. Invece di spalancare le porte alla Repubblica, all’inimicizia reattiva, al Diritto alla Resistenza, ci si avventurerebbe nell’anarchia, nell’ostilità assoluta, nella guerra civile.
Prospettiva che per ovvie ragioni non viene presa in considerazione dalla buona, nutriente filosofia universitaria che, gravata da cento mire e da mille riguardi, se ne viene cautamente barcamenandosi per la sua strada, avendo costantemente davanti agli occhi la paura del padrone, la volontà del Ministero, i canoni della Chiesa, i desideri dell’editore, l’appoggio degli studenti, la buona amicizia dei colleghi, l’andamento della politica del giorno, la tendenza momentanea del pubblico e quant’altro mai.
Meglio vagliare le opportunità concesse dal riformismo, nello sforzo di trovare un ponte artificiale — come l’esodo appunto — escogitato a furia di scolastica, tra il mezzo e il fine, fra realtà supposta immutabile e trasformazione radicale auspicata, dopo aver abbandonato le forze reali ma oscure dei momenti insurrezionali. Quante volte si è parlato di trovare un passaggio dall’Impossibile al Possibile? Ma di Possibile ce n’è di tanti tipi. Ed il peggiore è certamente quello che si appalesa nel contrasto fra la grandiosità del fine e la strisciante umiltà del mezzo, quel Possibile da bottegai che vorrebbe sovvertire il mondo restando in pace con tutto il prossimo cristiano e non si rende conto dell’incongruenza del proprio mezzo col fine che si prefigge.
[da Machete n. 2, aprile 2008]